il diritto come decisione e come fatto prof .ssa flora di

“IL DIRITTO COME DECISIONE E COME
FATTO”
PROF.SSA FLORA DI DONATO
Università Telematica Pegaso
Il diritto come decisione e come fatto
Indice
1
IL REALISMO GIURIDICO: INTRODUZIONE ----------------------------------------------------------------------- 3
2
IL REALISMO GIURIDICO SCANDINAVO --------------------------------------------------------------------------- 5
3
IL REALISMO DI ALF ROSS ---------------------------------------------------------------------------------------------- 7
3.1.
LE CRITICHE A ROSS: BREVI CENNI ----------------------------------------------------------------------------------------- 9
4
IL REALISMO GIURIDICO AMERICANO --------------------------------------------------------------------------- 10
5
REALISMO AMERICANO E PLURALISMO NELLA TEORIA DEL DIRITTO ----------------------------- 13
6
LA NOVITÀ GIUSREALISTA NELL’ACCERTAMENTO DEL FATTO PROCESSUALE: TAKING
FACTS SERIOUSLY ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 16
7
CONCLUSIONI --------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 19
BIBLIOGRAFIA --------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 21
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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1 Il realismo giuridico: introduzione
Come è ben noto, per essere stato già accennato nella prima e nella seconda lezione, il diritto
di area statunitense ed inglese si ascrive comunemente alla famiglia della common law, che si
differenzia dalla famiglia della civil law per l’assenza di norme scritte (sebbene i singoli Stati
americani abbiano singole costituzioni ed esista la costituzione federale del 1797) e per
l’importanza riconosciuta alle pronunce dei giudici, i cd. precedenti1.
A partire dalle differenti caratteristiche dei due diversi sistemi giuridici, è facile intuire come
lo studio del diritto, inteso come conoscenza delle norme positive, non possa avere un gran rilievo
soprattutto per la jurisprudence di matrice anglo-americana, che preferisce piuttosto dedicarsi
all’elaborazione dei concetti fondamentali del diritto.
A questo fin, si prenderà pertanto in esame quella corrente così definita del realismo giuridico
che nasce, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, e che si caratterizza per uno
spostamento della prospettiva di indagine dalla norma astratta (tipica delle elaborazioni
normativistiche) all’esame del comportamento dei consociati, in particolare del comportamento dei
giudici.
È proprio dall’attenzione per gli aspetti concreti della realtà (i comportamenti, la prassi sociale
e giuridica, i fatti) che deriva la denominazione di realismo.
Le teorie realiste fanno capo, in particolare, a due movimenti giuridici novecenteschi distinti
per area geografica (oltre che, in parte, per area di interesse): il giusrealismo scandinavo ed il
giusrealismo statunitense. Pur recando la medesima denominazione, i due movimenti si sviluppano
in contesti diversi e pochi sono i tratti di comunanza: dalla concezione del diritto come fatto e non
1
Il precedente rappresenta, nell’area anglo-americana, un vero e proprio vincolo giuridico, al pari della legge, ai fini
della decisione da parte dei giudici che si trovano a dover decidere su un caso analogo rispetto a quello già oggetto di
una precedente decisione. Dal precedente i giudici di un sistema di common law possono discostarsi soltanto
argomentando razionalmente ed utilizzando specifiche tecniche quali, ad esempio, il distinguishing e l’overruling.
Queste ultime sono appunto tecniche argomentative che servono per superare un precedente giudiziale. Secondo Mac
Cormick: “distinguere non è altro che l’altra faccia della medaglia dell’applicazione delle regole stabilite nei precedenti;
quando i fatti operativi di un precedente non si verificano, esso non può essere applicato direttamente”. Cfr. Mac
Cormick, N., Ragionamento giuridico e teoria del diritto, Giappichelli, Torino 2001, p. 61. L’overruling RICORRE
invece quando il giudice si convince che un precedente sia errato o inadeguato tanto da doverlo revocare (overule)
dall’intero sistema.
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come norma ad una teoria della scienza giuridica ispirata al rifiuto del monismo metodologico del
positivismo filosofico, fino all’elaborazione di una teoria scettica dell’interpretazione2.
Soprattutto, accomuna le due correnti la considerazione del momento della decisione come
“fonte di produzione del diritto” con il conseguente venir meno del ruolo di centralità della legge di
derivazione statalistica.
2
Barberis, M., Breve storia della filosofia del diritto, Il Mulino, Bologna, 2004, p. 86.
