Storia dell’enogastronomia e delle tradizioni popolari in Umbria 1 CIBO E CULTURA Storia del rapporto fra Uomo, alimentazione e costume a cura di Marino Marini 2 STORIE PARALLELE La storia dell’uomo e quella del cibo possono definirsi la stessa storia. Questo perché il cibo ha ovviamente sempre fatto parte della vita dell’uomo, ma non soltanto dal punto di vista strettamente nutrizionale. Il cibo è stato principalmente veicolo di cultura, per i singoli come per le civiltà. Un viaggio straordinariamente articolato e interessante, che cercheremo di raccontarvi nel modo più piacevole possibile. 3 DALLA “PREDAZIONE “ ALLA “PRODUZIONE” Il primo passaggio epocale fra uomo e territorio avvenne nel neolitico, quando da cacciatore raccoglitore egli divenne, se pur gradualmente, agricoltore allevatore. L’aumento della popolazione fu la causa principale del cambiamento. Gli elementi base furono la domesticazione dei cereali e di animali come capre e pecore. Quella fu la prima manipolazione della natura. 4 UN CAMBIAMENTO EPOCALE Una separazione dall’appartenenza al mondo degli animali. Una nuova prospettiva che pone l’uomo come padrone del mondo naturale. Rottura culturale con la Madre Terra che l’uomo vivrà sempre in modo colpevole, espiando con le ritualità. Il nuovo corso permise una maggiore espansione demografica. 5 LA SELEZIONE DELLE PIANTE PIÙ PRODUTTIVE In primis i cereali: Il Grano nel Mediterraneo. Il Sorgo nel continente africano. Il Riso in Asia. Il Mais in America. 6 CIVITAS E CIVILITAS – CITTÀ E CIVILTÀ Con le piante crebbero anche le città e le civiltà. Lo sviluppo della civiltà legato allo sviluppo dell’agricoltura. Nel processo di evoluzione le società umane non si sono adeguate alle condizioni imposte dall’ambiente . Le hanno modificate introducendo anche colture non originarie, portando trasformazioni anche al paesaggio. 7 NASCE ALLORA “L’UOMO CIVILE” Che costruisce il proprio cibo artificialmente. Un cibo che non esiste in natura. Un cibo che segna la differenza tra Natura e Cultura. Un cibo che distingue le bestie dagli uomini. 8 IL PANE COME SIMBOLO EVOLUTIVO Nel Mediterraneo spetta al Pane la funzione simbolica, oltre che nutritiva. Il Pane non esiste in natura e solo gli uomini sanno farlo. Hanno elaborato tecniche, dal chicco alla farina, che sono frutto di lunghe esperienze e riflessioni. 9 LA DONNA, TENUTARIA DEL SAPERE Scritture mesopotamiche riportano che l’uomo selvatico esce dal suo stato solo dopo aver appreso l’esistenza del Pane. È una donna, o meglio una prostituta, a farglielo conoscere. Alla donna quindi si attribuisce il ruolo di custode del sapere alimentare, oltre che della sessualità. La figura della donna è basilare nelle’opera di selezione delle piante fin dai primordi dell’agricoltura. Stesso ruolo simbolico anche per vino e birra, che fermentati come il pane, rappresentano il dominio dell’uomo verso la Natura. 10 PRENDE FORMA LA “CULTURA DEL CIBO” La cultura si pone nel punto d’intersezione fra tradizione e innovazione. È tradizione perché costituita dai saperi, dalle tecniche e dai valori tramandati. È innovazione in quanto saperi, tecniche e valori modificano la posizione dell’uomo nel contesto ambientale. La tradizione può definirsi innovazione ben riuscita. La Cultura quindi diventa connessione fra le due prospettive. 11 ANCHE LA NATURA COME CULTURA Fra il modello di sviluppo basato su agricoltura -pastorizia e economia “selvatica” si evidenzia una contrapposizione fra i modelli alimentari di sedentarietà e nomadismo. La prospettiva cambia perché pastorizia e caccia vengono praticati in spazi incolti opposti al modello sedentario di coltivazione agricola. 12 CONFRONTO DI STILI Nelle società agricole i riti di fertilità e i miti avranno come protagonisti i cereali e il ciclo delle stagioni. In Asia sarà il riso al centro dei racconti e delle leggende. I popoli delle Americhe celebreranno il mais, dalla quale farina gli dei modellarono l’uomo. Nelle società di cacciatori e pastori i riti propiziatori saranno dedicati invece agli animali. Seppellire le loro ossa consente all’anima la prodigiosa rigenerazione dell’animale. 13 CULTURA E NATURA La contrapposizione fra Cultura e Natura è in gran parte fittizia. L’uomo civile si autorappresenta fuori dalla Natura ma la Natura stessa diventa per altri un modello culturale e una scelta intellettuale alla Cultura. Un esempio è la contrapposizione fra il modello di tradizione greco romana fondato sull’agricoltura e quello germanico basato su raccolta, caccia, pastorizia. 14 IL MEDIOEVO E LA MESCOLANZA CULTURALE Il rapporto fra i due modelli alimentari comincia a cambiare nel Medioevo. Fino ad allora essi erano stati simbolo di due diverse civiltà, una delle quali disprezzava l’altra come inferiore e “barbara”. Quando però i barbari conquistarono l’impero, diffusero anche il loro modello alimentare. Allo stesso modo anche la tradizione agricola romana si diffuse tra i barbari. 15 IL CRISTIANESIMO VETTORE DI CULTURA AGRICOLA Il cristianesimo cresciuto nell’ambito della cultura mediterranea, non a caso assume i simboli liturgici del pane, del vino e dell’olio. Dall’incrocio di questi due percorsi nasce una nuova cultura alimentare; quella europea. Quella che mette sullo stesso piano il Pane e la Carne. L’attività agricola e lo sfruttamento della foresta. Da quel momento non vi è più contrapposizione fra Cultura e Natura ma un nuovo modo di costruire il rapporto fra uomo e ambiente. Da questo fondamento prende vita il nostro patrimonio alimentare. 