Numero Dicembre `10

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Dicembre '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Dicembre '10
Numero Dicembre '10
EDITORIALE
Ultimo numero dell'anno di “Fuori dal Mucchio”, il supplemento on-line - ma anche cartaceo,
qualora decideste di stamparne la versione in PDF - del “Mucchio Selvaggio” dedicato al
panorama underground italiano, che arriva a pochi giorni dalla conclusione del MEI.
Caratterizzato dall'abituale frenesia e dal numero sempre più alto di esibizioni live, il
Meeting faentino è stato anche l'occasione per conoscere di persona molti lettori – e ne
approfittiamo qui per ringraziare quanti sono venuti a salutarci al nostro stand – e per
ricevere nuovo materiale discografico. Tanti, tantissimi i CD che ci sono stati consegnati, che
ascolteremo con tutta la calma e l'attenzione del caso, in modo da operare una selezione
accurata prima di ogni eventuale recensione. Non abbiate fretta, insomma, ché se il lavoro è
valido verrà sicuramente analizzato e commentato.
Detto questo, non ci rimane che lasciarvi con la solita abbondante razione di interviste e
recensioni, augurandovi una buona lettura, buoni ascolti e, naturalmente, anche buone feste.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Andrea Cola
Brani che richiamano il cantautorato che proviene dal nostro passato nobile, reclamando il
presente sia nelle tematiche (ma si naviga nell'isola “uomo”, e non potrebbero che essere,
per fortuna, eterne...), ma anche nell'utilizzo di sonorità e timbriche che sono moderne,
amplificate, elettrificate. Con addosso l'eco di una malinconia che cerca di essere tagliata dal
sorriso, andiamo a incontrare Andrea Cola, da poco uscito con “Blu” per Aidoru/A Buzz
Supreme. Ripercorrendo i suoi passi, che sono comuni a tanti giovani musicisti che vogliono
dire davvero qualcosa, affrontiamo insieme un lungo viaggio che, oltre alla sua storia, ci
parla della sua città, Cesena, e di tanta giovane Italia...in uno sguardo pronto sempre a
andare oltre.
La prima cosa che mi viene in mente...perché una copertina dalla tonalità rossa
quando il tuo album si intitola “Blu”...?
Diciamo che è semplicemente un gioco. Quando ho ideato la copertina insieme al grafico
Giovanni Ricchi e al fotografo Luca Piras, abbiamo deciso di evidenziare il titolo del disco
“blu”, virando il colore della copertina in rosso. Questo ci pareva efficace da un punto di vista
comunicativo, e interessante da un punto di vista grafico. Per sdrammatizzare il fatto che il
disco si chiamasse come un colore. Tutto qui, nessuna ragione nascosta o concettuale.
Sei ancora un “giovane” interprete anagraficamente (ancora non hai compiuto
trent'anni, e per l'Italia...), ma per l'anagrafe musicale hai parecchi anni sulle spalle. I
Sunday Morning in primis. Ci puoi parlare delle tue origini, del tuo passato anche
recente, e quanto di tutto questo ci sia in “Blu”?
Ho messo insieme il mio primo gruppo abbastanza presto, a 14 anni, praticamente si
trattava del primo embrione dei Sunday Morning. Come tutti, dopo un paio d’anni di prove in
cantina, iniziammo a fare concerti nella zona e a registrare i primi demo in una bellissima e
ben funzionante realtà comunale chiamata “il suono degli spazi”: una casa colonica gestita
da due ragazzi in gamba, dove si offrivano sale prove e studio di registrazione (a bobine) a
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prezzi veramente economici e dove, fondamentalmente, si incontravano tutti i gruppi di
Cesena e zone limitrofe. Dopo vari cambi di formazione e aggiornamenti di genere dovuti
alla maturazione dei gusti musicali, cambiammo nome in Sunday Morning (prima ci
chiamavamo Nheutromed!!!) e iniziammo a crederci sul serio. Per farla breve, e riassumere
un lasso di tempo di 5 lunghi anni, registrammo il nostro primo e unico disco da soli, nello
studio di cui sopra, firmammo un contratto con un'etichetta indipendente e iniziammo a fare
concerti in tutta Italia. Il problema fu che, come la maggior parte degli esordi di un gruppo, il
disco era più una chiusura di un momento che l’inizio vero e proprio, essendo canzoni che
suonavamo ormai da diversi anni. Oltretutto sbagliammo i tempi, e i concerti iniziarono
troppo presto rispetto all’effettiva uscita del disco (praticamente un anno e mezzo prima) con
la conseguenza che, per incastrare i vari impegni di lavoro e di studio di ognuno con l’attività
live, arrivammo alla data di uscita praticamente esausti. Decidemmo di fermarci per un po’ di
mesi; poi, anche per altre ragioni che non sto a spiegare, ci sciogliemmo. Per quanto io
abbia contribuito attivamente nella decisione finale, il tutto fu, per me, un colpo abbastanza
duro. Ci avevo creduto tanto, considerato che avevo 25 anni. Dopo questa esperienza, mi
misi a lavorare sul progetto di cover Do Not Cry For The Country Boy, partecipai a due
spettacoli con il Teatro Valdoca, e mi buttai anche in un trio con un trombonista (Marcello
Detti) e un percussionista (Enrico Malatesta). Mi trovai d’improvviso a 28 anni. Tutte queste
esperienze, soprattutto i Sunday, sono finite in questo disco sotto forma di paranoie e
delusioni (“Piove A Milano”, “La Mattina Presto”), ma mi hanno dato anche la forza per
decidere di abbandonare tutti i progetti paralleli e puntare tutto su questo.
Davvero molto interessante il tuo progetto parallelo come Do Not Cry For The
Country Boy. Ce ne puoi parlare?
Do Not Cry nasce dall’esigenza che avevo di salire su un palco da solo, di vedere che
effetto mi avrebbe fatto. Il progetto era una specie di piccola sfida: si trattava di prendere
canzoni meravigliose scritte da altri e buttarle in un mare di riverberi ed echi, asciugandole
allo stesso tempo di tutte le sovrastrutture di arrangiamento originali: suonandole solo
chitarra e voce. C’era, da parte mia, la volontà di trovare il nucleo emotivo di ogni grande
canzone affrontata, cercare di farla tornare al suo concepimento originario, ma, ovviamente,
c’era anche il desiderio di offrirne una visione personale, farla ascoltare da un altro punto di
vista. Un esempio, forse il più riuscito, è quello della mia rilettura di “Some Candy Talking”
dei Jesus And Mary Chain. Do Not Cry mi ha dato molte soddisfazioni, per così dire,
“artistiche”, essendo anche un progetto abbastanza aperto, per cui mi è capitato di proporlo
sul palco insieme ai Sea Of Cortez (Antonio Gramentieri, Diego Sapignoli e Mirko Monduzzi)
e con gli Unicorn (quel progetto con Marcello Detti e Enrico Malatesta). Ora è tutto in pausa,
perché la mia identità musicale coincide con quella anagrafica, e secondo me, quando
succede è a quello che bisogna dare la precedenza.
C'è la presenza in “Blu” della collaborazione di tanta importante realtà musicale della
prolifica Cesena (Aidoru, Comaneci, 64 Slices of American Cheese...altri?). È
interessante notare questa disponibilità a collaborare. È davvero tipico della musica o
solo della realtà accogliente della Romagna?