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2 Il realismo giuridico scandinavo
Scrive Guido Fassò che “realismo è comunemente definito l’indirizzo di teoria giuridica sorto
all’inizio del secolo in Svezia ed in Danimarca e che oggi è fra quelli che sono oggetto di maggiore
interesse. […] Il carattere ‘realistico’ delle teorie dei giuristi scandinavi è costituito dal loro rifiuto
non solo del giusnaturalismo, ma anche del positivismo normativistico e formalistico, di cui non
accettano il metodo di elaborazione dei concetti giuridici fondamentali” 3.
Ancora una volta, dunque, come è stato per la concezione struttural-funzionale del diritto e per
le teorie istituzionalistiche, ci troviamo di fronte ad un’esperienza di filosofia del diritto che rifiuta i
canoni normativisti e formalisti.
Il realismo giuridico scandinavo nasce, agli inizi del Novecento, presso la “scuola svedese di
Uppsala”; si diffonde nella penisola scandinava soprattutto grazie al contributo del suo esponente
danese, Alf Ross, collocandosi al centro del dibattito teorico dopo il secondo conflitto mondiale.
Per il realismo scandinavo, il diritto è da considerare come “un fenomeno psichico collettivo”
consistente nel ritenere che esistano diritti soggettivi e doveri, diversi dalla realtà empirica;
convinzione questa fondamentale che ha effetti sulle credenze e sui comportamenti dei consociati,
anche se razionalmente ingiustificata. A giudizio dei realisti, a diritti e doveri non corrisponde
alcuna realtà al di fuori della prospettazione di poteri ed obblighi che avvengono esclusivamente
nella mente umana4.
I realisti sono, infatti, convinti che tutte le affermazioni non suscettibili di verificazione
empirica “sono creazioni arbitrarie dovute ad un uso errato del linguaggio, alla superstizione,
all’effetto di antiche pratiche magiche, all’oggettivazione fantastiche di sentimenti […] una
conoscenza scientifica del diritto può aversi soltanto attenendosi alla realtà empirica, ai fatti”5.
Può essere considerato fondatore del realismo scandinavo Axel Hägerström (1868-1939),
secondo cui il diritto positivo non è altro che un sistema di regole per gli organi dello Stato che
assicurano vantaggi ai consociati. Il diritto non è altro che “un’idea di poteri soprasensibili di
3
Fassò, G., Storia della filosofia del diritto. III. Ottocento e Novecento, ed. aggiornata a cura di Carla Faralli, Laterza,
Roma-Bari, 2001, p. 289 e ss.
4
Fassò, G., Storia della filosofia del diritto, cit. p. 290.
5
Ivi.
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carattere magico, e quindi un’idea falsa; ed i concetti di cui si serve la scienza giuridica sono entità
‘mistiche’ o ‘metafisiche’ cui non corrisponde niente di reale”6.
I maggiori esponenti del realismo scandinavo sono considerati senza dubbio Olivecrona
(1897-1980) e Ross (1899-1979).
L’aspetto più interessante della teoria di Olivecrona, autore del volume “Il diritto come fatto”
(Law as fact) del 1939, risiede nell’affermazione che la forza vincolante del diritto “è una realtà
solo come idea presente nelle menti umane, e non vi è nulla nel mondo esterno che corrisponda a
questa idea”7, rendendo così maggiormente precise le affermazioni di altri esponenti della sua
scuola circa il carattere immaginario e fittizio di concetti quali diritto soggettivo e dovere giuridico.
Concetti-chiave della teoria di Olivecrona sono inoltre quelli di norma come “imperativo
indipendente” o “impersonale”. Vale a dire che, secondo il giusrealista, le norme giuridiche benché
espresse in forma imperativa non sono capaci di influenzare una condotta umana attraverso un
comando perché il comando presuppone che ci sia una persona che dia un ordine ed un’altra che
obbedisca. Nella legge, invece, manca a priori la possibilità di individuare la persona che
impartisca un comando non potendo assolvere a tale compito lo Stato che è formato da svariate
persone, delle quali, tuttavia, nessuna è titolare di un potere che può concretizzarsi nella possibilità
di dare un ordine normativo e di pretendere che un destinatario fisico di quest’ordine lo esegua8.
Le norme, quindi, non sono comandi bensì “imperativi indipendenti”: la norma che regola il
matrimonio e che si esprime, ad esempio, con la locuzione “vi dichiaro marito e moglie”, non
contiene un comando né dice ciò che si sta facendo ma contiene mere enunciazioni performative,
pronunciate da certi soggetti in determinate occasioni9.
Di conseguenza, anche riguardo al problema della coattività, problema che, come è noto, era
stato centrale nella teoria di Kelsen, Olivecrona sostiene che il diritto non è (e non ha) forza in sé
ma esistono norme “riguardanti” la forza, ovvero norme che organizzano la forza. Insomma, il
problema della coattività viene risolto da Olivecrona affermando che la forza non è un mezzo per
realizzare il diritto, ma è “oggetto” e “contenuto” del diritto stesso.
