Omelie per un anno
Volume 2 - Anno “B”
Anno “B”
20ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
 Prv 9,1-6 - Mangiate il mio pane, bevete il vino che vi ho
preparato.
 Dal Salmo 33 - Rit.: Ai tuoi figli, Signore, prepari un convito di
festa.
 Ef 5,15-20 - Sappiate comprendere la volontà di Dio.
 Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Chi mangia la mia carne e
beve il mio sangue, dice il Signore, dimora in me e io in lui.
Alleluia.
 Gv 6,51-58 - La mia carne è vero cibo, il mio sangue vera
bevanda.
“La mia carne è vero cibo
e il mio sangue vera bevanda”
Più che nella Domenica precedente, siamo oggi in clima
essenzialmente eucaristico. Infatti, il brano del Vangelo di san
Giovanni, che inizia con il versetto con cui si chiudeva quello della
Domenica scorsa (“Io sono il pane vivo, disceso dal cielo...”: v. 51), ci
riporta le frasi più apertamente “eucaristiche” di tutto il discorso
pronunciato da Gesù nella sinagoga di Cafarnao.
Non si tratta più semplicemente di “mangiare” il pane, ma anche di
“bere il sangue” del Figlio dell’uomo. Se la prima formula si poteva (e
anzi si doveva!) interpretare riguardo all’atteggiamento di fede,
necessario per accettare e assimilare il “mistero” del Cristo in genere,
la seconda ci rimanda in maniera esplicita al “mistero” dell’Eucaristia,
in cui Cristo ci dà, oltre che il suo “corpo”, il suo “sangue” a bere.
“Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che vi ho
preparato”
La prima lettura è una lontana “prefigurazione” di quello che avviene
nell’Eucaristia, considerata soprattutto come “banchetto”.
In un quadro abbinato l’autore di questo tratto del libro dei Proverbi ci
presenta la “sapienza” in forma di nobile signora (Prv 9,1-6), poi la
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“follia”, anch’essa personificata (9,13-18), che invitano i loro
simpatizzanti ad un lauto banchetto. Nel contrasto delle due scene, è
evidente però che l’agiografo intende rimarcare e privilegiare l’invito
della “sapienza”, di cui l’altro è soltanto come una parodia e, nello
stesso tempo, una triste ma realissima forma di ricatto: chi non
segue la “sapienza”, infatti, cade fatalmente nelle insidie della
“donna” perversa ed ammaliatrice, che è il simbolo della vacuità della
vita e della instabilità del cuore di chi non si affida a Dio.
“La Sapienza si è costruita la casa, / ha intagliato le sue sette
colonne. / Ha ucciso gli animali, ha preparato il vino / e ha imbandito
la tavola... / A chi è privo di senno essa dice: / “Venite, mangiate il
mio pane, / bevete il vino che io ho preparato”” (Prv 9,1-5).
Ci sono tutti gli ingredienti di un vero “banchetto”: gli animali uccisi, il
vino, il pane. Il riferimento poi a chi è “inesperto”, o è sprovvisto di
“senno”, dice abbastanza chiaramente che è soprattutto sul piano
della “dottrina” che si pone la “sapienza” nell’imbandire la sua mensa:
in parole più semplici, si tratta di un invito a farsi discepoli della
“sapienza”, che si manifesta in modo particolare nella “legge” che Dio
ha donato a Israele.1
Oltre a questo, non è difficile percepire nei nostri versetti un qualche
riferimento al culto che si svolgeva nel tempio di Salomone,
vagamente richiamato al v. 1 (“...si è costruita la casa”),
accompagnato dai vari sacrifici e dal banchetto di comunione. È infatti
una componente essenziale della religiosità l’esprimere il proprio
rapporto con la divinità mediante la celebrazione di un banchetto:
quasi per affermare la vicinanza ai nostri problemi e propiziarne
l’amicizia. Il “banchetto”, infatti, è sempre segno di festa e di
amicizia.
“Come può costui darci la sua carne da mangiare?”
Venendo al brano evangelico (Gv 6,51-58), c’è da dire che qui ormai
il parlare di Gesù è scoperto. Tutta la larga parte del discorso che
precede (6,30-51) era una lenta preparazione alle sconcertanti
affermazioni conclusive, in cui il riferimento all’Eucaristia è esplicito e
non più velato dietro immagini o allusività simboliche. Gli uditori
fanno da controprova del “realismo” eucaristico con cui Gesù si
esprime, quando lo interrogano ancora una volta, allorché egli
promette di dare la propria “carne” da mangiare. Se era possibile
1
Sir 24,8-12.20-21.
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equivocarsi quando egli parlava di “pane” (vv. 48.50, ecc.), non lo è
più adesso che parla della sua “carne per la vita del mondo” (v. 51):
“Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (v. 52).
