commercio internazionale – prima parte

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“COMMERCIO INTERNAZIONALE – PRIMA PARTE”
PROF. MATTIA LETTIERI
Università Telematica Pegaso
Commercio internazionale – prima parte
Indice
1
IL COMMERCIO INTERNAZIONALE ---------------------------------------------------------------------------------- 3
1.
LE TEORIE SUL COMMERCIO INTERNAZIONALE -------------------------------------------------------------- 8
2
LE RAGIONI DEL PROTEZIONISMO --------------------------------------------------------------------------------- 11
3
IL FUNZIONAMENTO DEL MERCATO DEI CAMBI ------------------------------------------------------------- 15
4
I SISTEMI DI CAMBIO ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 21
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Il commercio internazionale
Fino ad ora abbiamo mantenuto come semplificazione che il sistema economico fosse
chiuso, ovvero che non avesse relazioni economiche di alcun tipo con gli altri paesi.
Questa ipotesi poteva essere, forse, realistica in epoche passate quando i paesi producevano
al loro interno tutto ciò che era necessario alla sopravvivenza delle proprie popolazioni.
Oggi non è più così: siamo abituati a guidare auto straniere, mangiare cibi esotici, ad
utilizzare elettrodomestici provenienti da altri paesi.
Inoltre, molti beni che hanno un marchio italiano possono essere stati prodotti utilizzando, in
tutto o in parte, materiali fabbricati all’estero.
Con il passare del tempo beni e servizi che sono a disposizione dei consumatori italiani ma
che vengono prodotti e forniti da altri paesi è cresciuto notevolmente, ovvero il totale delle nostre
importazioni.
Questo vale anche per le esportazioni, prodotti italiani venduti all’estero.
La maggior parte delle economie, oggi, sono delle economie aperte, ovvero effettuano
scambi economici con il resto del mondo.
L’intensificarsi delle relazioni economiche internazionali ha contribuito a determinare lo
sviluppo dei paesi industrializzati ma ha anche arrecato qualche problema, infatti la forte
dipendenza reciproca fra i diversi paesi fa sì che crisi economiche che colpiscono gli Stati Uniti o il
Giappone abbiano ripercussioni anche i Italia o in Germania.
Il massimo sviluppo degli scambi internazionali e l’elevato grado di interdipendenza si è
registrato a partire dal secondo dopoguerra, si tratta, quindi, di un fatto recente nella storia
dell’economia.
Teorie a favore degli scambi internazionali erano, però, già state avanzate. Infatti, risale
all’epoca dei mercantilisti, XVI secolo, l’opinione che le esportazioni rappresentassero un fattore
indispensabile di ricchezza e di potenza per un paese poiché permettevano di accumulare oro e
metalli preziosi in cambio di merci esportate.
Però, i mercantilisti non erano favorevoli ad uno sviluppo generalizzato del commercio
internazionale, ma, al contrario, essi ritenevano che i governi dovessero favorire le esportazioni ma
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nello stesso tempo scoraggiare e limitare le importazioni, poiché, quest’ultime dovendo essere
pagate con oro non facevano altro che ridurre le ricchezze di un paese.
La formulazione di una teoria vera e propria del commercio internazionale si deve a David
Ricardo con la sua teoria dei vantaggi comparati, o teoria dei costi comparati, formulata nel 1817.
Il punto centrale della teoria è che ogni paese può trarre vantaggio dal commercio
internazionale, poiché gli scambi:

Favoriscono la specializzazione produttiva;

Permettono una maggiore produzione a livello mondiale;

