1 introduzione - Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione

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MARIA GRAZIA STREPPARAVA
PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO
INDICE
1. La cornice generale: il cognitivismo clinico e la psicologia dello sviluppo
Definizione di psicopatologia dello sviluppo
La psicopatologia dello sviluppo è un settore di ricerca relativamente recente che nasce
dall’incontro di diverse aree di ricerca: psicologia generale dello sviluppo, psicologia cognitiva e
comportamentale, neuropsicologia, etologia, ma in particolare mescola le competenze della
psicopatologia e della psicologia dello sviluppo. L’obiettivo di fondo è comprendere e spiegare i
meccanismi dello sviluppo e del cambiamento, sulla base dell’assunto che lo studio dello sviluppo
atipico può fornirci le conoscenze necessarie per la comprensione dello sviluppo normale e
viceversa, a partire dal percorso /processo naturale dello sviluppo individuale, può portarci a capire
meglio quali sono le cause e i percorsi che portano alla sofferenza e al disagio in età infantile, prescolare e scolare sfumando, con l’adolescenza, nell’età adulta.
La ricerca in questo campo ha come scopo dei precursori evolutivi e degli esiti delle situazioni
psicopatologiche nei bambini e adolescenti, fornendo anche un vocabolario di termini che si rifanno
a concetti esplicativi di quanto viene osservato, come fattori protettivi e fattori di rischio, fattori
rischio cumulativo, traiettorie di sviluppo. Non è un’area in cui si cerca la teoria unificante che
spiega tutti i fenomeni dello sviluppo, piuttosto siamo di fronte ad un macroparadigma, vale a dire
una costellazione integrata di discipline scientifiche, che richiede livelli multipli di analisi dei
fenomeni, , intrinsecamente non riduzionista (Cicchetti Rogosch 2002). Uno degli aspetti più
importanti della psicopatologia dello sviluppo è che il disagio e la sofferenza psicologica non sono
viste come unicamente risiedenti nella mente dell’individuo non sono una faccenda intrapsichica,
ma vanno sempre visti nella relazione dinamica tra l’individuo e il contesto interno ed esterno
(Sameroff, 2001).
Studia l’origine e l’evoluzione dei pattern individuali di comportamento disadattato e cerca di
correlare le manifestazioni sintomatologiche con i cambiamenti che avvengono nel ciclo di vita,
cercando di individuare quali caratteristiche interne (genetica, variabili temperamentali, personalità)
ed esterne all’individuo (relazioni familiari, rete sociale, variabili socio-culturali) determinano le
somiglianze e le differenze nei percorsi di sviluppo e nei loro esiti. In questo senso è una disciplina
profondamente orientata allo studio dei processi.
Le ricerche ci mostrano come la frequenza e la natura della maggior parte dei disturbi vari ain
funzione dell’età. Le storie e l’esito clinico nelle persone con un esordio precoce, in età infantile, o
tardivo di un disturbo, ad esempio in adolescenza, è per lo più molto diversa (Holmbeck et. al
2010).
La scuola dell’infanzia e la scuola primaria sono periodi della vita in cui l’organizzazione
comportamentale, cognitiva ed emotiva del bambino non sono ancora riconoscibili in forme definite
e stabilizzate e si accompagnano a profonde trasformazioni maturative. Proprio per questo sono
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momenti importanti in cui un’insegnante sensibile e capace, nei limiti e per quello che riguarda il
suo agire professionale, può fare la differenza.
I sintomi nei bambini sono segnali da osservare con sensibilità tenendo conto di quando e con chi si
manifestano: nel caso dei bambini più ancora di quanto avviene per gli adulti, la comprensione dei
sintomi è difficile e il contesto e le situazioni in cui questi segnali compaiono sono essenziali per la
comprensione del loro peso, pervasività e significato. Anche per gli esperti definire i disturbi
psichici in età evolutiva è complesso: molto dipende anche da variabili culturali, sociali e familiari e
spesso le diagnosi non esauriscono la possibilità di inquadrare la situazione (Ciotti, Lambruschi,
xxxx) ed è importante che un insegnante o un educatore tengano conto di questa complessità
quando, avendo a che fare con un bambino con una disabilità già certificata, leggono i dati della
diagnosi presentata dallo specialista (psicologo o neuropsichiatra infantile).
Valutare gli aspetti contestuali e situazionali di un sintomo infantile vuol dire monitorare quando
avviene, le persone che sono presenti (e anche chi invece non c’è mai), cosa è successo prima, cosa
avviene dopo, cosa esattamente fa il bambino e cosa fa ciascuna delle figure presenti sulla scena.