6
Fasso, G., Storia della filosofia del diritto, cit., p. 291.
Olivecrona, K., Law as fact, Copenaghen-Londra, 1939, in Fassò G., Storia della filosofia del diritto, cit., p. 292.
8
Ivi.
9
Barberis, M., Breve storia della filosofia del diritto, cit., p. 120.
7
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3 Il realismo di Alf Ross
Alf Ross, maggiore rappresentante di questa corrente teorica, è in realtà allievo di Kelsen a
Vienna. Prende, tuttavia, le distanze dal normativismo kelseniano anche senza giungere a rinnegarlo
e pur divenendo allievo di Hägerström, all’università di Uppsala.
Grande attenzione presta Ross alle teorie del linguaggio e dai suoi studi sulle norme e sugli
enunciati linguistici ne deriva la concezione che le norme “sono direttive aventi come scopo il
guidare tanto i giudici quanto i cittadini a comportarsi in un certo modo desiderato”10.
Ross in realtà esclude che le norme siano asserzioni e diversamente dagli altri realisti
distingue la categoria del “dover essere” di matrice kelseniana, la categoria della normatività, dal
“puro fatto”. Egli intende, infatti, la normatività del diritto “come un tipo di linguaggio che
costituisce un fenomeno reale” e che perciò stesso è “valido”.
A differenza di Kelsen che fonda la validità della norma sulla “forma”, egli la fonda sulla sua
“efficacia”.
La normatività del diritto è dunque ricondotta da Ross al “fatto”, così che il diritto stesso
possa divenire oggetto di conoscenza scientifica. Lo studio del diritto, al pari di tutte le scienze, è
considerato come studio di “fenomeni sociali”.
Da “empirista” Ross ritiene fondamentale sperimentare, sottoporre a prova, le asserzioni che
riguardano il diritto ed il punto di partenza di questa indagine è rappresentato proprio dalle
decisioni, dalle sentenze dei giudici.
A tal proposito, emerge già in tutta la sua immediatezza l’altro profilo di distinzione delle
teorie realiste dalla teoria normativista Kelseniana, nella quale avviene il contrario, ossia si parte
dalla norma come schema di interpretazione per poi arrivare alla decisione.
Nei realisti è forte l’idea che prima della sentenza non ci sia diritto, non ci sia la legge ma che
sia la sentenza stessa a creare la norma. Prima della sentenza ci sono solo regole, nell’ambito delle
10
Fassò, G., Storia della filosofia del diritto, cit., p. 293.
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quali si muove il giudice ai fini della decisione; la norma è successiva all’individuazione della
regola ed alla pronuncia del giudice.
Il fenomeno giuridico finisce per identificarsi in questo modo unicamente con le decisioni dei
tribunali.
Punto fondamentale della teoria di Ross è dunque la distinzione tra norme e regole.
Ross nega che possa esservi un’identificazione tra la norma e la regola: prima della sentenza
non c’è una norma ma una regola astratta ed impersonale; il giudice si muoverà nell’ambito di
queste regole astratte ai fini della decisione.
Anche i consociati se conoscono le regole a monte possono prevedere la mossa del giudice.
Ross fa, in proposito, l’esempio del gioco degli scacchi: per giocare a scacchi e per seguire il
gioco non è sufficiente osservarlo ma è necessario conoscere le regole per poter prevedere la mossa
dell’avversario.
Ecco allora che la “certezza” del diritto che nel sistema normativo kelseniano era data dalla
corretta applicazione della legge si trasforma, nel sistema rossiano, in “prevedibilità”.
Ne deriva che la stessa idea di giustizia in Ross corrisponde ad un criterio di giustizia formale
che si sostanzia, nell’esigenza che il trattamento fatto ad una persona sia predeterminabile mediante
criteri oggettivi stabiliti nelle norme. [Si pensi ad esempio al principio di irretroattività della legge
in materia penale].
Affermare che la decisione è “giusta”, per Ross, significa dunque dire che essa è stata presa in
modo regolare, conformemente alle norme vigenti.
L’idea di giustizia si riduce, in sintesi, all’esigenza che una decisione sia il risultato della
corretta applicazione di una norma generale. Giustizia è “corretta applicazione” di una legge in
contrapposizione all’ “arbitrio”.
Non ha dunque senso dire che una legge è “giusta” o “ingiusta”, ha senso dire solo che è stata
applicata correttamente o meno. Non si tratta dunque di un criterio di “giustizia assoluta”.
Del resto, una norma giuridica formalizzata non può prendere in considerazione tutte le
circostanze rilevanti del caso, il che crea un conflitto fra la tendenza alla giustizia formale della
legge (cioè all’applicazione della legge tout court) e la tendenza all’equità del caso concreto.
