8B_2TO - salesiani don Bosco

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Omelie per un anno
Volume 2 - Anno “B”
Anno “B”
2ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
 1 Sam 3,3b-10.19 - Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta.
 Dal Salmo 39 - Rit.: Ecco, io vengo, Signore, per fare la tua
volontà.
 1 Cor 6,13c-15a.17-20 - I vostri corpi sono membra di Cristo.
 Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Parla, Signore, che il tuo
servo ti ascolta. Tu hai parole di vita eterna. Alleluia.
 Gv 1,35-42 - Videro dove abitava e si fermarono presso di lui.
“Andarono i due discepoli
e videro dove abitava
e si fermarono presso di lui”
L’idea di fondo del brano di Vangelo (Gv 1,35-42) di questa seconda
Domenica del tempo ordinario, collegato con la prima lettura che ci
descrive la vocazione di Samuele e la prontezza della sua risposta
all’appello che gli veniva dall’alto (1 Sam 3,3b-10.19), mi sembra
quella della “chiamata” e, più ancora, della “sequela”.
Del resto, direi che le due cose sono il duplice aspetto di una unica
realtà: si segue qualcuno, o anche qualcosa, nella misura in cui ci
sentiamo come interpellati dalla realtà che ci sta di fronte, dai valori
che essa rappresenta, dalla suggestione misteriosa che sa
comunicare ed esprimere.
E non è sempre vero che ci sia prima una chiamata e poi una
risposta; talvolta, anzi, la risposta è già come sospesa in aria, a livello
di desiderio inconscio, di generica disponibilità ad amare e a servire,
in attesa che da qualche parte venga un appello, proprio quello che ci
sembrava di attendere da sempre. In questo caso la “chiamata” ci
afferra anche più profondamente, senza residui di opposizioni, proprio
perché misteriosamente era già operante in noi in quella apertura e
disponibilità del nostro spirito, di cui si è appena detto.
“Ecco l’Agnello di Dio!”
Settimio Cipriani, Illuminati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche • Anno B
Omelie per un anno. Vol. 2/B • © Elledici, Leumann 2005
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Proprio in questo sfondo di sentimenti e di attese mi sembra che si
collochi la pagina del Vangelo di Giovanni, che ci descrive l’incontro di
Gesù con tre dei suoi futuri apostoli. È una pagina di una freschezza
incantevole, che sa comunicare anche a noi, che la rileggiamo a così
grande distanza di tempo, quello stesso senso di stupore e di
meraviglia che afferrò allora i primi tre discepoli del Signore: Andrea,
Giovanni e Pietro.
L’evangelista raccoglie l’episodio nello spazio di una giornata (“il
giorno dopo”: 1,35), secondo un probabile schema “settimanale”
delle cose qui raccontate, 1 forse per mettere in parallelo l’opera
creatrice di Genesi 1 (i “sette” giorni della creazione) e l’opera
redentrice iniziata da Cristo.
L’episodio, poi, si divide in due parti: la prima ci descrive l’incontro,
provocato da Giovanni Battista, di due dei suoi discepoli con Gesù
(vv. 35-39); la seconda l’incontro di Pietro con Gesù, provocato da
Andrea (vv. 40-42). Ciò che vi è di comune nei due quadretti narrativi
è il fatto che Gesù viene incontrato dai suoi discepoli solo tramite
altre persone, che, in qualche maniera, ne hanno intravisto il mistero
o ne hanno fatto una, sia pure incipiente, esperienza. Senza
escludere un intervento diretto di Cristo nell’intimo delle coscienze,
come ci viene subito dopo detto di Filippo (v. 43), rimane la
constatazione che più ordinariamente gli appelli di Dio passano
attraverso la testimonianza dei nostri fratelli.
Pur a grande distanza di tempo, l’evangelista (perché è quasi
certamente lui uno dei “due discepoli” che seguirono il Maestro: v.
40) ricorda con esattezza matematica l’ora precisa di quell’incontro:
“Erano circa le quattro del pomeriggio” (v. 39). Segno evidente che
esso fu determinante nella sua vita e rappresenta, anche adesso che
scrive, qualcosa di indimenticabile.