Consentono un miglioramento del tenore di vita delle popolazioni.
Perché ciò avvenga non è necessario che un paese goda di un vantaggio assoluto rispetto ad
un altro paese nella produzione di un determinato bene, ma è sufficiente che il vantaggio sia
comparato, ovvero che il paese sia relativamente più efficiente.
Chiariamo meglio questo concetto con un esempio.
Consideriamo due paesi, ad esempio, Inghilterra e Portogallo, nella produzione di due
diversi beni, ad esempio, vino e tessuto.
Ing
hilterra
Por
togallo
o
Ore di lavoro necessarie per la produzione di un'unità
vin
totale senza
totale con gli
tessuto
scambi
scambi
12
2
1
0
90
10
80
1
1
70
80
50
40
3
3
60
20
Figura n. 82
Per produrre una unità di ciascuno dei beni, i due paesi impiegano un diverso ammontare di
lavoro e il costo dei beni è misurato dal lavoro necessario a produrre i beni stessi.
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Quindi, ad esempio, per produrre una unità di vino e una unità di tessuto, l’Inghilterra
impiega complessivamente 210 ore di lavoro mentre in Portogallo ne occorrono 150.
Il Portogallo è più efficiente in senso assoluto rispetto all’Inghilterra, poiché impiega
quantità di lavoro inferiori in entrambi i casi. Anche se l’Inghilterra è meno efficiente in entrambe
le produzioni, la sua inefficienza è minore nella produzione di tessuto poiché la differenza in
termini di impiego di lavoro è inferiore nel caso del tessuto, 10 ore di lavoro in più, rispetto alla
produzione di vino, dove occorrono 50 unità in più di quelle necessarie in Portogallo.
In termini relativi o comparati, si può dire che il vantaggio di produttività del Portogallo è
maggiore nel caso della produzione di vino, mentre l’Inghilterra ha un vantaggio relativo nella
produzione di tessuto.
Ricardo dimostrò che, in questa situazione entrambi i paesi possono trarre vantaggio dalla
specializzazione, in particolare dedicandosi alla produzione del bene di cui godono il più elevato
vantaggio comparato.
Per cui, per l’Inghilterra è conveniente specializzarsi nella produzione di tessuto che n parte
consumerà al suo interno e in parte esporterà in Portogallo, mentre il Portogallo specializzandosi
nella produzione di vino può produrre due unità di questo bene con un risparmio di 10 unità di
lavoro.
L’ammontare complessivo di beni a disposizione dei due paesi è lo stesso, 2 unità di vino e
2 di tessuto, ma attraverso la specializzazione e lo scambio, i due paesi realizzano un risparmio di
lavoro pari a 40 unità che potranno essere utilizzate per produrre altre quantità di beni.
La teoria dei vantaggi comparati dimostra che è sufficiente che vi sia un vantaggio
comparato di produzione indipendente dal vantaggio assoluto.
La specializzazione e il libero scambio permettono di migliorare il tenore di vita di ciascun
paese e di incrementare la produzione mondiale.
Nella realtà il commercio internazionale non si limita allo scambio di due beni tra due paesi ,
ma è più complesso.
Tuttavia i risultati delle teoria ricardiana dei vantaggi comparati possono essere estesi anche
a casi più realistici di scambio di più beni fra più paesi.
Sarà sempre possibile, per ciascun paese definire una sorta di graduatoria dei vantaggi
comparati di cui esso gode rispetto agli altri e sulla base della quale potrà decidere in quale
produzione specializzarsi.
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Se il libero scambio e la concorrenza favoriscono la specializzazione e permettono a ciascun
paese di realizzare maggiori benefici grazie ad un so più efficiente delle risorse, allora tutti i paesi
dovrebbero cercare di favorire in ogni modo il libero scambio.
Tuttavia, nella realtà, questo non sempre accade. Molto spesso i paesi mettono in atto
politiche, dette protezionistiche, che non solo non favoriscono il libero scambio, ma svolgono la
funzione contraria.
Questo non vuol dire che la teoria dei costi comparati non sia valida, ma solo che alcune
delle sue assunzioni non sono del tutto realistiche.
Una delle ipotesi più discusse è quella relativa alla perfetta mobilità dei fattori all’interno di
un paese.
Una delle caratteristiche principali dell’economia perfettamente concorrenziale è che i
fattori produttivi possono essere facilmente spostati da una produzione all’altra e che non vi
possono essere risorse inutilizzate perché in base al modello della domanda e dell’offerta, la loro
remunerazione si aggiusta garantendone il pieno impiego.
Una ulteriore ipotesi fatta da Riccardo era che non vi fosse alcuna mobilità dei fattori tra i
diversi paesi. Se guardiamo alle economie attuali, queste assunzioni potrebbero non essere del tutto
valide, in quanto sembra accadere il contrario rispetto a quanto ipotizzato dalla teoria ricardiana.
La perfetta mobilità dei fattori all’interno di un paese può non essere sempre facilmente
praticabile, soprattutto quando interessa lavori molto specializzati che richiedono qualificazioni
professionali di un certo tipo o macchinari ed impianti specifici che non possono essere riadattati
facilmente per essere utilizzati in altri tipi di produzione.
Nei sistemi economici attuali la mobilità dei fattori, al contrario, è molto frequente.
Un altro limite è che la teoria ricardiana del commercio internazionale parte dal presupposto
che vi sia una differente produttività del lavoro all’interno dei diversi paesi ma non spiega perché vi
sono queste differenze.
L’obiezione più importante è: secondo molti autori, il libero scambio, così come formulato
