Omelie per un anno
Volume 1 - Anno “B”
Anno “B”
SANTA FAMIGLIA DI GESÙ, MARIA E GIUSEPPE
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Gen 15,1-6; 21,1-3 – Uno nato da te sarà il tuo erede.
Dal Salmo 104 – Rit.: Il Signore è fedele per sempre.
Eb 11,8.11-12.17-19 – La fede di Abramo, di Sara e di Isacco.
Canto al Vangelo – Alleluia, alleluia. Molte volte e in diversi modi
Dio ha parlato ai nostri padri per mezzo dei profeti; oggi, invece,
parla a noi per mezzo del Figlio. Alleluia.
Lc 2,22-40 – Il bambino cresceva, pieno di sapienza.
“Il bambino cresceva e si fortificava,
pieno di sapienza”
È stata una intuizione felice della Liturgia, quella di aver collocato la
celebrazione della sacra Famiglia proprio nella Domenica fra l’ottava di
Natale, che praticamente chiude anche l’anno civile.
La festività odierna, infatti, per un verso è una espansione e una
dilatazione del Natale, perché attira la nostra attenzione anche sulle
altre persone senza le quali la natività di Gesù neppure sarebbe
avvenuta, cioè Maria e Giuseppe; per un altro verso, rappresenta come
la “sintesi” di tutti i valori di amore, di fraternità, di donazione che si fa
procreazione, di educazione, di sacrificio, senza dei quali l’umanità non
può sussistere. O essa riscoprirà il valore della “famiglia”, o si
“autodistruggerà”!
È un gesto non solo cristiano, perciò, ma anche semplicemente umano
quello della Liturgia che ci invita oggi a riflettere sul senso della
“famiglia”, prendendo come modello quella di Nazaret, che sarà sempre
la sorgente inesauribile di tutti i buoni propositi e di tutti gli
atteggiamenti di vita degli uomini, in quanto ognuno di noi potrà
facilmente ritrovarsi in qualcuno dei suoi protagonisti: i padri potranno
rispecchiarsi in Giuseppe, le madri in Maria, i figli in Gesù.
E questo, nonostante le molteplici e indefinite variazioni sociali e
culturali che la struttura familiare ha subìto e subirà attraverso i secoli.
C’è infatti qualcosa che, pur attraverso i cambiamenti imposti dalle
situazioni storiche diverse, non può mutare nella famiglia: ed è la sua
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capacità di essere un “focolaio” di amore, espressione del più grande
amore di Cristo verso quelli che credono nel suo nome.1
Non importano le modalità con cui questo amore potrà esprimersi:
l’importante è che esista e che formi la sostanza della struttura
familiare. Tutto il resto è secondario e legato al flusso della storia.
La densità “cristologica” del brano evangelico
Il brano evangelico, ripreso da san Luca, è particolarmente suggestivo
per alcune considerazioni in questo senso, che nascono direttamente
dall’esperienza familiare più tipica che la storia abbia mai conosciuto.
In questo speciale contesto liturgico, perciò, non ci intratterremo sulla
ricchissima “cristologia” del brano, che certamente san Luca ha
penetrato e riletto alla luce dell’esperienza pasquale, e che rende unica
e caratteristica questa esperienza di famiglia. Si pensi al meraviglioso
cantico del vecchio Simeone (“Nunc dimittis”) con la esplicita
confessione della centralità “salvifica” di Cristo, non solo per Israele ma
per tutti i popoli della terra: “I miei occhi hanno visto la tua salvezza,
preparata da te davanti a tutti i popoli, luce per illuminare le genti e
gloria del tuo popolo Israele” (Lc 2,30-32). Anche le parole del santo
vecchio alla madre di Gesù sono profetiche: vi si preannuncia non
soltanto la decisività, vorrei dire la “fatalità” dell’incontro o dello scontro
con Cristo, ma anche la “partecipazione” della madre alla sorte di
sofferenza e di redenzione del Figlio: “Egli è qui per la rovina e la
risurrezione di molti in Israele, segno di contraddizione perché siano
svelati i pensieri di molti cuori. E anche a te una spada trafiggerà
l’anima” (vv. 34-35).
