teoria dell `autonomia e dell `eteronomia prof . raffaele

“TEORIA DELL’AUTONOMIA E
DELL’ETERONOMIA”
PROF. RAFFAELE IERVOLINO
Università Telematica Pegaso
Teoria dell’autonomia e dell’eteronomia
Indice
1
TEORIA DELL’AUTONOMIA E DELL’ETERONOMIA ----------------------------------------------------------- 3
1.1.
1.2.
AUTONOMIA ED ETERONOMIA ----------------------------------------------------------------------------------------------- 3
LA COSCIENZA: UN ORGANO DI GIUDIZIO SOGGETTIVO INDIVIDUALE O OGGETTIVO UNIVERSALE? -------------- 4
2
RICONOSCIMENTO E CONSENSO ------------------------------------------------------------------------------------- 5
3
DIRITTO E COSCIENZA --------------------------------------------------------------------------------------------------- 7
3.1
3.2
L’ANALOGICITÀ DEL DIRITTO CON LA PERSONA E CON LA COSCIENZA. -------------------------------------------------- 7
CONSEGUENZE DI UNA TEORIA PERSONALE DELLA VALIDITÀ GIURIDICA ------------------------------------------------ 7
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Teoria dell’autonomia e dell’eteronomia
1 Teoria dell’autonomia e dell’eteronomia
Kaufmann tenne una conferenza sul tema “ La coscienza ed il problema della validità
giuridica”.
Nel corso della conferenza egli accenna anche alla coscienza come possibile criterio della
validità del diritto, dei giudizi e delle sanzioni giuridiche.
1.1.
Autonomia ed eteronomia
Un problema fondamentale della filosofia del diritto è quello di capire come mai i comandi
del legislatore sono considerati norme cogenti, cioè capaci di obbligare.
Il punto nodale della questione non è tanto di conoscere quale apparato dispositivo cogente
abbia la facoltà di imporre l’osservanza di una norma, quanto di scoprire come accade che una
norma giuridica, in base al suo contenuto, sia accettata dalla coscienza di coloro che sono obbligati
giuridicamente.
A questo punto è il caso di ribadire che una norma solo se è condivisa produce un effetto
veramente vincolante per la coscienza umana. Questa affermazione è il risultato della teoria
dell’autonomia, secondo cui l’uomo è il legislatore di se stesso e solo lui può porre limiti al suo
agire. La teoria dell’autonomia trova perfetta corrispondenza nella filosofia esistenzialista moderna,
di cui Sartre è un autorevole rappresentante, anche se la sua è una corrente estrema.
Tale filosofia induce a concludere che non esistono norme obbliganti, dal momento che
l’uomo è il legislatore di se stesso e che pertanto, nessun legislatore generale può stabilire norme ed
imporre ai cittadini l’obbligo di rispettarle.
In pratica si nega il carattere obbligante di tutto l’ordinamento giuridico, col grave rischio di
rovinare in un soggettivismo assurdo e pericoloso, in quanto la coscienza morale non ha per tutti la
stessa dimensione o grandezza.
La teoria dell’autonomia affonda le radici nella filosofia di Kant, che parla di una volontà
che osserva la legge che essa stessa ha prodotto. Interpretando alla lettera il pensiero Kantiano, si
potrebbe essere indotti a credere che ogni singolo cittadino stabilisce per sé le leggi del suo agire.
Ma non è così. Quando Kant parla dell’autonomia della persona non si riferisce all’uomo
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“fenomenico”, cioè al soggetto singolo, ma all’uomo “noumenico” ( noumeno: la cosa in sé, non
conoscibile nell’esperienza ma posta come esigenza della ragione), cioè all’uomo inteso come un
essere dotato di libertà interiore, vale a dire di una “ pura ragione giuridicamente autolegiferante”.
Le contraddizioni restano perché l’uomo di Kant è a mezza strada tra l’autonomia e
l’eteronomia in quanto anche l’imperativo categorico (la coscienza) presuppone sempre “un ordine
morale obiettivo”.
1.2.
La coscienza: un organo di giudizio soggettivo individuale o
oggettivo universale?
La coscienza morale, come organo di giudizio, è legata sempre ad un vincolo obiettivo, che
Sofocle poneva nella volontà degli dei ed Hegel pone nella figura dello Stato.