Non so se sia tipico in generale, so che con le persone che hanno collaborato al disco (e
vorrei citare anche Andrea Comandini dei Marquez e Bluscuro Studio, in qualità di
produttore), c’è un rapporto di amicizia che dura da anni. Insomma, siamo tutti della stessa
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città, o quasi, frequentiamo gli stessi posti, beviamo insieme molte birre, per cui, fermo
restando che la scelta è stata dettata soprattutto dalla stima per l’attitudine musicale di
queste persone, è stato abbastanza naturale e insieme bellissimo potersi permettere di non
dover guardare troppo lontano...in più loro hanno accettato ricambiando la mia stima e
questo mi ha molto onorato.
Come e perché hai mosso i tuoi primi passi nella musica? È perché mangiate o
respirate qualcosa di particolare a Cesena il motivo per cui siete così prolifici?
Il perché è molto semplice: mi piace molto. Il come è altrettanto semplice: sono da sempre
attratto dalla musica; è da quando usavo la racchetta da tennis come una chitarra, a 4 o 5
anni, che mi piace cantare e scrivere canzoni. Ed è l’unico modo che conosco per liberare
quel poco che ho dentro, per comunicare qualcosa a qualcuno, per annullarmi e per
condividere determinate sensazioni. Questo non giustifica il fatto di fare qualcosa di qualità,
o meno, ma lo faccio comunque. Il discorso sulla città è un discorso legato agli spazi di
espressione concessi. Quando abbiamo tirato fuori il naso dalla cantina, ci siamo resi conto
che c’erano tantissimi altri come noi, insomma qua era una cosa normale. Come già dicevo,
secondo me, molto del merito deve essere attribuito a quel centro che era una sorta di
spazio comunale capace, grazie alla bravura di chi lo gestiva (Andrea Zanella e Andrea
Comandini), di essere un punto di incontro per tutti i ragazzi che suonavano in zona, ma allo
stesso tempo di produrre musica di qualità, di fare girare i dischi e gli interessi; proprio per la
competenza degli organizzatori e per il loro essere essi stessi parte della scena musicale
cesenate. Insomma, al contrario di quel che spesso accade, non era un semplice contenitore
di servizi “vuoto” e fintamente democratico gettato dall’amministrazione comunale sotto la
voce “politiche giovanili” e gestito da associazioni, magari di buona volontà, ma poco
competenti. Era un vero e proprio laboratorio. Questo è ovviamente il resoconto della mia
esperienza, di quando ho messo il naso fuori nell’adolescenza, e fino ai vent’anni. Il prima e
il dopo non li conosco.
Ma come si sente davvero Andrea Cola? Ancora “Piove A Milano”? E cos'è “Blu” per
te?
Io? Io sto bene. Davvero. Quello che dico è certamente malinconico, triste, frustrato, ma è
semplicemente quello che mi viene fuori quando scrivo una canzone. Come dicevo prima, a
questo mi servono le canzoni, per buttare via delle cose. Per quel che riguarda la “formula”
con cui lo faccio, c’è semplicemente il tentativo di scrivere delle belle canzoni, di trattare temi
che possano essere condivisi e di fare tutto questo qui e ora, cioè nel duemiladieci. C’è una
sorta di malinconia ironica, ma non particolarmente intelligente o acuta. È qualcosa di più
primordiale, un po’ la descrizione dei primi momenti, in cui ti rendi conto di aver fatto una
cazzata, di stare sbagliando strada, ma ancora non ci hai ragionato abbastanza da poter
razionalizzare questa cosa. Ma ne avverti tutto il disagio. Questo, per me, è il blu. Questo è
quello che c’è nei testi, più o meno.
Con la collaborazione con A Buzz Supreme, che tanta musica indipendente produce,
hai potuto avvicinarti ulteriormente al panorama musicale e di "mercato" italiano.
Come lo vedi? Pensi che i tagli alla cultura si stiano facendo sentire anche sulla
produttività e creatività musicale?
La mia collaborazione con A Buzz Supreme è partita ora, e, così come per Aidoru
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Associazione, che si occupa del booking e dell’ufficio stampa, sono molto contento di
collaborare finalmente con piccole strutture attive, competenti e combattive. Ma soprattutto
serie e oneste, che è poi quello che è mancato in tutta l’esperienza “esterna” con i Sunday
Morning, e che molto ha avuto a che fare con il loro scioglimento. L’onestà e il rispetto sono
fondamentali quando si lavora in un campo di prestazione di servizi apparentemente così
melmoso e astratto come quello della produzione musicale. Quindi per me questa è una
partenza sotto i migliori auspici e sono soddisfatto di come le cose stanno andando. Non
posso permettermi di dare un giudizio sul panorama musicale italiano, perché non ne faccio
ancora veramente parte e lo guardo, per così dire, da fuori. Posso solo rendermi conto che
dal 2006, quando ci fermammo con i Sunday, la scena era dominata da gruppi che
cantavano in inglese (noi compresi), ora tutto si è spostato sul cantautorato italiano, e
questo, per forza di cose, mi fa piacere.
Dei tagli alla cultura, mi scuso per l’ignoranza, ma ne so molto poco pur seguendo la
politica. Io so solo che questo disco me lo sono pagato interamente di tasca mia,
risparmiando per un anno; e per come si sta sviluppando tutto il giro dei servizi (booking,
promozione, ecc...), cioè “a prestazione”, a meno che uno non abbia la certezza di finire
nelle mani giuste firmando per una struttura importante, l’autoproduzione è ancora la scelta
che consiglio. Che non significa lo-fi.
La creatività non si ferma mai...in cantiere già un nuovo album per te?
Sono rimaste fuori tante canzoni dal disco, sulle quali sto ancora lavorando. L'album è
appena uscito, ma non ti nego che sto già pensando a come fare il prossimo, per lo meno a
grandi linee! Però per adesso va bene così...
Contatti: www.andreacola.it
Giacomo d'Alelio
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Dome La Muerte And The Diggers
Domenico Petrosino, in arte Dome La Muerte, è una colonna portante della Storia (con la”s”
maiuscola) del rock’n’roll italiano. E di fronte a uno che ha importato per primo dalle nostre
parti – era il 1978 – un certo tipo di suono, uno che ha militato nelle fila di CCM (1981-1984),
Not Moving (1982-1994 e nella reunione del 2005) e Hush (1996), non è che ci siano tante
domande da fare. Si spera che la sua storia (con la “s” minuscola) sia già arrivata e sia già
stata metabolizzata almeno dai divoratori di un certo tipo di musica. Fortunatamente, Dome
La Muerte ha fatto un altro disco, “Diggersonz” (GoDown-Area Pirata/Audioglobe), il
secondo con i Diggers, band della quale è titolare dal 2006. E quindi cercheremo di parlare
con lui del presente e del futuro, più che del passato. Anche se non ci riusciremo,
contraddicendoci proprio dalla prima domanda...
Dopo trentadue anni di rock, garage e punk, suonati tutti insieme, sempre, senza mai
fermarti un attimo e dopo aver aperto concerti e conosciuto gente del calibro di Nico,
Clash, Nick Cave, Johnny Tunder, Fuzztones, Iggy Pop, qual è il senso, oggi, di
suonare un certo tipo di musica – come dire, passami il termine – “datata”?