16 17 storia del cibo ricco, del cibo popolare e delle contaminazioni culturali e sociali fino alla definizione del concetto di “cucina italiana” di Marino Marini 18 Il mistero della cucina tradizionale italiana Purtroppo il mito della cucina tradizionale, casalinga, contadina, rurale, regionale etc. è da sfatare. Le sue origini non si perdono affatto nella notte dei tempi ma al contrario, hanno riferimenti alquanto moderni. Cuoca che prepara le torte di mele, Giacomo Legi, olio su tela, Palazzo Bianco, Geno 19 Il mistero della cucina tradizionale italiana Questo luogo comune è frutto degli ultimi due secoli di cultura gastronomica. Infatti i cibi che sono giunti a noi dal lontano passato, sono rarissimi e tra l’altro ben documentati. L’idea delle ricette tramandate da madre in figlia non è che il retaggio romantico e folkloristico del periodo tra le ultime due guerre. 20 Il mistero della cucina tradizionale italiana Le prove documentali di questa tesi le troviamo nello stesso fatto dell’uso massiccio di quegli ingredienti definibili “intrusi” provenienti dal nuovo mondo. Mais, patate, pomodoro, fagioli etc, nulla hanno a che fare con la nostra vera storia alimentare. 21 La polenta si diffuse in Italia centrale solamente a metà del 1700 Giovanni Antonio Battarra in “Pratica Agraria” del 1782 ricorda che i contadini romagnoli “dintorno agli orti ne piantavano una spica o due per far polenta otto o dieci volte” 22 Nel 1800, nell’area dell’Italia centrale della patata se ne ignorava il nome. Il primo a inserire le patate in un ricettario sarà Vincenzo Corrado nell’ottava edizione del suo “il cuoco galante” 1820 23 “Gli italiani mangiano questo frutto in insalata, condito con sale, pepe e olio” scrive nel 1704 il Dictionnaire de Trèvoux. I pomodori però divennero popolari solo nel corso dell’Ottocento e soprattutto sotto forma di conserva e salsa. Fu allora che la pasta, normalmente condita con formaggio e spezie, assunse il suo tipico, ma modernissimo, colore rosso. 24 25 Le prove documentali dei modelli alimentari del passato sono molte e assai antiche. Tutte però si riferiscono esclusivamente alla cucina dei ceti più alti, anche se con modalità differenti. Nulla a che fare con la cucina che conosciamo e che definiamo locale o rurale. 26 In epoca imperiale la tendenza cambia gradualmente e lo sfarzo diviene ostentazione della propria potenza, anche e soprattutto nei banchetti. Tra i documenti che testimoniano questo costume vi è il “De Rè Coquinaria” di Apicio 27 Video Satiricon di Fellini 28 Questo sistema, che prepone artifici e innovazioni volte alla modificazione dei sapori e delle forme naturali dei cibi, si manifesterà anche nel medioevo, nel rinascimento e fino al XVIII secolo. 29 Video Vatel 30 L’ENORME DIVERSITÀ DI CONCEZIONE DELLA CUCINA ANTICA, CI PORTA RAGIONEVOLMENTE A SOSTENERE CHE LO STRAORDINARIO CAPITALE DI STILI, COMPETENZE E TECNICHE, CHE SONO LE CUCINE LOCALI ITALIANE, È UN FENOMENO CHE SI RESTRINGE SOLO AGLI ULTIMI DUE SECOLI Questa è una tesi documentata che resta indigesta a molti. Per non lasciare dubbi, o urtare la suscettibilità di qualcuno, sarà opportuno approfondirla nel dettaglio. 31 Nei ricettari trecenteschi e quattrocenteschi troviamo piatti definibili a “denominazione d’origine”come: torte parmigiane, bolognesi e romagnole. Ma anche francesi, ungaresche e al modo catalano, ma in che cosa consista la loro collocazione locale è difficile da appurare. Lo stesso per le preparazioni alla genovese, alla milanese, alla romana, alla napoletana, alla ciciliana del ricettario quattrocentesco di maestro Martino da Como e del Platina, in quelli cinquecenteschi di Cristoforo da Messisbugo, Panunto e Bartolomeo Scappi, o ancora in quelli seicenteschi di Bartolomeo Stefani 32 Cercare di rintracciare i piatti a denominazione locale nel periodo tra il XIV e il XVII sec. per scovare il codice genetico delle future cucine regionali italiane, è di fatto una forzatura. La cucina aristocratica borghese alta, tramandata dai ricettari e dalle cronache dei banchetti, ha una impostazione universalistica, tendenzialmente carnea. Di quella plebea sappiamo ben poco, forse perché ben poco c’è da sapere. 33 La cucina ricca è radicalmente artificiale, tende all’occultamento dei sapori naturali e dell’aspetto originario. Tende a nascondere la logica delle stagioni e la tipicità dei prodotti Ecco perché oggi risulta così difficile attribuire una sincera paternità ai piatti dell’attuale panorama gastronomico italiano 34 Quando nasce allora la cucina regionale, locale, rurale? 35 I primi indizi delle cucine regionali appaiono nel XVIII secolo partendo dalla Francia ma si allargano velocemente fino a noi e qui esplodono. Una“rivoluzione gastronomica” che muta radicalmente le basi tecniche, la tavolozza dei sapori e forse anche la nozione stessa di gusto. Questa moda contrappone alla complicazione della vecchia cucina aristocratica, una cucina più semplice e forse per questo ancor più dotta. 