Spesso gli psicologi che lavorano a stretto contatto con gli insegnanti hanno bisogno proprio di
questo tipo di informazioni dettagliate per lo svolgimento del loro lavoro e quindi della
collaborazione di docenti ed educatori, che dovrebbero imparare a sviluppare questo tipo di
sguardo. Altre volte gli insegnanti sono le prime antenne di un problema quando raccolgono le
parole dei genitori. Saper chiedere avendo i mente i punti di cui sopra e avendo anche in mente che
quando qualcosa avviene fuori dell’osservazione diretta ricordare che: ogni narrazione è una
ricostruzione che esclude alcuni aspetti e ne enfatizza altri, ogni narrazione avviene in un dato
contesto e momento del tempo, bambini con “oggettiva” gravità dei sintomi giungono o meno in
terapia in funzione del livello d’ansia genitoriale riguardo ai comportamenti del figlio, i bambini
vengono percepiti come più disturbati in momenti di particolare crisi familiare o della coppia
coniugale (Kolko e Kazdin, 1993). Anche se non ci sono molte ricerche su questo tema, c’è sempre
un maggior riconoscimento di quanto i fattori culturali condizionino in modo importante sia le
condizioni ed i tempi di accesso di un bambino e dei suoi genitori alla consultazione specialistica e
al trattamento, sia le spiegazioni e il significato attribuito ai comportamenti problematici (Barrett,
2000).
hanno un potente impatto su condizioni, modalità e tempistica
Si tratta di valutare le “turbolenze” che attraversano il contesto relazionale
STORIA
Il modello clinico che in passato ha maggiormente caratterizzato lo studio dello sviluppo
individuale non solo da un punto di vista cognitivo, ma anche affettivo è quello psicoanalitico, nella
sua forma originaria e nei suoi successivi sviluppi XXXX che ci ha fornito in modo sempre più
articolato una descrizione e una spiegazione del processo attraverso il quale si forma la personalità
dell’individuo.
Anche gli approcci clinici che si sono sviluppati successivamente, comportamentista prima e
cognitivo-comportamentale poi, hanno fornito modelli dello sviluppo del bambino, dei possibili
disturbi e dei conseguenti interventi terapeutici. La logica e il senso di un intervento sia clinico e
psicoterapeutico, sia educativo hanno infatti un legame essenziale con le teorie esplicative cui fanno
riferimento.
Il modello cognitivista attuale ha inglobato in modo importante e strutturale la teoria
dell’attaccamento (cap. 2) e l’approccio evolutivo (Liotti, XXXX) insieme ad una prospettiva
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generale di tipo costruttivista. Questo secondo aspetto rende particolarmente fruibile il modello
cognitivista contemporaneo da chi ha una formazione in scienze delle formazione, costituendo
questo il riferimento culturale più importante in questo campo (varisco XXXX).
Per il modello comportamentista lo sviluppo infantile è un processo di acquisizione graduale di
sequenze comportamentali sempre più complesse e articolate, che si consolidano grazie all’azione
dei rinforzi esterni e generano il complesso insieme delle abitudini individuali. Più che di sintomi i
clinici che si muovono all’interno di questo paradigma parlano di abitudini disadattative apprese.
In molte situazioni le tecniche derivate dall’approccio comportamentale costituiscono ancora un
modo efficace di affrontare e gestire alcune problematiche infantili, in particolare nel caso
dell’handicap o della disabilità, nei problemi comportamentali, in situazioni quali enuresi, encopresi
o le fobie scolastiche. Sono però strumenti da usare, che non spiegano il senso profondo dei sintomi
infantili e hanno un raggio / efficacia di intervento che in molti casi risulta parziale se non
accompagnata da una concettualizzazione più complessa, dall’attenzione agli aspetti relazionali e al
vissuto delle persone coinvolte.
Il passaggio dal comportamentismo al cognitivismo clinico ha ampliato l’attenzione degli psicologi
dal comportamento osservabile alle variabili interne all’individuo: rappresentazioni, pensieri,
linguaggio che diventano elementi esplicativi dello sviluppo individuale e della psicopatologia
(Bandura, 1969, 1977; Ellis 1962; Beck, 1976) e che vengono progressivamente estesi dall’ambito
adulto all’età evolutiva (Meichembaum, Goodman, 1971; Ellis, Bernard, 1984). Un esempio è la
tecnica del Self Instructional Training di Meichembaum (cit) utilizzato con alcuni disturbi
comportamentali infantili (deficit d’attenzione, iperattività, impulsività) in cui si aiuta il bambino a
riconoscere il dialogo interno che è alla base del suo comportamento disfunzionale e lo si aiuta poi a
riformularlo in modo da facilitare l’acquisizione del controllo di ciò che fa e rendere più adeguato e
meno disregolato il suo agire. L’idea sottostante è che i processi rappresentativi interni mediati dal
linguaggio – immaginazione, pensieri e dialogo interno - abbiano un ruolo importante nell’attivare,
inibire, regolare il comportamento e nello stile di risoluzione dei problemi.
