L VI - Pegaso

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INSEGNAMENTO DI
A
LOGICA E FILOSOFIA DELLA SCIENZ
SCIENZA
LEZIONE VI
“ROBERTO GROSSATESTA”
PROF. FABIO SELLER
Logica e filosofia della scienza
Lezione VI
Indice
1 La vita e le opere------------------------------------------------------------------------------------------ 3 2 La metafisica della luce---------------------------------------------------------------------------------- 5 3 Lo studio sull’arcobaleno ------------------------------------------------------------------------------- 8 4 La teoria della scienza e la dimostrazione scientifica-------------------------------------------- 10 5 I rapporti tra le scienze: la teoria della subalternazione --------------------------------------- 13 Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 La vita e le opere
La data di nascita di Roberto Grossatesta è controversa, ma da recenti studi si può arguire
che il filosofo nacque intorno al 1168 a Norfolk (Inghilterra) da famiglia povera. Non sappiamo
dove avesse studiato le Arti, ma una sede molto probabile è la città di Oxford. Ci sono numerose
testimonianze di una sua presenza ad Hereford, allora importante centro culturale, particolarmente
sensibile alle influenze del pensiero arabo, il che spiegherebbe anche l’apertura di Grossatesta verso
tematiche già trattate da autori arabi.
Fino al 1253, anno in cui fu nominato cancelliere, non si hanno notizie sicure: alcune fonti
lo vogliono a Oxford, altre a Cambridge. A questo periodo vanno datati due brevi ma importanti
scritti, il De artibus liberalibus e il De generatione sonorum, che denunciato l’attenzione nei
confronti di argomenti di carattere scientifico.
Dal 1209 al 1214 l’insegnamento a Oxford fu sospeso per i contrasti tra cittadini e studenti e
i maestri oxoniensi presero la via di Parigi; pare che lo stesso Grossatesta vi si recasse per studiare
teologia, ma anche questa notizia non è sicura.
Nel 1214, con l’apertura dell’Università, Grossatesta fu il primo a occupare la carica di
magister scholarium, diventando primo cancelliere di Oxford. Da questa data inizia la carriera
ecclesiastica. Attorno al 1230 egli entra in contatto con lo studium dei Francescani di Oxford,
Ordine del quale entrerà a far parte.
A partire dal 1214 Grossatesta compose la maggior parte delle sue opere scientifiche: De
sphaera, De impressionibus aeris, Compotus I, De cometis, De impressionibus elementorum, De
generatione stellarum, Compotus correctorius, De fluxu et refluxu maris, De luce (1225-28), De
differentiis localibus, De motu supracaelestium, De motu corporali et luce, De lineis, De natura
locorum, De iride, De colore, De calore solis, De finitate motus et temporis.
Agli anni 1228-30 risale il Commentarius in Posteriorum Analyticorum libros, mentre
attorno al 1228-32 scrisse il Commentarius in
VIII libros Physicorum. Negli anni anteriori
all’episcopato vanno datati anche gli scritti più orientati verso la teologia: il De libero arbitrio, il De
ordine emanandi causatorum a Deo, il De veritate, il De scientia Dei, il De veritate propositionis, e
l’Hexaëmeron.
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Nel 1253 Grossatesta fu eletto vescovo di Lincoln; da questa data inizia l’attività di
traduzione dal greco, e forse anche dall’ebraico. Il filosofo Ruggero Bacone afferma che egli fece
venire in Inghilterra persone di madrelingua greca e che fece acquistare codici greci di opere
filosofiche e scientifiche. Ma lo stesso Bacone dichiara poi che Grossatesta non raggiunse mai una
padronanza della lingua tale da permettergli di tradurre senza l’ausilio di altri; furono traduttori
come Nicola Siculo Greco e John Basingstoke, che, sotto la guida di Grossatesta, formarono una
vera e propria scuola sotto la sua guida. Furono così tradotti il De fide ortodoxa, la Dialectica, il De
heresibus, l’Introductio dofmatum elementaris e il De hymno trisagion del Damasceno; il Corpus
areopagiticum; il Testamentum XII Patriarcharum. Attorno al 1246 Grossatesta concluse la
versione dell’Ethica Nicomachea con relativo commento. Tradusse inoltre il De caelo di Aristotele
e il commento a quest’opera di Simplicio.
Grossatesta morì nel 1253.
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2 La metafisica della luce
La filosofia della luce inserisce Grossatesta nella storia del pensiero scientifico.