Secondo la tua domanda non avrebbe più senso nemmeno suonare Bach o Mozart perché
“datati”. Oppure chiediti come mai orde di ragazzini nel 2010 ascoltano Black Sabbath e
Doors. Seguire la propria strada e avere un sound riconoscibile è più importante e duraturo
che seguire le mode. E io le mode le ho sempre odiate fin da piccolo. Il nuovo, ora come ora,
in Italia, è considerato la scena indie che attinge a piene mani dagli anni ’80 nel migliore dei
casi, dalla musica leggera nel peggiore. Le nostre radici sono “datate”, altrimenti non
sarebbero radici, ma nessuno può dirci che siamo rinchiusi in un genere o un cliché. Non
siamo garage, né punk, né Sixties, né hardblues, ma siamo una mistura di tutto questo, lo
puoi chiamare semplicemente r’n’r, ma la nostra è una ricerca verso un suono originale, il
nuovo a tutti i costi non ci interessa (diciamolo: nemmeno suonare tubi e lamiere è nuovo).
Immodestamente penso di avere da dire molto di più di un ragazzo di vent’anni. Se fossi
disonesto potrei vivere di reunion, invece mi piace andare avanti anche se è la via più
difficile
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E dal vivo, in locali medi, piccoli o minuscoli dopo aver sfiorato con i piedi palchi
importanti, dopo aver creato un culto attorno ai Not Moving, è sempre la stessa
energia che ricevi e riesci a comunicare, magari anche – perché capita, è normale –
davanti a poche persone?
A volte suoniamo meglio con meno gente perché devono raccontare a chi non c’era che si
sono persi un bello show.
Come sono i Diggers, come band, come legami tra i vari componenti del gruppo,
come sintonia, rispetto alle tue esperienze passate?
Cerco sempre di creare una specie di famiglia. La nostra musica è basata sull’istinto e le
emozioni, non sulla tecnica, per cui la fratellanza, l’amore e l’entusiasmo sono fondamentali.
Parliamo di “Diggersonz”, avete registrato l’album in Spagna, in uno studio
completamente analogico. È necessario arrivare fin là per fare un disco di poco meno
di mezz’ora di rock’n’roll in “vintage recording”?
Questo dovresti chiederlo anche ai Cynics, ai Chesterfield Kings e a tutti i gruppi americani
che vanno fin lì a registrare: è lo studio vintage più attrezzato d’Europa. “Diggersonz” è
uscito oltre che su CD per GoDown Records e Area Pirata, anche su vinile per la Surfin Ki e
ne è stato tratto anche un 7”. La nostra musica, e non solo la nostra, andrebbe sempre
registrata su nastro, perché, se non esageri con effetti e sovraincisioni, senti la band com’è
veramente: è più onesto e dal vivo non avrai cattive sorprese.
Quando hai iniziato a suonare c’era il vinile. Oggi, in Italia, non si comprano
nemmeno più i CD e gli mp3 dominano il (non)mercato. Non c’è il rischio che con il
campionamento e tutto il resto il “vintage recording”, alla fine, sia solo una questione
di stile, un approccio personale del musicista al modo di suonare?
Ai nostri concerti vendiamo più vinile che CD e anche le nuove generazioni stanno
cominciando a capire l’abissale differenza di suono che c’è fra i due supporti. Penso che il
vinile possa essere eterno, non il il cd, come il tempo sta già dimostrando, comunque se il cd
è stato confezionato in maniera attenta, con foto, info sulla band ,eccetera, è sempre meglio
dell’mp3, che suona veramente da schifo e i nostri fan se ne stanno accorgendo.
Come vengono accolti i Diggers dal vivo?
Il live è la nostra autentica dimensione, diamo sempre tutto, il pubblico apprezza la nostra
sincerità sul palco. Ultimamente molti sono giovanissimi e questo mi dà un po’ di speranza
per la scena italiana.
In tutta la tua discografia c’è sicuramente un suono ricorrente. Ma sembra che, con
l’andare degli album, le hit, i pezzi da ricordare anche da soli, siano sempre meno, in
ogni singolo disco, mentre sempre più importante sembra diventare il disco come un
tutt’uno. O mi sbaglio?
A differenza della scena indie, non puntiamo al mainstream, non decidiamo niente a
tavolino, una radio se ci vuole trasmettere lo fa solo perché gli piacciamo, e non perché sarà
il ritornello dell’estate come Neffa. comunque non sono d’accordo con la tua analisi perché
nel corso degli anni sono sicuramente diventato più “melodico”. Per quanto riguarda il suono
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e la composizione dei pezzi cerchiamo di evolverci disco dopo disco e di non ripeterci,
sviluppando sempre idee nuove.
Come continuerà il percorso di Dome La Muerte, da “Diggersonz” in poi?
Intanto siamo diventati un trio e faremo in questi mesi un nuovo 7”, in attesa del terzo LP.
Stiamo organizzando un tour in Francia e Spagna e altre date in Italia. A febbraio uscirà il
mio primo disco solista per la Japanapart/Audioglobe quasi totalmente acustico, ci sono
anche strumentali in stile “spaghetti western”.
Una curiosità: davvero hai baciato Caterina Caselli?
Si, ma solo sulle guance, purtroppo.
Contatti: www.myspace.com/domelamuerteandthediggers
Marco Manicardi
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Ezra
Ezra torna a nutrire la sua carriera solista con il secondo album “Solo” che segue l’esordio
del 2005 “ In grembo”. Musicista, DJ, remixer e produttore con la No.Mad Records, Ezra è
un alchimista dei suoni che nel disco nuovo arriva a suddividerli in generi estrapolando
l’essenza del godibile. Dal dub al trip hop, dal blues all’elettronica al pop, Ezra si distingue
con i suoi mille sguardi a perdifiato, e canta anche.
A un certo punto della tua vita hai capito che il tuo amore per la musica superava
quello di ascoltatore perché avresti voluto raggiungere un palco. Com’era quel
ragazzo?
Ho scoperto l’amore per la musica verso i quindici anni e sono partito subito in quarta
perché è stata proprio una folgorazione. Ho iniziato a mettere i dischi, ma dopo un po’ ho
capito che non era esattamente la cosa che cercavo e quindi mi sono avvicinato alle
produzioni e ai campionatori, comprando, rubando dischi qua e là, soprattutto molto vecchi,
per appunto poter campionare e mettere insieme cose che in realtà avevano suonato altri.
Era un approccio molto diffuso in quegli anni.
Ci sono state delle persone che hai incontrato in questi anni e che pensi siano state
fondamentali per la tua crescita e il tuo percorso attuale?
Sì parecchie. Prima di tutti sicuramente Alessio Manna dei Casino Royale a cui devo le
prime esperienze musicali e gli ascolti dei dischi hip hop di metà anni 90 e di tutta la scena
trip hop. Poi sicuramente l’esperienza in studio e dal vivo con i Casino Royale mi ha
insegnato tanto. E vedere lavorare Howie B in studio è stato molto importante. Poi tutta una
serie di persone: la scena di Torino è molto ricca e varia con mille generi diversi che io
continuo ad assorbire come una spugna.
Cosa significa per te mettere mano sui dischi di altri?
Dipende da quello che devo fare. Tendenzialmente non riesco ad avere la mano tanto
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leggera, perché mi vengono un miliardo di idee perciò tendo a voler provare parecchie
strade. Se faccio dei mixaggi, come mi è capitato ultimamente, cerco di frenare l’impulso di
produttore che cerca di mettere mano anche alle strutture. È molto interessante quando
riesci a giocare con i generi e ad inventarti delle soluzioni volta per volta diverse. Quella è la
cosa che mi piace di più. Poi dipende se l’artista ha voglia di fidarsi di te e di mettersi in
gioco.