Il cognitivismo classico – o standard - sottolinea l’importanza del sistema interno di convinzioni
che ciascun individuo sviluppa progressivamente a partire dall’infanzia su se e sul mondo. Una
sorta di teorie e spiegazioni che guidano in modo potente ciò che gli individui fanno. La sofferenza
(e i sintomi) sono legati alla presenza nella mente di convinzioni irrazionali, di solito totalizzanti e
assolutistiche che non corrispondono alla realtà e interferiscono con il benessere della persona.
Spesso si tratta di pensieri automatici – ideazioni rapide e pervasive – non immediatamente
accessibili alla coscienza. L’intervento che si può fare per far star meglio la persona consiste nel
lavorare su questi pensieri disfunzionali e che generano emozioni negative, modificandoli e
sostituendoli con pensieri più adeguati e vicini alla realtà. Nel trattare i bambini il lavoro clinico
viene svolto utilizzando disegni, giochi fumetti o favole in modo da facilitare l’espressione dei
pensieri e delle convinzioni individuali e la loro modificazione.
Le tecniche dell’approccio cognitivo standard più utilizzate negli interventi in età evolutiva sono le
tecniche centrate sugli antecedenti del comportamento bersaglio (cioè il comportamento che deve
essere modificato), le procedure che intervengono con e sulle conseguenze del comportamento e le
tecniche di autoregolazione e automonitoraggio (Kendall, 2000; Kendall, Di Pietro, 1995).
Quando la difficoltà del bambino è legata a specifiche situazioni o contesti, un modo di intervenire
è abituare progressivamente il bambino a restare nella situazione che gli crea difficoltà, fornendogli
strumenti cognitivi e comportamentali di aiuto. Il primo passo è costruire insieme al bambino una
gerarchia delle situazioni che gli creano difficoltà, dalla più semplice da gestire alla più difficile. Il
passaggio successivo è quello di farlo restare nella situazione che gli crea il disagio minore per un
tempo breve all’inizio e poi in crescendo, con la presenza di una figura di supporto (esposizione
graduata). Un altro modo è quello di utilizzare il rilassamento muscolare progressivo come
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preparazione all’esposizione alle situazioni temute. Prima si insegna al bambino a contrarre e
rilassare i muscoli attraverso dei giochi e con l’ausilio di immagini, poi quando sanno o sanno fare
bene, si può iniziare l’esposizione progressiva a situazioni sempre più complicate
(desensibilizzazione sistematica)
Sul comportamento si può intervenire attraverso i meccanismi del rinforzo per aumentare la
frequenza dei comportamenti adattativi e diminuire quelli disadattativi. Un rinforzo positivo è tutto
ciò che ha un valore, che è significativo per il bambino in quel momento – un regalino, una
caramella, una lode, attenzione, coccole - e che viene dato quando il bambino riesce a fare ciò che
gli viene chiesto o comunque mette in atto un comportamento che va nella direzione desiderata.
È importante ricordare che quando si agisce sul comportamento dei bambini l’interevnto deve
avvenire seguendo il principi della gradualità e dell’approssimazione.
Quando si vuole ridurre o eliminare un comportamento disfunzionale una tecnica efficace è quella
dell’estinzione: davanti ad un comportamento che non va bene è necessario non dare alcun rinforzo
positivo, quello più disponibile e quello che siamo più pronti ad elargire spontaneamente è
l’attenzione. È questo che lo rende un intervento decisamente contro intuitivo. Spesso infatti i
comportamenti che vogliamo far cessare sono comportamenti disturbanti o comportamenti che
attirano la nostra attenzione rendendo difficile ignorarli, eppure è proprio quello che bisogna. Un
altro intervento affine è il time-out: il bambino viene allontanato e isolato nel corso della situazione
problematica. È un intervento spesso usato nel caso di reazioni aggressive intense. Quando si
utilizza questa tecnica e quando il livello di sviluppo cognitivo del bambino lo consente, è
importante anticipare i termini del contratto, vale a dire le condizioni in cui questo intervento verrà
applicato.