Ci intratterremo piuttosto sulla celebrazione della famiglia, che deriva
da tutta l’inquadratura della narrazione lucana.
La Famiglia di Nazaret come “modello” di vita familiare
E prima di tutto è fondamentale il fatto che Cristo sia venuto in mezzo
a noi passando per una normale vita di famiglia, con i suoi problemi, le
sue difficoltà, perfino le sue tensioni drammatiche: si pensi al proposito
di Giuseppe di “dimettere” segretamente Maria, davanti alla scoperta
della sua imprevista e misteriosa maternità.2
L’incarnazione è assunzione della totalità delle esperienze umane per
riviverle dall’interno, depurandole dalle loro incrostazioni di male e
1
2
Cf Ef 5,25-33.
Cf Mt 1,18-25.
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sublimandole nei loro valori di fondo. Proprio per la sua tipicità e unicità
la famiglia di Nazaret sta a dire che la famiglia si fonda essenzialmente
sull’amore: senza una punta di eroicità nell’amore non si
comprenderebbe, ad esempio, l'atteggiamento di Giuseppe! D’altra
parte, è ben chiaro che qui l’amore non si può rinchiudere o esaurire
nella sfera della fisicità o della sessualità; esso afferra le persone per il
peso effettivo che hanno in sé e per sé, nel disegno di Dio.
In secondo luogo è significativo il gesto della “presentazione” di Gesù al
tempio, come “offerta” a Dio, autore della vita (Lc 2,22-24).
Tutto questo rientrava nelle prescrizioni della legge mosaica,
espressamente richiamata da san Luca, 3 che senz’altro vedeva
anticipata, in questo gesto, la futura offerta che Gesù avrebbe fatto di
se stesso al Padre sulla croce. Però, più immediatamente, egli vuole
sottolineare che la vita che fiorisce nel seno della madre, a prescindere
dal caso tutto particolare di Maria, viene in realtà soltanto da Dio, a cui
perciò deve ritornare come “offerta” di amore e di gratitudine.
Quando, pertanto, l’uomo o la donna pensano di poter disporre della
vita dei propri figli, magari soffocandola proprio mentre è in
germinazione, compiono un delitto di empietà, oltre che un omicidio. In
queste condizioni è certo che non si può più parlare di famiglia, o di
difesa degli interessi economici o sociali o psicologici della donna, o
della coppia, ma solo di un funereo rigurgito di egoismo, che è sempre
spirito di devastazione e di manipolazione dei doni che vengono da Dio.
In terzo luogo è interessante notare questo coinvolgimento della madre
nel destino del figlio: “Anche a te una spada trafiggerà l’anima” (v. 35).
Nella sua misteriosità la frase allude alla partecipazione di Maria alle
sofferenze redentrici del Cristo, come abbiamo sopra accennato; ma è
soprattutto emblematica per quello che può insegnarci circa
un’autentica “pedagogia” del vivere in famiglia.
Quando ognuno dei membri che la compongono vive per l’altro, fa
propri i problemi dell’altro, si sforza non di ridurre gli altri al proprio
metro, ma piuttosto di favorirne la crescita secondo la misura
caratteristica di ognuno, allora tutti si arricchiscono. È la circolazione
piena dell’amore che esige il riconoscimento reciproco dei ruoli, dei
doni, delle vocazioni, dei giusti desideri, delle potenzialità che sono in
ognuno di noi, pronte a manifestarsi nelle situazioni più adatte e con il
concorso di tutti. Se Maria avesse come invaso la vita di Gesù, non
3
Es 13,2-11; Lv 5,7; 12,8.
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sarebbe diventata la sua “collaboratrice” nell’opera della salvezza, ma
l’avrebbe impedita! Altrettanto si dica dell’atteggiamento di Giuseppe.