Anche il giorno precedente Giovanni aveva reso la sua testimonianza
al Cristo, in una forma addirittura più ricca, iniziandola con le stesse
parole: “Ecco l’Agnello di Dio, ecco colui che toglie il peccato del
mondo!” (v. 29). Queste parole allora forse non dissero gran che ai
due discepoli: ripetute intenzionalmente dal loro maestro, adesso
significano per loro qualcosa o, almeno, essi sono messi in un
atteggiamento di curiosità e di ricerca: “I due discepoli, sentendolo
parlare così, seguirono Gesù” (v. 37).
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1Cf Gv 1,19.29.35.43; 2,1.
Settimio Cipriani, Illuminati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche • Anno B
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Che cosa volesse precisamente dire san Giovanni con quella
espressione, non è troppo chiaro. C’è chi ha pensato all’agnello
pasquale di Esodo 12,1-28; chi al “servo sofferente di Jahvè”, il quale
“era come agnello condotto al macello, come pecora muta di fronte ai
suoi tosatori, e non aprì la sua bocca” (Is 53,7); chi all’oblazione
quotidiana di un agnello nel tempio (Es 29,38-46).
Come si vede, è un’espressione dalle molteplici risonanze, di cui non
conviene eliminarne alcuna. Al centro, però, sta l’idea del Cristo come
“servo sofferente” che, in virtù del suo “sacrificio” e della sua
innocenza, riscatterà il “mondo” intero “vincendo” e “consumando”,
con la sua immensa capacità di amare, il “peccato” di tutti gli uomini
e di tutti i tempi.
Il “sacrificio” del Cristo, in realtà, inizia proprio con questo suo
spontaneo assoggettarsi al rito battesimale di Giovanni, mediante il
quale lui, il “solo Santo”, si professa solidale con il popolo peccatore.
In questa prospettiva è evidente che, nel momento stesso in cui Gesù
si abbassava davanti a Giovanni per ricevere il battesimo, il “più
grande” era proprio lui, gli passava veramente “avanti”, come
dichiara il Battista (cf 1,30-31): però bisognava andare oltre le
apparenze, tentare di penetrare il “mistero”, per poter riconoscere in
quell’uomo, in tutto uguale agli altri, il Figlio stesso di Dio, il
“Salvatore del mondo” (cf 4,42). È quanto Giovanni tenta di fare con i
migliori dei suoi discepoli, senza nessun sentimento di rivalità qualora
anche lo volessero abbandonare, convinto com’è che Gesù “deve
crescere, e lui invece diminuire” (3,30).
“Gesù, vedendo che lo seguivano, disse: “Che cercate?””
I due si mettono dunque a “seguire” Gesù, senza nessun progetto
concreto, spinti solo dal desiderio e dalla curiosità. È interessante il
dialogo, che segue, fra Gesù e i due discepoli: esso non è fatto tanto
di grandi elucubrazioni teologiche, quanto di cose semplici e concrete.
Tutto si svolge sul piano del confronto personale e dell’esperienza:
“Che cercate?... Rabbi, dove abiti?... Venite e vedrete...” (vv. 38-39).
È l’esperienza di Gesù che fa nascere la fede in lui, che poi diventa
contagiosa, come vedremo subito nel caso di Andrea.
R. Bultmann fa notare che le prime parole di Gesù, riportate nel
Vangelo di Giovanni, sono rappresentate proprio da questa
emblematica domanda: “Che cercate?”. Essa è rivolta non soltanto ai
primi discepoli, ma ai discepoli di tutti i tempi; ed è un invito sia a
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considerare la “sequela” di Cristo come una costante “ricerca”, sia a
verificare continuamente i motivi e i contenuti di questa ricerca.
Il porci davanti a Cristo in atteggiamento di costante “ricerca”
significa che siamo coscienti che il suo “mistero” ci trascende
all’infinito, che la conoscenza o l’esperienza che potremmo avere di
lui saranno sempre limitate, che solo la luce dello Spirito, che è “lo
Spirito di verità”, “ci guiderà alla verità tutta intera” (Gv 16,13),
come Gesù stesso ci ha promesso prima di ascendere al Padre.
Questo ci consentirà di essere più umili davanti al mistero, e perciò
anche più disponibili a tutte le luci nuove e alle esperienze nuove che
ci dilatano gli spazi della fede.