La token economy è un'altra tecnica cognitivo-comportamentale molto usata. Viene stabilito una
sorta di contratto con il bambino che prevede l’assegnazione di un rinforzo simbolico – un gettone,
riempire una casella su un tabellone, una figurina – ogni volta che mette in atto un comportamento
(o una gamma di comportamenti) concordati, definendo chiaramente cosa corrisponde a che cosa.
In sé i token non hanno valore, ma si concorda che la loro somma corrisponde a premi tangibili sia
materiali, caramelle, dolci, piccoli oggetti, che non materiali, come poter fare un’attività desiderata
– da solo o con altri. L’aspetto più importante quando si usa questo tipo di intervento è la chiarezza
e il rispetto delle regole.
Le tecniche di autocontrollo hanno lo scopo di aiutare il bambino a regolare autonomamente e
attivamente il proprio comportamento. Sono utili soprattutto con i bambini che hanno difficoltà
nella regolazione del comportamento o con stati d’ansia.
Prendere coscienza dei pensieri negativi che inibiscono le prestazioni o innescano il
comportamento, sviluppare pensieri, idee, strategie di risoluzione dei problemi che non sono
compatibili con i comportamenti aggressivi o l’ansia, identificare le situazioni e le circostanze in cui
mettere in atto queste competenze. Possono essere utilizzate con i bambini più grandi, in grado di
individuare e verbalizzare le proprie difficoltà e in grado di tradurre i suggerimenti in pensieri.
Le tecniche di automonitoraggio (self-monitoring) sono le tecniche che aiutano il bambino a
osservare i suoi comportamenti problematici attraverso la compilazione di diari o di schede di auto
osservazione. Le schede sono un modo per aiutare l’analisi guidata della propria esperienza facendo
attenzione ai diversi aspetti: pensieri, emozioni, risposte fisiche (somatiche e viscerali)
comportamenti.
Con i bambini è relativamente semplice utilizzare le autoistruzioni perché spesso i bambini quando
giocano o imparano a fare cose nuove parlano a sé stessi.
Un’altra tecnica cognitivo-comportamentale è il problem-solving. Davanti ad una situazione che
viene avvertita come difficile e problematica si possono usare strategie che rompono questo senso
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di essere senza via di uscita. Il primo passaggio è riconoscere che c’è un disagio a partire dalla
consapevolezza e dalla verbalizzazione del proprio stato di malessere; il secondo passaggio è
provare a far venire fuori tutte le idee possibili per risolvere il problema, da quelle più realistiche a
quelle più improbabili e assurde. In questa fase l’importante è non censurare nulla di quanto arriva
nella mente. La terza fase è quella in cui si valutano le conseguenze di tutte le soluzioni identificate
in precedenza, la quarta quella in cui si scartano progressivamente le soluzioni non adeguate per poi
arrivare ad identificare una soluzione possibile che verrà applicata. Da ultimo si valutano effetti,
conseguenze ed efficacia di quanto messo in atto.
Applicabilità sia al singolo sia nella classe
Nel caso dei disturbi d’ansia può servire per individuare autonomamente strategie per gestire gli
stati ansiosi (Kendall, Di Pietro, 1995), nel caso dei disturbi depressivi è utile sia per rendere più
flessibile una modalità di pensiero tendenzialmente rigida e ristretta, dall’altra può agire
riducendolo sul senso di mancanza di autoefficacia, debolezza, inutilità e impotenza che caratterizza
questi bambini (Stark, 1990).