Hegel attribuisce allo Stato il potere di stabilire se è veramente buono ciò che la coscienza
morale di un determinato individuo ritiene che sia buono. Non diversamente Giovanni Paolo II, il
12 novembre 1988, nel discorso al congresso dei teologi morali a proposito dell’uso dei
contraccettivi per limitare la nascita, rifiutava che i fedeli potessero fare appello alla propria
coscienza e ribadiva che la competenza in questo problema era esclusivamente della dottrina.
La filosofia di Hegel è stata rigorosamente criticata da Hans Welzel, secondo il quale “una
coscienza che non è soggettiva ed individuale ma oggettiva-generale è una contraddizione in
termini”, e da Scholler, il quale dice che “con Hegel si ha la più fatale identificazione in cui il
singolo deve sacrificare la propria soggettività sull’altare dello Stato”. Del resto persino la teologia
cattolica sostiene che l’ultima parola in tema di obbligatorietà spetta alla coscienza individuale e
San Tommaso d’Aquino giunge a dire che se un soggetto compie un azione ingiusta impostagli
dalla coscienza (esempio immobilizzare un malvivente con un colpo alla testa per salvare un
innocente) non commette peccato.
Rimanendo in tema di coscienza individuale Kant dice che essa non può sbagliare e Fitche
sostiene che la coscienza individuale non può essere corretta da nessun’altra coscienza e che il suo
giudizio è inappellabile.
A parte le difficoltà già evidenziate, rimane sempre da chiarire come evitare l’anarchia
quando si voglia ritenere che la coscienza individuale rappresenti l’ultima istanza, cioè quella
decisiva.
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2 Riconoscimento e consenso
Gli autori moderni ritengono che il riconoscimento ed il consenso siano il presupposto per la
validità di un ordinamento normativo.
Il fenomeno del riconoscimento, però, non scaturisce necessariamente dalla coscienza
individuale, cioè dalla piena condivisione della norma, ma può derivare anche da altre motivazioni,
quale, ad esempio, la paura delle conseguenze di una trasgressione.
Hegel considera il riconoscimento come un atto logicamente necessario, a cui non ci si può
sottrarre a proprio piacere; in altri termini il riconoscimento sarebbe dettato, su base logica, dalla
necessità di evitare l’anarchia.
Le moderne teorie, tra cui quella “sistemica”, rappresentata in Germania da Luhmann,
ritengono che in una società complessa l’ordinamento giuridico funziona solo se chi lo deve
riconoscere è inglobato egli stesso nel sistema, nel senso che prende parte attivamente alla
formazione delle leggi. Il grave difetto di questa teoria è che essa prevede il riconoscimento di un
ordinamento giuridico indipendentemente dal contenuto delle sue norme, per cui si potrebbe
arrivare a concepire anche dei sistemi illegali, come avveniva nei campi di concentramento nazisti.
Tra le teorie del consenso va ricordata, in primo luogo, “la dottrina della giustizia” di Rawls.
Essa prevede che siano assicurate a tutti la libertà, ma che i soggetti ignorino in quale posizione
giuridica verrebbero a trovarsi, in un futuro ordinamento, per i loro comportamenti.
Sulla base di queste ipotetiche forme comportamentali si potrebbero poi formulare diritti,
doveri e regole piuttosto convincenti e condivisi.
La teoria di Rawls non è condivisibile perché parte da un presupposto fittizio, cioè da una
condizione originaria di piena libertà per tutti; il che è fuori dalla realtà storica.
Habermas sostiene, invece, che il consenso si può ottenere attraverso la via della
comunicazione, cioè attraverso un discorso pratico, che convinca i cittadini sulla giustizia delle
norme. Così facendo, però, si corre il rischio che la giustizia del consenso sia determinata dalle
caratteristiche formali del discorso, piuttosto che dal contenuto delle norme.
Probabilmente le difficoltà restano nonostante l’autore pensi di dare a tutti pari opportunità
di partecipare al dialogo e di esprimere il proprio punto di vista. Questo criterio potrebbe funzionare
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solo in uno Stato di diritto, dove la validità dell’ordinamento giuridico trova sostegno nel consenso
dei cittadini.
In conclusione questa teoria non riesce a conseguire né un vero e proprio riconoscimento da
parte di coloro che sono giuridicamente obbligati né un vero e proprio consenso da parte di coloro
che partecipano al discorso.
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3 Diritto e coscienza
3.1
L’analogicità del diritto con la persona e con la coscienza.