D’altra parte, questo sforzo di continua “ricerca” ci permetterà di
vagliare e di verificare sempre da capo i “motivi” per cui seguiamo
Gesù. Anche la folla, che aveva visto la moltiplicazione dei pani, si dà
alla ricerca di Gesù dopo che egli si era ritirato sul monte e li aveva
preceduti sull’altra riva del lago. Però egli li rimprovera, dicendo che
lo seguivano per motivi non sinceri: “In verità, in verità vi dico, voi mi
cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato
di quei pani e vi siete saziati. Procuratevi non il cibo che perisce, ma
quello che dura per la vita eterna, e che il Figlio dell’uomo vi darà”
(Gv 6,26-27). In realtà quella gente, più che cercare Gesù attraverso
i “segni” del divino che si manifestavano in lui, “cercava se stessa”
per un certo vantaggio che aveva esperimentato nel mangiare del
pane del miracolo.
È quello che può capitare a tutti noi quando, invece di adeguarci alla
misura di Cristo, lo costringiamo ad abbassarsi alla nostra statura,
oppure riduciamo il Vangelo a giustificazione delle nostre scelte, o
delle nostre ideologie, o dei nostri comportamenti. Perciò abbiamo
bisogno che Gesù ci interpelli sempre da capo: “Che cercate?”.
“Maestro, dove abiti?”
La sincerità della ricerca dei due discepoli è messa in evidenza dalla
loro risposta: “Maestro, dove abiti?” (v. 38). Tanto poco essi sono
disposti a ridurre Gesù alla loro misura, che vogliono passare del
tempo con lui per conoscerlo meglio, per diventare amici, per farne
esperienza, come dice meglio anche il seguito del racconto:
“Andarono dunque e videro dove abitava, e quel giorno si fermarono
presso di lui” (v. 39).
L’espressione che abbiamo tradotto: “Dove abiti?”, nel vocabolario di
Giovanni ha un significato più profondo: il verbo mènein, infatti,
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ordinariamente dice un reciproco “rimanere”, come di un amico
presso un amico, una reciproca “immanenza” con partecipazione di
vita, di gioia, di conoscenza. Si pensi semplicemente all’invito di Gesù
nel contesto dell’allegoria della vite e dei tralci: “Rimanete in me ed io
in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane
nella vite, così anche voi se non rimanete in me... Chi rimane in me
ed io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far
nulla...” (Gv 15,4-5).
Si tratta dunque di un “abitare”, che permette a degli ospiti-amici di
fare un’esperienza che arrivi non solo ad afferrare totalmente l’altro,
a conoscerlo, ma addirittura a sentirlo come elemento “vitale” del
proprio esistere: il tralcio, che “non rimane nella vite”, è destinato a
“disseccarsi” e ad essere tagliato e gettato nel fuoco (Gv 15,6). Perciò
l’espressione: “Dove abiti?”, potrebbe essere parafrasata così:
“Maestro, mostraci chi sei, facci conoscere il mistero della tua
persona, perché possiamo anche noi diventare tuoi amici”. La risposta
di Gesù è precisamente in questo senso: “Venite e vedrete” (v. 39),
cioè fate l’esperienza di quello che sono e che posso “significare” per
voi, per dare un senso nuovo alla vostra vita, che sarà ormai da
vivere insieme a me.
Andrea “incontrò per primo suo fratello Simone”
La seconda parte del brano ci descrive l’incontro di Pietro con Gesù ad
opera di Andrea (vv. 41-42).
In questo momento non ci interessa tanto di approfondire quella che
sarà la futura missione di Pietro nella Chiesa e che viene espressa dal
cambiamento di nome (“Ti chiamerai Cefa”: cf Mt 16,18), quanto di
cogliere altri elementi costitutivi della “chiamata”, che è il tema di
fondo di tutto il brano.
E mi sembra che un elemento di primaria importanza, come abbiamo
già accennato, sia rappresentato dalla carica “contagiosa” di colui che
è stato chiamato: chi ha scoperto Cristo come colui che dà senso alla
vita e apre il cuore degli uomini all’amore e alla donazione, non può
non comunicare la sua scoperta agli altri! È quanto fa Andrea nei
riguardi del fratello Simone (v. 41); è quanto farà poco dopo anche
Filippo nei riguardi di Natanaele (vv. 45-46). La “chiamata” di Dio
passa più comunemente attraverso la “mediazione” di fratelli che, per
primi, hanno fatto un’intensa esperienza dei valori della fede e
dell’amore: perciò non potrà mai essere un fatto né “isolato”, né
“isolante”!
