INSEGNAMENTO DI FILOSOFIA DELLA COMUNICAZIONE E DEL

INSEGNAMENTO DI
FILOSOFIA DELLA COMUNICAZIONE E DEL LINGUAGGIO
LEZIONE I
“DEFINIRE LA COMUNICAZIONE”
LOREDANA LA VECCHIA
Università Telematica Pegaso
Definire la comunicazione
Indice
1
INTRODUZIONE ALLA DISCIPLINA----------------------------------------------------------------------------------- 3
2
CHE COS’È LA COMUNICAZIONE? (PRIMA PARTE) ------------------------------------------------------------ 6
2.1.
LA COMUNICAZIONE TRA GLI ANIMALI DIVERSI DALL’UOMO ---------------------------------------------------------- 7
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 12
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Definire la comunicazione
1 Introduzione alla disciplina
Con questo paper prende avvio il mio corso di Filosofia della comunicazione e del
linguaggio.
In prima battuta, credo sia utile definire cosa essa sia e anche chiarire di cosa essa si occupi.
Come potete constatare, la denominazione del corso congiunge concettualmente due ambiti ben
precisi della ricerca anche se non è necessario1 in senso stretto che ciò avvenga. Si possono infatti
indagare la comunicazione e il linguaggio in modo separato, si pensi, ad esempio, alla scuola di
Palo Alto – con Watzlawick, Bateson, Jackson – indirizzata verso il fenomeno comunicazione, ma
nell’accezione pragmatica, ossia intendendolo soprattutto come sistema d’azione, una forma di
scambio sociale dove predominante, per la ricerca, diventano, più che le lingue usate dai parlanti, o
i sistemi segnici, o le regole sintattiche e formali o i problemi semantici, il comportamento. E
sull’altro versante, si pensi a studiosi come Chomsky, interessati a quegli aspetti strutturali,
biologici, mentali di cui ogni parlante è equipaggiato e che, secondo tale prospettiva, non sono
riconducibili alle dimensioni comunicativa, storica e sociale.
Detto questo, per noi, e vengo allo specifico del corso, si tratterà di coniugare le cose
attraverso una chiave di lettura precisa: la filosofia. Allo scopo, credo sia importante fare un rapido
cenno a quello che possiamo definire l’approccio filosofico ai problemi, giusto per comprendere
cosa in generale si fa in filosofia quando si indagano i fenomeni.
La filosofia, per dirla con Remo Bodei (2001) “è il grande sforzo per orientarci nel mondo”
“è una continua ricerca”, “ci permette di avere una possibilità di dare senso al mondo”, e compito
del filosofo è sostanzialmente chiedersi se qualcosa esiste. A tal proposito, torna utile ricordare le
affermazioni di un altro dei grandi filosofi viventi, Thomas Nagel (1987, tr. it. 1988, pp. 7-8). “Il
principale interesse della filosofia è mettere in questione e comprendere idee assolutamente comuni
che tutti noi impieghiamo ogni giorno senza pensarci sopra. Uno storico può chiedere cosa è
accaduto in un cerrto tempo del passato, ma un filosofo chiederà ‘Che cos’è il tempo?’. Un
matematico può studiare la relazione tra i numeri, ma un filosofo chiederà ‘Che cos’è un numero?’.
Un fisico chiederà di cosa sono fatti gli atomi o cosa spiega la gravità, ma un filosofo chiederà
come possiamo sapere che vi è qualcosa al di fuori delle nostri menti”.
1
Uso il termine “necessario” in senso logico e vale a dire come quella nozione che è vera in ogni mondo possibile,
dunque se qualcosa è necessario, allora quel qualcosa non può non essere che così.
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Il senso di questa citazione è presto spiegabile. Le indagini in merito a se qualcosa esiste
rimandano a questioni d’analisi, sollevano cioè interrogativi del tipo “Che cosa è X?”, in cui il
problema risulta essere la natura dell’ente X o le proprietà che a esso si possono attribuire. E questo
ci porta a concludere che i problemi d’analisi sono prioritari, perché è ben difficile trovare qualcosa
– mettiamo un fungo rosso – senza sapere cos’è un fungo rosso. Questo vale anche nel caso della
comunicazione e del linguaggio.