D’altra parte, Gesù approfitta di questa contestazione non per
sfumare il suo pensiero, ma per renderlo ancora più preciso e
tagliente. Quello che gli interessa in questo momento, come del resto
in tutta la sua vita, non è di evitare o scandalo, ma di affermare la
“verità”! Anche se ciò dovesse costargli l’abbandono dei suoi
discepoli, e persino dei Dodici (vv. 60-67).
“In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio
dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita. Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo
risusciterò nell’ultimo giorno. Perché la mia carne è vero cibo e il mio
sangue vera bevanda... Chi mangia questo pane vivrà in eterno” (Gv
6,53-58).
“Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo, non avrete in
voi la vita”
Queste parole, che rappresentano come il vertice del discorso
eucaristico, sono importanti soprattutto per le riflessioni teologiche
che ci offrono sul mistero dell’Eucaristia. Qui la catechesi di Giovanni
diventa veramente sublime. Noi porteremo la nostra attenzione su
alcuni punti più rilevanti di questa “catechesi”, che però si fonda sul
pensiero genuino di Cristo.
La prima cosa da rilevare è il rapporto strettissimo che Gesù pone fra
il “mangiare” e il “bere” di lui e il possedere la “vita”: “Se non
mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue,
non avrete in voi la vita... Chi mangia questo pane vivrà in eterno”
(vv. 53.58; cf vv. 54-57).
Noi sappiamo che il termine “vita” è l’espressione privilegiata usata
da san Giovanni per indicare la salvezza, che ci viene offerta
solamente da Cristo, che perciò presenta se stesso come “vita”. 2
Orbene, in questa fase di esistenza terrena, c’è solo un modo
concreto di appropriarsi del Cristo come “vita”: “nutrirsi” di lui
nell’Eucaristia.
Qui si intrecciano indubbiamente due concetti: uno, di mera analogia,
è quello che viene subito alla nostra mente quando parliamo di
“mangiare” e di “bere”. Sono infatti, queste, due azioni che
2
Cf Gv 11,25; 14,6.
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alimentano la “vita”, corroborandola e rinnovandola. L’altro concetto
è collegato alla realtà di Cristo: “mangiando” di lui, nel segno
dell’Eucaristia, si viene a creare un rapporto così intimo con il Cristo,
che è come se tutta la sua vitalità e potenza di salvezza si travasasse
in noi, in modo da fare di noi come una manifestazione della sua
stessa vita. L’Eucaristia è il trionfo della vita!
Tanto che essa si prolunga al di là del tempo e della nostra stessa
esperienza di morte, che verrà superata proprio dalla potenza vitale
dell’Eucaristia: “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la
vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (v. 54).
Cristo è entrato nel pieno e definitivo possesso della sua “vita”
mediante la “risurrezione”: è allora che ha recuperato totalmente se
stesso, anche nella sua fisicità. Orbene, comunicandosi a noi
nell’Eucaristia, noi attingiamo da lui questa potenza travolgente di
vita che trasformerà il nostro stesso “corpo” nella risurrezione finale.
“Come il ceppo di vite piantato in terra fruttifica a suo tempo; come il
grano di frumento caduto in terra vi marcisce, germoglia e si
moltiplica al soffio di Dio che tiene tutto insieme; come, per divina
sapienza, questi frutti passano poi al servizio dell’uomo, ricevono la
parola di Dio e diventano l’Eucaristia, che è il corpo e il sangue di
Cristo, così i nostri corpi, dopo essere stati nutriti dall’Eucaristia,
messi in terra a decomporsi, risusciteranno un giorno quando il Verbo
di Dio li farà risuscitare per la gloria di Dio Padre”.3
“Colui che mangia di me vivrà per me”
La risurrezione finale e la immissione nella gloria del Padre anche
nella nostra “fisicità” è solo però l’efflorescenza di un prodigio di
“vita”, che deve realizzarsi lungo tutto l’arco della nostra esistenza:
per questo il cristiano ha bisogno di “mangiare” giorno per giorno
l’Eucaristia, per assimilarne la forza, il valore e quello che essa
significa. È chiaro perciò che non si tratta di una semplice
manducazione materiale, ma soprattutto “spirituale”, collegata
ovviamente con la prima: altrimenti, varrebbe quello che Gesù dirà
tra poco, che cioè “la carne non giova a nulla” (v. 63).
Rilette in questa prospettiva assumono tutta la loro rilevanza due
affermazioni di Gesù, su cui non si riflette forse abbastanza: “Chi
mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui.
3
S. IRENEO, Adversus haereses, 5,2.
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Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre,
così anche colui che mangia di me vivrà per me” (vv. 56-57).
Sono due affermazioni che si richiamano a vicenda e vogliono mettere
in evidenza l’intimità di “vita” che si stabilisce fra il credente e Cristo
che si dona a lui nel sacramento dell’Eucaristia: è un “dimorare”
vicendevole dell’uno nell’altro, che attinge la sua “esemplarità” nella
unione che c’è tra il Padre e il Figlio, che non è unione solo morale ma
“di natura”.