Il consenso nei confronti di una norma da parte di coloro che sono giuridicamente obbligati
dipende essenzialmente dal contenuto della norma ed, in misura minore, anche dalla sua correttezza
formale. In linea di massima il contenuto di una norma è condiviso sempre che sia motivato da
ragioni di equità e/o di giustizia.
Alla formulazione di una norma, riconosciuta giusta sul piano del contenuto, si può giungere
solo attraverso un discorso, sostenuto da argomentazioni valide e condivise.
La teoria del discorso ha dunque una sua validità a condizione che il discorso non sia solo
ideale, ma reale e che si svolga, a livello di contenuto, intorno ad un “tema” o un “oggetto” ben
preciso. L’oggetto del discorso in ambito normativo non è qualcosa di sostanziale né qualcosa di
funzionale, ma qualcosa di relazionale. In pratica l’oggetto del discorso è l’uomo nei suoi rapporti
relazionali con gli altri uomini e con le cose. Pertanto un ordinamento giuridico è condiviso e
riconosciuto quando assicura ad ognuno quello che gli compete come persona, cioè i diritti
fondamentali. Al fine di evitare equivoci è bene ribadire che per “persona” si intende l’uomo in
relazione con gli altri uomini e col mondo delle cose; egli, pertanto, non può disporre di sé
arbitrariamente, nel senso che ogni suo comportamento va valutato nell’ambito dei suoi rapporti
intersoggettivi.
L’uomo, inoltre, è dotato di una coscienza, che è in grado di valutare se le azioni ed i
comportamenti sono rispondenti ai valori universali di umanità e di moralità. Un diritto, valido,
pertanto, deve essere analogo all’uomo; il che significa che un ordinamento per essere condiviso e
riconosciuto non deve apparire estraneo alla coscienza umana.
3.2
Conseguenze di una teoria personale della validità giuridica
Il diritto penale contiene una marea di leggi tecnico-burocratiche e politico-finanziarie che
hanno un riflesso molto debole nella coscienza dei cittadini. Bisognerebbe limitare il diritto a quelle
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norme che hanno una possibilità effettiva di essere accettate nella coscienza dei cittadini. Solone
diceva che le leggi non si devono esporre troppo in alto perché nessuno le possa leggere e che il
diritto deve pretendere ciò che da tutti, anche dai più mediocri, possa essere accettato e messo in
atto con la maggiore uniformità possibile. L’eccessiva proliferazione di leggi in diritto penale ha
spinto i giuristi a studiare con attenzione il problema.
Jellinek ha definito il diritto come un “minimo etico”, volendo dire che il diritto penale si
deve limitare nell’ambito della morale elementare, elaborando norme che possano essere da tutti
accettate e riconosciute. Appartengono alla “morale elementare”, tanto per fare qualche esempio, le
norme relative al divieto di uccidere, di rubare, di ingannare e di violentare. Le norme che
sanzionano reati del genere sono certamente accettate dalla coscienza di chiunque, ma quelle che
richiedono un livello di eticità più sottile ed elevato non sono generalizzabili, per cui la loro
osservanza è affidata alla sensibilità delle singole persone. La Chiesa Cattolica, ad esempio,
condanna l’interruzione di gravidanza, ma questa norma non è generalizzabile, per cui il diritto non
può sanzionare quella donna che decidesse di abortire. A questo punto va ribadito che “la colpa
giuridica” è separata dalla colpa morale e che i doveri morali, cioè i doveri che coinvolgono la
coscienza, non vanno confusi con i doveri giuridici. In ogni caso poiché la colpevolezza penale è
anche colpa morale, si farebbe bene a limitare il diritto penale unicamente a quelle norme morali su
cui tutti si trovano d’accordo. Nell’ambito di questa moralità elementare, identificata nel “minimo
etico”, la coscienza può formulare un vero e proprio giudizio di colpevolezza. Bisogna tuttavia
precisare che in un sistema rappresentativo la coscienza individuale è sostituita dalla coscienza
collettiva del legislatore e della giurisprudenza.
In altri termini il giudice (coscienza giuridica) può anche formulare un giudizio che metta in
dubbio norme giuridicamente valide, come nel caso del demente che uccide o del medico che, dopo
accurate ricerche, rinunci alla rianimazione di un ferito grave, privo di conoscenza.
Da quanto esposto si desume che diritto e coscienza non si possono ridurre allo stesso
denominatore, ma non devono neppure essere del tutto separati se si vuole che l’ordinamento
giuridico davvero funzioni.
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