Eppure le cose non sono così pacifiche. Vediamo perché. Rispondendo all’interrogativo
“che cosa è X” o, usando l’esempio di poc’anzi, “Che cos’è un fungo rosso?”, si potrebbe supporre
e dare per scontato che vi sia almeno un fungo rosso, ma non vi è niente di più sbagliato di una tale
conclusione. Non è detto infatti che rispondendo alla domanda “Che cos’è un fungo rosso?” si sia
autorizzati a presupporre che esista almeno un fungo rosso. Un altro esempio per capire. Se chiedo
“Che cos’è una sirena?”, dalla risposta che si tratta di un essere metà donna e metà pesce, il cui
canto può far impazzire le persone, non segue che nel mondo fisico vi sia una sirena o che possa
capitare di incontrarne una realmente. Piuttosto, la risposta indica il possesso del concetto “sirena”.
Ora, l’analisi a cui facevo cenno riguarda proprio i concetti.
Lavorare da un punto di vista
filosofico equivale “a trovare strade per orientarsi nel mondo concettuale, per chiarire i rapporti tra i
concetti” (Penco, 2006, p. 5).
L’apparato teorico di riferimento con cui affronteremo i nostri oggetti di studio –
comunicazione e linguaggio – sarà quindi questo. Cercheremo pertanto di capire quale sia il
significato dei termini “comunicazione” e “linguaggio”, cosa li rende possibile a livello di
condizioni empiriche, ma anche cosa è concettualmente costitutivo dei due fenomeni, cioè cosa li
rende tali e ce li fa classificare e riconoscere appunto come comunicazione e linguaggio e non, tanto
per intenderci, come frutta e verdura.
Aggiungo anche che un’impostazione così fatta è collegata ad una precisa tradizione
filosofica, quella analitica. In breve, la filosofia analitica si caratterizza per:
- una cura particolare che si riserva all’argomentazione (quindi rigore formale, scelta
puntuale e circoscritta degli argomenti, presentazioni delle ragioni che sostengono tesi e teorie) e un
certo fastidio che si prova per le argomentazione scorrette o contraddittorie (il filosofo analitico non
prescinde dallo studio della logica);
- ricerca del significato di concetti o enunciati;
- l’importanza assegnata a tutto ciò che proviene dalla scienza;
- lo studio di temi centrali della filosofia quali metafisica, ontologia, teoria della conoscenza.
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È bene tenere a mente queste specificazioni in quanto tutta la riflessione contemporanea in
filosofia del linguaggio viene convenzionalmente fatta partire con la pubblicazione, nel 1892, di
Senso e denotazione da parte di Frege, e Frege – considerato, nella storia, tra i più grandi logici – ha
appunto avuto un ruolo importantissimo nello sviluppo della filosofia analitica, nonché della
filosofia del linguaggio.
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2 Che cos’è la comunicazione? (prima parte)
Entriamo ora nello specifico della nostra indagine, cercando di dare una risposta al quesito
“Che cos’è la comunicazione?”.
Ad un primo livello possiamo servirci della definizione più accreditata tra biologici ed
etologi secondo i quali la comunicazione è quel fenomemo comprendente una serie di
caratteristiche fisiche (i colori sgargianti di un piumaggio, per esempio) e comportamentali
(digrignare i denti, per esempio) che agiscono come stimolo-segnale su soggetti della stessa specie,
provocando, in risposta, un comportamento adattativo. Come è facile intuire, tale definizione ben si
giustifica se si guarda alla comunicazione in un’ottica di dispositivo innato, ossia determinato dal
processo evolutivo che ne vincola e ne condiziona il controllo. Restando a questo livello, la
questione importante che bisogna mettere a fuoco è che risulta del tutto irrilevante se chi produce ed
esibisce un comportamento comunicativo controlli intenzionalmente i suoi segnali (Tomasello,
2008, tr. it. p. 25). Voglio dire, l’individuo che, ammettiamo, per spaventarne un altro aprisse una
cresta dorsale o che per accoppiarsi sfoggiasse una bellissima coda rossa potrebbe non sapere di
possedere tali apparati e nemmeno di star influenzando l’altro. Egli cioè funziona essenzialmente
come una fonte di informazioni per l’altro e i suoi segnali consistono in un repertorio altamente
codificato e stereotipato.
Non è così, evidentemente, per la comunicazione intenzionale, ossia in quel genere di
comunicazione in cui gli individui scelgono e producono segnali (sarebbe più giusto dire “segni”, al
momento però si passi il termine usato) a seconda delle circostanze, in modo flessibile, plastico,
direi anche creativo, e secondo scopi ben precisi.