36 Nel 1766, a Torino, viene edito “il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” il primo manuale italiano di “cucina moderna”. La cucina delle cotture multiple, dell’eccessivo uso di spezie, dell’ibrido dolce/salato, viene soppiantata da una cucina che valorizza gli alimenti freschi, le verdure, le erbe aromatiche ponendo dei confini tra i sapori e introducendo nuove salse, nuovi fondi e legamenti. 37 Alla formazione di questo nuovo codice gastronomico europeo, gli italiani vi partecipano da veri protagonisti, sia proponendo una cucina più semplice, fresca e garbata di quella francese, sia ponendosi per la prima volta il problema dell’identità gastronomica e dei rapporti con le tradizioni locali. 38 RIVOLUZIONE GASTRONOMICA E CUCINE LOCALI Francesco Leonardi nel monumentale Apicio moderno del 1790, abbozzò per primo il profilo storico della cucina italiana, presentando, accanto a piatti francesi, tedeschi, inglesi, russi, polacchi e turchi, svariati piatti regionali lombardi, veneziani, romani, napoletani e siciliani inclusi piatti poveri come la “zuppa di ogni sorte d’erbe alla napolitana”, la “trippa di manzo alla romana”, il “cappone di galera alla siciliana” 39 Vincenzo Agnoletti ne “la nuovissima cucina economica” del 1814, attinse alle cucine locali e non disdegnò affatto di inserire piatti umili come le “panizze alla genovese” Lo stesso per Ippolito Cavalcanti con “cucina teorico pratica” del 1839 o Giovan Felice Luraschi con “nuovo cuoco milanese economico” del 1829. 40 Nascono i ricettari di cucina locale Per più di un secolo ne consegue un’editoria sempre più specializzata e riferita a opere di cuochi, cucinieri, cuciniere e massari con specifiche di rigorosa appartenenza al proprio territorio. Cuoco piemontese Cuoco maceratese Nuovo cuoco milanese economico Cuciniera genovese Cuciniera delle Alpi Cucina casarinola co la lengua napolitana 41 Nascono i ricettari di cucina locale Tuttavia, sfogliando uno a caso di questi ricettari anonimi, chi volesse ricercare le radici della propria cucina materna, rimarrebbe deluso, perché dei piatti che avrebbe detto più caratteristici della sua terra, troverebbe scarsissime tracce. 42 Prendiamo ad esempio “la cuciniera bolognese” del 1874, un dimesso manualetto per famiglie estratto dal “cuoco bolognese” del 1857. Non troviamo il ragù alla bolognese, le tagliatelle, le lasagne verdi al forno, i tortelloni di vigilia, le cotolette alla bolognese e mancano perfino i Tortellini. 43 Nel “libretto di cucina” del 1842, l’aretino Giovan Battista Magi, pubblica un opera manoscritta appartenente a un’editoria minore ma diffusissima in ambito regionale. Pur nella marcata connotazione toscana, non troviamo però: Pappardelle alla (o sulla) lepre Il castagnaccio I necci etc. Ovviamente la mancanza di questi piatti non è dovuta al fatto che fossero ancora tutti da inventare 44 La cucina rurale, regionale o locale, di fatto è il risultato dello sposalizio fra: la cucina popolare delle occasioni solenni e la nuova gastronomia francese o francesizzante 45 I piatti che compongono questo nuovo modello di cucina italiana sono di estrazione Contadina Marinara Urbano--borghese Urbano Aristocratica e di più o meno lontana origine. A queste vanno aggiunte le contaminazioni culinarie: Araba Ebrea Spagnola Mitteleuropea 46 Per contraddistinguersi in modo compiuto, alle cucine locali occorsero più di cento anni e paradossalmente il processo fu accelerato e favorito dall’unificazione d’Italia. Solo al termine di questo processo, ossia nel primo decennio del Novecento, apparirà nitido il quadro delle cucine regionali italiane. 47 Ancora nel 1891 con “la scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”, Pellegrino Artusi, che pure ospita nel suo fortunatissimo manuale innumerevoli piatti locali, li frammischia disinvoltamente e li accosta a piatti d’oltralpe, a quelli di altri ricettari, a quelli avuti da conoscenti e corrispondenti, rivisitandoli e ritoccandoli. Incurante di storicismo e filologia, si affida alla natura optando per una cucina ragionevolmente semplice, pratica e sana. 48 L’invenzione della “tradizione” Il percorso che abbiamo appena fatto ci porta a una conclusione che, per quanto antipatica ci sembri, è di fatto la realtà che sfata l’idea comune di tradizione gastronomica. La cucina italiana non è altro che il risultato di un’insieme di culture gastronomiche che ha generato un suo stile definito e qualitativamente di assoluta eccellenza L’idea che la nostra cucina tradizionale sia stata tramandata da generazioni è una falsità, ma non dobbiamo dimenticare che il suo vero percorso, anche se storicamente breve, ha consentito a tutti i ceti sociali di selezionare e condividere quanto di migliore fosse possibile produrre in una cucina. Da Cantù a Canicattì 49 Possiamo quindi affermare con orgoglio che la nostra cucina rurale, tradizionale, regionale, è di fatto la cucina che ha dato vita al modello gastronomico più apprezzato del pianeta 50 Video Alberto Sordi Maccarone 51 52 MA CHE TIPO DI ESSERI SIAMO? L’indole degli esseri umani si manifesta in modi diversi : Singolarmente, in genere, si ha un evidenza di individualità anche di spessore In massa, lo stesso individuo può rivelarsi estremamente influenzabile, tanto da perdere le proprie caratteristiche personali 53 Dalla preistoria ad oggi, questa vulnerabilità è stata oggetto di manipolazione e sfruttamento di enormi masse di uomini a favore di esigue minoranze di individui, scaltri conoscitori delle debolezze umane. La mancanza di azioni solidali istintive, l’ignoranza indotta e le superstizioni, hanno prodotto meccanismi sempre più raffinati di controllo delle masse. Questi meccanismi hanno potuto farsi strada attraverso la prepotenza, l’astuzia e la religione. 