La tradizione occidentale latina legata alla speculazione sulla luce risale ad Agostino e alla
sua ermeneutica del Genesi. La riflessione su questo tema si ampliò nel IX secolo con la traduzione
del Corpus areopagiticum attribuito a Dionigi l’Areopagita, il filosofo che si riteneva convertito da
san Paolo ad Atene nell’areopago (in realtà, si tratta di un'altra persona, motivo per cui oggi si
preferisce parlare di pseudo-Dionigi). Le opere dello pseudo-Dionigi vennero ritradotte nel XII
secolo, nel periodo in cui il pensiero filosofico e scientifico arabo-ebraico cominciava a penetrare in
Occidente, e di cui facevano parte anche scritti di ottica. Grossatesta si ricollega a questa tradizione
culturale.
Nell’opuscoletto De luce, l’autore parte dalla affermazione contenuta in Genesi 1, 3: “Dixit
Deus: Fiat lux”, per sviluppare una vera e propria metafisica della luce, che unisce teoria della luce
e teologia della creazione.
Secondo la spiegazione fornita da Grossatesta, all’origine del mondo ci sarebbero – come il
test biblico suggerisce – una materia prima informe unita alla luce o prima forma corporalis. Si
tratta del primo prodotto della creazione divina, del primo ente creato; a partire da questa sostanza
semplice e senza dimensioni deriva tutto l’universo attraverso un processo di diffusione. La luce,
infatti, possiede per sua natura la capacità di diffondersi, anzi si può affermare che tale proprietà è
necessaria e non può non verificarsi; dato l’iniziale punto luminoso, quindi, esso deve, in virtù della
sua stessa natura, spandersi in tutte le direzioni.
La luce è essa stessa corporeità, cioè è connessa alla materia, per cui moltiplicandosi trascina
con sé la materia prima. Creata da Dio congiunta alla materia prima, la luce si espande dilatando la
materia e formando così la massa dell’universo.
Nella propagazione della luce la distribuzione disuguale della materia dipende dalla
disgregazione/aggregazione della luce, a cui corrispondono la rarefazione/condensazione della
materia. La diffusione della luce dà origine a un prodotto finito, perché la luce per sua essenza non
ha la possibilità di diffondersi indefinitamente, dal momento che quanto più si allontana dalla sua
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fonte, tanto più si indebolisce. Il risultato è quindi una sfera finita, che al limite estremo presenta il
suo strato più rarefatto, mentre è più densa man mano che si procede verso il centro.
La prima disgregazione dà origine al corpus spirituale, una sfera in cui sono determinati i
limiti dell’universo. A partire da questa espansione, quando la luce ha esaurito il suo potere di
diffusione, dal suo limite estremo – che, da un punto di vista cosmologico, rappresenta la sfera delle
stelle fisse – si riflette verso il centro del mondo. Questa luce riflessa (che Grossatesta chiama
lumen, distinguendola dalla precedente luce diretta, la lux) dà origine successivamente alle altre
sfere celesti, progressivamente meno rarefatte, fino a quella della Luna. Giunta all’ultima sfera la
luce, non avendo più potere di rarefarsi, dà origine ai quattro elementi.
Il risultato finale del processo di diffusione luminosa è la formazione di 13 sfere, nove
celesti – inalterabili – e quattro del mondo inferiore, in cui il processo di generazione non è giunto a
compimento.
Il moto delle sfere è circolare nei corpi celesti, rettilineo – dall’alto verso il basso – nei
quattro elementi, per via della rarefazione/condensazione che causa un movimento di parti.
Gli influssi su quest’opera sono i testi della tradizione araba ed ebraica, che affrontano i temi
dell’emanazionismo, della natura della luce e della materia.
Ma la novità di Grossatesta sta nell’aver sintetizzato la cosmogonia della genesi con quella
del De caelo aristotelico, distaccandosi da Aristotele sia per la concezione della struttura
matematica della realtà, sia per l’idea di un’unica materia alla base dell’universo celeste e
sublunare. Concependo, infatti, l’universo come materia luminosa più o meno rarefatta, Grossatesta
forniva la possibilità di uno studio naturalistico del mondo: contrariamente a quanto affermava
Aristotele, l’universo per il vescovo di Lincoln non è distinto in due regioni sostanzialmente diverse
– quella eterica celeste, e quella sublunare dei quattro elementi – ma trae origine tutto da una
medesima sostanza, che è la luce corporea.