Quest’album “Solo” ti fa sembrare più libero e ordinato rispetto all’esordio “In
Grembo” dove eri forse ancora legato all’influenza dei Casino Royale, com’è cambiato
il tuo modo di comporre?
È cambiato tantissimo. In maniera spiazzante per me in prima persona nel senso che non
pensavo di arrivare a fare un disco così. Innanzitutto perché mi sono messo a cantare i pezzi
e già quello è stato strano perché non sono esattamente un usignolo. “In grembo” è un disco
fatto di campioni di dischi di altri ed è nato molto di riflesso invece in “Solo” la maggior parte
dei pezzi sono nati al pianoforte perciò scrivendoli e componendoli. È arrivata prima la
melodia del suono. È un disco di genere schizofrenico. Ho voluto provare a cimentarmi in
cose che in questi anni mi sono piaciute molto: dal blues alla new wave al dub alle cose
elettroniche ancora non definite al pop e all’hip hop.
Quanto sono stati importanti i tuoi ospiti musicisti per la direzione di queste canzoni?
Direi moltissimo. Solitamente collaboro con Paolo Spaccamonti ed è stato fondamentale
anche in “Solo”, ha suonato in moltissimi pezzi. Ma poi anche tutti gli altri: Davide
Compagnoni e Marco Alonzo, che hanno fatto delle batterie, fino a Paola Secci ai violoncelli,
Marco Piccirillo al contrabbasso, Cecio che è il sassofonista di Mr. T-Bone che ha fatto
l’introduzione del disco. Sono stati tutti molto importanti per il risultato finale. A volte ho
lasciato davvero carta bianca del tipo: vai chiuditi dentro e fai quello che ti senti di fare, altre
volte sono state cose scritte da me e risuonate però è stato fondamentale fare un disco così
che s’intitola “Solo” ma non è fatto esattamente da solo. Ho ricoperto più ruoli in questo
disco, dall’essere musicista all’essere produttore di me stesso e fonico. Del resto non
riuscirei a lavorare in altro modo, però ogni tanto è un po’ complicato e avere un altro paio di
orecchie a darti una mano più essere utile, infatti poi a fare il master mi ha aiutato Gianluca
Patrito.
Hai suddiviso il disco in generi musicali che immagino siano poi i tuoi preferiti. Con
quale di questi ti sei trovato meglio?
Con il blues mi sono trovato veramente a mio agio. Mi piacerebbe continuare a
sperimentare nel blues che sconfina nel trip hop e nell’elettronica perché secondo me, ci
sono delle cose da dire in questo momento.
Nel filone blues c’è una cover di “Mannish Boy” di Muddy Waters. Perché proprio
questa canzone e come mai l’ha fatta diventare trip hop?
Devo ringraziare ancora una volta Paolo Spaccamonti che mi ha passato il disco “Electric
Mud”: Un disco molto particolare con reinterpretazioni in chiave elettrica non elettronica di
classici di Muddy Water. Tra i pezzi c’era “Mannish Boy” che era in quella versione secondo
me stupenda. Mi sono messo a cantarla così, perché l’avevo ascoltata tante di quelle volte
da averla imparata a memoria e ho deciso di provare a renderla in maniera elettronica
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invece che elettrica.
Come mai hai strutturato il disco suddividendolo per generi?
In realtà ci dovrebbe essere un disegno non tanto su questo disco ma sulla trilogia che
vorrei completare. “In grembo” era dedicato alla nascita, “Solo” nella mia idea doveva essere
dedicato alla vita, per le immagini che mi ha dato e il terzo dovrebbe essere quello sulla
morte. Per adesso questa era la seconda puntata. Comunque non sapevo sarebbe venuto
fuori così tanto frazionato con così tanti generi diversi: è stata una bella sorpresa anche per
me.
Avere uno studio tuo dove registrare ha allungato i tempi?
Ha allungato i tempi perché lo studio è aperto da un paio di anni. Mi sono subito messo a
lavorare su altre dischi, quindi “Solo” è nato in mezzo a cose di altri e poi ho dovuto avere il
tempo di fare i risettaggi macchine e di trovare il mixer come lo volevo. Il disco alla fine è
stato un po’ la prova dello studio per testare come potevano uscire i suoni e devo dire che
sono molto soddisfatto e il prossimo spero di riuscire a farlo più velocemente.
Come presenterai questo disco dal vivo?
Come cantante non sono un fenomeno, così con la scusa di fare dei remix, sto facendo
delle versioni alternative molto più elettroniche e più clubbing. Comunque, alla fine, io mi
sento molto più a mio agio in studio che su un palco. Poi ho anche dei progetti live come i
Dub Pigeon nati con me, Paolo Spaccamonti, Davide Compagnoni e Deian, in cui facciamo
improvvisazione con synth, batteria e due chitarre.
Contatti: www.nomadrecords.it
Francesca Ognibene
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Il Genio
“Vivere negli anni X” (Disastro/Cramps Music) è l’adorabile, secondo album del duo
pugliese, attivo a Milano. Non commettete l’errore di sottovalutarlo perché uscito abbastanza
in sordina lo scorso giugno, oppure di snobbarlo perché non trainato, a differenza
dell’omonimo esordio del 2008, da un tormentone come “Pop porno”. Sarete ricompensati da
dodici pop-songs semplicemente da manuale. Se in passato avevamo conversato con
Gianluca De Rubertis, stavolta tocca ad Alessandra Contini.
Come avete vissuto il successo casuale del singolo “Pop porno”?
“Pop porno” è stata scritta senza l’intenzione di portarla sul mercato, metterla in vetrina.
Tutto è iniziato per caso: Gianluca si è trasferito da Lecce a Milano e, mentre cercava un
appartamento, condividevamo il mio. Ci siamo messi a suonare in casa perché avevamo
degli strumenti e dei software che ci permettevano anche di passare il tempo. Abbiamo
buttato giù il pezzo, con totale serenità e mancanza di obiettivi. Mesi prima avevamo
scoperto MySpace e abbiamo così deciso di caricare il brano. Il successo è stato una grande
sorpresa, non ce l’aspettavamo. Mi ritengo molto fortunata perché è stato facile, visto che
parecchia gente compone canzoni valide ma fa fatica a uscire allo scoperto, farsi ascoltare.
Non rimpiango nulla e fondamentalmente la canzone mi ha sempre divertita.
Dopo l’exploit di “Pop porno”, la Universal ha ottenuto una licenza per ristampare il
vostro debutto, ma mi ha incuriosita che abbia perso l’occasione di accaparrarsi
“Vivere negli anni X”, potenziale miniera di singoli radiofonici.
Posso solo dire come stanno i fatti. Abbiamo dato in licenza l’esordio perché Universal si
era interessata soprattutto a “Pop porno”, dopodiché abbiamo collaborato assieme per un
anno e, quando abbiamo presentato il materiale del secondo disco, non abbiamo riscontrato
molto entusiasmo. Il progetto è nato sotto una buona stella: non abbiamo mai avuto
intenzione di concederci a una major e abbiamo iniziato a lavorare con la Disastro, etichetta
della Cramps, che ha uno staff, tra gli altri Alfred Tisocco e Davide D’Antuono, che ci ha
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sempre supportati con vero impegno. Quando abbiamo notato che la major non era
particolarmente vispa e attenta a ciò che stavamo proponendo, abbiamo preferito continuare
con chi ci aveva dato fiducia fin dall’inizio. E non abbiamo sbagliato.
Ciò la dice lunga sul funzionamento delle cose nella discografia attuale...