54 Come un vaccino contro le reazioni o le sommosse popolari, la “festa” ha sempre rappresentato un momento di esorcizzazione della miseria vissuta, affrancando, una tantum, la povera gente dai torti e dalle ingiustizie subite ad opera delle caste padronali. 55 L’intercessione del potente, spesso attraverso l’azione della religione, consente alla massa di interrompere la condizione che la soggioga, per dargli un respiro di libertà e consentirgli di dimenticare temporaneamente la propria condizione. 56 La civiltà rurale ha ritualizzato questi momenti di festa per la necessità ovvia di affrancarsi dal giogo in cui è sempre stata costretta. La ciclicità annua della festa assume anche un valore di attesa e speranza di cambiamento della propria sventurata vita. “uomini e donne rei soltanto di essere usciti dal ventre sbagliato” 57 Ai riti propiziatori, che nei secoli si sono trasformati, come il carnevale, si aggiungono le feste dedicate ai raccolti, alla vendemmia etc. Il cibo diviene oggetto e quasi pretesto dello stesso concetto di festa In alcuni casi è direttamente oggetto di festa, come nel caso del maiale. 58 Video L’albero degli zoccoli 59 Attraverso il cibo, la festa rappresenta il momento più alto di aggregazione e comunione del gruppo rurale. Il pranzo frugale della cesta per la mietitura, la vendemmia, la raccolta delle olive. Il pranzo della battitura del grano. Fino a eventi che con il cibo coinvolgono intere comunità 60 Un esempio è Il Matto e la Festa delle Rocche Il Matto era un giovane perugino di ottima famiglia. Comparso all’improvviso attorno al 1915 nelle campagne dei monti di Scalocchio, si atteggiò da folle per coprire la propria diserzione. Girava per le case elemosinando cibo allo scopo di realizzare un grande pranzo il giorno della festa delle Rocche. Aiutato da Camilla, la locandiera di Calamucca, sua amante e grazie ai proventi di una rapina da lui fatta con grande astuzia, ai danni di due individui che volevano approfittare della sua donna, il Matto raggiunse il suo scopo e realizzò un banchetto memorabile con la meraviglia di tutti quanti. 61 Il 10 settembre del 1916, giunse la domenica della festa delle Rocche. Il Matto e la sua schiera di aiutanti avevano lavorato incessantemente per allestire il pranzo. Il piccolo Vittorio si era spaccato la schiena per portare la legna necessaria per i fuochi. Dovevano cuocere una quantità di animali tale da riempire un’altra arca. I soldi e i valori rapinati al Podestà e a Don Cipriano, erano stati tutti impiegati per comprare pecore, maiali e perfino un vitello, che fu cotto in parte a lesso e in parte sulla griglia ricavata dalle reti di due vecchi letti di ferro. Camilla aveva cominciato a cucinare già dal lunedì precedente, preparando un’infinità di cose buone, come d'altronde era solita fare nel suo mestiere. Lei e il Matto, pur nell’impegno pressante, avevano passato giorni straordinari di felicità. Lei aveva avuto la possibilità di sdebitarsi in parte di tutto quello che lui aveva sempre fatto proteggendola e aiutandola a realizzare il suo sogno. Per questa ragione diede il meglio di sé e produsse quanto di più buono i palati di quelle terre avessero mai assaggiato. Il profumo del cibo si era sparso per tutta la zona di Scalocchio. Tre grosse botti di ottimo vino erano state ammassate ai bordi del prato, pronte a dissetare la massa di gente che avrebbe partecipato al banchetto. Le donne che Camilla aveva convocato alla taverna, impastarono e fecero sfoglia di pasta per quattrocento uova dando forma a mezza via tra le pappardelle e le tagliatelle. Fu messo in forno oltre un quintale abbondante di pane sciapo, come era uso. Salsa d’oca e di maiale per sei paioli colmi. Torcoli dolci e Mantovane profumatissime vennero avvolti in lenzuola che ne preservassero la fragranza. I pollastri furono foderati di pancetta e cotti in lunghi spiedi di canne in fuochi adatti a quello scopo. 62 Si attesero le funzioni religiose, vi fu la processione con le dodici bambine che per tradizione portarono davanti alla Madonna, le grandi Rocche di lana decorata da nastri coloratissimi. Cimeli ancestrali che rappresentavano l’estro e l’operosità di un popolo votato al lavoro e alla cristiana condivisione nel valore che esso rappresenta per ogni essere umano. Arrivò perfino il Vescovo che per primo prese posto al tavolo del banchetto insieme ai dodici membri della confraternita, il nuovo parroco e una folla di più di cinquecento cristiani, giunti fin lì con al seguito un piatto e una forchetta propri, come dalla notizia fatta circolare attraverso l’impegno del piccolo Vittorio. La solidarietà delle donne fece in modo che tutte si dessero da fare nel portare le vivande dalle capanne alzate dal Matto ai tavoli. Calderoni bollenti portarono a cottura la pasta e il condimento la colorò di fumante squisitezza, ben dosata dalle sapienti mani di Camilla che condusse quel laborioso impegno senza lasciare nulla al caso ed essendo seguita e obbedita dallo stuolo di comari che l’aiutavano intorno. Lo stupore di tutti per bontà e abbondanza di quel cibo, li lasciò increduli e riconoscenti in un momento che faceva i conti con una povertà acuita dalla guerra e dalla mancanza di uomini da essa provocata. Le braci fecero il loro dovere e i pezzi di vitello, pecora e maiale, insaporiti dal trito d’aglio, ginepro, pepe nero e rosmarino, rappresentarono per la maggior parte di quella gente un vero e proprio miraggio. La magia del Matto si era compiuta e il sorriso di quella gente fu per lui uno dei regali più importanti di tutta la sua esistenza e motivo del suo impegno. 