Ciò consente l’applicazione di un metodo positivo all’analisi sia dei fenomeni sublunari che
di quelli che si verificano nel cielo. Per tale ragione Grossatesta ritiene possibile applicare la
matematica all’indagine fisica; questo tema viene sviluppato, in particolare, in un’altra opera, il De
lineis, angulis et figuris, in cui si afferma che è possibile, mediante le leggi dell’ottica geometrica,
interpretare i fenomeni naturali.
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L’assunto primo è che “l’agente naturale estende la sua forza da se stesso fino al paziente,
sia che agisca sul senso, sia sulla materia”. In altri termini, la propagazione delle azioni naturali
avviene da un soggetto all’altro nell’intero universo, e in questo procedere le forze seguono linee
rette, proprio come quelle dei raggi luminosi, proprio perché la sostanza di cui tutto è composto – e
quindi anche le azioni che ne derivano – è di natura luminosa.
La forza può agire in due modi: in senso forte se si propaga in linea retta; se però il corpo si
frappone al passaggio della forza un corpo opaco, allora si verifica il fenomeno della riflessione;
infine, se il corpo è permeabile parzialmente alla luce, si avrà il fenomeno della rifrazione.
Anche le figure geometriche – come il titolo dell’opera indica – sono strumenti fondamentali
dell’indagine fisica. Tra esse meritano un’attenzione particolare la sfera (la luce, come detto, si
diffonde sfericamente) e la piramide (anche con base circolare, cioè il cono). Quest’ultima figura è
quella che assumono i raggi quando agiscono da un corpo all’altro: in questo caso, la superficie del
corpo agente costituisce la base della piramide (o cono), mentre il punto del paziente su cui si
esercita la forza ne è il vertice.
È quindi chiaro che tutti i fenomeni naturali possono essere studiati a partire dalle proprietà
delle figure geometriche.
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3 Lo studio sull’arcobaleno
Un altro scritto di notevole interesse per l’elaborazione di una scienza sperimentale basata
sulla geometria è De iride (Sull’arcobaleno), diviso in tre parti.
Nella prima parte si enuncia lo statuto epistemologico dell’ottica – fondato sulla
classificazione delle scienze e sul tipo di dimostrazione usato da ciascuna – e il suo oggetto, che è la
visione.
La seconda parte suddivide l’ottica in scienza della visione (ottica), scienza dei fenomeni
della riflessione (catrottica) e della rifrazione (diottrica), secondo una tripartizione che risale alle
opere ottiche greche.
Per quanto riguarda la diottrica, Grossatesta è consapevole di introdurre nuove nozioni. Il
principio che fonda la legge della rifrazione stabilisce che “ogni azione della natura avviene nel
modo più determinato, ordinato, diretto e migliore possibile”. Viene poi enunciata la legge della
rifrazione, secondo la quale un raggio, che incontra sulla sua traiettoria un corpo trasparente, viene
rifratto all’interno di quel corpo (p.es. l’acqua) secondo un angolo che è la metà di quello formato
dalla traiettoria del raggio idealmente protratta e la perpendicolare al punto di incidenza.
Nella terza parte dell’opera viene discusso il caso dell’arcobaleno. Grossatesta spiega la
figura dell’arcobaleno con un metodo sperimentale: egli, cioè, analizzò la rifrazione della luce
attraverso una lente sferica, e associò tale esperienza al fenomeno naturale dell’arcobaleno. La
spiegazione fornita nel De iride si discosta da quella proposta da Aristotele nei Meteorologica, per
cui l’arcobaleno sarebbe causato dalla riflessione delle goccioline d’acqua sospese nelle nuvole;
Grossatesta, invece, l’attribuisce alla rifrazione, causata però non dalle singole goccioline ma
dall’intera nuvola che fungerebbe da specchio.
Allo studio dell’arcobaleno è connessa anche un’altra teoria, quella della doppia rifrazione,
che stabilisce che la luce subisce una prima rifrazione entrando nel mezzo – in questo caso la
nuvola – e una seconda uscendone. Questa ipotesi, che Grossatesta cercò di provare anche
sperimentalmente, è alla radice dell’ottica delle lenti convergenti.
Grossatesta spiega con la luce anche altri fenomeni – come l’eco – riconducendoli tutti ad un
unico genere che è il riflettersi o “ripercuotersi” (repercussio). Il suono, infatti, è spiegabile se si
considera la luce “incorporata” nel corpo sonoro, cosicché quando si colpisce un oggetto esso vibra,
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e le particelle che lo costituiscono escono temporaneamente dal loro luogo naturale per poi tornarvi.