“Quando ebbero tutto compiuto secondo la Legge del Signore,
fecero ritorno in Galilea”
Per ultimo, vorrei richiamare l’attenzione sulla frase conclusiva del
brano: “Quando ebbero tutto compiuto secondo la Legge del Signore,
fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e
si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui” (vv.
39-40).
Questa minuscola famiglia, su cui si condensa la storia del mondo,
rientra nel silenzio, nella ferialità, nella semplicità: una famiglia come
tutte le altre, proprio per essere “modello” a tutte.
Forse le manca anche il pane, forse c’è poco lavoro! Quello che non
manca, però, è un “amore” immenso che afferra tutti e si concentra in
modo particolare verso quel “bambino”, su cui misteriosamente agisce
la “grazia di Dio”, per operare la salvezza del mondo. Una famiglia,
dunque, che sa “dialogare” con Dio: tutta la sua forza sta in questa
apertura verso la grazia e la luce che vengono dall’alto.
Tutte le famiglie cristiane dovrebbero oggi spiritualmente peregrinare
verso Nazaret ed ivi apprendere l’arte del “vivere” in spirito di famiglia.
Era quanto ricordava Paolo VI, pellegrino lui stesso in Terra santa, nel
bellissimo messaggio lanciato da Nazaret al mondo intero il 5 gennaio
1964: “Qui comprendiamo il modo di vivere in famiglia. Nazaret ci
ricordi cos’è la famiglia, cos’è la comunione di amore, la sua bellezza
austera e semplice, il suo carattere sacro ed inviolabile; ci faccia vedere
come è dolce e insostituibile l’educazione in famiglia, ci insegni la sua
funzione naturale nell’ordine sociale”.
Del resto, è quanto la Liturgia ci fa chiedere nella colletta: “O Dio,
nostro Padre, che nella santa Famiglia ci hai dato un vero modello di
vita, fa’ che nelle nostre famiglie fioriscano le stesse virtù e lo stesso
amore, perché, riuniti insieme nella tua casa, possiamo godere la gioia
senza fine”.
“Guarda in cielo e conta le stelle... tale sarà la tua discendenza”
Le prime due letture bibliche sono intimamente connesse fra di loro, nel
senso che la seconda, ripresa dalla lettera agli Ebrei, commenta in
chiave di esaltazione della “fede” proprio il dono della “paternità” e della
“maternità”, gratuitamente concesse da Dio ad Abramo e alla moglie
Sara.
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Il grande Patriarca aveva obbedito alla parola di Dio, che lo aveva
chiamato a “uscire dalla sua terra”, 4 promettendogli una numerosa
posterità, che avrebbe abitato nella terra di Canaan. Se non che, molto
tempo era già passato senza che la promessa si fosse avverata, e
Abramo invecchiava sempre di più. Di qui il suo senso di frustrazione e,
in parte, anche di diffidenza verso Dio: tanto che egli pensa già di
lasciare tutti i suoi averi ad uno dei suoi servi, Eliezer di Damasco, forse
il suo maggiordomo.
È a questo punto che Dio interviene, rinnovandogli le promesse: ““Non
temere, Abràm. Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto
grande”. Rispose Abràm: “Mio Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado
senza figli e l’erede della mia casa è Eliezer di Damasco”. Soggiunse
Abràm: “Ecco, a me non hai dato discendenza e un mio domestico sarà
il mio erede”. Ed ecco gli fu rivolta questa parola dal Signore: “Non
costui sarà il tuo erede, ma uno nato da te sarà il tuo erede”. Poi lo
condusse fuori e gli disse: “Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a
contarle”, e soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al
Signore che glielo accreditò come giustizia” (Gn 15,1-6).
Come frutto di questa “fede” venne finalmente il figlio tanto atteso.