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Questo contrasto emerge in misura maggiore quando le norme vengono formulate lasciando
posto alla discrezionalità del giudice. Ciò avviene perché il legislatore formula necessariamente in
termini vaghi una norma, lasciando al giudice o al funzionario amministrativo la possibilità di
esercitare la propria discrezionalità, sia pure secondo standards giuridici. Vengono cioè fissati degli
standards all’interno dei quali il giudice o il funzionario si muovono nell’applicazione della legge al
caso.
In linea di principio, ci troviamo in presenza di situazioni “equitative” perché non potendo i
giudici seguire alla lettera le leggi date, le decisioni scaturiscono da una valutazione “intuitiva”
della situazione concreta, che richiede un’indagine introspettiva, psicologica del retroterra
motivazionale della decisione stessa.
3.1.
Le critiche a Ross: brevi cenni
Sembra, a questo punto, interessante considerare alcune delle critiche che Catania, in
particolare, muove a Ross.
Catania, infatti, riconosce l’interesse per la costruzione di un modello di scienza del diritto che
sia capace di spiegare il momento della decisione (accanto a quello della normazione di matrice
kelseniana). Tuttavia non comprende perché questa indagine debba essere condotta da un punto di
vista psicologico e introspettivo con uno spostamento di prospettiva dal piano dell’interpretazione
dalla legge a situazioni interne, psicologistiche.
Secondo Catania, infatti, è solo la norma intesa come “schema di conoscenza” che può
permettere di dare un senso alle decisioni giudiziarie, di interpretarle; non è possibile partire dalle
decisioni e dal comportamento per spiegare le decisioni ricorrendo ad ipotesi psicologistiche.
Catania preferisce infatti avvalersi del concetto di norma, per quanto esso sia estremamente
ambiguo, per spiegare comportamenti e decisioni, piuttosto che partire dalle decisioni e tentare di
spiegarle facendo ricorso ad esperienze interne, che sono di verificabilità ancora più incerta rispetto
allo stesso concetto di norma11.
11
Per le critiche di Catania a Ross cfr. Id. Filosofia del diritto. Temi e problemi, Gentile, Salerno 1990, p. 133 e ss.
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4 Il realismo giuridico americano
Il realismo giuridico americano è un indirizzo di studio che si sviluppa in America, a partire
dal 1930. Fassò lo definisce come quell’indirizzo “non metafisico e non logico-formalistico”
riferendosi in generale a quelle teorie di ispirazione pragmatista finalizzate a studiare la law in
action piuttosto che la law in books (secondo una nota metafora di Pound)12.
Con la stessa locuzione, Karl Llewellyn (1893-1962) designa “un gruppo di giuristi
americani” accomunati dalla critica ai concetti e ai metodi delle dottrine formalistiche e del
normativismo kelseniano. Il diritto viene ridotto dai normativisti americani alla decisione dei
giudici e la scienza giuridica consiste in tecniche di previsione del comportamento e delle decisioni
dei giudici stessi. Come per il realismo scandinavo, anche per il realismo americano la scienza
giuridica opera in maniera “avalutativa”, perché si limita a descrivere comportamenti e condotte.
L’essenza del realismo americano potrebbe anche essere colta in questo brano di Holmes
(1841-1935):
“Prendiamo, per esempio, il problema fondamentale: cos’è il diritto? Alcuni autori vi diranno
che è qualcosa di diverso da ciò che decidono le corti del Massachusetts o dell’Inghilterra, che è un
sistema di ragione, che è una deduzione a partire dai principi della morale, o da assiomi
universalmente accettati, e così avanti […]. Se però adottiamo il punto di vista del nostro amico,
l’uomo cattivo (bad man), ci accorgeremo che a costui importano poco gli assiomi o le deduzioni:
quello che gli interessa sapere è come decideranno effettivamente le corti del Massachusetts o
dell’Inghilterra. […]. Io per diritto non intendo nulla di più pretenzioso della previsione di quanto
faranno effettivamente le corti”13.
La misura della giustezza del diritto per Holmes è data dal bad man, inteso come vero uomo,
quello che, con “sguardo cattivo” piuttosto che con l’occhio dell’uomo “giusto” guarda alle
conseguenze materiali del diritto14.
12
Fassò, G., Storia della filosofia del diritto, cit. p. 269.
Barberis, M., Breve storia della filosofia del diritto, cit., p. 86.
14
Holmes aveva sostenuto che chi vuole conoscere il diritto lo deve fare con l’occhio del bad man, ovvero dell’uomo
cattivo che si preoccupa delle conseguenze materiali e prevedibili di tale conoscenza. Si veda: Barberis, M., Breve
storia della filosofia del diritto, cit., p. 86.
