Enogastronomia storica umbra TESTO

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Storia dell’enogastronomia e
delle tradizioni popolari in
Umbria
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CIBO E CULTURA
Storia del rapporto fra Uomo, alimentazione e costume
a cura di Marino Marini
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STORIE PARALLELE
La storia dell’uomo e quella del cibo possono definirsi la
stessa storia.
Questo perché il cibo ha ovviamente sempre fatto parte
della vita dell’uomo, ma non soltanto dal punto di vista
strettamente nutrizionale. Il cibo è stato principalmente
veicolo di cultura, per i singoli come per le civiltà.
Un viaggio straordinariamente articolato e interessante,
che cercheremo di raccontarvi nel modo più piacevole
possibile.
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DALLA “PREDAZIONE “ ALLA “PRODUZIONE”
Il primo passaggio epocale fra uomo e territorio avvenne
nel neolitico, quando da cacciatore raccoglitore egli
divenne, se pur gradualmente, agricoltore allevatore.
L’aumento della popolazione fu la causa principale del
cambiamento.
Gli elementi base furono la domesticazione dei cereali e
di animali come capre e pecore.
Quella fu la prima manipolazione della natura.
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UN CAMBIAMENTO EPOCALE
Una separazione dall’appartenenza al mondo degli
animali.
Una nuova prospettiva che pone l’uomo come
padrone del mondo naturale.
Rottura culturale con la Madre Terra che l’uomo vivrà
sempre in modo colpevole, espiando con le ritualità.
Il nuovo corso permise una maggiore espansione
demografica.
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LA SELEZIONE DELLE PIANTE PIÙ PRODUTTIVE
In primis i cereali:
Il Grano nel Mediterraneo.
Il Sorgo nel continente africano.
Il Riso in Asia.
Il Mais in America.
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CIVITAS E CIVILITAS – CITTÀ E CIVILTÀ
Con le piante crebbero anche le città e le civiltà.
Lo sviluppo della civiltà legato allo sviluppo
dell’agricoltura.
Nel processo di evoluzione le società umane non si
sono adeguate alle condizioni imposte dall’ambiente .
Le hanno modificate introducendo anche colture non
originarie, portando trasformazioni anche al paesaggio.
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NASCE ALLORA “L’UOMO CIVILE”
Che costruisce il proprio cibo artificialmente.
Un cibo che non esiste in natura.
Un cibo che segna la differenza tra Natura e
Cultura.
Un cibo che distingue le bestie dagli uomini.
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IL PANE COME SIMBOLO EVOLUTIVO
Nel Mediterraneo spetta al Pane la funzione
simbolica, oltre che nutritiva.
Il Pane non esiste in natura e solo gli uomini
sanno farlo.
Hanno elaborato tecniche, dal chicco alla
farina, che sono frutto di lunghe esperienze e
riflessioni.
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LA DONNA, TENUTARIA DEL SAPERE
Scritture mesopotamiche riportano che l’uomo selvatico esce
dal suo stato solo dopo aver appreso l’esistenza del Pane.
È una donna, o meglio una prostituta, a farglielo conoscere.
Alla donna quindi si attribuisce il ruolo di custode del sapere
alimentare, oltre che della sessualità.
La figura della donna è basilare nelle’opera di selezione delle
piante fin dai primordi dell’agricoltura.
Stesso ruolo simbolico anche per vino e birra, che fermentati
come il pane, rappresentano il dominio dell’uomo verso la
Natura.
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PRENDE FORMA LA “CULTURA DEL CIBO”
La cultura si pone nel punto d’intersezione fra tradizione e
innovazione.
È tradizione perché costituita dai saperi, dalle tecniche e dai
valori tramandati.
È innovazione in quanto saperi, tecniche e valori modificano
la posizione dell’uomo nel contesto ambientale.
La tradizione può definirsi innovazione ben riuscita.
La Cultura quindi diventa connessione fra le due prospettive.
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ANCHE LA NATURA COME CULTURA
Fra il modello di sviluppo basato su
agricoltura -pastorizia e economia “selvatica”
si evidenzia una contrapposizione fra i modelli
alimentari di sedentarietà e nomadismo.
La prospettiva cambia perché pastorizia e
caccia vengono praticati in spazi incolti
opposti al modello sedentario di coltivazione
agricola.
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CONFRONTO DI STILI
Nelle società agricole i riti di fertilità e i miti avranno
come protagonisti i cereali e il ciclo delle stagioni.
In Asia sarà il riso al centro dei racconti e delle
leggende.
I popoli delle Americhe celebreranno il mais, dalla quale
farina gli dei modellarono l’uomo.
Nelle società di cacciatori e pastori i riti propiziatori
saranno dedicati invece agli animali.
Seppellire le loro ossa consente all’anima la prodigiosa
rigenerazione dell’animale.
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CULTURA E NATURA
La contrapposizione fra Cultura e Natura è in gran
parte fittizia.
L’uomo civile si autorappresenta fuori dalla Natura ma
la Natura stessa diventa per altri un modello culturale e
una scelta intellettuale alla Cultura.
Un esempio è la contrapposizione fra il modello di
tradizione greco romana fondato sull’agricoltura e
quello germanico basato su raccolta, caccia, pastorizia.
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IL MEDIOEVO E LA MESCOLANZA CULTURALE
Il rapporto fra i due modelli alimentari comincia a
cambiare nel Medioevo.
Fino ad allora essi erano stati simbolo di due diverse
civiltà, una delle quali disprezzava l’altra come
inferiore e “barbara”.
Quando però i barbari conquistarono l’impero,
diffusero anche il loro modello alimentare.
Allo stesso modo anche la tradizione agricola romana
si diffuse tra i barbari.
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IL CRISTIANESIMO VETTORE DI CULTURA AGRICOLA
Il cristianesimo cresciuto nell’ambito della cultura mediterranea,
non a caso assume i simboli liturgici del pane, del vino e
dell’olio.