Come scrive Kazdin (Kazdin, Weisz, 2010) anche nell’ambito della psicoterapia con i bambini e gli
adolescenti si applicano i principi della evidence-based psychotherapy e la loro definizione
dell’intervento clinico in età evolutiva è che “… lo scopo della terapia è migliorare l’aggistamento
adjustement e il funzionamento in entrambe le sfere intrapersonale e interpersonale e ridurre i
comportamenti mal adattivi e le diverse forme di sofferenza psicologica e spesso fisica. Il modo in
cui questi obiettivi sono raggiunti è principalmente il contatto interpersonale; per la maggior parte
dei trattamenti questo consiste nelle interazioni verbali. Nella terapia dei bambini, i mezzi possono
includere il parlare, il giocare, il rinforzare comportamenti nuovi o svolgendo attività insieme al
bambino. le persone che possono fare queste cose possono essere terapeuti, genitori, insegnanti e
compagni. Una varietà di aiuti teapouetici come pupazzi, giochi, storie e video possono essere usati
come mezzi per raggiungere gli obiettivi del trattamento” (p. 3)
Molto tempo è passato dalle prime ricerche sull’efficacia della psicoterapia con i bambini che
indicavano come la percentuale di miglioramento (67-73%) fosse sostanzialmente identica sia che
la psicoterapia venisse erogata che no (levitt 1957, 63 in Kazdin cit) sostanzialmente come era
emerso dalla ricerca di Eysenk del 52. La debolezza metodologica di quelle conclusioni è nota e
anche nel’ambito della psicoterapia dell’età evolutiva sono inziate ricerche molto meglio strutturate
e solide dal punto di vista metodologico. Una decina d’anni fa secondo Kazdin (Kazdin 2000) erano
1.500 gli studi controllati e condotti in modo metodologicamente corretto sull’efficacia della
psicoterapia dell’infanzia e dell’adolescenza (chiara esplicitazione delle procedure di selezione dei
pazienti, chiari criteri di inclusione e esclusione, trattamenti manualizzati, utilizzo di misure
multiple e di multiple forma di valutazione dell’outcome, confronto del trattamento con altri
trattamenti e non solo con la lista di attesa, cioè il non-trattamento, e così via). Il volume del 2010 è
una raccolta degli interventi efficaci ed evidence-based secondo i criteri più stretti del termine: si va
dai trattamenti per i disturbi d’ansia sia individuali con il Coping Cat Program for Anxious Children
(Kendall, Furr, Podell, 2010) che di gruppo (Pahl, Barrett, 2010), per i disturbi ossessivocompulsivi (Franklin, Freeman, March, 2010), per la depressione, con il protocollo ACTION
(Stark, Streusand, Krumholz, Patel, 2010) e con interventi di gruppo, però sugli adolescenti (Clarke,
DeBar, 2010), per il comportamento antisociale (Forgatch, Patterson, 2010), il disturbo da
comportamento dirompente (Zisser, Eyberg, 2010), per i disturbi della condotta (Webster-stratton,
Reid, 2010) e per il disturbo oppositivo provocatorio (Kazdin, 2010). Anche per i disturbi
traumatici e l’autismo sono stati mesi a punto dei protocolli di intervento che ben reggono alle
richieste di scientificità degli interventi basati sull’evidenza. Molti di questi interventi verranno
trattati nei capitoli dedicati, ma è importante ricordare
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Vi sono, del resto, alcuni aspetti critici in un’impostazione cognitivista classica: i sintomi vengono
visti unicamente come elementi disturbanti, incongruenti, risposte inadeguate o sbagliate rispetto ad
una realtà data e che vanno quindi regolati al più presto, agendo sui pensieri o sul comportamento,
ma senza dare spazio ad un processo di comprensione del significato che un dato comportamento
disadattativo ha per la persona. Gli aspetti relazionali di ciò che le persone pensano o fanno
vengono presi in considerazione in misura ridotta. Nel caso della psicopatologia dell’età evolutiva
viene data poca attenzione al significato che un dato sintomo ha nell’universo relazionale del
bambino.
Mentre è proprio con i bambini che per capire i loro comportamenti è necessario fare attenzione agli
aspetti relazionali, come interpretarli, cosa fare
I cambiamenti cui è andato incontro il modello cognitivista negli ultimi venticinque anni hanno
modificato questa prospettiva sia nell’intervento con gli adulti sia nell’intervento con i bambini
integrando gli aspetti puramente tecnici che caratterizzano il cognitivismo classico, con un’ampia
attenzione agli aspetti relazionali, attraverso il contributo della teoria dell’attaccamento (vedi cap 2)
e alla comprensione del senso che lo star male e le sue manifestazioni hanno per la persona,
attraverso lo sviluppo del’approccio costruttivista (Guidano, 1989; 1991).
È per primo Michael Mahoney (1980) a mettere in luce alcuni aspetti critici del cognitivismo
standard: le emozioni vengono trattate prevalentemente come prodotto – spesso disfunzionale - dei
pensieri, le emozioni non sono in grado di informarci adeguatamente sulla realtà che ci circonda e
su noi stessi. Il senso di sé – chi sono io, come sono io ? - dipende solo dagli schemi / pensieri che
la persona sviluppa su di sé e le proprie caratteristiche nel suo percorso di crescita.
Nell’approccio classico si sottolinea lo status privilegiato degli aspetti razionali e si trascura come
poco rilevante l’affettività. In questo quadro anche la relazione terapeutica ha una valenza
particolare: è una relazione prevalentemente pedagogica e normativa.