È così che va, ma l’importante è riuscire comunque a fare ciò che si vuole, in un modo o
nell’altro. La major, al di là di tutto, dà semplicemente un aiuto economico in più. Ci sono
altre cose che contano e in questo periodo storico un’etichetta indipendente è più stimolante,
anche nell’approccio. Si ritorna ad avere a che fare con degli individui e non con un marchio,
a instaurare rapporti personali e non soltanto contatti, a essere chiamati per nome. È
importante.
Trovo che, nell’insieme, “Vivere negli anni X” sia persino migliore rispetto al
precedente disco, forse perché più pensato e compatto, perché gli arrangiamenti
sono più elaborati. Com’è andato stavolta il processo creativo tra te e Gianluca?
Siamo abbastanza soddisfatti perché l’album è stato fatto a rigor di logica: sapevamo che
doveva uscire, mentre il primo è stato un accadimento messoci davanti dal fato. Abbiamo
avuto maggior tempo a disposizione, nonostante la scrittura sia proceduta più o meno come
sempre. Facciamo questo lavoro per passione, per cui la composizione non avviene in
momenti ben precisi o con orari d’ufficio. Dato che i nostri provini sono effettuati con una
scheda audio e un software, ci siamo messi a riversare idee sul computer, a volte insieme a
volte separatamente passandocele in un secondo momento. Usiamo strumenti “vecchi”, per
cui un Farfisa, per esempio, conferisce in automatico un suono anni 60, un’atmosfera rétro
che si mixa con la parte elettronica, sebbene nel nuovo disco ci siano pochi loop. Abbiamo
cercato di arrangiare il tutto per farlo sembrare più uniforme e Gianluca si è occupato, nello
specifico, dei violini. Poi siamo andati in studio a registrare le tracce, scelte tra le tantissime
prodotte.
Il titolo può far pensare a contenuti maggiormente sociali, ma in realtà il filo
conduttore delle canzoni è intimista.
Diamo molto peso alle melodie, ai cantati. I testi sono abbastanza intimisti, anche se non
saprei dire se è un termine esatto. Nel titolo abbiamo utilizzato la “X” semplicemente per
definire il primo decennio del nuovo millennio, ma si può immaginare di tutto.
Utilizzare l’ironia è rischioso perché farsi prendere sul serio, nonostante lo spessore
autoriale, diviene più arduo.
“Pop porno” è un manifesto dell’ironia, che non voleva rappresentare nulla, ma ce ne siamo
fregati del fatto che potesse essere considerata seria, arrogante o superba. Non avevamo la
coda di paglia.
Scrivere testi in italiano comporta comunque mettersi in gioco.
Per quanto i significati possano essere intelligenti, per quanto si voglia comunicare qualcosa
che rimanga impresso, secondo la mia esperienza l’italiano è difficile da gestire perché può
risultare patetico. Scrivere in italiano è impegnativo, ma Gianluca eccelle in questo, per cui è
molto facile.
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Com’è andata la collaborazione con Amerigo Verardi per “Sì per sempre mai”?
Al di là dell’amicizia, Gianluca ha iniziato ad andare in tour con Amerigo e Marco Ancona,
accompagnandoli con l’organo. Una sera io e Gianluca eravamo a Lecce e abbiamo
incontrato Marco a un bar: eravamo abbastanza annoiati, così ho proposto di andare in sala
prove per una “suonata” e il brano è uscito in una notte. In seguito abbiamo contattato
Amerigo, che si è offerto di scrivere il testo.
La scena pugliese è non a caso abbastanza attiva e attorno al Genio gravitano vari
progetti paralleli, anche se la situazione non è tuttora facile in fatto di spazi dove poter
suonare.
Sì, c’è una specie di albero genealogico. C’è Girl With The Gun, composto da Populous e
Matilde De Rubertis, sorella di Gianluca nonché cantante degli Studiodavoli, fondati tra gli
altri dallo stesso Gianluca. Ci sono Amerigo Verardi, che ha appunto collaborato con noi, e
tutta una serie di persone che, pensando specialmente alle proporzioni, ce l’hanno fatta a
emergere. È strano perché è come se ci fosse una tenacia spiccata rispetto ad altri luoghi. In
ogni caso, siamo nel profondo Sud e l’Italia si divide ancora in due parti. È un dato di fatto
che al Nord vi siano più possibilità e risorse economiche, quindi i locali che aprono sono
abbastanza frequentati, nonostante tutto stia andando un po’ alla deriva perché in generale
nessuno ha soldi. Il Salento, invece, è un lembo di terra stretto e piccolo, veramente difficile
da raggiungere, anche se grazie al turismo sta diventando più conosciuto. Lecce è molto
attiva e curiosa, ma gli spazi sono quelli che sono. Informarsi, potersi acculturare
musicalmente è arduo perché i grossi eventi non arrivano mai. Mi ricordo che, quando da
adolescente vivevo in Salento, non potevo permettermi il concerto del gruppo dei sogni
perché occorrevano troppi soldi per prendere il biglietto e un treno per spostarmi, mangiare e
pernottare. Essere del Sud è un po’ difficile, devo dire. In tal caso non si tratta ovviamente di
grandi disgrazie, però sono delle complicazioni in più.
Pensando al brano che avete inciso assieme a Dente, “Precipitevolissimevolmente”
per il 45 giri “Il Lato Beat Vol. 1”, e allargando maggiormente lo sguardo, come vi
sentite invece all’interno della nuova scena italiana?
Le persone che fanno parte della scena musicale di Milano, dove attualmente viviamo, sono
diventate dei veri e propri amici. Abbiamo collaborato con Dente perché ci trovavamo spesso
a parlare di musica durante le serate, le varie cene. Ghost e Disastro hanno deciso di
incidere un vinile, dove nel secondo lato c’è Roberto Dell’Era, un altro amico, con i Calibro
35, a loro volta nostri amici. Una cosa tira l’altra, ma è sempre una questione di
frequentazioni perché non c’è rigore manageriale, non sono le etichette a contattare gli
artisti. Le proposte vengono lanciate tra di noi e i diretti interessati sono spesso interessati a
mettere in atto i progetti. Milano ospita tanti musicisti interessanti, compresi i Lombroso, un
duo non da poco. Questa città, anche se non le si riconosce mai nulla, ha almeno un pregio.
Le vostre canzoni sono sempre state considerate cinematografiche, per cui mi
domando come sia nata la partecipazione alla compilation del telefilm “Romanzo
criminale” e quali siano i tuoi gusti in fatto di settima arte.
Per la canzone “Roberta”, contenuta in una specie di colonna sonora della serie televisiva,
siamo stati contattati dagli autori: stavolta è stata una richiesta precisa, non casuale.
Abbiamo ricevuto il pezzo e l’abbiamo riarrangiato nel nostro stile, come hanno fatto altri
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artisti coinvolti nel disco. Il cinema mi piace molto, nella mia vita ho visto tanti film e ho
studiato al DAMS. L’interessamento viene dall’adolescenza, quando horror, da Bava in poi,
B movie e Bruce Lee mi appassionavano moltissimo. Amo tuttora personaggi come vampiri
e zombie, ma sia a me sia a Gianluca piacciono anche le pellicole francesi: da Truffaut a
Godard. Guardo di tutto, comprese le commediacce: dipende dallo spirito, dallo stato
d’animo. Come accade per la musica, non mi concentro sulle categorie e spazio dal film
della multinazionale americana al film di genere italiano più sconosciuto.