Dall’incrocio di questi due percorsi nasce una nuova cultura
alimentare; quella europea.
Quella che mette sullo stesso piano il Pane e la Carne. L’attività
agricola e lo sfruttamento della foresta.
Da quel momento non vi è più contrapposizione fra Cultura e
Natura ma un nuovo modo di costruire il rapporto fra uomo e
ambiente.
Da questo fondamento prende vita il nostro patrimonio
alimentare.
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storia del cibo ricco, del cibo popolare e delle contaminazioni
culturali e sociali fino alla definizione del concetto di “cucina
italiana”
di Marino Marini
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Il mistero della cucina tradizionale
italiana
Purtroppo il mito della cucina tradizionale,
casalinga, contadina, rurale, regionale etc. è da
sfatare.
Le sue origini non si perdono affatto nella notte dei
tempi ma al contrario, hanno riferimenti alquanto
moderni.
Cuoca che prepara le torte di mele, Giacomo Legi, olio su tela, Palazzo Bianco, Geno
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Il mistero della cucina tradizionale italiana
Questo luogo comune è frutto degli ultimi due secoli di
cultura gastronomica.
Infatti i cibi che sono giunti a noi dal lontano passato,
sono rarissimi e tra l’altro ben documentati.
L’idea delle ricette tramandate da madre in figlia non è
che il retaggio romantico e folkloristico del periodo tra
le ultime due guerre.
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Il mistero della cucina tradizionale italiana
Le prove documentali di questa tesi le troviamo nello
stesso fatto dell’uso massiccio di quegli ingredienti
definibili “intrusi” provenienti dal nuovo mondo.
Mais, patate, pomodoro, fagioli etc, nulla hanno a che
fare con la nostra vera storia alimentare.
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La polenta si diffuse in Italia centrale solamente a
metà del 1700
Giovanni Antonio Battarra in “Pratica Agraria”
del 1782 ricorda che i contadini romagnoli
“dintorno agli orti ne piantavano una spica o due
per far polenta otto o dieci volte”
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Nel 1800, nell’area dell’Italia centrale della patata
se ne ignorava il nome.
Il primo a inserire le patate in un ricettario sarà
Vincenzo Corrado nell’ottava edizione del suo “il
cuoco galante” 1820
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“Gli italiani mangiano questo frutto in insalata,
condito con sale, pepe e olio” scrive nel 1704 il
Dictionnaire de Trèvoux.
I pomodori però divennero popolari solo nel
corso dell’Ottocento e soprattutto sotto forma
di conserva e salsa. Fu allora che la pasta,
normalmente condita con formaggio e spezie,
assunse il suo tipico, ma modernissimo, colore
rosso.
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Le prove documentali dei modelli alimentari del
passato sono molte e assai antiche.
Tutte però si riferiscono esclusivamente alla
cucina dei ceti più alti, anche se con modalità
differenti.
Nulla a che fare con la cucina che conosciamo e
che definiamo locale o rurale.
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In epoca imperiale la tendenza cambia
gradualmente e lo sfarzo diviene
ostentazione della propria potenza, anche e
soprattutto nei banchetti.
Tra i documenti che testimoniano questo
costume vi è il “De Rè Coquinaria” di
Apicio
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Video
Satiricon di Fellini
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Questo sistema, che prepone artifici e
innovazioni volte alla modificazione dei
sapori e delle forme naturali dei cibi, si
manifesterà anche nel medioevo, nel
rinascimento e fino al XVIII secolo.
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Video
Vatel
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L’ENORME DIVERSITÀ DI CONCEZIONE DELLA
CUCINA ANTICA, CI PORTA RAGIONEVOLMENTE A
SOSTENERE CHE LO STRAORDINARIO CAPITALE DI
STILI, COMPETENZE E TECNICHE, CHE SONO LE
CUCINE LOCALI ITALIANE, È UN FENOMENO CHE SI
RESTRINGE SOLO AGLI ULTIMI DUE SECOLI
Questa è una tesi documentata che resta indigesta a
molti.
Per non lasciare dubbi, o urtare la suscettibilità di
qualcuno, sarà opportuno approfondirla nel dettaglio.
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Nei ricettari trecenteschi e quattrocenteschi troviamo piatti
definibili a “denominazione d’origine”come: torte
parmigiane, bolognesi e romagnole. Ma anche francesi,
ungaresche e al modo catalano, ma in che cosa consista
la loro collocazione locale è difficile da appurare.
Lo stesso per le preparazioni alla genovese, alla milanese,
alla romana, alla napoletana, alla ciciliana del ricettario
quattrocentesco di maestro Martino da Como e del
Platina, in quelli cinquecenteschi di Cristoforo da
Messisbugo, Panunto e Bartolomeo Scappi, o ancora in
quelli seicenteschi di Bartolomeo Stefani
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Cercare di rintracciare i piatti a denominazione locale nel
periodo tra il XIV e il XVII sec. per scovare il codice
genetico delle future cucine regionali italiane, è di fatto una
forzatura.
La cucina aristocratica borghese alta, tramandata dai ricettari
e dalle cronache dei banchetti, ha una impostazione
universalistica, tendenzialmente carnea.
Di quella plebea sappiamo ben poco, forse perché ben poco
c’è da sapere.
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La cucina ricca è radicalmente artificiale, tende
all’occultamento dei sapori naturali e dell’aspetto
originario.
Tende a nascondere la logica delle stagioni e la tipicità dei
prodotti
Ecco perché oggi risulta così difficile attribuire una
sincera paternità ai piatti dell’attuale panorama
gastronomico italiano
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Quando nasce allora la cucina regionale,
locale, rurale?