dalla teoria dei vantaggi comparati, costringerebbe i paesi più arretrati a restare in una situazione di
sottosviluppo e di eterna dipendenza nei confronti dei paesi sviluppati.
Infatti, stando all’ipotesi della teoria ricardiana, i paesi già industrializzati avrebbero un
vantaggio comparato nei settori industriali che richiedono un elevato grado di specializzazione e di
tecnologia mentre i paesi più arretrati manterrebbero un vantaggio comparato in quelli più
tradizionali, come l’agricoltura o il settore minerario.
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Difficilmente un paese arretrato potrà trovarsi in condizioni di competere con i paesi
industrializzati nei settori più innovativi, di conseguenza il commercio internazionale non solo
favorirebbe il processo di sviluppo dei paesi più poveri ma li condannerebbe ad una condizione
irreversibile di sottosviluppo e di dipendenza nei confronti dei paesi economicamente più
sviluppati.
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1. Le teorie sul commercio internazionale
Una teoria più recente, che ha cercato di superare alcuni dei limiti della teoria ricardiana, è
stata proposta da Heckscher e Ohlin.
Secondo questi due economisti, la specializzazione raggiunta dai paesi nella produzione di
beni destinati all’esportazione dipende dalla disponibilità relativa di fattori produttivi.
Il fattore produttivo più abbondante in un paese avrà anche un prezzo relativamente più
basso, quindi è conveniente che il paese si specializzi nella produzione ed esportazione di quei beni
che prevedono un maggiore uso di questo bene.
Lo stesso paese avrà, quindi, convenienza ad importare quei beni che vengono prodotti con
un impiego maggiore del fattore relativamente scarso.
Ad esempio, i paesi industrializzati hanno normalmente una disponibilità relativamente
maggiore di capitali, reperibili ad un costo relativamente basso, mentre i paesi meno sviluppati
hanno, normalmente, maggiore disponibilità di manodopera e una relativa scarsità di capitali.
In base alla teoria dei due economisti, i paesi industrializzati avrebbero convenienza a
specializzarsi nelle produzioni di beni ad alta tecnologia che richiedono elevati impieghi di capitale
e uno scarso uso di manodopera, importando, invece, dai paesi più arretrati quei beni che richiedono
un elevato uso di lavoro e necessitano di uno scarso impiego di capitale.
Però, anche questa teoria ha dimostrato di non essere sempre confermata nella realtà.
In base ai risultati di una ricerca condotta da Wassily Leontief hanno smentito tale teoria.
Leontief dimostrò, esaminando i dati relativi al commercio statunitense alla fine degli anni
Quaranta, che contrariamente al modello previsto dai due economisti, gli Stati Uniti risultavano
essere un paese che esportava beni ed elevato contenuto di lavoro ed importava beni con una elevata
quota di capitali, nonostante la loro relativa abbondanza di capitale.
La spiegazione di questo paradosso è nota come paradosso di Leontief e dipenderebbe dal
fatto che la teoria non distingue tra diverse qualificazioni del lavoro.
I prodotti americani esportati contenevano prevalentemente lavoro ad alta qualificazione che
richiede necessariamente anche l’uso di capitali adeguati, mentre il lavoro contenuto nei beni
importati negli Stati Uniti era meno qualificato.
Un’ulteriore critica al precedente modello è che esso non considera il ruolo del progresso
tecnico.
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Le innovazioni tecnologiche permettono di realizzare rendimenti crescenti di scala, o
economie di scala, il che significa che è possibile produrre di più impiegando quantità inferiori di
input. Quindi, è comprensibile che il progresso tecnico sia un elemento fondamentale nel processo
di sviluppo dei paesi, con ripercussioni anche sul commercio internazionale.
La relazione esistente tra innovazione industriale ed esportazioni di un paese è spiegata dalla
teoria del gap tecnologico, elaborata da Posner agli inizi degli anni Sessanta.
Secondo questo teorico i vantaggi comparati che sono alla base del commercio
internazionale dipendono dal vantaggio monopolistico di cui temporaneamente possono godere
alcuni paesi.
La teoria distingue tra i paesi innovatori e i paesi imitatori.
Gli innovatori sono i paesi tecnologicamente più avanzati, dispongono di lavoratori
altamente qualificati, investono in spese di ricerca e sviluppo e hanno maggiore capacità creativa
ed innovativa.
I paesi innovatori sono, quindi, quelli che danno vita a nuovi prodotti e a nuovi processi
produttivi rispetto ai quali, per un certo periodo di tempo, godono di una posizione di monopolio,
ovvero sono gli unici a produrre ed offrire sui mercati questa particolare innovazione.
Gli imitatori, con il passare del tempo, possono acquisire queste nuove tecniche produttive e
produrre a loro volta il prodotto innovativo per il loro mercato interno e per quello internazionale.
Se il paese imitatore può disporre di maggiore manodopera e a basso costo, può accadere
che esso produca ed esporti anche nel paese che ha dato origine all’innovazione.
Il paese innovatore, può, quindi, trovare conveniente destinare capitale e lavoro, alla
creazione di altri nuovi prodotti, acquistando a prezzi più bassi il bene, ormai vecchio, prodotto dal
paese imitatore.
La teoria del ciclo di vita del prodotto è una estensione della teoria del gap tecnologico.
Secondo tale teoria, le produzioni industriali sono caratterizzate dalle seguenti fasi:

L’introduzione sul mercato;

La fase di sviluppo;

La fase di maturazione.
La prima fase corrisponde al momento iniziale in cui un nuovo prodotto viene introdotto sul
mercato.
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In questa fase la scala di produzione è ridotta perché la domanda è limitata e rigida rispetto
al prezzo, poiché si tratta di un nuovo prodotto. Inoltre, il processo produttivo richiede un contenuto
di lavoro altamente qualificato, necessario a perfezionare e introdurre sul mercato il nuovo prodotto.
Nella seconda fase, fase di sviluppo, il prodotto è ormai perfezionato e pronto per
produzioni su larga scala.
La domanda del bene è cresciuta ed è elastica rispetto al prezzo, e nuove imprese sono
interessate alla produzione del prodotto.
La fase di maturazione conclude il ciclo di vita del prodotto.
La produzione, infatti, è ormai standardizzata in quanto il bene non è soggetto a ulteriori
modifiche o innovazioni, vengono utilizzati impianti che consentono produzioni su larga scala,
l’impiego di lavoro qualificato è sempre più marginale e la domanda di mercato è sempre più
estesa.
L’esperienza dimostra che i paesi più ricchi investono più risorse nella ricerca e
nell’innovazione e si specializzano nelle nuove produzioni.
Questi nuovi prodotti, durante la prima fase del ciclo di vita vengono esportati anche nei
paesi meno sviluppati in cui tali processi innovativi non sono attualizzabili per la mancanza di
capitale e lavoro altamente qualificato.
Occorre precisare che i paesi innovatori non sono necessariamente quelli più grandi, infatti,
anche paesi come la Svizzera, l’Olanda o la Svezia sono innovatori in alcuni settori come quello
farmaceutico, chimico e delle telecomunicazioni.
Quando il processo produttivo diventa più standardizzato, la produzione viene introdotta in
un numero maggiore di paesi allo scopo di soddisfare la domanda sia interna sia internazionale.
Solo quando il bene è ormai maturo e standardizzato può essere prodotto ed esportato anche da
parte dei paesi meno sviluppati, che, in questa fase, diventano concorrenziali in termini di prezzo
grazie al basso costo e all’elevata disponibilità di manodopera di cui dispongono.
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Le ragioni del protezionismo
Se gli scambi internazionali arrecano reciproci vantaggi, ciascun paese dovrebbe avere
convenienza a promuovere il commercio internazionale o, perlomeno, a non ostacolarlo. In realtà
non è così.
Molto spesso i governi di tutto il mondo fanno ricorso a politiche commerciali o adottano
vari strumenti con lo scopo di limitare l’importazione di beni da altri paesi ostacolando il libero
scambio.
Il protezionismo consiste in quell’insieme di politiche commerciali che mirano a limitare le
importazioni di prodotti dall’estero con lo scopo di sostenere o proteggere la produzione delle
imprese nazionali.
Il protezionismo può essere attuato tramite diversi strumenti, ricorrendo a :

Dazi o tariffe doganali;

Contingenti o quote all’importazione;

Altre barriere non tariffarie.
I dazi o tariffe doganali sono tributi che vengono pagati sui prodotti importati dall’estero.
Ad esempio, se l’Italia applica un dazio doganale del 10% sull’importazione di televisori dal
Giappone, ciò vuol dire che un televisore giapponese del costo di 500 euro, in Italia sarà venduto al
prezzo di 550 euro.
Poiché il dazio fa aumentare il prezzo dei beni importati è ovvio che la sua introduzione
contribuisce a ridurre l’importazione dei beni tassati, nel nostro esempio i televisori giapponesi, a
vantaggio delle imprese nazionali che producono lo stesso bene.
I contingenti o quote all’importazione consistono in restrizioni quantitative dei beni
importati.
In questo caso, i paesi fissano la quantità massima di un determinato bene che può essere
importata. Tali beni possono essere importati solo con il rilascio di una speciale autorizzazione,
licenza di importazione, che consente di tenere sotto controllo la quantità effettivamente importata
del bene contingentato. Ad esempio, ogni anno l’Italia fissa il numero di motociclette o di
automobili provenienti dal Giappone.
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Esistono, inoltre, barriere non tariffarie di vario genere che rendono difficile l’ingresso di un