13
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Punti di forza e di debolezza: critiche
Il realismo americano è definito anche “acritico” perché ha ad oggetto il mero esame dei
comportamenti dei giudici, a prescindere da un’indagine del retroterra psicologico, delle
motivazioni che i comportamenti sottendono.
In questo modo, oltre ad essere non considerato, svuotato di significato il concetto di legge,
non viene preso in considerazione neanche il rapporto tra la decisione del giudice ed il retroterra che
può giustificare la decisione stessa.
Il diritto per i realisti, come già detto, è solo quello che si applica nei tribunali, è ciò che si
concretizza nell’azione di giudici. Tutto ciò che lo precede può essere considerato un fenomeno pregiuridico o non strettamente giuridico.
La domanda fondamentale che si rende, a questo punto, necessaria è allora: che funzione ha la
legge in una concezione di tal genere?
La legge finisce per essere una sorta di attività programmatica: è il giudice con la sua
decisione a creare il diritto.
Il problema è che, come sostiene l’altro maggiore esponente Jerome Frank (1889-1957), la
sentenza del giudice non è prevedibile, non essendo frutto di ragionamento, ma di “intuizioni” per
le quali il giudice giunge alla decisione finale, prima ancora d’aver cercato di motivarla e spiegarla.
È indubbio che, in questo modo, si attenua il valore della “certezza” che aveva caratterizzato il
formalismo kelseniano. In Kelsen, il rispetto della forma, il rispetto della procedura, dal quale si
faceva derivare la validità delle norme era garanzia di “certezza”.
Il principio dell’“irretroattività” della legge penale -cui abbiamo già accennato-, tipico del
nostro sistema codicistico, prevede che nessuno possa essere punito per un fatto che non sia stato
definito da una legge precedente alla commissione del fatto stesso.
La certezza del diritto, espressa in questo caso attraverso la pre-definizione del reato,
rappresenta una forma di tutela per il cittadino. [Del resto la cultura del “predefinito”, del diritto
scritto, è tipica dello Stato di diritto].
Tuttavia se a partire da un sistema codicistico, come quello europeo, è difficile comprendere
ed accettare l’idea che la legge “diventi legge” solo attraverso l’azione giudiziaria, questo non
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significa che anche in un sistema come il nostro, il giudice sia solo “bocca della legge” limitandosi
ad applicare la legge senza nessuno spazio per l’interpretazione15.
15
Per una rivisitazione critica del realismo americano, si veda Catania, A., Filosofia del diritto, cit., pp. 122-126.
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5 Realismo americano e pluralismo nella teoria del
diritto
A partire da tutto quanto detto sin qui, è facile immaginare anche il notevole impatto del
realismo americano per la teoria del diritto anche ai fini della rivisitazione di concetti relativi alla
produzione normativa, alla interpretazione della legge nonché alla formazione della decisione
giudiziale.
In primo luogo, alla credenza classica secondo cui l’applicazione della logica potrebbe
determinare una corretta soluzione per ogni caso si sostituisce progressivamente la prospettiva che
la risposta alle questioni giuridiche vari invece secondo il contesto sociale16.
Di qui l’interesse crescente della teoria del diritto per i modi di funzionamento della società
con una diminuzione dell’importanza del ruolo della dottrina dell’analisi razionale.
I tre giganti del diritto americano, d’inizio secolo, Holmes, Brandeis e Pound, svolgono un
ruolo strumentale nel ridimensionare la prospettiva classica. Holmes e Pound, in particolare,
argomentano che la vera natura del diritto sia profondamente differente da come rappresentata fino
a questo momento, in quanto il diritto è profondamente legato alla società17.
Holmes ritiene addirittura che la logica giuridica sia sussidiaria rispetto alla ragione pratica ed
a considerazioni di politica sociale:
“la via del diritto non è la logica ma l’esperienza, l’esperienza giurisprudenziale”18.
Llewellyn, l’esponente più autorevole ed originale di questo gruppo, sostiene decisamente la
prospettiva che il diritto sia “dinamico”, fortemente rispondente alle condizioni di cambiamento
sociale. In particolare, egli rifiuta il formalismo alla luce dell’osservazione che le regole di diritto,
16
Nella prospettiva formalista, il diritto è concepito come un sistema di regole dal significato univoco: le regole
determinano il modo in cui le norme e le procedure operano ed il modo in cui le decisioni giudiziarie vengono prese.
Gli stessi attori giudiziari sono “costretti” da un tale sistema di regole chiaramente articolato. La discrezionalità
giudiziaria è ridotta al minimo. Secondo questa prospettiva gli stessi avvocati sarebbero neutrali: i loro valori e i loro
punti di vista non influenzerebbero il modo di consigliare i clienti e presentare il caso. I giudici si sforzano
costantemente di accertare e verificare i cd. principi immutabili del diritto, la decisione di un caso particolare è vista
come incidentale rispetto all’applicazione di una dottrina consolidata. I risultati del procedimento sono considerati
apparentemente “inevitabili”.