Infatti “Sara concepì e partorì ad Abramo un figlio nella vecchiaia, nel
tempo che Dio aveva fissato” (Gn 21,2). Si noti come all’autore sacro
interessa dimostrare che tutto, in questa nascita, viene da Dio: anche il
tempo è quello “fissato” da Dio!
Ogni “vita” viene da Dio
Non è soltanto la suprema libertà di Dio che viene affermata in questo
evento così importante della storia della salvezza: ma è il valore della
“vita” umana in quanto tale che viene sottolineato e riportato alla sua
sorgente, Dio.
È bensì vero che Abramo era vecchio e Sara sterile, per cui la vita
appare ancor più mero dono di Dio: ma esso è “dono” di Dio anche
quando il suo prodursi potrebbe apparire esclusivo frutto delle leggi
della natura. Infatti, non è ancora Dio operante in quelle leggi o,
meglio, colui che quelle leggi ha stabilito? È dal suo volere che deriva la
fecondità degli uomini, così come di ogni essere creato: “Siate fecondi e
moltiplicatevi, riempite la terra” (Gn 1,28).
In questa prospettiva appaiono tanto più grandi la paternità e la
maternità responsabili, fino a diventare una forma di “partecipazione”
4
Cf Gn 12,1.
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all’opera della creazione. L’uomo non può manipolare il dono della vita,
anche nel suo stadio embrionale: altrimenti diventa assassino e alleato
di Satana, “per invidia del quale la morte è entrata nel mondo” (Sap
2,24). L’aborto non è certo un progresso, ma ripete il gesto di Caino,
aggravato dal fatto che se ne cerca addirittura una legittimazione di
ordine giuridico o sociale.
“Per fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco”
In prospettiva di fede, tutto questo viene riletto dall’autore della lettera
agli Ebrei nella celebrazione che egli fa degli antenati, che in Dio
solamente hanno trovato il motivo del loro agire e del loro sperare
anche “contro ogni speranza”.
“Per fede, Abramo, chiamato da Dio, obbedì partendo per un luogo che
doveva ricevere in eredità, e partì senza sapere dove andava. Per fede
anche Sara, sebbene fuori dell’età, ricevette la possibilità di diventare
madre, perché ritenne fedele colui che glielo aveva promesso... Per
fede Abramo, messo alla prova, offrì Isacco e proprio lui, che aveva
ricevuto le promesse, offrì il suo unico figlio, del quale era stato detto:
“In Isacco avrai una discendenza che porterà il tuo nome”. Egli infatti
pensava che Dio è capace di far risorgere anche dai morti: per questo lo
riebbe e fu come un simbolo” (Eb 11,8.11.17-19).
Lasciarsi “educare” da Dio
Senza ripetere quello che abbiamo già detto commentando la Genesi,
qui vorrei aggiungere solamente una cosa di notevole attualità: proprio
perché i figli sono un “dono” di Dio, egli solo può disporre di loro come
vuole, come dimostra il caso della “prova” di Abramo. Davanti a Dio che
sembra richiederglielo, egli è disposto perfino ad “offrirlo” in sacrificio:
forse che lui, che glielo aveva donato, non avrebbe potuto
restituirglielo, magari “risuscitandolo” dai morti?
Lo stesso atteggiamento di dominio e di padroneggiamento della vita,
che porta ad ucciderla prima ancora che sia sbocciata, fa sì che molti
genitori si sentano “padroni” delle scelte e degli orientamenti dei figli.
Non pensano minimamente che Dio possa chiamarli a seguire infinite
altre strade, fra cui quella altissima di ministri della salvezza e di
annunciatori del Vangelo.
Il problema delle “vocazioni” ecclesiastiche e religiose in genere, che
oggi tormenta la Chiesa, potrebbe trovare nelle famiglie veramente
cristiane la sua soluzione: si è “saggi” educatori solo se ci si lascia
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“educare” sempre da Dio, perché egli attui in noi e negli altri il suo
disegno, proprio come ha fatto con Abramo.
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