Nel riferimento al Padre, però, non c’è solo l’idea della mutua
inabitazione, come segno dell’amore che è talmente profondo da fare
di due persone una realtà unica, ma anche l’idea della “missione” per
dilatare la vita: “Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io
vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me” (v.
57).
L’Eucaristia segue la traiettoria dell’incarnazione: non ci si nutre di
Cristo per godercelo egoisticamente, ma per diffonderlo e donarlo ai
fratelli. È per questo che i cristiani più attivi, e che si donano
totalmente agli altri, sono i frequentatori più assidui dell’Eucaristia: si
pensi alle lunghe ore che passava davanti al tabernacolo una donna di
attività travolgente come Madre Teresa di Calcutta († 1997), premio
Nobel per la pace; oppure alle messe, che non finivano mai, di un
uomo che ha avvicinato e trasformato centinaia di migliaia di persone
come padre Pio!
Attingendo al sacramento che è l’espressione massima della
“donazione”, non si può non sentire la spinta a donarsi per gli altri,
non ci si può non sentire anche noi “mandati” al mondo, come Cristo,
per donare la vita ai fratelli.
“Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue...”
Tutto questo si capisce anche meglio se si fa un’altra riflessione,
impostaci dal testo stesso del Vangelo, che in questo brano parla
continuamente di mangiare la “carne” e di bere il “sangue” di Cristo
(vv. 53.54.55.56), mentre prima si era parlato semplicemente di
mangiare il “pane” (cf anche v. 58).
Soprattutto l’immagine del “sangue” richiama l’idea della morte di
Cristo sulla croce: proprio il tipo di supplizio inflittogli ha fatto sì che
tutto il suo “sangue” fosse davvero “versato” per noi.
Basterà qui ricordare l’episodio del centurione che colpì con la lancia il
petto del Signore crocifisso “e subito ne uscì sangue ed acqua” (Gv
19,34). L’Eucaristia, perciò, riproduce misteriosamente e ripresenta
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alla nostra fede il momento della immolazione suprema di Cristo: è il
mistero della sua “morte” che essa non solo richiama, ma rende vivo
e attuale. Un dramma, dunque, che è l’espressione massima della
donazione totale di sé a Dio e ai fratelli. È quanto l’Eucaristia è
destinata a riprodurre come effetto in tutti coloro che la celebrano
nella fede e nella commozione del loro spirito.
Se le cose stanno così, è chiaro che l’Eucaristia è veramente il “cuore”
della Chiesa, da cui essa attinge sempre nuovo vigore per costruirsi
come comunità d’amore. Perciò “non è possibile che si formi una
comunità cristiana se non avendo come radice e come cardine la
celebrazione dell’Eucaristia, dalla quale deve quindi prendere le
mosse qualsiasi educazione tendente a formare lo spirito di
comunità”.4
“Rendete continuamente grazie a Dio per ogni cosa”
Senza forzare il testo, mi sembra che si possano rileggere in chiave
eucaristica le ammonizioni di san Paolo, con cui invitava i cristiani di
Efeso a vigilare sulla loro condotta, “comportandosi non da stolti ma
da uomini saggi; profittando del tempo presente, perché i giorni sono
cattivi” (Ef 5,15-16). La “condotta” del cristiano, che ha a sua
disposizione l’Eucaristia, non può non essere espressione di amore e
di servizio, proprio per diradare le tenebre di questi “giorni cattivi” di
egoismo, di violenza e di sopraffazione che tutti drammaticamente
viviamo.
Soprattutto l’ultima parte dell’esortazione mi sembra che contenga un
abbastanza palese richiamo “eucaristico”, nel senso che quella
esplosione di gioia che si manifesta nei “canti”, negli “inni”, nei
“salmi”, ecc., è tipica delle assemblee liturgiche, che erano tutte
incentrate nella celebrazione della Parola e dell’Eucaristia. Lo “Spirito”
di Dio, poi, veniva invocato dalla comunità proprio per poter
penetrare nel senso del “mistero” che essa stava celebrando.
“Non ubriacatevi di vino, il quale porta alla sfrenatezza, ma siate
ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici
spirituali; cantando e inneggiando al Signore con tutto il vostro cuore,
rendendo continuamente grazie (in greco “eucharistoúntes”) per ogni
cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo” (Ef
5,18-20).
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Decreto del Concilio Vaticano II, Presbyterorum Ordinis, n. 6.
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Se dobbiamo continuamente “rendere grazie” a Dio per i suoi
benefici, non dimentichiamo che l’Eucaristia, nella realtà che esprime
e nella parola stessa che porta, è il più grande “rendimento di grazie”
che possiamo immaginare.
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