Omelie per un anno
Volume 2 - Anno “B”
Anno “B”
12ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
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Gb 38,1.8-11 - Qui si infrangerà l’orgoglio delle tue onde.
Dal Salmo 106 - Rit.: Diamo lode al Signore per i suoi prodigi.
2 Cor 5,14-17 - Ecco, sono nate cose nuove.
Canto al Vangelo - Alleluia, alleluia. Loda, Gerusalemme, il tuo
Dio che manda sulla terra la sua parola. Alleluia.
 Mc 4,35-41 - Chi è costui al quale anche il vento e il mare
obbediscono?
Riflessioni sulla tempesta
“Maestro, non t’importa che moriamo?”
Ascoltando questo racconto del Vangelo, mi viene il dubbio se
prendere le parti di Gesù o quelle dei discepoli. Come si fa ad
accusare Gesù d’essere indifferente alla sorte dei suoi, quasi che non
gl’importasse di vederli annegare? D’altra parte è anche difficile dar
torto a quei poveretti, che, esperti del “mare” di Galilea come della
loro casa, non esageravano certo il pericolo a cui erano esposti nella
barca ormai piena d’acqua: e il Maestro, a poppa, la testa appoggiata
sul cuscino, dormiva! Non era la prima volta che l’uomo, sotto il peso
della sventura, oppresso dall’angoscia, osava rimproverare a Dio il
silenzio, l’assenza di fronte al dolore della sua creatura.
La risposta data da Dio a Giobbe in mezzo al turbine presuppone i
lamenti dell’infelice: “E perché non sono morto fin dal seno di mia
madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché due ginocchia
mi hanno accolto, e perché due mammelle mi hanno allattato?” (Gb
3,11-12); “Stanco io sono della mia vita! Darò libero sfogo al mio
lamento, parlerò nell’amarezza del mio cuore. Dirò a Dio: Non
condannarmi! Fammi sapere perché mi sei avversario. È forse bene
per te opprimermi, disprezzare l’opera delle tue mani e favorire i
progetti dei malvagi?” (10,1-3); “Io grido a te, ma tu non mi rispondi,
insisto, ma tu non mi dai retta. Tu sei un duro avversario verso di me
e con la forza delle tue mani mi perseguiti; mi sollevi e mi poni a
cavallo del vento e mi fai sballottare dalla bufera” (30,20-22).
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La malattia, la calunnia, la miseria, la sciagura che si è abbattuta o
minaccia di abbattersi sull’uomo incapace di resistere mettono spesso
a dura prova la fede. Credo fosse il 13 giugno 1940, poche ore dopo
che erano state sganciate su Torino le prime bombe provocando
vittime e distruzioni. Quel mattino, alla stazione di Porta Nuova i treni
erano presi d’assalto da una folla che cercava solo di scappare, in un
caos indescrivibile. Nell’atrio una donna dai capelli scarmigliati, gli
occhi stravolti, mi affrontò gridando: “Reverendo, come può Dio
permettere queste cose, se c’è?” (cosa avrà detto quella poveretta
fino al 25 aprile 1945?).
“Non avete ancora fede?”
Non pretendiamo di dare delle risposte facili, ma prendiamo sul serio
la domanda con cui Gesù replica ai discepoli: “Perché siete così
paurosi? Non avete ancora fede?”. Non sono dunque i nostri
ragionamenti, per quanto acuti, che risolvono il problema, ma la fede.
La domanda-rimprovero ritorna più volte sulle labbra del Maestro, e
vale anche per noi. Se potessimo renderci conto con la nostra
intelligenza di quello che Dio è e fa, Dio non sarebbe più Dio.
O facciamo il salto, con l’atto di fede in lui, nel suo Figlio fatto uomo
per noi, o riduciamo il Vangelo a un messaggio umano e svuotiamo,
secondo l’energica espressione di Paolo, “lo scandalo della croce” (Gal
5,11): ma allora non siamo più cristiani. Ma come giungere all’atto di
fede? Con il padre del ragazzo posseduto da un demonio, protestare
che crediamo e chiedere l’aiuto per credere veramente: “Credo,
aiutami nella mia incredulità!” (Mc 9,24). Con i discepoli, pregare:
“Aumenta la nostra fede” (Lc 17,6).