63 In quell’enfasi e felicità, Camilla lavorò a più non posso quasi ebra di un giubilo che in qualche maniera lei viveva come fosse stata la sua festa di nozze. Protagonista insieme a lui del miracolo di quell’evento. Il Matto non aveva perso occasione per tutto il giorno di baciarla o amoreggiare con lei sfidando gli occhi degli altri, ora sotto le capanne del cibo, ora dietro alle botti e perfino sotto ad un tavolo da riparare. Un rincorrerla ridicolo e bellissimo che poneva quella sua passione davanti ad ogni cosa, fino a dargli la certezza che fosse l’amore, l’elemento fondamentale del senso della sua vita. L’amore per Camilla, l’amore per la povera gente, l’amore per la vita. Quel giorno gli uomini e le donne di Scalocchio capirono che l’uomo comparso tutto a un tratto in quelle terre, così strano e diverso, silenzioso e gentile, era tutt’altro che matto e aveva portato in fondo il suo meraviglioso progetto di condivisione al solo scopo di vederli felici, per osservare e portare sempre con sé il ricordo di momenti benedetti. Momenti di goduta libertà che si disegnava nei loro volti attraverso sorrisi quasi dimenticati. Estratto da “Camilla di Calamucca” di Marino Marini 64 Un altro esempio è la “spolpatura del maiale” oggetto di riunione che verosimilmente è molto più rito che pretesto di aggregazione. Il cibo stimola i rapporti umani, fortifica le collaborazioni e agevola le alleanze. Ma nella civiltà contadina tutto ciò che ruota attorno al cibo comporta anche una sorta di definizione dei ruoli, sia all’esterno che all’interno della cellula familiare. 65 Prof. Ivo Picchiarelli estratto da: www.tipicamente.it 66 La sacralità del cibo non va intesa solo come fatto religioso (comunque rilevante), ma come elemento basilare del rispetto verso il nostro prossimo Lavoro della terra e sapienza nell’allevamento Selezione Sapienza nella produzione delle materie prime Conoscenza delle caratteristiche peculiari e organolettiche Rispetto della tradizione nell’atto della cucina o trasformazione 67 La condivisione è un bisogno della nostra umanità CUCINARE È UN ATTO DI AMORE 68 69 DIMMI COSA MANGI …. “Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei” Scriveva Anthelme Brillat-Savarin in “Fisiologia del Gusto” del 1826. Il modo di mangiare rivela la personalità e il carattere di un individuo. Ma la frase assume anche valenze di natura sociale. Infatti la qualità del cibo è intesa dalle culture tradizionali costruitesi durante il Medioevo, come espressione dell’appartenenza sociale. Quindi, oltre alla quantità, anche la qualità del cibo ha un valore comunicativo che esprime l’identità sociale. 70 Dai testi medievali, il nobile si qualifica soprattutto come consumatore di carne. L’immagine del contadino è invece collegata ai frutti della terra, ai cereali e ortaggi. 71 In realtà sappiamo che il contadino dell’alto Medioevo consumava anche discrete quantità di carne. Tra le sue attività c’era anche quella dell’uso del bosco, che unito alla pastorizia forniva un significativo apporto alimentare. Ma con il tempo, l’aumento della popolazione e l’allargamento delle superfici coltivate, comportò una esclusione dei ceti rurali dall’uso di tali risorse che diventarono appannaggio esclusivo dei nobili. 72 Al contado fu di fatto negato l’accesso, sia alla selvaggina che alla carne in genere, ad esclusione del solo maiale, che rimase nei fatti e nella percezione collettiva, una carne “da contadini”. 73 Con il passare del tempo , sul finire del Medioevo, l’immagine della nobiltà e la pratica del potere cambiarono. Alla “forza” si diede spazio a un’immagine di “cortesia”. I nobili non evidenziarono più la capacità di mangiare molto ma quella di saper distinguere il buono dal cattivo perfino giungendo a limitarsi. Nei romanzi cavallereschi, il giovane nobile affronta la “prova” della sua virtù lasciando il cibo non degno del suo grado, comprendendo a colpo d’occhio quello a lui più adeguato. 74 Altre forme di identità sociale mediate dal cibo, sono quelle che riguardano i religiosi. Anche per loro vi è un preciso codice di comportamento alimentare. È addirittura scritto nelle “regole” monastiche, che escludono la carne dalla dieta in modo parziale o totale, con maggiori o minori eccezioni, per tutti o solo alcuni animali. 75 Nel paradosso mistico religioso, negarsi la carne significa allontanare da sé la lusinga del potere, imporsi una penitenza che abbia valore di esperienza. I nobili che si dedicano alla vita monastica, prediligono una dieta che li avvicini al cielo. Per questo le regole monastiche fanno eccezioni per la carne dei volatili, che appunto, volano e quindi sono più “alti” e adatti ad una dieta spirituale. 