Questo movimento si trasmette alla luce contenuta nel corpo, che vibra anch’essa, propagando in
linea retta questo movimento in tutte le direzioni; quando questa trasmissione trova un corpo più
denso il moto cambia verso e torna alla sua fonte. Così è spiegata l’eco.
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4 La teoria della scienza e la dimostrazione
scientifica
Grossatesta è il primo dei latini ad affrontare il dibattito sulla natura della scienza e
l’organizzazione dei saperi a partire da una lettura diretta degli Analitici secondi. Quest’opera non
era diffusa nell’Occidente latino medievale prima della traduzione fattane proprio da Grossatesta, e
del relativo commento.
Grossatesta distingue quattro gradi del sapere:
1. scire communiter (conoscere in senso generico): è il grado infimo e riguarda ciò che
è assolutamente contingente;
2. scire proprie (conoscere in senso proprio): è apprendere la verità di ciò che è sempre
o per lo più, cioè le cose naturali;
3. scire magis proprie (conoscere in senso più proprio): riguarda ciò che è sempre in un
determinato modo, come i principi e le conclusioni delle scienze matematiche;
4. scire maxime proprie (il conoscere per eccellenza): è la conoscenza di ciò che è
immutabile, mediante la conoscenza di ciò da cui deriva questa immutabilità.
Rispetto a questo livello di conoscenza, Aristotele definisce tutti gli altri saperi come
“sofistici e accidentali”.
La conoscenza maxime proprie è quella che individua le cause immutabili e necessarie. Per
evitare la circolarità o il processo all’infinito nella dimostrazione i principi primi devono possedere i
caratteri della necessità e dell’immediatezza.
Ne deriva che delle quattro forme di sapere solo le ultime due sono propriamente scienza,
perché consentono l’utilizzo del sillogismo dimostrativo, che garantisce la necessità delle
conclusioni.
Le premesse da cui parte un ragionamento scientifico devono essere necessarie e immediate,
cioè non possono essere a loro volta conosciute per dimostrazione. Grossatesta sviluppa
ulteriormente questo punto: in realtà, noi non abbiamo una conoscenza in atto dei principi, ma
neppure li ignoriamo del tutto; non resta, allora, che ammettere che essi sono già in noi, ma soltanto
in potenza, come un habitus. Il passaggio dalla potenza all’atto si svolge attraverso un processo che
parte dalla conoscenza sensitiva – che è passività – e prosegue con la memoria, che ripetutamente
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rinnovata porta all’universale. Una volta colto, l’universale – cioè il concetto di qualcosa – può
dirigere l’attività umana o come principio di tecnica, o come principio di scienza.
Più oltre nel Commento agli Analitici Secondi di Aristotele, Grossatesta torna sulla
conoscenza dei principi, ma lo fa per mezzo della distinzione delle diverse facoltà conoscitive
dell’uomo: l’intellectus, scientia, opinio e sollertia.
L’intellectus è potenza dell’anima che coglie i principi primi da cui derivano i sillogismi
dimostrativi (è identificabile, quindi, col nous aristotelico); la scientia è habitus acquisito mediante
la dimostrazione; la sollertia è un particolare habitus, una sorta di capacità che lo scienziato deve
possedere, e che lo rende capace di coglie il termine medio di un sillogismo, così da poter
sviluppare un ragionamento scientifico.
È interessante la considerazione che Grossatesta fa della facoltà umana dell’opinare. Come
nel caso del conoscere, anche l’opinare ha diverse accezioni.
L’opinio communiter dicta è una qualsivoglia conoscenza a cui è dato l’assenso,
indipendentemente dal modo in cui essa è stata raggiunta; in tal senso essa è molto simile alla fede,
e comprende anche la scienza stessa.
L’opinio proprie dicta è l’accoglimento di una parte della contraddizione, escludendo l’altra,
senza quindi la coscienza di un confronto.
L’opinio maxime proprie è l’accoglimento di una verità contingente, cioè di una verità che
può tanto essere quanto non essere.
Grossatesta conclude questo argomento con la tematica dell’illuminazione.
C’è una “visione mentale” (visus mentalis) che coglie le cose visibili per essa, cioè gli
intelligibili; ma è la luce (lumen) a realizzare questa possibilità di vedere: la luce illumina sia la
visione mentale che le cose visibile, rendendo così possibile l’atto del vedere. Nell’uomo questa
luce spirituale coincide con il suo intelletto.