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I primi indizi delle cucine regionali appaiono nel XVIII
secolo partendo dalla Francia ma si allargano velocemente
fino a noi e qui esplodono.
Una“rivoluzione gastronomica” che muta radicalmente le
basi tecniche, la tavolozza dei sapori e forse anche la
nozione stessa di gusto.
Questa moda contrappone alla complicazione della vecchia
cucina aristocratica, una cucina più semplice e forse per
questo ancor più dotta.
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Nel 1766, a Torino, viene edito “il cuoco
piemontese perfezionato a Parigi” il primo manuale
italiano di “cucina moderna”.
La cucina delle cotture multiple, dell’eccessivo uso
di spezie, dell’ibrido dolce/salato, viene soppiantata
da una cucina che valorizza gli alimenti freschi, le
verdure, le erbe aromatiche ponendo dei confini tra
i sapori e introducendo nuove salse, nuovi fondi e
legamenti.
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Alla formazione di questo nuovo codice
gastronomico europeo, gli italiani vi partecipano
da veri protagonisti, sia proponendo una cucina
più semplice, fresca e garbata di quella francese,
sia ponendosi per la prima volta il problema
dell’identità gastronomica e dei rapporti con le
tradizioni locali.
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RIVOLUZIONE GASTRONOMICA E CUCINE LOCALI
Francesco Leonardi nel monumentale Apicio
moderno del 1790, abbozzò per primo il profilo
storico della cucina italiana, presentando, accanto a
piatti francesi, tedeschi, inglesi, russi, polacchi e
turchi, svariati piatti regionali lombardi, veneziani,
romani, napoletani e siciliani inclusi piatti poveri
come la “zuppa di ogni sorte d’erbe alla
napolitana”, la “trippa di manzo alla romana”, il
“cappone di galera alla siciliana”
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Vincenzo Agnoletti ne “la nuovissima cucina
economica” del 1814, attinse alle cucine locali
e non disdegnò affatto di inserire piatti umili
come le “panizze alla genovese”
Lo stesso per Ippolito Cavalcanti con “cucina
teorico pratica” del 1839 o Giovan Felice
Luraschi con “nuovo cuoco milanese
economico” del 1829.
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Nascono i ricettari di cucina locale
Per più di un secolo ne consegue un’editoria sempre
più specializzata e riferita a opere di cuochi, cucinieri,
cuciniere e massari con specifiche di rigorosa
appartenenza al proprio territorio.
Cuoco piemontese
Cuoco maceratese
Nuovo cuoco milanese economico
Cuciniera genovese
Cuciniera delle Alpi
Cucina casarinola co la lengua napolitana
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Nascono i ricettari di cucina locale
Tuttavia, sfogliando uno a caso di questi
ricettari anonimi, chi volesse ricercare le radici
della propria cucina materna, rimarrebbe
deluso, perché dei piatti che avrebbe detto più
caratteristici della sua terra, troverebbe
scarsissime tracce.
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Prendiamo ad esempio “la cuciniera bolognese”
del 1874, un dimesso manualetto per famiglie
estratto dal “cuoco bolognese” del 1857.
Non troviamo
il ragù alla bolognese, le tagliatelle, le lasagne
verdi al forno, i tortelloni di vigilia, le cotolette
alla bolognese e mancano perfino i Tortellini.
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Nel “libretto di cucina” del 1842, l’aretino
Giovan Battista Magi, pubblica un opera
manoscritta appartenente a un’editoria minore
ma diffusissima in ambito regionale. Pur nella
marcata connotazione toscana, non troviamo
però:
Pappardelle alla (o sulla) lepre
Il castagnaccio
I necci etc.
Ovviamente la
mancanza di questi piatti non è
dovuta al fatto che fossero ancora
tutti da inventare 44
La cucina rurale, regionale o locale, di fatto
è il risultato dello sposalizio fra:
la cucina popolare delle occasioni solenni e
la nuova gastronomia francese o
francesizzante
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I piatti che compongono questo nuovo modello di
cucina italiana sono di estrazione
Contadina
Marinara
Urbano--borghese
Urbano
Aristocratica
e di più o meno lontana origine.
A queste vanno aggiunte le contaminazioni culinarie:
Araba
Ebrea
Spagnola
Mitteleuropea
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Per contraddistinguersi in modo compiuto, alle
cucine locali occorsero più di cento anni e
paradossalmente il processo fu accelerato e
favorito dall’unificazione d’Italia.
Solo al termine di questo processo, ossia nel
primo decennio del Novecento, apparirà nitido il
quadro delle cucine regionali italiane.
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Ancora nel 1891 con “la scienza in cucina e l’arte di
mangiar bene”, Pellegrino Artusi, che pure ospita nel
suo fortunatissimo manuale innumerevoli piatti locali, li
frammischia disinvoltamente e li accosta a piatti
d’oltralpe, a quelli di altri ricettari, a quelli avuti da
conoscenti e corrispondenti, rivisitandoli e ritoccandoli.
Incurante di storicismo e filologia, si affida alla natura
optando per una cucina ragionevolmente semplice,
pratica e sana.
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L’invenzione della “tradizione”
Il percorso che abbiamo appena fatto ci porta a una
conclusione che, per quanto antipatica ci sembri, è di fatto la
realtà che sfata l’idea comune di tradizione gastronomica.
La cucina italiana non è altro che il risultato di un’insieme di
culture gastronomiche che ha generato un suo stile definito e
qualitativamente di assoluta eccellenza
L’idea che la nostra cucina tradizionale sia stata tramandata
da generazioni è una falsità, ma non dobbiamo dimenticare
che il suo vero percorso, anche se storicamente breve, ha
consentito a tutti i ceti sociali di selezionare e condividere
quanto di migliore fosse possibile produrre in una cucina.