Come proseguiranno gli appuntamenti dal vivo?
Stiamo programmando il calendario del tour invernale, per cui al momento abbiamo delle
date a dicembre che poi confermeremo e annunceremo, mentre a gennaio dovrebbe ripartire
tutto in maniera più costante. Sul palco siamo in quattro, insieme a Arno Engelhardt, un
ragazzo olandese che suona synth e tastiere varie, e Paolo Mongardi, batterista che ci
accompagna ormai da tanto tempo. Se qualcuno volesse venire a sentirci, di sicuro il 10
dicembre saremo all’Auditorium di Milano a registrare un live per Radio Popolare.
Contatti: www.myspace.com/ilgenio
Elena Raugei
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Liir Bu Fer
“3juno” è l’esordio dei Liir Bu Fer ed esce per la Zeit Interference, sottomarchio della Lizard.
Sono un trio che sperimenta con l’ambient, il noise, i suoni naturali di cantanti, chitarre
vestite di loop, mosse lente o slabbrate, incisioni scure e ossessionanti, ma anche celestiali.
Rimanere affascinati da queste macerie di note, di giunture melodiche, di esplosioni è più
facile di quanto si possa immaginare, basta farsi trasportare dalla loro gioia di essere
musicisti vivi e curiosi.
Siete un trio, ma singolarmente da quale mondo provenite, come esperienze musicali
vissute o ascoltate?
Veniamo tutti e tre da esperienze abbastanza diverse tra di loro. Io ho suonato diversi anni
in progetti rock, post rock, comunque non cose ambient sperimentali come sto facendo
adesso. E lo stesso vale per Marco che è il ragazzo che si è aggiunto per la formazione a
trio. Nicola invece è alla sua prima esperienza musicale. E poi gli ascolti sono tantissimi.
Ovviamente tutta quella che può essere la scena ambient. Io ascolto moltissimo industrial:
Einstuerzende Neubauten su tutti, molte cose dark anni 80 e c’è anche una certa passione
per gruppi anni 70 e la sperimentazione di quel periodo con un occhio alla scena recente
anche italiana, come i Japanese Gum di Genova che apprezziamo molto.
Cosa vi ha convinto a iniziare?
All’inizio eravamo io e Nicola in formazione a duo: eravamo molto discontinui e il progetto
era molto più noise. Con l’arrivo di Marco è stato accelerato il processo compositivo, lui ha
portato l’aggiunta di nuovi strumenti, di aspetti più melodici, una velocizzazione nel mixare e
nel registrare. Quindi l’estate scorsa ci siamo decisi a fare uscire il disco, che poi alla fine
non ci ha portato via moltissimo tempo nella composizione, perché abbiamo lavorato tre o
quattro mesi però volevamo proprio fotografare quel momento.
Ma la scelta del nome Liir Bu Fer a cosa si riferisce?
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Liir Bu Fer è una parola africana che indica, in una tribù, il passaggio da quella che è la
condizione d’infanzia a quella di adulto. Allora, ci sono due aspetti. Uno che è molto banale,
ci piace come suona e quindi l’abbiamo tenuto; d’altro canto ci interessa molto l’aspetto che
sia una fase di trasformazione, qualcosa di non ben definito in mutamento che è un po’
come quello che ravvisiamo nella nostra musica, come caratteristica e peculiarità: non voler
mai stare fermi, di ricercare sempre stimoli nuovi, di qualcosa che ci interessi, che ci
emozioni, di qualcosa comunque in cambiamento e non di statico. Che poi è la cosa che
abbiamo cercato di fare anche nel disco, ovvero riuscire a creare dei movimenti, dei cambi
scena. Su questo abbiamo lavorato parecchio e lì che si collega il nome.
Ma quando voi prendete in mano i vostri strumenti avete già in mente il percorso ben
delineato o vi lasciate andare alla musica?
Ci si lascia completamente andare. Partiamo da quelle che sono delle improvvisazioni delle
session totalmente libere, poi pian piano andiamo a costruire quella che è una struttura.
Abbiamo un canovaccio, poi a seconda dei pezzi, magari uno dei tre ha una bozza più
stabilita, più determinata e gli altri, anche a secondo della strumentazione che usiamo, a
rotazione seguono un andamento più libero. Quindi sì, nasciamo dall’improvvisazione e poi
cerchiamo di limare e soprattutto di suonare poco, perché la tendenza che abbiamo tutti e
tre è di suonare insieme contemporaneamente, rischiando di creare solo casino, troppo
rumore. E stiamo cercando di lavorare molto sul silenzio, sugli incastri.
Una serie di ospiti, soprattutto voci, hanno contribuito alla realizzazione del disco.
Vuoi nominarli?
Li nomino e li ringrazio anche. C’è Claudio che ha lavorato con noi sul pezzo “Red
Submarine” e anche lui ha un gruppo molto interessante i Nichelodeon, usciti anche loro con
Lizard da qualche settimana, poi c’è Antonella Bertini che ha lavorato con noi su “es” e su
“Ginza”. In questo caso Marco aveva delle registrazioni fatte da lei in studio di sola voce e
poi noi le abbiamo inserite e adattate ai nostri brani. E infine c’è la collaborazione di
Raffaello Regoli che è l’organizzatore dell’omaggio a Demetrio Stratos che ha scritto con noi
la base di “obliquizione” con una tecnica sperimentale di scrittura del brano che poi noi
abbiamo lavorato e sistemato.
Una didascalia che descrive il vostro gruppo cosa reciterebbe?
Siamo un trio e ci divertiamo tantissimo a suonare e ricerchiamo, innanzi tutto, quella che è
una forma di divertimento, anche nell’uso di registrazione non convenzionale che abbiamo.
Ci piace molto l’idea di toccare, di muovere, di battere le cose, di tastare con le mani e quindi
è un approccio molto primitivo con la strumentazione. E quindi anche se vengono fuori
queste cose abbastanza cupe, noi in realtà siamo come dei bambini con dei giocattoli
divertiti ed emozionati.
Ma a lavoro finito pensate di aggiungere o togliere strumenti, di fare modifiche, o
rimarrete così?
Stiamo pensando di aumentare quella che è la strumentazione, perché comunque il
progetto di ricerca, come ti dicevo prima, va avanti è una cosa continua è una cosa che
come dice il nome vuole essere in continua trasformazione e quindi stiamo cercando di
arricchire le soluzioni che possono venire per un prossimo disco, un EP. Io ho una sezione
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che ricorda un po’ le cose che usano gli Einstüerzende Neubauten (anche se in
maniera minore) di strumentazione di legno con varie lamine e sto allargando questa
struttura con una sorta di batteria; poi volevamo aggiungere un basso perché con la sola
chitarra non riusciamo a far saltar fuori delle linee più scure di cui sentiamo l’esigenza.
Come presenterete dal vivo questo disco? È già successo?
Abbiamo fatto qualche data prima dell’uscita ufficiale del disco e sicuramente lo
accompagneremo con un set visual, perché altrimenti crediamo sia abbastanza difficile da
seguire se non associato con delle immagini. Quindi in questo caso Nicola che si occupa di
questo aspetto ha preparato dei video. Un set abbastanza simile a quello che è la musica:
un qualcosa di piuttosto ambientale, minimo loop continuo che faccia da contorno a quello
che suoniamo.
Vuoi lasciare i contatti per avere il disco?
Se volete scriverci anche perché noi siamo sempre disposti a qualsiasi forma di
collaborazione, la nostra mail è [email protected].