Non è questa la sede per una disamina dello sviluppo del modello cognitivista italiano che viene
trattato in dettaglio altrove (bara manuale) o degli aspetti filosofici e storici (cfr ruggiero).
Ediamo solo alcuni punti chiave:
il libro di Guidano e Liotti (1983), perché è importante
I due libri di guidano ruolo della conoscenza tacita, dei principi di autoorganizzazione della mente
Liotti per la teoria dell’attaccamento
In ambito evolutivo due linee: isola mancini, Lambruschi
Quali differenze ?
Cosa ci piace di più ? Centralità della teoria dell’attaccamento e dei sistemi motivazionali
Aspetti meta cognitivi: importante per la relazione con le emozioni e l regolazione
Aspetti centrali: i due livelli della conoscenza
Rappresentazioni diffuse barsalou
Linguaggio che etichetta
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La prospettiva evolutiva ed evoluzionistica, l’attaccamento e i sistemi motivazionali sviluppi, in
particolare quelli che hanno sottolineato il contributo della teoria dell’attaccamento (Lambruschi,
2004; Liotti 2001, Liotti, Monticelli, 2008).
FARE DIAGNOSI
Le diagnosi sono compito degli esperti, psicologi e neuropsichiatri infantili ed è bene che insegnanti
ed educatori maneggino con delicatezza questa materia, senza lanciarsi in interpretazioni non
corrette. Questo non toglie che sia necessario che un insegnante – di sostegno, come curriculare - o
un educatore sappiano leggere e comprendere in tutte le loro implicazioni le diagnosi dei bambini
che sono da loro seguiti.
I due sistemi tassonomici più utilizzati da chi opera nel servizio pubblico e privato (neuropsichiatri
infantili, psicologi, psichiatri, logopedisti, psicomotricisti) usati per le diagnosi infantili sono: il
DSM-IV-TR, Manuale statistico e diagnostico dei disturbi mentali (American Psychiatric
Association, 2000) e l’ ICD-10, Classificazione delle sindromi e dei disturbi psichici e
comportamentali (World Health Organization, 1992).
Nessuno dei due sistemi diagnostici fa riferimento alle cause dei disturbi che descrive (eziologia,
parte di una scienza che ricerca e studia le cause dei fenomeni) o alla patogenesi (modalità con cui
ha origine una malattia) e riducono al minimo gli assunti sull’interpretazione psicologica dei
sintomi descritti. Propongono quindi dei criteri diagnostici puramente descrittivi. Per questo si parla
di sistemi ateoretici, cioè basati sul più basso livello inferenziale possibile. Posto che la descrizione
pura e scevra di teoria non esiste, perché le categorie che di volta in volta utilizziamo fanno sempre
riferimento ad uno sfondo di conoscenze condivise e criteri di esclusione e inclusione, pur condivisi
dalla comunità scientifica, sono una di molte prospettive, lo scopo principale di questi due sistemi è
ridurre la complessità dei segni con cui la sofferenza del bambino si manifesta, identificando pattern
ricorrenti da ricondurre a diverse e specifiche categorie. Uno dei vantaggi di questa semplificazione
è consentire agli esperti – medico, neuropsichiatra infantile, psicologo - di parlare tra loro. Anche
per educatori e insegnanti è necessario conoscere a grandi linee queste categorie per poter anch’essi
parlare e comprendere gli specialisti. Ricondurre un disagio ad una specifica categorie ha il
vantaggio di fornirci velocemente delle informazioni su ciò che ci possiamo aspettare che il
bambino possa o non possa fare, ma è necessario avere sempre ben chiaro in mente che si tratta di
criteri generali, semplificazioni che devono essere messe sempre a confronto con la realtà di ogni
singolo bambino, altrimenti si rischia di chiudere l’individuo nel rigido schema della sua diagnosi,
togliendosi la possibilità di cogliere potenzialità e risorse che invece sono presenti.
A riprova della convenzionalità delle classificazioni di cui stiamo parlando, la semplice
osservazione che il DSM è in questi anni recenti è oggetto di una profonda revisione che sta
generando importanti modificazioni nelle categorie esistenti, con la scomparsa di alcune e
l’identificazione di altre. I cambiamenti nei criteri delle diagnosi tendono a riflettere le conoscenze
che l’esperienza clinica e lo sviluppo di nuove teorie e conoscenze sul funzionamento della mente e
in generale degli esseri umani ci forniscono. Una stessa revisione è in atto anche sull’ICD-10 e
l’Organizzazione Mondiale della Sanità ipotizza l’uscita della versione ICD-11 per il 2015
(http://www.who.int/classifications/icd/revision/en)
Nel testo quindi, quando verranno trattati i vari disturbi, pur facendo riferimento alle categorie
condivise del DSM-IV-TR, si farà riferimento anche alle ipotesi di cambiamento del DSM-V
qualora queste appaiano particolarmente interessanti per un reale ripensamento della diagnosi.