Da Cantù a Canicattì
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Possiamo quindi affermare con orgoglio
che la nostra cucina rurale, tradizionale,
regionale, è di fatto la cucina che ha dato
vita al modello gastronomico più
apprezzato del pianeta
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Video Alberto Sordi Maccarone
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MA CHE TIPO DI ESSERI SIAMO?
L’indole degli esseri umani si manifesta in modi diversi :
Singolarmente, in genere, si ha un evidenza di
individualità anche di spessore
In massa, lo stesso individuo può rivelarsi estremamente
influenzabile, tanto da perdere le proprie caratteristiche
personali
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Dalla preistoria ad oggi, questa vulnerabilità è stata oggetto
di manipolazione e sfruttamento di enormi masse di
uomini a favore di esigue minoranze di individui, scaltri
conoscitori delle debolezze umane.
La mancanza di azioni solidali istintive, l’ignoranza indotta
e le superstizioni, hanno prodotto meccanismi sempre più
raffinati di controllo delle masse.
Questi meccanismi hanno potuto farsi strada attraverso la
prepotenza, l’astuzia e la religione.
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Come un vaccino contro le reazioni o le
sommosse popolari, la “festa” ha sempre
rappresentato un momento di esorcizzazione della
miseria vissuta, affrancando, una tantum, la
povera gente dai torti e dalle ingiustizie subite ad
opera delle caste padronali.
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L’intercessione del potente, spesso attraverso
l’azione della religione, consente alla massa di
interrompere la condizione che la soggioga, per
dargli un respiro di libertà e consentirgli di
dimenticare temporaneamente la propria
condizione.
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La civiltà rurale ha ritualizzato questi momenti di
festa per la necessità ovvia di affrancarsi dal giogo
in cui è sempre stata costretta.
La ciclicità annua della festa assume anche un
valore di attesa e speranza di cambiamento della
propria sventurata vita.
“uomini e donne rei soltanto di essere usciti dal
ventre sbagliato”
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Ai riti propiziatori, che nei secoli si sono
trasformati, come il carnevale, si aggiungono le
feste dedicate ai raccolti, alla vendemmia etc.
Il cibo diviene oggetto e quasi pretesto dello
stesso concetto di festa
In alcuni casi è direttamente oggetto di festa,
come nel caso del maiale.
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Video
L’albero degli zoccoli
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Attraverso il cibo, la festa rappresenta il momento
più alto di aggregazione e comunione del gruppo
rurale.
Il pranzo frugale della cesta per la mietitura, la
vendemmia, la raccolta delle olive.
Il pranzo della battitura del grano.
Fino a eventi che con il cibo coinvolgono intere
comunità
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Un esempio è
Il Matto e la Festa delle Rocche
Il Matto era un giovane perugino di ottima famiglia. Comparso
all’improvviso attorno al 1915 nelle campagne dei monti di
Scalocchio, si atteggiò da folle per coprire la propria diserzione.
Girava per le case elemosinando cibo allo scopo di realizzare un
grande pranzo il giorno della festa delle Rocche. Aiutato da Camilla,
la locandiera di Calamucca, sua amante e grazie ai proventi di una
rapina da lui fatta con grande astuzia, ai danni di due individui che
volevano approfittare della sua donna, il Matto raggiunse il suo
scopo e realizzò un banchetto memorabile con la meraviglia di tutti
quanti.
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Il 10 settembre del 1916, giunse la domenica della festa delle Rocche. Il Matto e la sua
schiera di aiutanti avevano lavorato incessantemente per allestire il pranzo. Il piccolo
Vittorio si era spaccato la schiena per portare la legna necessaria per i fuochi. Dovevano
cuocere una quantità di animali tale da riempire un’altra arca. I soldi e i valori rapinati al
Podestà e a Don Cipriano, erano stati tutti impiegati per comprare pecore, maiali e
perfino un vitello, che fu cotto in parte a lesso e in parte sulla griglia ricavata dalle reti di
due vecchi letti di ferro. Camilla aveva cominciato a cucinare già dal lunedì precedente,
preparando un’infinità di cose buone, come d'altronde era solita fare nel suo mestiere.
Lei e il Matto, pur nell’impegno pressante, avevano passato giorni straordinari di felicità.
Lei aveva avuto la possibilità di sdebitarsi in parte di tutto quello che lui aveva sempre
fatto proteggendola e aiutandola a realizzare il suo sogno. Per questa ragione diede il
meglio di sé e produsse quanto di più buono i palati di quelle terre avessero mai
assaggiato.
Il profumo del cibo si era sparso per tutta la zona di Scalocchio. Tre grosse botti di
ottimo vino erano state ammassate ai bordi del prato, pronte a dissetare la massa di gente
che avrebbe partecipato al banchetto. Le donne che Camilla aveva convocato alla
taverna, impastarono e fecero sfoglia di pasta per quattrocento uova dando forma a
mezza via tra le pappardelle e le tagliatelle. Fu messo in forno oltre un quintale
abbondante di pane sciapo, come era uso. Salsa d’oca e di maiale per sei paioli colmi.
Torcoli dolci e Mantovane profumatissime vennero avvolti in lenzuola che ne
preservassero la fragranza. I pollastri furono foderati di pancetta e cotti in lunghi spiedi
di canne in fuochi adatti a quello scopo.
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Si attesero le funzioni religiose, vi fu la processione con le dodici bambine che per
tradizione portarono davanti alla Madonna, le grandi Rocche di lana decorata da nastri
coloratissimi. Cimeli ancestrali che rappresentavano l’estro e l’operosità di un popolo
votato al lavoro e alla cristiana condivisione nel valore che esso rappresenta per ogni
essere umano.
Arrivò perfino il Vescovo che per primo prese posto al tavolo del banchetto insieme ai
dodici membri della confraternita, il nuovo parroco e una folla di più di cinquecento
cristiani, giunti fin lì con al seguito un piatto e una forchetta propri, come dalla notizia
fatta circolare attraverso l’impegno del piccolo Vittorio.