bene prodotto dall’estero.
Questo accade, ad esempio, quando si introducono norme sanitarie o tecniche molto
specifiche inerenti alle caratteristiche dei prodotti importati o si richiedono delle formalità
burocratiche molto complesse che scoraggiano l’importazione di prodotti dall’estero.
Non ci sono grosse differenze tra questi strumenti, poiché tutti vanno a vantaggio delle
imprese nazionali e a svantaggio delle imprese estere e dei consumatori.
Confrontiamo gli effetti di un dazio e di un contingente all’importazione.
Consideriamo il caso delle motociclette.
La curva dell’offerta di importazioni di motociclette dal resto del mondo è orizzontale
perché la domanda italiana di questo bene è limitata e non è in grado di incidere sul prezzo
mondiale delle motociclette, ad esempio, è pari a 5.000 euro.
Nel nostro esempio, l’Italia ha uno svantaggio comparato nella produzione di questo bene.
Se non vi fosse la possibilità di scambio con l’estero, domanda e offerta nazionale si
eguaglierebbero in corrispondenza di un prezzo pari a 13.000 euro, molto più elevato rispetto a
quello mondiale, pari a 5.000 euro. Rispetto a questo prezzo i consumatori italiani sarebbero
disposti a domandare complessivamente solo 100 motociclette.
Invece, se esiste la possibilità di libero scambio con l’estero, il prezzo del bene in questione
scende a livello del prezzo mondiale.
I consumatori sanno che a questo prezzo la loro domanda verrà soddisfatta, in parte dalla
produzione nazionale e in parte attraverso le importazioni.
In questa situazione gli effetti di un dazio sono: supponiamo che l’Italia, per proteggere
l’industria nazionale, applichi un dazio molto elevato, ad esempio pari a 3.000 euro,
sull’importazione di motociclette. La curva di offerta mondiale si sposta parallelamente verso l’alto
in corrispondenza di un prezzo pari a 5.000+ 3.00 = 8.000 euro.
Poiché il prezzo è più alto, la domanda dei consumatori diminuisce di 20 unità, passando ad
esempio da 150 a 130, mentre l’offerta nazionale aumenta di 20 unità, passando ad esempio da 50 a
70, le importazioni ammontano ora a 60 unità, 130-70.
L’introduzione di un dazio, provocando un aumento del prezzo delle motociclette, determina
un calo della domanda da parte dei consumatori, un aumento della produzione da parte delle
imprese nazionali e una corrispondente diminuzione delle importazioni.
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Gli effetti provocati da un contingente all’importazione di motociclette sarebbero stati
qualitativamente simili.
Introdurre un contingente vuol dire decidere quale sarà l’ammontare massimo di
importazioni ammesso.
In realtà, una differenza tra i due strumenti esiste.
Tale differenza consiste nel fatto che i dazi costituiscono una entrata per le casse dello Stato,
cosa che non avviene nel caso dei contingenti all’importazione. Se il gettito derivante dalle tariffe
doganali venisse utilizzato, ad esempio. Per ridurre altre imposte, allora i consumatori potrebbero
essere in parte compensati dalla perdita di benessere arrecata dall’introduzione del dazio. In questo
caso, un dazio potrebbe essere relativamente preferibile rispetto all’introduzione di contingenti.
La maggior parte degli economisti non è favorevole all’uso di strumenti protezionistici,
poiché è stato dimostrato che la perdita di benessere subita dai consumatori è comunque superiore
rispetto ai vantaggi che derivano dalla crescita dei profitti da parte dei produttori da un lato e
dall’eventuale aumento delle entrate dello Stato dall’altro.
Un ulteriore svantaggio è legato al fatto che il protezionismo nei confronti delle imprese
nazionali rischia di favorire l’inefficienza, nel senso che molte imprese poco efficienti, che
correrebbero il rischio di fallire di fronte alla concorrenza esterna, restano sul mercato solo grazie al
fatto che l’introduzione di dazi o di contingenti fa sì che i prezzi interni siano più elevati rispetto a
quelli presenti in condizioni di libero scambio.
Infine, l’adozione di politiche commerciali protezionistiche da parte di un paese potrebbe
provocare ritorsioni da parte degli altri paesi ed estende le conseguenze negative che accompagnano
questo tipo di politiche.
Le giustificazioni al protezionismo, nonostante provochi tutti gli svantaggi che abbiamo
analizzato, sono:

Protegge dalla concorrenza straniera le industrie nascenti, soprattutto nei
paesi in via di sviluppo che potrebbero non essere in grado di superare la fase
iniziale di avvio dell’attività produttiva. Però se questa è la ragione, allora il
ricorso a forme di protezionismo dovrebbe avere una durata limitata al tempo
necessario a garantire la crescita iniziale delle imprese e lo sviluppo
economico del paese;
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
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Tutela l’occupazione, soprattutto in periodi di recessione, proteggendo le
imprese nazionali con dazi e contingenti all’importazione. La domanda
interna aumenta orientandosi in misura maggiore verso la produzione interna
ed incentivando la creazione di nuovi posti di lavoro;

Rende indipendente un paese nei confronti degli altri paesi stranieri. Questa
motivazione è legata a ragioni di sicurezza nazionale e riguarda alcuni settori
strategici come l’industria bellica o altri settori importanti per l’indipendenza
di un paese, come l’agricoltura, la siderurgia, le telecomunicazioni. Il rischio
che si vuole scongiurare è che in presenza di una crisi internazionale o di una
guerra, un paese si trovi ad essere completamente dipendente dagli altri.
Queste ragioni, in parte condivisibili, sono state fortemente criticate perché possono dar
luogo a situazioni di inefficienza, soprattutto quando nascondono altre motivazioni reali.
Ad esempio, è stato sottolineato che l’attuazione di pratiche protezionistiche da parte di un
paese comporta il rischio di ritorsioni da parte dei paesi colpiti da questi provvedimenti con il
risultato di moltiplicare le conseguenze negative provocate dagli ostacoli al libero scambio.
La protezione dell’industria nascente viene spinta al di là del tempo strettamente necessario
per favorire la crescita delle imprese, con il rischio di rendere inefficienti le imprese e di ritardare il
loro processo di crescita.
Infine, riguardo la tutela dell’occupazione, è stato sottolineato come sia possibile ottenere
risultati analoghi attraverso opportune politiche economiche, monetarie o fiscali, che aumentino la
domanda e l’occupazione.
Il rischio è che molto spesso dietro queste, apparenti giustificazioni, si nascondano
prevalentemente gli interessi di pressione, imprese od organizzazioni dei lavoratori, che temono la
concorrenza internazionale e cercano di salvaguardare le proprie posizioni.
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Il funzionamento del mercato dei cambi
Gli scambi commerciali avvengono tra agenti all’interno di uno stesso paese, mentre gli
scambi internazionali tra agenti che appartengono a paesi diversi e risultano complicati dal fatto che
ciascun paese ha una propria moneta.
Quindi, ad esempio, il produttore italiano di automobili quando vende le sue auto ad un
rivenditore americano vuole essere pagato in euro.
Allo stesso modo, il negoziante italiano che vuole acquistare impianti hi-fi dal Giappone
deve essere in grado di effettuare la sua transazione in yen, questo vuol dire acquistare yen in
cambio di uro e usarli per pagare la merce al fornitore giapponese.
Oltre all’esportazione e all’importazione di beni e servizi, tra i paesi si creano anche
movimenti di capitali, ovvero flussi di attività finanziarie in entrata e in uscita da un paese, che si
verificano ogni qual volta i privati cittadini o lo Stato concedono od ottengono prestiti da cittadini o
governi di altri paesi.
Queste attività finanziarie possono riguardare l’acquisto o la vendita di azioni, obbligazioni
e titoli di Stato, ma anche altre forme di investimento reale, come l’acquisto o la vendita di terreni,
case ecc.
Per semplicità, noi parleremo di capitali o di attività finanziarie in generale, intendendo però
tutto l’insieme di questi investimenti.
Affinché nel mondo ci sia un regolare funzionamento degli scambi è indispensabile che vi
sia un sistema finanziario internazionale che permetta alle monete dei diversi paesi di circolare.
Questo, però, non è sufficiente.
Per valutare, ad esempio, quanti euro dovrà cedere il negoziante italiano in cambio degli
yen, necessari ad acquistare gli impianti hi-fi, occorre sapere il prezzo in euro di uno yen. Questo
prezzo è definito tasso di cambio, viene fissato in un apposito mercato chiamato mercato dei cambi.
Però, ciascuna moneta straniera ha un diverso tasso di cambio rispetto all’euro e questo
cambia quotidianamente.
Quando il tasso di cambio è determinato dall’incontro tra domanda e offerta esso può
cambiare con estrema frequenza, registrando variazioni talvolta di lieve entità ma altre volte più
rilevanti.
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La ragione di queste variazioni è dovuta al fatto che il tasso di cambio non è altro che un
prezzo e, come tutti i prezzi, è soggetto a variazioni in relazione alle forze esercitate dalla domanda
e dall’offerta.
Se in un dato momento la domanda di una certa moneta estera è superiore rispetto
all’offerta, il prezzo di questa moneta sale.
Se, viceversa, l’offerta è superiore alla domanda il prezzo scende.
Nel punto in cui domanda ed offerta si incontrano viene fissato il prezzo di equilibrio o tasso
di cambio.
Il luogo in cui avvengono queste transazioni internazionali fra domanda e offerta delle
diverse monete, e in cui si fissano i loro prezzi, è il mercato dei cambi. Tra questi, i più famosi
sono quelli di New York, Londra e Tokyo dove vengono scambiate grosse quantità di valute.
Accanto agli operatori esteri che domandano e offrono valuta sul mercato dei cambi per
effettuare le transazioni commerciali e finanziarie, opera anche la categoria degli speculatori, che
agiscono sui mercati internazionali con il solo scopo di trarre profitto dalle variazioni dei cambi.
Ad esempio, se lo speculatore prevede che in futuro vi sarà un aumento del dollaro, acquista
attività finanziarie in dollari quando il loro prezzo è basso, riservandosi di rivenderle ad un prezzo
più elevato quando il valore del dollaro salirà.
Naturalmente questa attività può permettere enormi guadagni ma comporta anche grandi
rischi per gli speculatori, soprattutto quando le loro previsioni si rivelano sbagliate.
Proviamo, ora, a capire come si determina il tasso di cambio, ad esempio del dollaro rispetto
all’euro.
Consideriamo, quindi, il mercato dei cambi, ricorrendo al consueto schema di domanda e
offerta.
La domanda di dollari è determinata da tutti coloro che in Italia intendono acquistare bene,
servizi o attività finanziarie dagli Stati Uniti, per semplicità consideriamo solo gli scambi bilaterali
tra i due paesi, anche se, in realtà, gli italiani potrebbero richiedere dollari per acquistare, ad
esempio, petrolio dai paesi arabi. Per cui, dietro la curva di domanda di dollari vi sono le
importazioni italiane di prodotti statunitensi.
Per la legge di domanda tanto più basso è il prezzo del dollaro tanto maggiore sarà la
quantità domandata di questa valuta. Ciò dipende dal fatto che i prodotti statunitensi diventano
relativamente più convenienti e quindi gli italiani saranno disposti ad acquistare quantità di beni e
servizi maggiori dagli Stati Uniti.
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Dietro all’offerta di dollari vi sono gli acquisti di beni, servizi e attività patrimoniali di
origine italiana da parte degli operatori economici e dei cittadini statunitensi, ovvero le esportazioni
del nostro paese. La curva di offerta di valuta estera ha l’inclinazione crescente perché se aumenta il
valore del dollaro, rispetto all’euro, i beni e i servizi italiani risultano più convenienti e gli Stati
Uniti saranno disposti ad acquistare quantità maggiori, aumentando pertanto la loro offerta di
dollari.
Nel punto di equilibrio fra domanda e offerta si viene a fissare il tasso di equilibrio del
cambio.
In modo del tutto simile a quanto accadeva nel caso di domanda e offerta di un generico
bene, se gli italiani aumentano le loro importazioni dagli Stati Uniti la curva di domanda di dollari
si sposta verso destra. Se l’offerta non cambia, il nuovo equilibrio si fissa in corrispondenza di un
prezzo più elevato.
Quando il prezzo di una moneta aumenta rispetto ad un’altra si parla di apprezzamento della
prima moneta rispetto alla seconda.
Viceversa, si ha un deprezzamento quando il prezzo di una moneta diminuisce rispetto
all’altra.
Nel linguaggio comune non si parla di apprezzamento e deprezzamento ma si usano i
termini di rivalutazione e svalutazione.
Gli effetti che descrivono sono del tutto simili:

Per rivalutazione si intende un rialzo del valore della moneta;