76 A partire dalla fine del Medioevo, i cibi maggiormente apprezzati dall’aristocrazia italiana ed europea non furono più animali di grossa taglia come cervi, cinghiale, orsi ma volatili come il fagiano o la pernice. La figura stessa dei signori cambia allontanandosi dagli schemi antichi. Meno legati all’esercizio della forza e più, invece, alla gestione amministrativa e politica del potere. Da rozzi despota a intellettuali che si circondano addirittura di artisti, musicisti e letterati. 77 Nel XVI secolo il medico Castore Durante da Gualdo precisa che “i volatili siano il cibo ideale per chi si dedica alle opere dell’ingegno e dell’intelletto”. 78 In rapporto alla gerarchia sociale, il legame fra consumi alimentari e stili di vita, prosegue con modalità diverse nei secoli a noi più vicini. Nell’Europa del XVIII secolo, il caffè fu percepito come bevanda borghese per eccellenza, mentre il cioccolato era un consumo aristocratico. Il primo serviva a tenersi svegli e lavorare, il secondo era invece una bevanda oziosa. Nel secolo successivo però, il caffè era già diventato una bevanda popolare in Francia, come il tè in Olanda e Inghilterra. 79 I simboli sono un prodotto culturale e cambiano da un’epoca all’altra così come da una società all’altra, parallelamente al cambiare dei comportamenti della società e degli individui. In senso inverso cambiò il significato sociale della patata, che gli europei del XVIII secolo ritenevano tipicamente cibo da contadini, se non da bestie. Il secolo successivo invece entrò a pieno titolo nell’alta cucina borghese e aristocratica. 80 81 Un aspetto tradizionalmente forte della cultura alimentare, è quello che attribuiva al cibo un valore significativo rispetto allo scorrere del tempo. Le società tradizionali collegavano la preparazione e il consumo a questo o quell’alimento a una determinata ricorrenza del calendario 82 Natale aveva i suoi cibi e così Pasqua. Carnevale non era Quaresima e l’estate non era l’inverno. Anche in questa “calendarizzazione” del cibo, gli aspetti culturali prevalevano in quelli naturali. 83 La ciclicità delle stagioni trovava riscontro nel tipo di alimentazione. Anche i medici (da Ippocrate in poi) raccomandavano questa corrispondenza: Bere e mangiare “freddo” nei mesi caldi, bere e mangiare caldo nei mesi freddi, come nella teoria umorale legata ai quattro elementi. 84 Tuttavia la sintonia fra Uomo e Natura non era sempre vissuta in termini positivi: Il ciclo delle stagioni poteva riservare sorprese e l’obiettivo primario fu sempre quello di modificare i cibi per renderli conservabili oltre la loro dimensione stagionale. Le élites invece ostentavano il consumo di frutti e verdure fuori stagione, facendoli venire da lontano. 85 Dal IV° secolo in poi, il calendario liturgico condizionò in maniera decisiva i ritmi nutritivi, obbligando tutti i cristiani a osservare la distanza fra giorni e periodi “di grasso” o “di magro”. 86 Sempre il calendario liturgico rafforzò la tradizione a segnalare con certi cibi le ricorrenze festive. Il più delle volte questo aveva a che fare con dolci da forme e consistenze diversificate a seconda della ricorrenza. Basta pensare alla Pasqua ebraica e a quella cristiana. 87 Nell’Italia medievale ogni festa aveva il suo cibo. Questo fu anche oggetto di ironia da parte del poeta e letterato Simone Prodenzani da Orvieto, che verso la fine del 1300, nel “Saporetto” riportò come certe donne per “devozione” non mancassero ad alcuna ricorrenza. 88 Video Saporetto 89 Sicuramente queste vivande erano legate anche al calendario naturale. Lo stesso agnello a Pasqua, è un rimando al racconto della Bibbia ma è anche il momento dell’anno più giusto per gustarselo. Un altro esempio è la carne di maiale per la festa di S.Antonio a gennaio. Periodo economicamente più corretto per “ammazzare il porco” 90 Ci sono poi molte altre vivande che escono dal concetto precedente. Lasagne, maccheroni o paste nobilitate, simboleggiano la festa in ogni data dell’anno 91 Sono quindi le forme a segnare le differenze. Come per dolci tipo frittelle e panettoni. Le farciture, le guarnizioni o l’uso di uvette e canditi (messi via apposta). 92 Il panettone ci suggerisce il Natale non tanto perché è “fatto così” ma perché è fatto in quel periodo. Ecco come mai ancora oggi non è facile vedere il panettone fuori dal periodo natalizio. In conclusione occorre dire però che il valore antico del calendario alimentare non è più lo stesso, ma fortunatamente fatica a scomparire e specialmente in regioni a forte vocazione tradizionale. 93 94 L’Umbria e la sua enogastronomia 95 Gran parte dell’Umbria, di fatto, può considerarsi una sorta di isola circondata dai monti. Questa sua peculiarità morfologica è stata anche la causa positiva di un più lungo mantenimento culturale delle pratiche agroalimentari antiche. 96 Verosimilmente la radice storica di questo territorio è ascrivibile a civiltà ben distinte: Umbri, Etruschi, e Sabini. Ognuno di questi popoli ha lasciato una traccia base ancora ben presente nella gastronomia regionale. 