Contatti: www.myspace.com/liirbufer
Francesca Ognibene
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Marco Fabi
Cantautore alla seconda prova, in bilico tra musica d'autore e pop, il romano Marco Fabi
giunge a “Rumore amore” (Wing/Edel) a quattro anni dal premiato esordio. Lo abbiamo
intervistato.
È passato un periodo di tempo abbastanza lungo dal tuo esordio, accolto dalla critica
con un certo entusiasmo. Quattro anni di cui un dedicato alla registrazione di
“Rumore amore”. Necessitavi di prenderti del tempo per compiere un secondo passo
per definizione non facile, a maggior ragione visto l'accoglienza del tuo esordio?
L'idea che si percepisce è che volessi comunque fare tutto di testa tua, una scelta che
richiede, naturalmente, un tempo maggiore, più ponderazione.
Il primo disco era nato per necessità, desideravo da sempre farne uno. Poi iniziarono ad
arrivare i riconoscimenti e infine anche i premi! Poco dopo capii che era il caso di meditarci
un po’ su; perché se da un lato erano arrivati i premi, dall’altro era praticamente impossibile
passare in radio o televisione, essendo lo spazio preso principalmente da artisti stranieri,
grandi nomi della musica italiana, la Sugar e i talent show. Se non rientri in una di queste
categorie e non vuoi pagare tanti soldi per avere spazio i grossi media ti scansano. Diventa
così impossibile far circolare le canzoni e di conseguenza impegnarsi in nuove produzioni. I
brani erano comunque già scritti ma ho dovuto aspettare che si ripresentassero le condizioni
per registrarli professionalmente e con le persone giuste.

Il disco si intitola “Rumore amore” e gli affetti, i tuoi amori, diciamo anche
formativi, entrano in ballo pure nella scelta di certi brani: penso al brano di Fossati, al
quale dici di essere legato da lungo tempo, oppure la cover del brano interpretato da
Stratos. In quel caso la scelta del brano ha una valenza ulteriore: da un lato è un
tributo a Demetrio Stratos, dall'altra la musica del brano l'ha composta, all'epoca, tuo
padre. Come ti sei trovato a lavorare su un brano con questa duplice prospettiva?
Ciò che mi ha spinto a farlo alla fine è stata proprio questa doppia valenza, sapevo che
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prima o poi avrei voluto cantare una musica scritta da mio padre ed il fatto che quel brano
era stato interpretato da un artista del calibro di Demetrio Stratos è stato uno stimolo, un
punto di riferimento che mi obbligava a cercare di fare qualcosa di buono. Già altre volte ho
raccontato che è stato come affrontare due mostri sacri, un padre in senso biologico e la
sua musica da un lato e Stratos con la sua voce ed il suo immenso talento dall’altro.

La tua estetica si muove in bilico tra canzone d'autore e pop (un'attitudine
che esce con molta evidenza, ad esempio, in brano come “Onda”), del secondo
elemento sembra esserci traccia nell'approccio più fattuale e meno introspettivo che
sembri voler dare al disco, anche a livello di messaggi, è un invito a cambiare la
percezione delle cose per poter influire sugli eventi. Sei d'accordo?
Ho sempre concepito la musica come una ricerca introspettiva, così sono nati i brani del
primo disco ed anche quelli di “Rumore amore”. Dal punto di vista dei testi, però, ho sentito
la necessità di utilizzare diversamente quei minuti che una canzone ti concede. Ho scritto
nelle canzoni ciò che dalla vita desidero per me e per le persone a cui voglio bene, alcune
volte l’ho fatto anche a scapito del sound. Non ho pensato di fare un disco pop, indie, cool,
d’atmosfera o altro. Ho pensato alle canzoni come a dei semi che diventano alberi su cui
appendere un’altalena e fare dondolare le emozioni.
Che ci puoi dire invece degli ospiti del disco? Sergio Cammariere e Quintorigo
portano inevitabilmente con sé i loro mondi sonori, che cosa ti ha spinto a
coinvolgerli? Che cosa mancava ai brani che loro erano in grado di aggiungere?
Non so se ai brani mancasse qualcosa, tra le cose belle che ancora resistono nel mondo di
chi fa musica, a mio modo di vedere, c’è la collaborazione artistica, la condivisione e la
voglia di mischiarsi in qualcos’altro che ci emoziona. Pensavo che i Quintorigo avrebbero
apprezzato il mio “Solo le nuvole” e così è stato. Poi inciderlo con loro è stata un esperienza
bellissima. Quando un artista come Sergio Cammariere si siede sul pianoforte e mette del
suo nella tua canzone non ti chiedi se stai andando da un’altra parte, perché sai che ci stai
andando, sai che si va insieme.
Si parla di lato umanista della musica d'autore nel comunicato stampa a proposito di
questo album. Come giudichi, in quest'ottica, l'attuale scena musicale italiana? C'è
questa voglia di vedere le cose attraverso queste lenti umanistiche e magari meno
egoiste, o la strada da fare è ancora lunga?
La strada sarebbe breve ma è molto in salita praticamente perpendicolare. Sicuramente
nella scena musicale attuale trovo la riscoperta di alcuni valori e navigando in rete si
possono incontrare molti esempi...il problema però è sempre quello dei grandi mezzi di
comunicazione radio e televisione che finché non riusciremo a riconvertire ad un ruolo di
informazione e di diffusione di cultura, le nostre idee saranno come un soffio contro vento.
Anche per questo è utile la collaborazione tra chi canta alla gente ...più siamo e meglio è! e
magari un giorno si scende pure tutti in piazza con quelli del cinema a rivendicare qualche
diritto anche per noi... perché se uno Scamarcio, con tutto il rispetto, fa della cultura allora la
fa anche qualcuno di noi.
Contatti: www.marcofabi.net
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Alessandro Besselva Averame
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Rodolfo Montuoro
Rodolfo Montuoro, finalmente è “Nacht”. E quindi uscimmo a riveder le stelle. Tutti parlano di
“progetto”, al giorno d’oggi, la parola è logorata. Ma nel caso dell’ultima fatica di Montuoro, si
può dire sia il suggello di un progetto lungo e impegnativo. “Nacht” (Believe/Egea) è infatti la
terza tappa, che fa seguito a “Orfeo” e “Lola”, e rende compiuto un percorso di questi ultimi
due anni. È quanto mai stimolante una chiacchierata con Montuoro, “distillatore clandestino”
di suoni e parole, artista colto a 360 gradi, su questo suo viaggio al termine della notte.
Ci parli di questa idea insolita, di com’è nata e come si è sviluppata? Tutto in digitale,
online.
L’idea è nata spontaneamente dal pensiero di come siano di fatto cambiati i modi del fare
musica nello scenario digitale (che ormai, a tutti gli effetti, è più reale del “reale”). Se, nel
recentissimo passato, dal momento della composizione a quello in cui il disco arrivava nei
negozi trascorreva un tempo spesso assai lungo, ora invece – grazie alla diffusione della
musica on line – c’è la possibilità di dare immediatezza al lavoro del musicista e rendere
quasi contemporanee tutte le fasi della filiera del disco. Questo comporta effetti davvero
imprevedibili, riplasma molte classiche distinzioni, quelle tra chi fa la musica e chi la ascolta,
tra la composizione e la diffusione, tra il lavoro in studio e le performance live eccetera.