Grossatesta paragona l’intelletto e la scienza all’atto di vedere di un occhio sano; l’opinio
proprie dicta è a un livello inferiore, perché coglie gli intelligibili assieme alle immagini delle cose
materiali; l’opinio magis proprie dicta, che si pone ancora più in basso nella scala delle facoltà
conoscitive, coglie le cose mutevoli nella loro materialità.
Come già Aristotele, anche Grossatesta tratta della tecnica definitoria.
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Seguendo lo Stagirita, egli afferma che quattro sono le domande che possono riguardare una
qualsiasi realtà e che aprono la strada alla ricerca scientifica: “se una cosa è” (si est), “che cosa è”
(quid est), “che è qualcosa” (quia est) e “perché una cosa è” (propter quid est). Esse si possono però
ridurre a due, cioè al “che cosa è” una determinata realtà, e “perché è” proprio ciò che è, ovvero
quale ne è la causa.
La tecnica per conoscere il “che cosa” è l’ars diffiniendi (tecnica del definire), la via che ci
consente di individuare l’essenza di una cosa. Si può procedere in due modi. Per sintesi si procede
da ciò che è universale e semplice per giungere a ciò che è composto; per analisi, invece, si parte da
ciò che è composto per giungere a ciò che è semplice.
Nel primo caso, per definire qualcosa (“uomo”) si deve partire dal genere in cui la cosa
rientra (“animale”), poi si deve dividere il genere secondo le differenze prossime (“animale
razionale o irrazionale”) e vedere in quale la cosa rientra; il composto formato dal genere e dalla
differenza prossima (“animale razionale”) si divide secondo le sue differenze prossime (“mortale o
immortale”) e si forma così un nuovo composto costituito dal precedente composto più la nuova
differenza prossima, avendo così la definizione (“animale razionale mortale”).
L’analisi parte da ciò che è composto e ascende per partitionem fino al semplice. Si parte
dal nome di cui si deve ricercare la definizione, prendendo in esame le cose che sono simili e alle
quali si attribuisce quel nome; poi si cerca ciò che queste cose hanno in comune secondo il nome. Si
prendono quindi in considerazione altre cose che hanno in comune con le precedenti la specie, ma
presentano una differenza per accidenti e si vede ciò che esse hanno in comune con il nome da
definire. Successivamente si deve esaminare ciò che i due gruppi hanno in comune, secondo il
nome da definire. Se si è giunti a una caratteristica comune, allora questa sarà la definizione.
Altrimenti si procede ripetendo il processo prendendo in considerazione le cose che hanno con ciò
che si sta definendo una differenza progressivamente maggiore.
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5 I rapporti tra le scienze: la teoria della
subalternazione
Nel definire i rapporti fra le varie scienze, Grossatesta utilizza – primo tra i latini – la teoria
della subalternazione.
Il discorso intorno alla classificazione dei diversi saperi scientifici è svolto in un’opera
intitolata De artibus liberalis. In apertura, Grossatesta si richiama al concetto espresso da Ugo di
San Vittore, per cui le arti sono strumenti atti a correggere la naturale predisposizione all’errore
dell’essere umano dopo il peccato originale.
Poiché tutto ciò che è in potere dell’uomo dipende o dall’intelletto o dalla volontà o dai
movimenti dei corpi o dalle loro modificazioni, le arti si articolano in questi quattro ambiti.
Le arti del trivio riguardano la sfera superiore e rientrano nella fisolofia morale, mentre
quelle del quadrivio riguardano la filosofia naturale. Ma la philosophia non coincide con le arti,
essendo più estesa: trattando della filosofia naturale, ad esempio, Grossatesta considera come sue
parti anche la semina dei vegetali, la trasmutazione dei minerali e la cura delle malattie, discipline
che non trovavano posto nelle precedenti enumerazioni dei saperi scientifici.
Le diverse discipline acquistano carattere scientifico a seconda del tipo di dimostrazione
usato in esse. La scienza può essere acquisita per mezzo della causa prossima o per mezzo di una
causa non prossima. Nel primo caso si ha la scienza del “perché”, fondata sulla dimostrazione della
causa; nell’altro caso si ha la scienza del “che”, basata sulla dimostrazione che parte dagli effetti per
risalire alle cause.
Grossatesta ammette che l’uso di questi due procedimenti può essere applicato ad una
medesima scienza, anche se riconosce che questa non era l’opinione di Aristotele. È ovvio che la
dimostrazione del “perché” presenta caratteri di scientificità sicuramente più marcati rispetto alla
dimostrazione del “che”; tuttavia, quest’ultima è utilissima in tutti quei casi in cui la causa di un
fenomeno sia difficile da individuare.