E disporci nell’umiltà, rinunciando a vantare la nostra autosufficienza,
riconoscendoci piccoli e deboli, vuotando il cuore da tante cose che lo
ingombrano (sete di guadagno, di potere, di piacere) per aprirlo
all’irruzione di Dio.
“Chi è dunque costui?”
“Non avete ancora fede?”. In che cosa? in chi? Evidentemente; in lui
che parla. Aver fede in Gesù Cristo, secondo ciò che ci vien detto in
queste letture, significa, schematicamente, credere due cose.
Primo, che Gesù è potente: “Destatosi, sgridò il vento e disse al
mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e vi fu grande bonaccia”;
“Anche il vento e il mare obbediscono a lui”. I discepoli sapevano
bene che nessun uomo come loro, come tutti gli altri, avrebbe potuto
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compiere un simile prodigio. C’era dunque in lui un potere che
trascendeva l’umano, potere che avrebbero capito sempre meglio,
fino alla risurrezione. La 1ª lettura prepara in certo senso il racconto
del miracolo. Nel suo linguaggio immaginoso, Giobbe si figura Dio
come il domatore del mare che obbedisce ai suoi ordini.
Secondo, credere che Gesù è buono. Ce lo ricorda anche il racconto di
Marco: il fatto conta più che le espressioni a primo aspetto dure. Ma
soprattutto ce l’insegna Paolo, che canta l’amore di Cristo “morto per
tutti”.
Riconoscere quest’amore è dovere evidente. Confidare nell’amore di
Cristo è nello stesso tempo dono inestimabile, capace di trasformare
tutta la nostra vita dandole un senso nuovo di gioia. “Tu non osi
essere felice, mentre hai la ragione più indiscutibile di esserlo: il Dio
onnipotente, il Creatore tuo e di tutte le cose, ti ama divinamente,
cioè infinitamente, ti ama da tutta l’eternità, ti ama personalmente;
egli desidera che tu divenga santo, ma, nell’attesa, ti ama così come
sei. Perché dunque codesta ansietà che non ti abbandona? È forse
perché la tua fede in quest’amore manca di forza e di stabilità?” (H.
Caffarel). Ma non ci si può fermare qui. L’amore di Cristo ci è stimolo
ed esempio. Dobbiamo ripudiare ogni egoismo, non vivere più per noi
stessi ma per lui. L’aveva capito s. Agostino, quando, nei primi anni
del suo episcopato, atterrito dai suoi peccati e dalla mole della sua
miseria, stava per cedere alla tentazione della “fuga nella solitudine”.
Furono queste parole di Paolo che glielo impedirono e lo confortarono
a proseguire nel duro cammino, dimenticando se stesso per darsi a
Cristo nei fratelli, attendendo da lui luce consolazione forza.
Ma per credere in Gesù onnipotente e infinitamente buono, è
necessario conoscerlo, alla luce della fede, quale egli è, non “secondo
la carne”, che non sa elevarsi oltre la soglia dell’intelligenza umana e
vede in lui soltanto un uomo, sia pure d’una statura intellettuale e
morale superiore, amico dei poveri e degli umili, portatore d’un
messaggio unico di giustizia, di solidarietà e di amore. È necessario
vedere in lui il Figlio di Dio, vero Dio, diventato per amore figlio di
Maria, uomo come noi, fratello e amico nostro, morto per noi,
risuscitato e assiso alla destra del Padre.
Ce lo ricorda s. Massimo, riportando il testo paolino: “Non dobbiamo
più cercare il Salvatore sulla terra né secondo la carne, se vogliamo
trovarlo e toccarlo, ma nella gloria della maestà divina, per poter dire
con l’apostolo Paolo: “Ora non conosciamo più Cristo secondo la
carne””. Così, osserva, Stefano vide il Signore nel martirio.
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