La solidarietà delle donne fece in modo che tutte si dessero da fare nel portare le vivande
dalle capanne alzate dal Matto ai tavoli. Calderoni bollenti portarono a cottura la pasta e
il condimento la colorò di fumante squisitezza, ben dosata dalle sapienti mani di Camilla
che condusse quel laborioso impegno senza lasciare nulla al caso ed essendo seguita e
obbedita dallo stuolo di comari che l’aiutavano intorno. Lo stupore di tutti per bontà e
abbondanza di quel cibo, li lasciò increduli e riconoscenti in un momento che faceva i
conti con una povertà acuita dalla guerra e dalla mancanza di uomini da essa provocata.
Le braci fecero il loro dovere e i pezzi di vitello, pecora e maiale, insaporiti dal trito
d’aglio, ginepro, pepe nero e rosmarino, rappresentarono per la maggior parte di quella
gente un vero e proprio miraggio. La magia del Matto si era compiuta e il sorriso di
quella gente fu per lui uno dei regali più importanti di tutta la sua esistenza e motivo del
suo impegno.
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In quell’enfasi e felicità, Camilla lavorò a più non posso quasi ebra di un giubilo che in
qualche maniera lei viveva come fosse stata la sua festa di nozze. Protagonista insieme a
lui del miracolo di quell’evento. Il Matto non aveva perso occasione per tutto il giorno di
baciarla o amoreggiare con lei sfidando gli occhi degli altri, ora sotto le capanne del cibo,
ora dietro alle botti e perfino sotto ad un tavolo da riparare. Un rincorrerla ridicolo e
bellissimo che poneva quella sua passione davanti ad ogni cosa, fino a dargli la certezza
che fosse l’amore, l’elemento fondamentale del senso della sua vita. L’amore per Camilla,
l’amore per la povera gente, l’amore per la vita.
Quel giorno gli uomini e le donne di Scalocchio capirono che l’uomo comparso tutto a un
tratto in quelle terre, così strano e diverso, silenzioso e gentile, era tutt’altro che matto e
aveva portato in fondo il suo meraviglioso progetto di condivisione al solo scopo di
vederli felici, per osservare e portare sempre con sé il ricordo di momenti benedetti.
Momenti di goduta libertà che si disegnava nei loro volti attraverso sorrisi quasi
dimenticati.
Estratto da “Camilla di Calamucca” di Marino Marini
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Un altro esempio è la “spolpatura del maiale” oggetto di
riunione che verosimilmente è molto più rito che pretesto
di aggregazione.
Il cibo stimola i rapporti umani, fortifica le collaborazioni
e agevola le alleanze.
Ma nella civiltà contadina tutto ciò che ruota attorno al
cibo comporta anche una sorta di definizione dei ruoli, sia
all’esterno che all’interno della cellula familiare.
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Prof. Ivo Picchiarelli
estratto da: www.tipicamente.it
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La sacralità del cibo non va intesa solo come fatto
religioso (comunque rilevante), ma come elemento
basilare del rispetto verso il nostro prossimo
Lavoro della terra e sapienza nell’allevamento
Selezione
Sapienza nella produzione delle materie prime
Conoscenza delle caratteristiche peculiari e
organolettiche
Rispetto della tradizione nell’atto della cucina o
trasformazione
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La condivisione è un bisogno della nostra umanità
CUCINARE È UN ATTO DI AMORE
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DIMMI COSA MANGI ….
“Dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”
Scriveva Anthelme Brillat-Savarin in “Fisiologia del Gusto”
del 1826.
Il modo di mangiare rivela la personalità e il carattere di un
individuo.
Ma la frase assume anche valenze di natura sociale. Infatti la
qualità del cibo è intesa dalle culture tradizionali costruitesi
durante il Medioevo, come espressione dell’appartenenza
sociale.
Quindi, oltre alla quantità, anche la qualità del cibo ha un
valore comunicativo che esprime l’identità sociale.
70
Dai testi medievali, il nobile si qualifica soprattutto
come consumatore di carne.
L’immagine del contadino è invece collegata ai
frutti della terra, ai cereali e ortaggi.
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In realtà sappiamo che il contadino dell’alto
Medioevo consumava anche discrete quantità di
carne. Tra le sue attività c’era anche quella dell’uso
del bosco, che unito alla pastorizia forniva un
significativo apporto alimentare.
Ma con il tempo, l’aumento della popolazione e
l’allargamento delle superfici coltivate, comportò
una esclusione dei ceti rurali dall’uso di tali risorse
che diventarono appannaggio esclusivo dei nobili.
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Al contado fu di fatto negato l’accesso, sia alla
selvaggina che alla carne in genere, ad esclusione
del solo maiale, che rimase nei fatti e nella
percezione collettiva, una carne “da contadini”.
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Con il passare del tempo , sul finire del Medioevo,
l’immagine della nobiltà e la pratica del potere
cambiarono.
Alla “forza” si diede spazio a un’immagine di “cortesia”.
I nobili non evidenziarono più la capacità di mangiare
molto ma quella di saper distinguere il buono dal cattivo
perfino giungendo a limitarsi.
Nei romanzi cavallereschi, il giovane nobile affronta la
“prova” della sua virtù lasciando il cibo non degno del
suo grado, comprendendo a colpo d’occhio quello a lui
più adeguato.
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Altre forme di identità sociale mediate dal cibo,
sono quelle che riguardano i religiosi.
Anche per loro vi è un preciso codice di
comportamento alimentare.
È addirittura scritto nelle “regole” monastiche, che
escludono la carne dalla dieta in modo parziale o
totale, con maggiori o minori eccezioni, per tutti o
solo alcuni animali.
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Nel paradosso mistico religioso, negarsi la carne
significa allontanare da sé la lusinga del potere,
imporsi una penitenza che abbia valore di
esperienza.