In generale, si può affermare che maggiore è il grado di complessità raggiunto dalle diverse
specie animali, maggiore sarà il grado di libertà di cui esse godono rispetto ai vincoli biologici
(Frignani, Rizzati, 2003, p. 17). La comunicazione intenzionale è, in tal senso, appannaggio di
pochi primati non umani (le grandi scimmie antropomorfe) ma è all’uomo che essa appartiene in
assoluto.
Schematicamente per poter parlare di “intenzionalità”, bisogna che la situazione
comunicativa presenti le seguenti caratteristiche: l’informazione trasmessa da un agente – diciamo
A – influisce sul comportamento di un secondo agente – diciamo B – in quanto quest’ultimo è
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capace di rappresentarsi A come soggetto portatore di uno scopo, un soggetto cioè che agisce,
attraverso la comunicazione, avendo un qualche fine.
Ora, quello che emerge da numerosi studi è che specie animali diverse dalla nostra sono
prive della capacità di riconoscere lo scopo seguito da un altro individuo (ovviamente,
conspecifico). Ad esempio, Bernd Heinrich (biologo, esperto di comportamento e cognizione
animale)
ha messo alla prova un gruppo di corvi, allevati in voliera, attraverso il seguente
esperimento. Lo scienziato legò ai loro posatoi dei pezzetti di carne, con un filo di spago
sufficientemente lungo da impedire che l’animale potesse afferrarlo con il solo gesto del protendere
il becco. Naturalmente, i corvi tentarono di afferrare il cibo volando a mezz’aria, ma nessuno di essi
vi riuscì e dopo un po’ iniziarono a ignorare l’offerta. A distanza di sei ore però un corvo trovò il
modo di impossessarsi del boccone di carne, risolvendo il problema: con il becco tirò a sè,
fermandolo con la zampa, lo spago, e proseguì fino a quando il cibo fu tirato sul posatoio. Nei
giorni successivi, anche gli altri animali risolvettero il problema (uno, in verità, non vi riuscì), ma
ognuno lo fece secondo una soluzione individuale nonostante avessero avuto, tutti e 5, la possibilità
di osservare e pertanto imparare dagli altri (citato in Gould e Gould, 1998, trad. it. 1999, p. 65).
Come si diceva, i corvi in questione non sono stati capaci di prefigurarsi il fine seguito, attraverso i
movimenti fatti, dal loro compagno, non hanno cioè saputo riconoscerne il senso, dimostrando così
quanto sia difficile poter parlare di “significati condivisi” nelle altre specie. E a ragione di questa
considerazione esaminiamo, più nel dettaglio, cosa ci dicono alcuni studi condotti sulla
comunicazione di altri animali non umani.
2.1.
La comunicazione tra gli animali diversi dall’uomo
Tra gli insetti, il sistema comunicativo esibito dalle api è fra i più interessanti. Come è noto,
esse vivono in società gerarchizzate, con, al loro interno, una distribuzione dei ruoli ben precisi.
Alcuni soggetti (le api esploratrici), ad esempio, si devono occupare della ricerca del cibo e quando
viene trovato rientrano al proprio alveare, coinvolgendo così altri membri per il recupero dello
stesso (Nespor, Napoli, 2004, p. 185). A questo punto, per poter trasmettere l’informazione circa la
localizzazione della fonte, le esploratrici si servono di due tipi di danza: quella circolare e quella
dell’addome (viene anche definita “scodinzolante a otto”).
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Grazie alle ricerche di tutta una vita dell’etologo, insignito del Nobel in Fisiologia nel 1973,
Karl von Frisch (1950, tr. it. 1976, passim) sappiamo che la prima è usata semplicemente per
avvertire le compagne dell’alveare che il cibo è nelle vicinanze, la seconda, molto più complessa,
viene usata quando il cibo si trova oltre il raggio dei 100 metri. Con quest’ultima, in special modo,
vengono fornite informazioni molto più circostanziate e precise circa la direzione della fonte e la
qualità del cibo. Per indicare la direzione, l’ape effettua un movimento rettilineo, oscillando
freneticamente il tratto addominale del corpo, dopodiché compie un’evoluzione circolare verso
sinistra, ripete il movimento rettilineo, ripercorrendone il breve tragitto, quindi compie un’altra
evoluzione circolare ma questa volta verso destra. Tale ciclo viene proposto di seguito numerose
volte ed è in base all’orientamento assunto dalla testa dell’insetto, durante il percorso in linea retta,
che viene indicata la direzione del cibo: se la testa dell’ape è rivolta verso l’alto, le altre
decodificano “volare in direzione del sole”, se invece è rivolta verso il basso, voleranno in direzione
opposta al sole, in tutti gli altri casi voleranno con un’angolazione uguale a quella che l’ape
esploratrice ha seguito inclinando la testa o più verso sinistra o più verso destra, angolazione che
corrisponde a quella formata tra la retta (immaginaria) che congiunge il sole all’alveare e la retta
(sempre immaginaria) che congiunge l’alveare al cibo. Sebbene questi dati fanno concludere che di
certo le api hanno, nel corso dell’evoluzione, sviluppato un sistema comunicativo assai raffinato,
basato su una rappresentazione simbolica dell’informazione di tipo arbitrario2 e su un certo grado di
astrazione3 (caratteristiche, come vedremo, presenti anche nel sistema comunicativo umano), resta il
fatto che pure in questo caso ci troviamo di fronte ad una situazione tutto sommato rigida e
fortemente limitata. La comunicazione, infatti, è volta semplicemente al passaggio di
un’informazione, non esiste, per così dire, una forma di dialogo tra le api. L’atto comunicativo si
chiude nel momento stesso in cui l’esploratrice informa le compagne, non c’è spazio, si vuole dire,
per una qualche risposta, così come non c’è possibilità di riferirsi ad un’informazione precedente
per crearne una nuova (cfr. Benveniste, 1974, tr. it. 1985).