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E questo ci richiama ad un altro elemento costitutivo della
“chiamata”, cioè la sua dimensione “comunitaria”. È quanto vediamo
nel caso di Simone, a cui Gesù cambia il nome in quello di Cefa, cioè
“pietra”, “roccia”, per designare la sua futura funzione nella Chiesa;
su Pietro, come “roccia” di fondamento e di unificazione di tutto
l’edificio, Cristo “costruirà” appunto la sua Chiesa (Mt 16,18). Se
questo è evidente nel caso di Pietro, è altrettanto vero per qualsiasi
altra chiamata, anche la più umile, nella Chiesa. Lo ricordava san
Paolo ai cristiani di Corinto, quando scriveva loro che ogni dono e
“manifestazione dello Spirito è per il bene comune” (1 Cor 12,7).
“Tu, seguimi”
Si sarà notato come nella nostra pericope si ripete con insistenza il
verbo “seguire” (vv. 37.38.40.43). Collocato nello sfondo della
“chiamata”, esso sta a significare il distacco del credente dai suoi
punti di sicurezza, dai suoi progetti, dall’immobilismo dei suoi schemi
e delle sue abitudini, per intraprendere un lungo ed avventuroso
cammino, che Cristo solo sa dove potrà terminare e per dove potrà
passare. E non è detto che sia sempre un cammino bello, o facile, o
umanamente desiderabile!
Proprio come quello che, al termine del Vangelo di Giovanni, Gesù fa
intravedere a Pietro, a cui precedentemente aveva dato il compito di
“pascere” il suo gregge: ““In verità, in verità ti dico, quando eri più
giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando
sarai vecchio tenderai le tue mani e un altro ti cingerà la veste e ti
porterà dove tu non vuoi”. Questo gli disse per indicare con quale
morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse:
“Seguimi”” (Gv 21,18-19).
“Chiamata” e “sequela”: due termini che si integrano nel brano di
Vangelo odierno, e in tutta la trama del racconto biblico: da Abramo,
a Mosè, a Samuele, agli Apostoli, a Maria. È una storia che incomincia
sempre da capo per ognuno di noi, dalla più grande chiamata, che è
quella alla fede, a tutte le ulteriori chiamate che possono risuonare
nella nostra vita come ulteriore specificazione del primo appello a
credere e ad amare.
Quello che importa è saper “rispondere” con un desiderio tormentoso
di “ricerca”, che ci porti sempre avanti nel cammino e nella “sequela”
di Cristo, dovunque a lui piaccia di “andare”. 2 Superando,
2
Cf Mt 8,19.
Settimio Cipriani, Illuminati dalla Parola. Riflessioni biblico-liturgiche • Anno B
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ovviamente, tutti gli “ostacoli” che si frappongono ad una generosa
“sequela”.
“Glorificate Dio nel vostro corpo”
Fra questi possibili ostacoli è da collocare la tentazione costante, che
ogni uomo sente acutamente in se stesso, di disperdersi nella sua
capacità di amore e di donazione. La “impudicizia”, o “fornicazione”, a
cui richiama san Paolo nella seconda lettura, e che esprime qualsiasi
forma di ricerca egoistica di se stesso nell’uso della propria o altrui
sessualità, al di fuori del matrimonio, è autentica chiusura a Dio e alle
sue esigenze di “liberazione” integrale del cuore dell’uomo per aderire
a lui solamente.
Di qui l’accorato richiamo di san Paolo ai cristiani di Corinto, che per
la loro precedente pratica di vita pagana erano particolarmente inclini
a simili degenerazioni: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di
Cristo?... Fuggite la fornicazione!... Glorificate dunque Dio nel vostro
corpo” (1 Cor 6,15.18.20).
La “sequela” di Cristo, “umile e casto”, per ognuno di noi, qualunque
sia lo stato della nostra vita, esige che anche il nostro “corpo” sia
espressione della sua “signoria” sopra di noi. San Paolo altrove ci
insegna che è precisamente nel nostro “corpo” che celebriamo la
prima e più vera “liturgia” al Signore.3
3
Cf Rm 12,1.
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