I nobili che si dedicano alla vita monastica,
prediligono una dieta che li avvicini al cielo. Per
questo le regole monastiche fanno eccezioni per
la carne dei volatili, che appunto, volano e quindi
sono più “alti” e adatti ad una dieta spirituale.
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A partire dalla fine del Medioevo, i cibi maggiormente
apprezzati dall’aristocrazia italiana ed europea non furono
più animali di grossa taglia come cervi, cinghiale, orsi ma
volatili come il fagiano o la pernice.
La figura stessa dei signori cambia allontanandosi dagli
schemi antichi. Meno legati all’esercizio della forza e più,
invece, alla gestione amministrativa e politica del potere.
Da rozzi despota a intellettuali che si circondano
addirittura di artisti, musicisti e letterati.
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Nel XVI secolo il medico Castore Durante da Gualdo
precisa che “i volatili siano il cibo ideale per chi si
dedica alle opere dell’ingegno e dell’intelletto”.
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In rapporto alla gerarchia sociale, il legame fra consumi
alimentari e stili di vita, prosegue con modalità diverse nei
secoli a noi più vicini.
Nell’Europa del XVIII secolo, il caffè fu percepito come
bevanda borghese per eccellenza, mentre il cioccolato era
un consumo aristocratico.
Il primo serviva a tenersi svegli e lavorare, il secondo era
invece una bevanda oziosa.
Nel secolo successivo però, il caffè era già diventato una
bevanda popolare in Francia, come il tè in Olanda e
Inghilterra.
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I simboli sono un prodotto culturale e cambiano da
un’epoca all’altra così come da una società all’altra,
parallelamente al cambiare dei comportamenti della
società e degli individui.
In senso inverso cambiò il significato sociale della patata,
che gli europei del XVIII secolo ritenevano tipicamente
cibo da contadini, se non da bestie. Il secolo successivo
invece entrò a pieno titolo nell’alta cucina borghese e
aristocratica.
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Un aspetto tradizionalmente forte della cultura alimentare,
è quello che attribuiva al cibo un valore significativo
rispetto allo scorrere del tempo.
Le società tradizionali collegavano la preparazione e il
consumo a questo o quell’alimento a una determinata
ricorrenza del calendario
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Natale aveva i suoi cibi e così Pasqua.
Carnevale non era Quaresima e l’estate non era
l’inverno.
Anche in questa “calendarizzazione” del cibo, gli
aspetti culturali prevalevano in quelli naturali.
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La ciclicità delle stagioni trovava riscontro nel tipo
di alimentazione.
Anche i medici (da Ippocrate in poi)
raccomandavano questa corrispondenza:
Bere e mangiare “freddo” nei mesi caldi, bere e
mangiare caldo nei mesi freddi, come nella teoria
umorale legata ai quattro elementi.
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Tuttavia la sintonia fra Uomo e Natura non era sempre
vissuta in termini positivi:
Il ciclo delle stagioni poteva riservare sorprese e l’obiettivo
primario fu sempre quello di modificare i cibi per renderli
conservabili oltre la loro dimensione stagionale.
Le élites invece ostentavano il consumo di frutti e verdure
fuori stagione, facendoli venire da lontano.
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Dal IV° secolo in poi, il calendario liturgico
condizionò in maniera decisiva i ritmi nutritivi,
obbligando tutti i cristiani a osservare la distanza
fra giorni e periodi “di grasso” o “di magro”.
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Sempre il calendario liturgico rafforzò la tradizione
a segnalare con certi cibi le ricorrenze festive.
Il più delle volte questo aveva a che fare con dolci
da forme e consistenze diversificate a seconda della
ricorrenza.
Basta pensare alla Pasqua ebraica e a quella
cristiana.
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Nell’Italia medievale ogni festa aveva il suo cibo.
Questo fu anche oggetto di ironia da parte del poeta
e letterato Simone Prodenzani da Orvieto, che
verso la fine del 1300, nel “Saporetto” riportò come
certe donne per “devozione” non mancassero ad
alcuna ricorrenza.
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Video Saporetto
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Sicuramente queste vivande erano legate anche al
calendario naturale.
Lo stesso agnello a Pasqua, è un rimando al
racconto della Bibbia ma è anche il momento
dell’anno più giusto per gustarselo.
Un altro esempio è la carne di maiale per la festa di
S.Antonio a gennaio.
Periodo economicamente più corretto per
“ammazzare il porco”
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Ci sono poi molte altre vivande che escono dal
concetto precedente.
Lasagne, maccheroni o paste nobilitate,
simboleggiano la festa in ogni data dell’anno
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Sono quindi le forme a segnare le differenze.
Come per dolci tipo frittelle e panettoni.
Le farciture, le guarnizioni o l’uso di uvette e
canditi (messi via apposta).
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Il panettone ci suggerisce il Natale non tanto perché
è “fatto così” ma perché è fatto in quel periodo.
Ecco come mai ancora oggi non è facile vedere il
panettone fuori dal periodo natalizio.
In conclusione occorre dire però che il valore
antico del calendario alimentare non è più lo stesso,
ma fortunatamente fatica a scomparire e
specialmente in regioni a forte vocazione
tradizionale.
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L’Umbria e la sua enogastronomia
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Gran parte dell’Umbria, di fatto, può
considerarsi una sorta di isola circondata dai
monti. Questa sua peculiarità morfologica è
stata anche la causa positiva di un più lungo
mantenimento culturale delle pratiche
agroalimentari antiche.
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Verosimilmente la radice storica di questo
territorio è ascrivibile a civiltà ben distinte:
Umbri, Etruschi, e Sabini. Ognuno di questi
popoli ha lasciato una traccia base ancora ben
presente nella gastronomia regionale.