E a quanto pare non va meglio se prendiamo in considerazioni animali più prossimi
all’uomo.
2
La relazione che unisce un segnale/segno al suo significato si definisce “arbitraria”quando non c’è una motivazione
specifica che imponga la loro corrispondenza. Per esempio, nel caso della danza delle api, il significato “cibo nelle
vicinanze” poteva ben essere rappresentato con un tipo di segnale diverso da quello a cerchio così come, per quanto
riguarda la nostra specie, non c’è nessuna ragione particolare per la quale noi italiani usiamo la parola /cane/ per
indicare il cane.
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I cercopitechi dell’Africa orientale, in particolare, sono stati a lungo studiati soprattutto da
quando Thomas Struhsaker (primatologo comportamentista), negli anni sessanta dello scorso
secolo, riferì che essi emettono richiami diversi a seconda delle diverse circostanze che impattano.
Le loro grida di allarme, in effetti, cambiano in funzione del tipo di predatore avvistato, hanno, vale
a dire, un sistema di richiami specifici: emettono suoni con diversa intensità (forte, corto,
acuto/stridente) in presenza di leopardi, acquile e serpenti (Seyfarth, Cheney, 1992, tr. it. 1993);
mentre quando avvistano un altro gruppo di scimmie emettono un lungo suono vibrante (indicabile
con l’espressione “wrr”) e se tra i gruppi si innesca una certa aggressività, che conduce a lottare, il
suono si fa aspro (indicabile con l’espressione “chutter”) (Ivi, p. 71). Rispetto al segnale, inoltre, le
altre scimmie si comportano di conseguenza, rispondono cioè adeguatamente alla situazione
prospettata – mettono in atto la strategia di fuga adeguata, ad esempio, al richiamo “allarme
leopardo” fuggono tra gli alberi.
Ora, in relazione proprio a questi dati, Robert Seyfarth e Dorothy Cheney hanno condotto
una serie di ricerche per verificare fino a che punto si possa parlare di “comunicazione” in tali
animali, detto altrimenti, i due ricercatori hanno vagliato se vi fossero le condizioni per attribuire
loro una qualche capacità di riconoscere gli stati mentali altrui, rappresentandosene intenzioni,
conoscenze, emozioni e pensieri.4 “Noi volevamo sapere se le scimmie siano in grado di distinguere
tra le proprie convinzioni e la conoscenza e le convinzioni degli altri individui, e se compiano
particolari operazioni per informare un individuo della sua ignoranza o per correggere una sua falsa
convinzione” (Ivi, p. 72).
In sintesi, le loro osservazioni, effettuate in Kenia e con l’ausilio di esperimenti messi a
punto allo scopo, hanno portato a concludere che i richiami dei cercopitechi funzionano in modo
referenziale, hanno cioè un rimando semantico, essendo dei segnali che danno una rappresentazione
di quanto accade (dunque non sono decodificati in base alle sole proprietà fonetiche), eppure solo in
un senso molto ampio si possono accostare alle nostre parole. Il perché è presto spiegabile. Sebbene
i richiami siano usati e compresi in modo selettivo, non c’è manifestazione di alcuna flessibilità
nelle emissioni dei suoni né, cosa ancora più rimarchevole ai nostri fini, di una intenzione
comunicativa. Nello specifico: sulle loro grida, hanno una capacità di controllo volontario molto
3
La capacità di riferirsi a qualcosa che al momento della comunicazione non sia concretamente presente viene, appunto,
indicata con il concetto di “astrazione”. Nel caso delle api vi è astrazione in quanto mentre viene eseguita la danza, il
cibo non è presente. Nell’uomo tale capacità raggiunge i vertici più alti e la sua più alta espressività.