97 L’Umbria è una regione che ha dato vita nei secoli a un ricettario comunque basato su semplicità e genuinità, coniugando piatti di origine contadina a ricette di antica tradizione. Nonostante un terzo del territorio sia montuoso e il restante collinare, vi è una buona convivenza fra le foreste e le coltivazioni di vite e olivo. 98 La tradizione culinaria umbra evidenzia bene una coerenza tra paesaggio e gastronomia. La sensazione di vivere il passato che si ha quando si visitano i suoi centri urbani storici, è la medesima al contatto con i sapori dei piatti tradizionali che evidenziano la loro origine medievale. 99 Possiamo ricordare i Palombacci, colombi selvatici cotti allo spiedo e spennellati accuratamente con la “ghiotta” la salsa a base di vino rosso, olio, pancetta, capperi, aceto, olive, acciughe, cipolla, aglio, chiodi di garofano, bacche di ginepro, salvia e succo di limone. Salsa che poi è raccolta in una vaschetta metallica che appunto ne prende il nome e che recupera i succhi e il grasso delle carni cotte allo spiedo. Nel caso della cottura invece dei tordi, dopo lo spiedo, la tecnica prevede di terminare la loro cottura direttamente all’interno della leccarda con la salsa. 100 Della stessa storia anche le beccacce alla norcina, che ripiene di pasta di salsiccia, lardo e le stesse interiora, maggiorana, timo e tartufo nero, vengono arrotolate in fettine di lardo, legate e cotte in spiedi. 101 In questo quadro non possiamo dimenticare la Porchetta, che anche se diffusa e apprezzata in tutta l’Italia centrale, ha origini umbre. Una preparazione di tradizione viva che comporta il disossamento del maiale piccolo, o meglio di un suino che non superi i 40 kg. La farcitura comprende le interiora spezzettate, finocchio selvatico, pepe, aglio e sale. La sua cottura anticamente poteva comprendere anche la tecnica dello spiedo ma l’uso del forno nel tempo si è rivelato ben più efficiente e di miglior resa. 102 La Porchetta non va però confusa con la tecnica di preparazione detta “in porchetta”dato che in questo modo vi si cucinano anche i pesci. Infatti, raro piatto dedicato ai prodotti ittici, nella zona del Lago Trasimeno viene preparata la Carpa Regina in porchetta. Un piatto di straordinaria bontà che necessita di una particolare sapienza e che fa parte della vera tradizione gastronomica umbra. La carpa dopo essere stata ben pulita ed eviscerata viene farcita e cosparsa esternamente di un battuto magistrale di lardo ed erbe aromatiche e successivamente di finocchio selvatico, aglio, sale e pepe. Nel fondo della leccarda da forno usata per la sua cottura, vengono posti dei fusti incrociati di finocchio selvatico in modo che il pesce non si attacchi e il tutto viene spruzzato di vino bianco. 103 Ancora oggi la regione vanta una vasta e qualitativamente ricchissima varietà di minestre e zuppe di farro. Alcune di queste risalgono addirittura al periodo preromano. Una di queste è la zuppa di farro e ceci che grazie ai legumi regala un sapore intenso e gustosissimo. Stessa cosa con le lenticchie di Castelluccio che include la bollitura assieme all’osso di prosciutto. 104 Essendo in passato l’unica portata del pasto rurale, agli ingredienti base della zuppa venivano aggiunti carni varie, grasso di maiale, ortaggi e quanto in possesso di coloro che tentavano di arricchire il potenziale nutritivo del proprio piatto. 105 Sempre in ambito di retaggio tradizionale, non vanno dimenticate le minestre di legumi cui vengono unite pasta o pane raffermo. Un esempio può essere l’Acquacotta o la minestre di fave. 106 L’utilizzo degli antichissimi legumi, trova in Umbria un alleato d’eccezione in quella che verosimilmente è stata la prima forma di pasta elaborata dall’uomo. Gli strangozzi o per meglio dire quella Itrija, itriyya o itrion che i Greci, prima e i Palestinesi e gli Arabi poi, narravano descrivendoli come delle stringhe sottili di acqua e farina di grano. L’elaborazione durante il tempo ha poi consentito di associare questo alimento, non soltanto alle minestre e ai passati di legumi, ma anche a salse e soffritti che ne esaltassero il consumo in asciutto. 107 La pasta in Umbria è vera tradizione. Lo è per i pici etruschi e per le citazioni di Jacopone da Todi -"Granel di pepe vince / per virtù la lasagna“- ma esiste un piatto che ha lasciato un segno indelebile nella storia della gastronomia umbra. Gli strascinati di Monteleone di Spoleto. Una ricchissima pasta inventata nel 1497 da una fantesca disperata, per quietare l’appetito e l’arroganza di Paolo e Camillo Vitelli, che espugnarono il castello in occasione del viaggio di Re Carlo VIII di Francia verso il regno di Napoli, di cui i due capitani di ventura erano scorta. 108 Date le caratteristiche della polenta, che si sostituiva più che bene al pane secco in diverse preparazioni destinate ai ceti più bassi, il mais in Umbria fu accolto con favore. A differenza di altre regioni centro-meridionali d’Italia, il mais e i suoi derivati sono ben radicati nella cucina regionale. Un esempio è l’impastoiata, una sorta di polenta e fagioli, condita in umido e in tempi più recenti anche da pomodoro. Un altro esempio è il bustrengo, un dolce preparato con una polenta arricchita da mele, pinoli, noci, uvetta e zucchero. 