17
Sul contributo dei teorici realisti cfr., tra gli altri, Barberis, M. Filosofia del diritto, cit.
18
R. Treves, Sociologia del diritto. Origini, ricerche, problemi, Einaudi Torino, 1987, p. 132.
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rilevanti ai fini di una particolare decisione, possono essere interpretate secondo un numero di
canoni opposti di costruzione19.
Llewellyn mette soprattutto in evidenza il legame che unisce il diritto agli operatori giuridici:
legislatori, giudici, avvocati, funzionari della pubblica amministrazione. Il diritto è la risultante
dell’interazione tra norme giuridiche e produzione pratica ed è attuazione delle stesse da parte degli
operatori del diritto.
Infine, Llewellyn considera il diritto come un mezzo di controllo sociale, che svolge una
funzione non solo repressiva ma anche organizzativa allo “scopo di produrre e mantenere la
coesione del gruppo”20. Il giudice è considerato come “costruttore di diritto” ed il diritto va
concepito a partire dalle pratiche della vita sociale piuttosto che da regole astratte espresse in
opinioni giudiziarie21.
“I realisti americani – fa notare Castignore – si battono anche contro la concezione
meccanicistica dell’interpretazione, che chiamano ‘teoria fotografica della funzione giudiziaria’: i
giudici creano diritto, non si limitano ad applicarlo. […] E i giudici decidono interpretando le leggi
e i precedenti nel modo più adatto per raggiungere quella che secondo loro è la decisione più
consona alle esigenze sociali”22.
In definitiva, i realisti a partire dalla consapevolezza di una discrezionalità onnipresente ed
ineliminabile, sono convinti che le regole di diritto non siano gli unici elementi ad influenzare le
decisioni. Soprattutto, ritengono che le decisioni giudiziarie siano judge-centered e costituiscano
pertanto esercizio di potere giudiziario.
In particolare, Frank, con la sua teoria estrema del fact-skepticism, respinge il principio della
certezza del diritto valorizzando piuttosto il ruolo del giudice come interprete e creatore del
diritto23.
Si passa così da un modello di jurisprudence, in cui si tenta di spiegare la natura del diritto e
l’interpretazione giudiziale nei termini di una teoria oggettiva distinta dalla filosofia politica e
19
Llewellyn, K. “Remarks on the Theory of Appellate Decision and the Rules or Canons About How Statutes Are to
Be Construed”, 3, Vand. L. Rev. 395, 1950. Dello stesso autore cfr. The Case Law System in America, The University
of Chicago Press, Chicago 1989.
20
Treves, R. Sociologia del diritto, cit., p. 134.
21
Minda, G., Teorie postmoderne del diritto, Il Mulino, Bologna 2001, p. 37.
22
Castignone, S. Introduzione alla filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari, 2004, p. 109.
23
Frank, J.N., Law and the Modern Mind, Brentano’s New York, 1930.
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morale, ad un modello di jurisprudence costantemente attento ai contesti sociali e culturali nei quali
le decisioni sono prodotte24.
24
G. Minda, Teorie postmoderne del diritto, cit., p. 9.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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6 La novità giusrealista nell’accertamento del fatto
processuale: taking facts seriously25
Nel paragrafo precedente, si è cercato di illustrare le forti novità che il realismo americano ha
introdotto nella scienza giuridica, in termini di rivisitazione del ricorso alla logica giuridica ed all’i
interpretazione.
In generale, si può ritenere che il realismo americano abbia generato notevoli cambiamenti nel
modo stesso di guardare al fenomeno giuridico, recuperando, innanzitutto, l’interdipendenza del
rapporto tra diritto e società e la relazione tra teoria e prassi26.
Il segnale più evidente di questo cambiamento è rappresentato da un rinnovato ed accentuato
interesse per la dimensione “fattuale” del diritto che si traduce nella consapevolezza che l’esito
della decisione sia fortemente condizionato dalla modalità e dalla possibilità di accertare e di
conoscere il fatto in giudizio più che dalle capacità logiche del giudice e delle parti di sussumere
fatti “oggettivi” sotto una norma astratta di sicura applicabilità.