La svalutazione indica la perdita di valore della moneta.
Però, nel linguaggio economico queste definizioni si riferiscono a due situazioni diverse:

Apprezzamento/deprezzamento fa riferimento a variazioni del tasso di
cambio dovute a modificazioni spontanee della domanda e dell’offerta di una valuta;

La svalutazione e la rivalutazione sono il risultato di un intervallo specifico
da parte dell’autorità monetaria allo scopo di correggere il tasso di cambio.
Il sistema internazionale rappresenta l’insieme di norme di disposizioni e di istituzioni che
permettono di regolare gli scambi tra diversi paesi.
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All’interno di questo sistema è importante il modo in cui è regolato il mercato dei cambi.
Nel corso del tempo sono stati sperimentati tre diversi meccanismi di funzionamento di
questo mercato:

Cambi flessibili;

Cambi fissi;

Cambi amministrati.
In regime di cambi flessibili il tasso di cambio viene fissato dall’incontro fra domanda e
offerta.
Sul mercato dei cambi operano gli importatori di beni e servizi, da un lato, che domandano
l’ammontare di valuta estera necessaria ad effettuare i loro acquisti, invece, dall’altro operano gli
esportatori che offrono valuta estera in cambio di beni e servizi.
In queste circostanze il tasso di cambio è soggetto a frequenti oscillazioni in base alle
condizioni di domanda e di offerta e questo rende incerte e variabili le condizioni di scambio tra gli
operatori.
Ad esempio, il produttore che si impegna a fornire a distanza di un mese ad un cliente estero
una certa quantità di beni di sua produzione, o l’investitore che intende investire il proprio denaro in
un paese straniero, non possono sapere con certezza quale sarà il prezzo effettivo a cui avverrà la
transazione e potrebbero trarre un vantaggio oppure subire una perdita a seconda di come verrà a
fissarsi il tasso di cambio.
Un sistema opposto è invece quello dei cambi fissi. In questo caso, ogni paese fissa un dato
tasso di cambio della propria moneta rispetto a tutte le altre e le banche centrali acquistano e
vendono qualunque ammontare di una certa valuta in cambio di un valore prefissato di moneta
nazionale.
Quando un intervento ufficiale da parte delle banche centrali determina una diminuzione del
valore della valuta nazionale rispetto ad una valuta estera si parla di svalutazione, mentre nel caso di
aumento del valore si parla di rivalutazione.
Abbiamo detto che i termini svalutazione/rivalutazione e apprezzamento /deprezzamento
indicano variazioni del tasso di cambio del tutto simili sul piano pratico e che la differenza consiste
solo nel fatto che, nel primo caso, esse sono la conseguenza di un intervento ufficiale da parte delle
autorità monetarie mentre nel secondo caso sono il risultato delle forze di domanda e offerta.
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Un regime a cambi fissi assicura la massima certezza agli operatori, i quali non devono
preoccuparsi del fatto che i tassi di cambio possano improvvisamente variare rendendo meno
conveniente, ad esempio, i loro scambi commerciali o i loro investimenti. Il sistema a cambi fissi, in
questo senso, favorisce gli scambi commerciali e le attività finanziarie.
Però, esso può comportare problemi rilevanti per le autorità monetarie dei paesi, le quali
devono disporre di cospicue riserve in valuta straniera per far fronte agli squilibri tra domanda e
offerta, con il rischio ulteriore di dar fondo ad ogni riserva nel caso in cui questi squilibri siano
rilevanti o perdurino nel tempo.
Un altro limite è rappresentato dal fatto che il sistema a cambi fissi può influenzare bene
solo se i prezzi interni dei fattori e dei beni sono vicini a quelli internazionali.
In una posizione intermedia tra un regime di cambi perfettamente fissi e uno di cambi
perfettamente flessibili, si colloca il sistema dei tassi di cambio amministrati.
In questo caso, i valori di scambio delle diverse monete vengono definiti dal mercato, ma vi
sono anche interventi da parte delle autorità monetarie e di governo per influenzare e tenere sotto
controllo l’andamento del tasso di cambio.
Si può trattare di interventi poco frequenti e di entità non troppo rilevante, se lo scopo è
quello di limitare le fluttuazioni di breve periodo, ma vi possono essere anche interventi più
consistenti quando l’obiettivo è quello di mantenere il tasso di cambio al di sopra o al di sotto del
suo valore di equilibrio.
Supponiamo, ad esempio, che le autorità monetarie europee ritengano che l’euro sia
sottovalutato. Per cercare di aumentare il valore, ad esempio rispetto al dollaro, la banca centrale
potrebbe intervenire sul mercato dei cambi acquistando una certa quantità di euro pagandola in
dollari americani.
Questa maggiore domanda di euro determina un aumento, ovvero un apprezzamento, del
valore dell’euro stesso. in caso di sopravvalutazione, sarebbe stato necessario offrire sui mercati
internazionali un certo ammontare di euro.
L’acquisto o la vendita di euro, inevitabilmente, modifica anche la liquidità di un paese,
ovvero l’offerta interna di moneta, condizionando anche l’andamento del tasso di interesse.
Per evitare che vi siano ripercussioni sull’offerta di moneta a seguito degli interventi sui
mercati da parte delle Banche Centrali, si può compensare questa operazione con un’altra