Inoltre, può accadere che due scienze vertano su un oggetto comune, pur rimanendo distinte;
per esempio, sia la geometria che l’ottica riguardano linee e angoli, ma sotto aspetti differenti. In tal
caso esse si distinguono per il metodo seguito: la scienza che procede dimostrando il “perché” è
definita “scienza subalternante”, mentre quella che si limita al “che” è la “scienza subalternata”.
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Nell’esempio proposto, l’ottica si serve delle dimostrazioni della geometria, ma queste sono
considerate nelle loro definizioni, evitando così di spiegarle nuovamente; la loro spiegazione – la
risposta alla domanda del “perché” – si trova nella geometria, che in questo rapporto rappresenta la
scienza subalternante.
Va però sottolineato che il “perché” viene acquisito dalla scienza subalternante nel suo
carattere di generalità, ma è solo nella scienza subalternata che esso acquista la sua causalità rispetto
a degli effetti. Nel rapporto tra la matematica e le scienze che ne fanno uso, il “perché” – cioè le
dimostrazioni – delle formule matematiche impiegate è proprio della scienza matematica, ma è solo
nelle scienze ad essa subordinate che tali dimostrazioni trovano la loro piena realizzazione in un
rapporto di cause/effetti.
Si è visto che l’analisi e la sintesi, l’induzione e la deduzione, forniscono un metodo per la
ricerca scientifica. Tale metodo viene esteso attraverso il processo della falsificazione.
Nella scienza naturale, diversamente da quanto accade per le scienze astratte della
matematica, non è possibile giungere a una conoscenza assolutamente certa della causa da cui
derivano gli effetti. Nel caso degli oggetti materiali, infatti, lo stesso effetto può derivare da più di
una causa, e non è possibile conoscere tutte le diverse possibili cause; ciò significa che solo in
matematica esistono dimostrazioni in senso stretto, caratterizzate da un grado di certezza massimo;
nelle scienze della natura, ci dobbiamo accontentare di giungere a un sapere che è per noi il più
certo possibile, pur non essendolo in assoluto.
Al fine di rendere i risultati dell’indagine naturale quanto più certi possibile, Grossatesta
elaborò un metodo che faceva largo uso della “riduzione all’assurdo”. Quando un fenomeno fisico
sembra spiegabile attraverso diverse cause, si deve procedere all’analisi di ciascuna, cercando di
dimostrarne la falsità. Così procedendo, alla fine resterà una sola ipotesi di spiegazione del
fenomeno, quella che non è stata possibile ridurre all’assurdo, cioè mostrarne la falsità. Questa
ipotesi costituisce la vera spiegazione scientifica di un fatto naturale.
Come si vede, questo metodo segue il principio per cui un’ipotesi è vera se e solo se essa
non è riducibile all’assurdo; detto in altri termini, l’ipotesi che si rivela fondata è quella che non è
“falsificabile”. Da questo punto di vista il procedimento di Grossatesta è stato per molti versi
accostato alla teoria della falsificabilità delle scienze elaborata dal filosofo Karl Popper nel XX
secolo.
Sono stati in particolare gli studi di Crombie a sottolineare questo accostamento, attraverso
un’attenta lettura dell’opera scientifica di Grossatesta. Sebbene la critica più recente tenda a
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Lezione VI
rifiutare l’eccessiva attenzione posta sulla novità del metodo di falsificazione del filosofo inglese, e
su una pretesa anticipazione della teoria popperiana, non si può dubitare che gli sforzi profusi da
Grossatesta per elaborare una metodologia della ricerca scientifica che andasse anche oltre quella
proposta da Aristotele negli Analitici secondi, è sicuramente uno dei maggiori apporti della filosofia
della scienza in epoca medievale. Grazie alle sua attente riflessioni su questioni di carattere
epistemologico, e alla puntualizzazione del modo in cui il metodo scientifico deve essere applicato
allo studio dei fenomeni naturali, attraverso una serie di studi ed esempi diretti, le opere di
Grossatesta si pongono come uno dei più importanti contributi ai successivi sviluppi della filosofia
della scienza, e non soltanto nel Medioevo. Molte sue intuizioni saranno riprese e rielaborate nella
scuola di Padova, dove qualche secolo dopo insegnerà proprio Galileo.
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