Frank, esponente più autorevole di questa corrente, ritiene che solo in parte l’incertezza legale
sia dovuta all’indefinitezza delle norme, in una società come quella contemporanea. Si chiede,
infatti, in una prospettiva di fact-skepticism, come possa un giudice giudicare su fatti avvenuti nel
passato. Già nel 1950, Frank argomenta, in modo rivoluzionario, che i “fatti sono supposti” e che è
ingannevole parlare di “trovare” il fatto: “i fatti giudiziari non sono dati, non stanno da qualche
parte in attesa di essere scoperti. Essi sono creati dal processo sulla base di reazioni soggettive alle
storie dei testimoni”27.
I fatti non entrano nella Corte. La Corte apprende di “questi reali, obiettivi fatti passati” solo
attraverso la testimonianza orale di “fallibili” testimoni. La corte deve “dedurre” nell’attualità fatti
passati (facts are guesses). Non c’è nessuna garanzia che i fatti del passato coincideranno con quelli
“indovinati” nel presente.
25
Per una trattazione più ampia di questa tematica rinvio a Di Donato, F., La costruzione giudiziaria del fatto. Il ruolo
della narrazione nel ‘processo’, Franco Angeli, Milano 2008.
26
Si noterà come l’attenzione riconosciuta al legame tra diritto e società costituisca un elemento comune tra realismo ed
istituzionalismo ed al tempo stesso un elemento di differenziazione rispetto alle teorie normativiste che non sono
interessate al diritto come strumento di controllo sociale né al rapporto tra regole giuridiche ed obbedienza dei
consociati quanto piuttosto al momento repressivo e sanzionatorio del diritto.
27
Frank, J.N., Courts on Trial. Myth an Reality in American Justice, Princeton University Press, Princeton, New Jersey
1950, pp. 14-36. Di Frank cfr. inoltre “What Courts Do in Fact”, Part One, 26, Ill. L. Rev., 645, 1931-1932; Part Two,
26, Ill. L. Rev., 761, 1931-1932.
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Frank metterà in luce due passaggi fondamentali: i fatti così come appaiono nel colloquio tra
cliente e avvocato non saranno probabilmente gli stessi che verranno rappresentati in giudizio. In
secondo luogo, i testimoni potrebbero ricordare in modo inesatto o addirittura aver percepito in
modo inesatto, come è dimostrato dai risultati degli esperimenti aventi ad oggetto percezioni
differenti dello stesso evento da parte di due differenti osservatori. Inoltre, ammesso che il
testimone non si sbagli, potrebbe egualmente aver dimenticato qualche elemento o “fabbricato il
fatto mancante o dimenticato”. Né si può trascurare il ruolo “fiduciario” di cui i testimoni si sentono
investiti nei confronti delle parti. In più le corti superiori raramente possono fare qualcosa per
correggere gli errori delle corti inferiori rispetto ai fatti. Le testimonianze sono orali, quindi la corte
non può che adottare le determinazioni di fatto della corte inferiore.
Considerato allora come in un processo si raccolgono le prove, Frank considera estremamente
fuorviante parlare di giudizio per “trovare” i fatti (a trial court finding facts): i giudizi di fatto non
sono dei “dati”, qualcosa che è “dato”, non stanno aspettando da qualche parte, pronti per essere
scoperti dalla corte. Più appropriatamente essi sono processed dalla corte, sono “creati” dalla corte e
“dati” alla corte superiore dal giudizio di merito28.
In sintesi, secondo la visione scettica di Frank, sarebbe più appropriato dire che i fatti così
come “trovati” da una corte sono “soggettivi”29. Nella migliore delle ipotesi, un giudizio sui fatti
sarebbe un’opinione sulle opinioni o credenze di qualcuno.
Nonostante le “sollecitazioni” di Frank e del movimento gius-realista, Evidence, Proof e Fact
finding, ancora oggi non sembrano essere generalmente accettati come parte integrante e centrale
del nucleo dei curricula di formazione dei giuristi, né in generale dei discorsi legali30.
28
Traduzione nostra. “Considering how a trial court reaches its determination as to the facts, it is most misleading to
talk, as we lawyers do, of a trial court ‘finding’ the facts. The trial court’s facts are not ‘data’, not something that is
‘given’; they are not waiting somewhere, ready made, for the court to discover, to ‘find’. More accurately, they are
processed by the trial court – are, so to speak, ‘made’ by it. On the basis of its subjective reactions to the witnesses’
stories”. Id., Courts on Trial, cit., pp. 23-24.
29
La prospettiva di Frank non viene qui richiamata con la stessa finalità “scettica”, né è rilevante ai fini della nostra
indagine dimostrare che i fatti siano soggettivi/veri/falsi e che “Most legal rights turn on the facts as ‘proved’ in a future
lawsuit, and proof of those facts, in contested cases, is at the mercy of such matters as mistaken witnesses, perjured
witnesses, missing or dead witnesses, mistaken judges, inattentive judges, biased judges, inattentive juries, and biased
juries. In short a legal rights is usually a bet, a wager, on the chancy outcome of a possible future lawsuit”. Op. ult. cit.,
p. 27. Ciò che qui rileva è l’intuizione di Frank che i fatti non sono “data”, intuizione senz’altro in linea con la
prospettiva costruzionista e precorritrice dei successivi sviluppi delle teorie post-moderne.
