A tavola tra la materialità e l`immaterialità alimentare Michael

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A tavola tra la materialità e l’immaterialità alimentare
Michael Herzfeld
Quando parliamo dell’autenticità di una cucina, cosa intendiamo? Che cosa intendono i
nostri interlocutori?
L’alimentazione oggi viene spesso “patrimonializzata”. Diventa un oggetto del desiderio,
portatore di memorie e di associazioni radicate nella vita sociale e nell’esperienza personale di
ogni singola persona. Viene anche concepita comunque, come un tipo di patrimonio regionale o
nazionale riconosciuto come tale anche a livello internazionale. L’UNESCO considera diversi
aspetti dell’alimentazione come “patrimonio immateriale”. Ma a che serve quell’etichetta? Che
rapporto ha con la realtà vissuta? Chiamare l’alimentazione “immateriale” rompe il forte legame
tra consumo e concetto, tra i piaceri della tavola e la loro organizzazione secondo diverse norme
di buon comportamento. Il cibo è simultaneamente sociale, concettuale, simbolico, tangibile.
Insomma, si mangia e si pensa. Sia in cucina che a tavola, la forma del cibo influisce
direttamente sulla maniera in cui viene concepito e consumato.
La nostra analisi, dunque, respinge gli approcci eccessivamente teorici a favore di dati
forniti dalle indagini antropologiche su diverse società, ricerche che partono da una permanenza
lunga e intensa – anzi, intima – nei luoghi di abitazione e di lavoro in quelle società. La parola
chiave è “quotidianità”. Utilizzando esempi e contesti desunti da vari ceti sociali in Italia, in
Grecia e in Tailandia – i tre paesi su cui il prof. Herzfeld ha condotto le sue ricerche
antropologiche – e aggiungendo anche diversi esempi dalla Cina e da altri Paesi, proveremo ad
individuare gli effetti reciproci tra strutture sociali e tradizioni alimentari. Lavori come quelli dei
noti antropologi Jack Goody, Mary Douglas e lo stesso Claude Lévi-Strauss, ripensati in maniera
ben più dinamica, più capace di riflettere i cambiamenti sociali e culturali, ci offrono ancora oggi
delle prospettive valide e riccamente provocatorie. Diversi cambiamenti nelle abitudini
alimentari in Grecia, ad esempio, riflettono un forte desiderio (spinto dalla politica del
consumismo internazionale) di adeguarsi all’immagine della dieta detta “mediterranea” malgrado
quest’ultima risalga più ai meccanismi accademici statunitensi che a qualsiasi realtà locale
nell’area mediterranea, ma anche di sviluppare un senso del gusto più adatto all’emergere di
valori considerati più “europei” oppure “borghesi”.
Ecco allora il problema centrale: il significato culturale del cibo non è mai fisso,
malgrado i vari tentativi internazionali di collocarlo sotto l’etichetta del “patrimonio”. La caccia
all’autenticità risale più alla politica degli stati nazionali che al mondo della gastronomia, come
si vede nelle campagne di vari governi per promuovere le “loro” gastronomie all’estero. È un
fenomeno che si svolge anche intorno ai punti di contatto tra culture di immigrati e nativi dove la
cosiddetta “autenticità” costituisce un elemento commerciale di grande importanza ma dove, in
realtà, vengono effettuati migliaia di compromessi a scopo di attirare clientele che vogliono
provare un po’ di esperienze esotiche senza comunque accettare cambiamenti radicali nelle loro
abitudini alimentari. La cucina chiamata “italiana” negli Usa fornisce un ottimo esempio di
questo tipo di trasformazione. Spesso escono fuori voci di “esperti” pronti a condannare
qualsiasi compromesso; ma hanno ragione? In che senso? Qui, appunto, si vede che vengono
negoziati anche i criteri più “tradizionali”. Queste dinamiche s’intrecciano anche con diversi
fattori sociali (età, generazione, sesso, professione, livello d’istruzione ecc.). Inoltre, nei
ristoranti, l’analisi etnografica deve prendere in considerazione anche i rapporti tra camerieri e
clienti.
Se vogliamo capire meglio il significato della patrimonializzazione della gastronomia,
servono indagini sugli appositi processi burocratici e politici nei vari contesti nazionali e
regionali. Si sono già svolte alcune ricerche del genere, ma sarebbe opportuno organizzare la
ricerca in maniera più globale e più comparativa. I sapori riflettono cambiamenti sia nella
struttura sociale di un paese che nei rapporti di ogni singolo paese con il turismo e con i territori
confinanti. L'accentuazione sulle culture gastronomiche locali si manifesta anche nel caso del
cibo “etnico” in diverse città italiane, dove la paura dell’ignoto spinge verso una forte
reificazione del sistema gustemico “italiano” (concetto comparabile con altre cucine
“nazionali”), alla quale reagiscono anche le cucine “etniche”, le quali assumono sempre nuove
variazioni nel nome, paradossalmente, dell’autenticità.
L’alimentazione, troppo spesso, va concepita esclusivamente o in termini del patrimonio
immateriale o in quelli della biologia del corpo umano. I dibattiti sull’autenticità invece
dimostrano con chiarezza il suo carattere decisamente politico. Cucinare e mangiare sono due
atti che manifestano la “micro-politica” della quotidianità, filtrata sia dalla diversità enorme di
ceti, di culture locali e di scelte personali che dalle esigenze storiche di ogni società.
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