Quando questi due sistemi di valutazione vengono applicati all’età evolutiva presentano
l’importante limite di non fornire alcuna valutazione dello stile di relazione tra la mamma e il
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bambino. Invece, tanto più i bambini sono piccoli, questo aspetto conta molto. Vedremo, nelle
pagine che seguono, come i sintomi dei bambini abbiano sempre un importante aspetto relazionale.
COSA VUOL DIRE CHE QUALCHE COSA E’ RELAZIONALE? SPIEGARE
Le dimensioni lungo le quali osservare un bambino per vedere il suo livello evolutivo sono molte:
intelligenza, linguaggio, apprendimento, motricità, affettività, regolazione delle emozioni,
competenza sociale, sessualità. Esistono delle tappe sequenziali di acquisizione o sviluppo di
competenze e range di età in questo normalmente avviene e che possono essere valutati con i test di
sviluppo per valutare se questo processo sta avvenendo con normalità. Tuttavia quando viene
identificata una differenza rispetto alla norma l’aspetto più importante non è tanto individuare
l’anomalia, ma cercare di capirne la causa, per valutare le possibilità di intervento. Un ritardo
nell’acquisizione delle prime parole può essere segno di molte cose diverse: una dislessia, una
forma di autismo, o anche … nulla. I segni che contribuiscono ad una diagnosi sono
necessariamente molti, da correlare tra loro e soprattutto da correlare al mondo relazionale e fisico
in cui ciascun bambino vive.
Rispetto alle diagnosi mediche, le diagnosi psicologiche e soprattutto quelle applicate all’età
evolutiva hanno la grande differenza di essere diagnosi multiassiali.
Le diagnosi mediche – quelle che fa il dottor House, tanto per capirci - tendono ad essere a struttura
lineare o ad albero: il clinico procede per quesiti disgiuntivi, utilizza risposte dicotomiche (sì/no)
per restringere sempre di più il campo delle ipotesi iniziali ed arrivare ad una soluzione unica. Gli
errori dipendono da mancanza di informazioni o da condizionamenti dei nostri meccanismi di
pensiero o delle nostre emozioni Un sistema multiassiale prevede invece più valutazioni in parallelo
su più aspetti (o assi) e quello che emerge è un profilo complesso, una costellazione che si ripete,
quadri sindromici in è possibile riconoscere sempre lo stesso schema ricorrente
Vi sono alcuni concetti-chiave per comprendere la psicopatologia dello sviluppo che illustreremo
qui di seguito: multifattorialità e causalità multipla; fattori di rischio e fattori protettivi; disturbi
internalizzanti e disturbi esternalizzanti.
fattori di rischio e fattori protettivi
l’evoluzione di un individuo sul lungo termine dipende dall’interazione tra le situazioni o gli eventi
favorevoli al miglior sviluppo di quell’individuo e le situazioni o eventi dannosi. È un concetto
molto usato in medicina dove indica quelle caratteristiche (patrimonio genetico, abitudini, stile di
vita, fattori ambientali) che predicono la probabilità che un individuo sano e senza manifestazioni
cliniche di una data malattia si ammali nel corso della sua vita ed in diversi momenti della stessa. I
fattori protettivi seguono, all’inverso, la medesima logica: sono le caratteristiche individuali e
ambientali che riducono la probabilità della comparsa di una determinata patologia. Questi due
concetti sono usati anche in psicologia e psichiatria estendendoli oltre il piano fisiologico e
comportamentale, per comprendere anche gli aspetti relazionali e socio-culturali. Il grado di
adattamento, integrazione sociale, benessere individuale e buon equilibrio psichico di una persona
nei suoi diversi momenti di vita è il risultato del processo di integrazione dinamico e in continuo
divenire dei fattori di rischio e dei fattori protettivi per tutto l’arco della vita (Rutter, 1995). Come a
dire che l’esito positivo e non psicopatologico ha bisogno di essere sostenuto da buone condizioni
per tutto l’arco di vita. Un fattore molto potente di protezione è la presenza per tutto l’arco della vita
di figure positive in grado di fornire cura e supporto (Quinton, Rutter, 1988).