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L’Umbria è una regione che ha dato vita nei secoli a
un ricettario comunque basato su semplicità e
genuinità, coniugando piatti di origine contadina a
ricette di antica tradizione.
Nonostante un terzo del territorio sia montuoso e il
restante collinare, vi è una buona convivenza fra le
foreste e le coltivazioni di vite e olivo.
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La tradizione culinaria umbra evidenzia bene
una coerenza tra paesaggio e gastronomia.
La sensazione di vivere il passato che si ha
quando si visitano i suoi centri urbani storici, è
la medesima al contatto con i sapori dei piatti
tradizionali che evidenziano la loro origine
medievale.
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Possiamo ricordare i Palombacci, colombi selvatici
cotti allo spiedo e spennellati accuratamente con la
“ghiotta” la salsa a base di vino rosso, olio, pancetta,
capperi, aceto, olive, acciughe, cipolla, aglio, chiodi di
garofano, bacche di ginepro, salvia e succo di limone.
Salsa che poi è raccolta in una vaschetta metallica che
appunto ne prende il nome e che recupera i succhi e il
grasso delle carni cotte allo spiedo.
Nel caso della cottura invece dei tordi, dopo lo spiedo,
la tecnica prevede di terminare la loro cottura
direttamente all’interno della leccarda con la salsa.
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Della stessa storia anche le beccacce alla
norcina, che ripiene di pasta di salsiccia, lardo e
le stesse interiora, maggiorana, timo e tartufo
nero, vengono arrotolate in fettine di lardo,
legate e cotte in spiedi.
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In questo quadro non possiamo dimenticare la
Porchetta, che anche se diffusa e apprezzata in tutta
l’Italia centrale, ha origini umbre.
Una preparazione di tradizione viva che comporta il
disossamento del maiale piccolo, o meglio di un
suino che non superi i 40 kg.
La farcitura comprende le interiora spezzettate,
finocchio selvatico, pepe, aglio e sale. La sua
cottura anticamente poteva comprendere anche la
tecnica dello spiedo ma l’uso del forno nel tempo si
è rivelato ben più efficiente e di miglior resa.
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La Porchetta non va però confusa con la tecnica di preparazione
detta “in porchetta”dato che in questo modo vi si cucinano anche
i pesci.
Infatti, raro piatto dedicato ai prodotti ittici, nella zona del Lago
Trasimeno viene preparata la Carpa Regina in porchetta.
Un piatto di straordinaria bontà che necessita di una particolare
sapienza e che fa parte della vera tradizione gastronomica umbra.
La carpa dopo essere stata ben pulita ed eviscerata viene farcita e
cosparsa esternamente di un battuto magistrale di lardo ed erbe
aromatiche e successivamente di finocchio selvatico, aglio, sale e
pepe. Nel fondo della leccarda da forno usata per la sua cottura,
vengono posti dei fusti incrociati di finocchio selvatico in modo
che il pesce non si attacchi e il tutto viene spruzzato di vino
bianco.
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Ancora oggi la regione vanta una vasta e
qualitativamente ricchissima varietà di minestre e
zuppe di farro. Alcune di queste risalgono
addirittura al periodo preromano. Una di queste è la
zuppa di farro e ceci che grazie ai legumi regala un
sapore intenso e gustosissimo.
Stessa cosa con le lenticchie di Castelluccio che
include la bollitura assieme all’osso di prosciutto.
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Essendo in passato l’unica portata del pasto
rurale, agli ingredienti base della zuppa
venivano aggiunti carni varie, grasso di maiale,
ortaggi e quanto in possesso di coloro che
tentavano di arricchire il potenziale nutritivo del
proprio piatto.
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Sempre in ambito di retaggio tradizionale, non
vanno dimenticate le minestre di legumi cui
vengono unite pasta o pane raffermo.
Un esempio può essere l’Acquacotta o la
minestre di fave.
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L’utilizzo degli antichissimi legumi, trova in Umbria un
alleato d’eccezione in quella che verosimilmente è stata la
prima forma di pasta elaborata dall’uomo.
Gli strangozzi o per meglio dire quella Itrija, itriyya o itrion
che i Greci, prima e i Palestinesi e gli Arabi poi, narravano
descrivendoli come delle stringhe sottili di acqua e farina di
grano.
L’elaborazione durante il tempo ha poi consentito di
associare questo alimento, non soltanto alle minestre e ai
passati di legumi, ma anche a salse e soffritti che ne
esaltassero il consumo in asciutto.
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La pasta in Umbria è vera tradizione. Lo è per i pici
etruschi e per le citazioni di Jacopone da Todi -"Granel di
pepe vince / per virtù la lasagna“- ma esiste un piatto che ha
lasciato un segno indelebile nella storia della gastronomia
umbra. Gli strascinati di Monteleone di Spoleto. Una
ricchissima pasta inventata nel 1497 da una fantesca
disperata, per quietare l’appetito e l’arroganza di Paolo e
Camillo Vitelli, che espugnarono il castello in occasione del
viaggio di Re Carlo VIII di Francia verso il regno di Napoli,
di cui i due capitani di ventura erano scorta.
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Date le caratteristiche della polenta, che si sostituiva più
che bene al pane secco in diverse preparazioni destinate ai
ceti più bassi, il mais in Umbria fu accolto con favore.
A differenza di altre regioni centro-meridionali d’Italia, il
mais e i suoi derivati sono ben radicati nella cucina
regionale.
Un esempio è l’impastoiata, una sorta di polenta e fagioli,
condita in umido e in tempi più recenti anche da pomodoro.
Un altro esempio è il bustrengo, un dolce preparato con una
polenta arricchita da mele, pinoli, noci, uvetta e zucchero.
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Anche se più borderline, occorre menzionare il
migliaccio, una colonna delle ricette popolari
umbre che è identificabile come una torta a base di
sangue di maiale, lardo, pane e pinoli.