operazione sul mercato interno di eguale ammontare, in modo che l’offerta di moneta rimanga
invariata.
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In questo caso si parla di interventi sterilizzati.
Nel caso in cui ciò non avvenga, interventi non sterilizzati, la variazione dell’offerta di
moneta è esattamente pari all’ammontare dell’intervento sul mercato dei cambi.
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I sistemi di cambio
Dal punto di vista storico, il primo sistema a cambi fissi è rappresentato dal sistema aureo, o
gold standard, che entrò in vigore dopo il 1870 e venne mantenuto fino al 1941.
In base a questo sistema, ciascun paese fissava il valore della propria moneta in termini di
oro.
Ad esempio, la sterlina pesava circa 1/a d’oncia d’oro mentre il dollaro statunitense aveva
un peso in oro di circa 1/20 d’oncia, 1 oncia è pari a 28,35 grammi, poiché il peso della sterlina era
superiore di cinque volte rispetto a quello del dollaro, il cambio era di 5 dollari contro 1 sterlina.
In questo modo, i cambi erano perfettamente stabili ed erano determinati dal contenuto in
oro di ciascuna moneta. Effettuare scambi internazionali non era molto diverso dal vendere o
acquistare merci sul mercato interno poiché tutte le merci venivano pagate in oro, inoltre chiunque
poteva fondere e coniare le monete.
Negli anni Venti questo sistema venne messo a dura prova dagli eventi storici e dalla
difficoltà di mantenere la parità con l’oro.
Negli anni compresi fra il 1918 e il 1939, anno in cui scoppiò la Seconda guerra Mondiale,
si alternarono periodi in cui i tassi di cambio venivano lasciati liberi di fluttuare, ad altri in cui
veniva ripristinato il sistema a cambi fissi.
In questi anni tale sistema venne sostituito da gold Exchange standard, in base al quale il
diritto di coniazione e di fusione dell’oro era riconosciuto solo alle banche centrali e non più ai
privati. Inoltre, la maggior parte delle monete non era più convertita direttamente in oro ma in altre
valute estere.
A partire dagli anni Venti le uniche monete che potevano essere convertite in oro erano il
dollaro e la sterlina, e le banche centrali di tutto il mondo detenevano queste monete come valute di
riserva.
Il valore di ciascuna moneta era fissato rispetto all’oro, nel caso di squilibri rispetto alla
parità ufficiale, le banche centrali intervenivano utilizzando le loro riserve valutarie in dollari e
sterline. Se gli squilibri erano gravi e duraturi la moneta veniva svalutata, ovvero veniva rivisto e
modificato il cambio ufficiale.
Un ulteriore tentativo di mantenere fissi i tassi di cambio fra le valute dei diversi paesi venne
fatto nel 1944 con gli accordi di Bretton Woods.
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Questi accordi non si limitavano a regolare il mercato dei cambi ma prevedevano un più
ampio programma di cooperazione internazionale, attraverso la creazione di appositi organismi che
dovevano cercare di favorire gli scambi internazionali, garantendo contemporaneamente la stabilità
monetaria.
L’unica moneta che mantenne la conversione in oro fu il dollaro, scelta che dipese dal fatto
che in quegli anni gli Stati Uniti, oltre ad essere la maggiore potenza mondiale, erano la nazione che
deteneva la maggior parte delle riserve auree mondiali.
Con gli accordi di Bretton Woods si sperava di sfruttare i vantaggi di entrambi i regimi di
cambio, ovvero mantenere la stabilità del sistema a cambi fissi, favorendo il commercio
internazionale e nello stesso tempo beneficiare della possibilità di aggiustamento del sistema a
cambi flessibili.
Il sistema funzionò per oltre venti anni, ma alla fine degli anni Sessanta i paesi che
partecipavano all’accordo cominciarono a presentare livelli di inflazione molto diversi,
determinando una profonda sfiducia nel dollaro e molte banche centrali cercarono di convertire i
dollari in loro possesso in oro.
Di fronte a questa situazione nel 1971 il Presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon,
dichiarò l’inconvertibilità del dollaro in oro, decretando ufficialmente la fine del sistema a cambi
fissi.
Da allora l’economia mondiale segue un sistema di cambi ibrido. L’attuale sistema
monetario si propone di bilanciare e contrastare i vantaggi e gli svantaggi di entrambi i sistemi. Le
sue caratteristiche principali sono:

I cambi non sono più ancorati all’oro ma vengono determinati
dall’interazione tra domanda e offerta;

Un ruolo centrale nel sistema finanziario internazionale è svolto da: dollaro,
euro e yen. Si tratta di tre monete forti, relativamente stabili rispetto ad altre
valute, facendo in modo che la maggior parte delle transazioni mondiali si
svolga in queste tre monete;

Alcuni paesi si sono accordati fra loro per stabilizzare il tasso di cambio delle
loro monete, lasciando che esse fluttuino liberamente nei confronti delle
valute degli altri paesi;
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
Commercio internazionale – prima parte
I paesi piccoli, poco sviluppati e con quote di commercio internazionale
molto ridotto, non riescono ad utilizzare la loro moneta nazionale come
mezzo di scambio poiché si tratta di monete scarsamente affidabili, per cui
sono costretti ad effettuare i loro scambi con valute straniere sostenendo
prestiti da parte di appositi organismi internazionali come la Banca Mondiale.
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