30
La “crociata” di Frank non è ad ogni modo l’unica: Twining ricorda, tra le altre, la proposta di Albert Osborn del
1922 di istituire una Cattedra di Fatti e numerose difese da parte di giudici, avvocati e operatori pratici. L’Ormrod
Committee on Legal Education in Inghilterra ha esplicitamente incluso come uno dei principali obiettivi di un primo
stage accademico “the intellectual training necessaries to enable (the student) to hundle facts and apply abstract concept
to them”. W. Twining, Rethinking Evidence. Exploratory Essays, 2nd Edition, Cambridge University Press, Cambridge
2006, cit., p. 16.
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A partire dagli anni ’60, negli Stati Uniti, ci sono stati una serie di tentativi da parte di Frank,
Michael, Wigmore, di sviluppare specifici corsi su fact finding. Si è trattato più che altro di
contributi individuali e non di corsi istituzionalizzati.
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7 Conclusioni
La prospettiva tipica del realismo, nelle sue prime formulazioni, avente a che fare con la
riduzione del diritto alla previsione delle decisioni da parte dei giudici, può essere oggetto di facile
contestazione soprattutto se ci si colloca nella prospettiva di un sistema di diritto positum (scritto),
come quello di matrice continentale.
Se è vero, infatti, che il diritto non può essere ridotto ad un insieme di norme che prescrivono
sanzioni, come aveva previsto Kelsen, è tuttavia indubbio che il diritto non possa essere inteso
come un insieme di “previsioni”, aventi forza di prescrizioni. Appiattire il momento della
produzione normativa sulla fase decisionale e dire che sono i giudici a produrre diritto, significa
cadere in una sorta circolo vizioso. Significa, in primo luogo, non distinguere tra la fonte di
legittimazione delle funzioni decisionali, che non può che essere la legge, e l’esercizio della
funzione stessa. In altre parole, i giudici non derivano il loro potere e le loro funzioni dal diritto che
essi producono: essi vengono investiti nell’esercizio delle loro funzioni non per acclamazione
popolare né per scelta carismatica ma in base a norme procedurali che regolano il loro ingresso
nella magistratura.
Inoltre se in qualche misura a produrre diritto sono i giudici (si pensi al ruolo della
giurisprudenza), il momento di produzione normativa non può ridursi a mera interpretazioneapplicazione. Nei sistemi di civil law, la principale fonte di produzione del diritto continua ad essere
la legge prodotta dal Parlamento. La produzione del diritto non è (o comunque non è
principalmente) di derivazione giudiziaria: ai giudici spetta il compito fondamentale di “applicare il
diritto”.
Resta naturalmente il grande merito di una concezione che, come meglio spiega Catania, ha
elaborato una nozione di scienza giuridica capace di far emergere i processi decisionali, sia pur
limitatamente al momento dell’attività giudiziaria. L’ideale sarebbe tuttavia, come propone Catania,
immaginare di elaborare un metodo in cui a contrapporsi non siano la legge o la sentenza né il
normativismo ed il decisionismo. L’ideale sarebbe individuare un metodo normativisticodecisionistico che colga la decisione non solo in ambito giudiziario ma in un settore più ampio dove
domini la norma, quindi la legislazione.
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Vanno, infine, evidenziati i meriti della concezione realista, soprattutto nella versione
americana, come contributo più generale all’avanzamento della teoria del diritto, intesa come teoria
complessa che non si riduce all’elaborazione di concetti-chiave aventi a che fare con la norma o con
la decisione ma che si interroga più ampiamente sul ruolo che debba svolgere il diritto nella
comprensione dei fenomeni sociali.
Contestualizzare l’attività dei giudici vuol dire, infatti, tentare di comprendere come le
decisioni giudiziarie possano variare al mutare delle situazioni locali (economiche, culturali, sociali)
che inevitabilmente condizionano i processi decisionali, sia pur nell’ambito di uno stesso territorio e
dunque di una stessa legislazione. Vuol dire inoltre tener conto della mutevolezza delle stesse
pratiche sociali e giudiziarie, anche a partire dal coinvolgimento dei consociati nei processi
decisionali di cui essi sono destinatari.
Infine, va sottolineato il grande elemento di novità apportato dalla corrente realista, sia pur
con enfasi differenti nella corrente scandinava e americana, rispetto all’attenzione dedicata al ruolo
del fatto nelle decisioni giudiziarie oltre che al diritto.
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