Solo dopo il periodo della 2° guerra mondiale si è
aggiunto il cacao
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A questa famiglia appartengono anche i budellacci secchi,
oggi addirittura proibiti dalle normative igienico sanitarie.
Consistono in budella di maiale pulite, salate, pepate e
aromatizzate con semi di finocchio poi lasciate essiccare o
affumicare per qualche giorno per poi essere cucinate alla
brace o in padella con olio e verdure aromatiche.
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Nonostante la prevalenza di ricette semplici, la
cucina tradizionale umbra annovera anche alcuni
piatti dal contenuto tecnico più elaborato.
Questo lo si riscontra specie in diverse preparazioni
che includono l’uso del tartufo nero o ancora di più
in quelle con il bianco prezioso delle zone più a
nord.
Di questi possiamo citare sia le salse per crostini,
che quelle per primi piatti virtuosi e profumatissimi
o l’accostamento alla cacciagione da penna come le
pernici.
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I panpepati e le focacce speziate e ripiene, risalgono
alla tradizione dei dolci più caratteristici del
panorama regionale.
Un esempio è il torcolo di San Costanzo, un dolce
semplice che nel cinquecento veniva donato ai
poveri. Fatto con pasta di pane ben lievitata,
canditi, semi di finocchio etc, veniva cotto nel
classico stampo rotondo da ciambellone.
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Esistono varie specie di farro; quella che si coltiva a Monteleone
di Spoleto è la più pregiata: il "Triticum dicoccum". La diffusione
del farro nella zona di Monteleone di Spoleto è attestata anche
dagli appellativi di "mangiafarre" o "farrari de San Nicola" con
cui gli abitanti dei comuni vicini indicavano i monteleonesi.
Quest'ultima denominazione fa riferimento al rituale del "Farro di
S. Nicola" che si svolge da tempo immemorabile il 5 dicembre,
nella vigilia della ricorrenza del Santo, patrono del paese.
In tale circostanza, il parroco prepara nella canonica della chiesa
di S. Nicola una minestra di farro condita con sugo di magro,
cotta in un grande caldaio appeso sul focolare e distribuita a
mezzogiorno agli abitanti di Monteleone, a cominciare dai
bambini.
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Un altro è la rocciata di Assisi, un dolce
imparentato con i pani speziati, anche se la sua
forma ricorda uno strudel piegato a ciambella.
Viene preparata con l’aggiunta di mandorle,
noci, fichi e uvetta essiccati e cannella.
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Ricordiamo infine il torciglione un dolce a forma di
serpente arrotolato e ottenuto con mandorle, uova e
zucchero.
Alcuni sostengono, nonostante non vi siano
riferimenti certi, che questo dolce sia addirittura di
origine etrusca.
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I vini dell’Umbria
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L’enologia umbra si distingue prima di tutto per i
suoi vini rossi definibili caldi e compiuti, cui si
affiancano in modo più sommesso vini bianchi
armonici e immediati.
Uno dei più conosciuti è senz’altro il Torgiano,
coltivato tra 200 e 300 metri di altitudine. Un vino
rosso rubino, intenso e penetrante, con sapore
asciutto, armonico e di giusto corpo.
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Un altro è il Montefalco Rosso, un vino rubino
carico e brillante, dal profumo intenso e fruttato.
L’eccellenza di questo territorio è comunque il
Montefalco Sagrantino DOCG, prodotto con uve
Sagrantino, dal colore rubino violaceo e granato.
Il sapore asciutto ed armonico è strutturato, caldo e
a volte pastoso. Il profumo caratteristico ricorda
quello delle more di rovo.
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L’Orvieto, un vino che un tempo veniva venduto nei tipici
fiaschi tozzi, è uno dei vini bianchi più rappresentativi
dell’Italia centrale.
Quello di Orvieto è un territorio particolarmente vocato
alla viticoltura. Si pensi che fino al XIX secolo venivano
impiegati metodi di coltivazione tramandati dagli Etruschi.
Il bianco di Orvieto è di colore paglierino, più o meno
carico, profumo delicato e sapore secco con lievi note
amarognole di fondo.
Ne vengono prodotte anche altre qualità con gusto più
abboccato o amabile e pure dolce, fine e delicato.
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Dai Colli Martani va ricordato il Grechetto, un
vino sapido, piacevole e dotato di un gusto pieno e
fruttato. È di colore giallo paglierino ma può
presentarsi anche più pallido.
Il suo profumo è delicato, fruttato e, nei casi in cui
sia stato affinato in barrique, ha sentori vanigliati
raffinatissimi. Attualmente il Grechetto è uno dei
vini bianchi di maggiore commercializzazione in
Umbria.
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In questi ultimi anni diverse aziende agricole si
sono impegnate nell’innalzamento della qualità
vinicola umbra.
Uno sforzo culturale ed economico degni di
encomio, che sta già producendo eccellenti risultati
anche in campo commerciale, nonostante le
difficoltà diffuse nell’economia nazionale.
A questi uomini e a queste aziende va il migliore
augurio di prosperità.
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Grazie per la vostra attenzione
Rif. Bibliografici:
Massimo Montanari “Il cibo come cultura” GLF Editori Laterza
J.Luis Flandrin-Massimo Montanari “Storia dell’alimentazione” GLF Editori Laterza
Marino Marini “Camilla della Taverna di Calamucca”
Contributi video:
La cena di Trimalcione, dal Satiricon per la regia di Federico Fellini
Un americano a Roma, regia di Steno, con Alberto Sordi
L’albero degli zoccoli, regia di Ermanno Olmi
Vatel, regia di Roland Joffé, con Gérard Depardieu
La spolpatura del maiale, Prof. Ivo Picchiarelli estratto da: www.tipicamente.it
Il Saporetto, di Simone Prodenziani, letto da Marino Marini
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