109 Anche se più borderline, occorre menzionare il migliaccio, una colonna delle ricette popolari umbre che è identificabile come una torta a base di sangue di maiale, lardo, pane e pinoli. Solo dopo il periodo della 2° guerra mondiale si è aggiunto il cacao 110 A questa famiglia appartengono anche i budellacci secchi, oggi addirittura proibiti dalle normative igienico sanitarie. Consistono in budella di maiale pulite, salate, pepate e aromatizzate con semi di finocchio poi lasciate essiccare o affumicare per qualche giorno per poi essere cucinate alla brace o in padella con olio e verdure aromatiche. 111 Nonostante la prevalenza di ricette semplici, la cucina tradizionale umbra annovera anche alcuni piatti dal contenuto tecnico più elaborato. Questo lo si riscontra specie in diverse preparazioni che includono l’uso del tartufo nero o ancora di più in quelle con il bianco prezioso delle zone più a nord. Di questi possiamo citare sia le salse per crostini, che quelle per primi piatti virtuosi e profumatissimi o l’accostamento alla cacciagione da penna come le pernici. 112 I panpepati e le focacce speziate e ripiene, risalgono alla tradizione dei dolci più caratteristici del panorama regionale. Un esempio è il torcolo di San Costanzo, un dolce semplice che nel cinquecento veniva donato ai poveri. Fatto con pasta di pane ben lievitata, canditi, semi di finocchio etc, veniva cotto nel classico stampo rotondo da ciambellone. 113 Esistono varie specie di farro; quella che si coltiva a Monteleone di Spoleto è la più pregiata: il "Triticum dicoccum". La diffusione del farro nella zona di Monteleone di Spoleto è attestata anche dagli appellativi di "mangiafarre" o "farrari de San Nicola" con cui gli abitanti dei comuni vicini indicavano i monteleonesi. Quest'ultima denominazione fa riferimento al rituale del "Farro di S. Nicola" che si svolge da tempo immemorabile il 5 dicembre, nella vigilia della ricorrenza del Santo, patrono del paese. In tale circostanza, il parroco prepara nella canonica della chiesa di S. Nicola una minestra di farro condita con sugo di magro, cotta in un grande caldaio appeso sul focolare e distribuita a mezzogiorno agli abitanti di Monteleone, a cominciare dai bambini. 114 Un altro è la rocciata di Assisi, un dolce imparentato con i pani speziati, anche se la sua forma ricorda uno strudel piegato a ciambella. Viene preparata con l’aggiunta di mandorle, noci, fichi e uvetta essiccati e cannella. 115 Ricordiamo infine il torciglione un dolce a forma di serpente arrotolato e ottenuto con mandorle, uova e zucchero. Alcuni sostengono, nonostante non vi siano riferimenti certi, che questo dolce sia addirittura di origine etrusca. 116 117 I vini dell’Umbria 118 L’enologia umbra si distingue prima di tutto per i suoi vini rossi definibili caldi e compiuti, cui si affiancano in modo più sommesso vini bianchi armonici e immediati. Uno dei più conosciuti è senz’altro il Torgiano, coltivato tra 200 e 300 metri di altitudine. Un vino rosso rubino, intenso e penetrante, con sapore asciutto, armonico e di giusto corpo. 119 Un altro è il Montefalco Rosso, un vino rubino carico e brillante, dal profumo intenso e fruttato. L’eccellenza di questo territorio è comunque il Montefalco Sagrantino DOCG, prodotto con uve Sagrantino, dal colore rubino violaceo e granato. Il sapore asciutto ed armonico è strutturato, caldo e a volte pastoso. Il profumo caratteristico ricorda quello delle more di rovo. 120 L’Orvieto, un vino che un tempo veniva venduto nei tipici fiaschi tozzi, è uno dei vini bianchi più rappresentativi dell’Italia centrale. Quello di Orvieto è un territorio particolarmente vocato alla viticoltura. Si pensi che fino al XIX secolo venivano impiegati metodi di coltivazione tramandati dagli Etruschi. Il bianco di Orvieto è di colore paglierino, più o meno carico, profumo delicato e sapore secco con lievi note amarognole di fondo. Ne vengono prodotte anche altre qualità con gusto più abboccato o amabile e pure dolce, fine e delicato. 121 Dai Colli Martani va ricordato il Grechetto, un vino sapido, piacevole e dotato di un gusto pieno e fruttato. È di colore giallo paglierino ma può presentarsi anche più pallido. Il suo profumo è delicato, fruttato e, nei casi in cui sia stato affinato in barrique, ha sentori vanigliati raffinatissimi. Attualmente il Grechetto è uno dei vini bianchi di maggiore commercializzazione in Umbria. 122 In questi ultimi anni diverse aziende agricole si sono impegnate nell’innalzamento della qualità vinicola umbra. Uno sforzo culturale ed economico degni di encomio, che sta già producendo eccellenti risultati anche in campo commerciale, nonostante le difficoltà diffuse nell’economia nazionale. A questi uomini e a queste aziende va il migliore augurio di prosperità. 123 Grazie per la vostra attenzione Rif. Bibliografici: Massimo Montanari “Il cibo come cultura” GLF Editori Laterza J.Luis Flandrin-Massimo Montanari “Storia dell’alimentazione” GLF Editori Laterza Marino Marini “Camilla della Taverna di Calamucca” Contributi video: La cena di Trimalcione, dal Satiricon per la regia di Federico Fellini Un americano a Roma, regia di Steno, con Alberto Sordi L’albero degli zoccoli, regia di Ermanno Olmi Vatel, regia di Roland Joffé, con Gérard Depardieu La spolpatura del maiale, Prof. Ivo Picchiarelli estratto da: www.tipicamente.it Il Saporetto, di Simone Prodenziani, letto da Marino Marini 124