4
Rappresentarsi gli altri, nel senso espresso, equivale, secondo un approccio psicologico, a possedere una “Teoria della
mente” (più avanti si definiranno, in modo puntuale, le caratteristiche della stessa).
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limitata; non vi è creatività nell’elaborazione del messaggio, i cercopitechi, si vuole dire, come del
resto le altre scimmie, hanno un uguale registro vocalizio; non c’è adattamento alla situazione, i
richiami cioè sono prodotti in risposta di un’urgenza percepita (il predatore, la lotta, il cibo) ma
senza che vi sia considerazione e valutazione di quanto, a seguito del richiamo, accade tra i
riceventi (Tomasello, op. cit., pp. 27-28). Per quest’ultimo aspetto la prova è data dal fatto
(osservato) che, ad esempio, anche quando tutti i compagni hanno trovato riparo, l’emittente – il
soggetto che emette il segnale – continua il suo richiamo e, sempre a riprova, possiamo citare le
situazioni in cui gli adulti non correggono i comportamenti errati dei propri cuccioli o non si
preoccupano di intervenire nel caso in cui uno dei piccoli non abbia percepito il richiamo d’allarme
lanciato e quindi corre dei seri rischi (Seyfarth, Cheney, op. cit., pp. 72-74).
In buona sostanza, i membri del gruppo acquisiscono informazioni su quanto sta accadendo
nel loro contesto, grazie al fatto di aver uditivamente percepito l’emissione sonora e non per il fatto
che l’emittente si sia consapevolmente rivolto al gruppo per avvisarlo. I riceventi, d’altro canto,
accolgono il segnale dato alla stregua di un fenomeno che, quando si verifica, ne annuncia un altro:
più che di un’abilità comunicativa, dunque, si tratterebbe dell’abilità cognitiva di dare una
valutazione alla situazione che si è creata (Tomasello, op. cit. pp. 29-30).
Da quanto finora detto, appare chiaro che i sistemi di comunicazione animale solo con
grande approssimazione possono essere raffrontati a quello umano. Lo scarto più evidente è
costituito dal fatto che nell’uomo la comunicazione presuppone un requisito che manca alle altre
specie (almeno per quanto attualmente sappiamo). Tale requisito, come si accennava, consiste nella
comprensione dell’intenzionalità, della causalità e degli stati mentali altrui (tutto ciò si definisce con
l’espressione avere una Teoria della mente) da esso, inoltre, gli studiosi fanno discernere la nostra
capacità di servirci di un linguaggio simbolico articolato.
Tomasello elenca tutta una serie di caratteristiche che mancano ai primati non umani e che
invece occorrererebbe avere per essere, appunto, considerati animali dotati di una Teoria della
mente. Nello specifico, egli sottolinea (2000, p. 170) che “allo stato di natura essi: non indicano agli
altri, né compiono gesti per farlo, oggetti esterni; non espongono oggetti per mostrarli agli altri; non
cercano di condurre un altro individuo in un posto per mostrargli qualcosa che lì si trova, non
offrono attivamente oggetti agli altri; non insegnano nuovi comportamenti agli altri. Essi non fanno
tutte queste cose, a mio parere, perché non si rendono conto che il conspecifico ha stati intenzionale
e mentali potenzialmente influenzabili. Pertanto l’ipotesi più plausibile è che i primati non umani
colgano i conspecifici come essere animati capaci di movimenti spontanei – in effetti, questa è la
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base per il loro accordo sociale in generale e comprensione dei rapporti di parti sociali terze in
particolare – ma essi non colgono gli altri come agenti intenzionali nel processo di perseguire uno
scopo”.5
In definitiva possedere i comportamenti appena descritti significa essere capaci di strutturare
una comunicazione di tipo simbolica, basata cioè su segnali simbolici, dunque sul linguaggio
(quello che effettivamente facciamo noi specie sapiens).
5
La traduzione italiana è mia.
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Bibliografia
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(consultata il 29/08/2011).
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• Tomasello, M. (2008), Le origini della comunicazione umana, tr. it. di S. Romano, Milano,
Raffaello Cortina Editore.
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