Nel processo di sviluppo vi sono nodi cruciali, che integrano competenze affettive, cognitive e
sociali. Si crea una sequenza organizzata. Il modo in cui viene affrontato il nodo precedente getta le
basi per la strutturazione dei passi successivi e del modo di affrontare il nodo evolutivo successivo.
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non utilizzare non diffondere
Alcuni punti chiave generali
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uno stesso disturbo può emergere a partire da diverse combinazioni di fattori di rischio, è il
concetto di equifinalità (Cicchetti, Rogosh, 1996)
l’effetto di un fattore di rischio dipende dal momento in cui interviene e dalla combinazione
con altri eventuali multifinalità
per la maggior parte dei disturbi non esiste una causa unica
l’attaccamento insicuro di per sé non è causa unica di un disturbo, ma ne incrementa la
probabilità
i fattori di rischio non sono solo individuali, ma anche familiari e/o ecologici (come il
gruppo dei pari, i vicini di casa, le istituzioni scolastiche e sociali, la legislazione corrente)
la relazione tra fattori di rischio ed esito negativo non è lineare, spesso l’accumularsi di
fattori di rischio aumenta in modo esponenziale la probabilità di un esito negativo
non tutti i fattori di rischio hanno lo stesso peso
la maggior parte dei fattori di rischio non è legata a una singola e specifica patologia, ma
entra in gioco in più situazioni critiche
alcuni fattori di rischio hanno un’influenza o un’azione differenziata a seconda del periodo
di sviluppo in cui si presentano. La qualità dell’attaccamento ha un impatto maggiore tanto
più piccolo è il bambino perché mancano abilità altre, ad esmpio di rielaborazione cognitiva
per aiutare la gestione degli stati di sofferenza
quasi tutti i fattori di rischio possono variare il loro impatto sulla persona interagendo con
altri fattori quali genere, etnia, cultura di appartenenza (come testimoniano i molti lavori
recenti svolti da una prospettiva multiculturale)
I concetti di equifinalità
e
multifinalità
sono
derivati
dalla
teoria
generale
dei
sistemi.
Il
concetto
di
equifinalità
si
riferisce
all’osservazione
che
in
un
qualsiasi
sistema
aperto
(Mayr
64,
88)
una
diversità
di
percorsi,
inclusi
i
fattori
casuali
o
quelli
a
cui
i
biologi
si
riferiscono
come
epigenesi
non
lineare
,
puo
portare
alo
stesso
esito
.
detto
altrimenti
in
un
sistema
aperto
(uno
cioè
in
cui
vi
è
maintenance
nel
cambimento,
ordine
dinamico
dei
processi,
organizzazione
e
autoregolazione,)
lo
stesso
stato
finale
può
essere
raggiunto
da
una
varietà
di
differenti
condizioni
iniziali
e
attraverso
differenti
processi
.
a
questo
si
fa
riferimento
con
il
termine
equifinalità.
Questo
vale
per
i
sistemi
biologici,
mentre
nei
sistemi
chiusi
lo
stato
finale
è
inevitabilmente
legato
e
determinato
dalle
condizioni
iniziali,
se
qualcuna
delle
condizioni
iniziali
si
modifica
l’esito
finale
stesso
sarà
cambiato.
Il concetto di multi finalità si basa sul concetto che lo stesso evento evolutivo può portare a diversi
esiti di adattamento, sia positivi che negativi, in diverse persone. Per questo è così necessario
conoscere e avere in mente la storia di ogni bambino.
Il concetto di continuità eterotipica si basa sulla nozione che un dato processo patologico si
manifesterà in modo diverso nel corso dello sviluppo. Ad esempio le manifestazioni
comportamentali di un sottostante disturbo della condotta possono modificarsi nel tempo senza che
il significato del comportamento ed il disturbo sottostante si modifichino (cicchetti, Rogosch,
2002).
Greenberg (1999) propone un modello che evidenzia quattro domini generali di rischio:
caratteristiche interne del bambino vulnerabilità biologica, funzioni neuro cognitive, temperamento
qualità delle relazioni primarie di attaccamento
stile educativo parentale e strategie di socializzazione
MARIA GRAZIA STREPPARAVA - PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO 2011-2012– bozza di lavoro
non utilizzare non diffondere
ecologia familiare, eventi vitali critici, stress e traumi della vita familiare, risorse organizzative
familiari, rete sociale
MARIA GRAZIA STREPPARAVA - PSICOPATOLOGIA DELLO SVILUPPO 2011-2012– bozza di lavoro
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