Inoltre sono saltate alcune funzioni che fino a poco tempo fa erano ritenute indispensabili:
saltano gli editori, ovvero le “etichette”, saltano i tradizionali canali distributivi. E le “divise”
professionali si ibridano: il musicista si fa produttore, il promoter diventa spesso anche
agente e gli stessi distributori acquisiscono gli spazi per le campagne pubblicitarie. Fare
musica in questo scenario rivoluzionato significava per me cercare percorsi che si
insinuassero nella nuova corrente. Così è nato il progetto “Nacht”.
Sei arrivato all’approdo dopo un lungo percorso. Prima di “Nacht”, due uscite con
altrettanti ep.
“Nacht” è nato con una linea tematica quasi sceneggiata come un sequel, con le track
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sfornate dallo studio e immediatamente pubblicate a puntate in due ep (“Orfeo” e “Lola”, Ndr)
su tutti i canali on line da Believe, un contatto immediato e continuo coi fan (e con i critici) e
una convergenza nel full length di tutte le variazioni e le correzioni suggerite durante il
percorso interattivo.


Il risultato assomiglia alle tue aspettative iniziali?
Il risultato supera le aspettative. È stato un progetto felice che ancora non si è spento e che
continuerà a essere riproposto su vari canali – anche quelli “tradizionali”, a ondate
successive.


Come sei riuscito a mantenere unitaria la “temperatura” in un progetto così lungo
con uscite sul mercato multiple? La coerenza della produzione, la continuità...

C'è stato un intenso lavoro preparatorio per costruire una linea “tematica” molto rigorosa:
una specie di colonna vertebrale che ha retto tutte le torsioni e le inevitabili variazioni dovute
al felice ingresso dei numerosi musicisti in momenti diversi e coi loro originalissimi
temperamenti, ai mutamenti di scenario, ai momenti di euforia, di impazienza, di depressione
o di raccoglimento. Ma anche al fatto che creare musica attorno a un’immagine tragica come
quella di Orfeo (con tutti i suoi retaggi mitologici) era ben diverso dal puntare il riflettore su
una figura futura ed enigmatica come Lola che sembra invece uscita da un interno berlinese
alla Wim Wenders. Così come diverso è stato, ad esempio, musicare un sonetto dantesco
(“Guido i' vorrei che tu e Lapo e io”, Ndr) senza cadere nel facile didascalismo e mantenendo
lo stesso tenore stilistico dell'intero album, trascinando anche il povero Dante nel
pandemonio rock di “Nacht”.

Hai avuto dei “fari” creativi, estetici, letterari nella tua avventura? Pensavi
all’esperienza di qualche predecessore?
Io sono passato dalla scrittura alla musica proprio perché sentivo la necessità di truccare la
parola, incorporare in essa quell’intensità, quella profondità e quella vertiginosa ambiguità
che la musica imprime. Non sono un cantautore, uno che mette il verso in musica. E non mi
sono mai sognato di intendere la musica come una specie di didascalia della parola. Non le
so fare queste cose, anche se so benissimo che c’è stata e che oggi resiste magnificamente
una nobilissima tradizione, quella della “canzone d’autore”. Per me, invece, è importante
creare un modo tutto mio in cui la parola stessa (con tutto il suo strascico di significati, di
pensieri, di visioni e di vita) nasce originariamente come musica. Questo processo di
“distillazione clandestina” per me è inizialmente solitario e segreto. Ed è proprio per questo
che poi sento l’urgenza di condividerlo, dapprima coi musicisti che di volta in volta mi
accompagnano e infine coi miei ascoltatori e fan che sono un po’ tutti speciali, anche loro
abbastanza riservati e fieri navigatori tra i bassifondi del rock. 


Una domanda alla quale non rispondi mai: anche se non fai parte di alcuna “scena”
in senso stretto, a quali altri musicisti/cantautori/gruppi ti sentiresti di essere
accostato?
È ovvio che, essendo un vorace ascoltatore e un lettore impenitente, ho nella mia mente e
nel mio carattere un’infinità di musicisti, di gruppi, di stili che hanno plasmato il mio gusto e
che sono responsabili di come sono fatto. Ormai è impossibile per me riconoscere gli
ingredienti di questo impasto. Ma credo che sia così per tutti quelli che sono alle prese con
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un mestiere artistico e creativo. E poi c’è un'altra cosa. Ormai è da anni che sono abituato a
vivere in una perenne colonna sonora. Grazie alla portatilità della musica, alle nostre protesi
in mp3, è come se fossimo perennemente immersi in un liquido amniotico musicale. E sta
venendo meno il concetto stesso d’Autore, finalmente. Prima o poi ci libereremo di questa
maledizione dell’identità. E allora non avrà più senso attribuire qualcosa a qualcuno perché
questo qualcosa sarà finalmente di tutti. Almeno così dovrebbe essere (oggi finalmente è
possibile), almeno per gli oggetti dell’arte e della conoscenza, visto che in tanti millenni gli
uomini non sono mai riusciti a condividere allo stesso modo gli altri beni della terra.
Ecco, vedi, non hai risposto...
Dal momento che mi dai questa libertà, ti dirò che mi piacerebbe molto fare un duetto con
Billy Idol!


Prima parlavi della necessità di “truccare la parola”. Ritieni che la “parola cantata”
sia meno usurata, meno banalizzabile di quella scritta o parlata?
L’usura, purtroppo, non risparmia niente e nessuno e tutte le arti corrono il rischio
dell’insignificanza. Non solo quelle che hanno a che fare con la scrittura ma anche le arti
visive e la musica stessa.
Il passaggio alla “parola cantata”, invece, riguarda me ed è
una mia personale impazienza, un lusso che mi voglio concedere. 
Ma, oltre a
questo, sono sempre più convinto che nel nostro tempo la parola ha più che mai bisogno
della phoné, di quel soffio dell’anima (o di un cuore pensante) che è sempre presente nella
poesia, fin dai tempi di Omero. Metterci l’anima nella parola, metterci la musica nei pensieri.
È questo battito ed è questo respiro che nelle conversazioni, più che nelle scorribande a
volte anche oziose della letteratura, danno l’umana risonanza alle nostre parole e
aggiungono bellezza alle nostre vite.

Che ti inventerai ora?

Devo portare avanti il mio progetto “Mythologies” che è cominciato qualche anno fa con
“Hannibal” e adesso invoca tutte le attenzioni. Ora che sono arrivato al termine della notte,
stropiccio gli occhi, mi do una ripulita, faccio risuolare le scarpe e precipito lungo quest’altro
sentiero...
Contatti: www.myspace.com/rodolfomontuoro
Gianluca Veltri
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4fioriperzöe
Musiche per film mai visti
Garrincha Dischi/Preludio
È tempo di riordinare i cassetti per i 4fioriperzöe. E così la formazione di Matteo Romagnoli
licenzia un terzo disco sui generis. Si tratta di una silloge di sonorizzazioni, tracce nate con
l’intento di musicare film, cortometraggi, documentari, installazioni e mostre, appartenenti
all’ultimo lustro. Eventi quasi sempre destinati a un pubblico da festival (leggi: ignorati dai
più). Assemblando unitariamente il materiale, i 4fioriperzöe assegnano nuova dignità a note
sommerse. “Musiche per film mai visti”, che richiama naturalmente l’antico precedente
illustre del Brian Eno di “Music For Films”, lascerà di certo interdetta una fascia di ascoltatori.
È una sequenza di non-canzoni, ventidue suggestivi fondali strumentali, immagini delle quali
sono rimasti solo i commenti musicali. Sperimentare la libertà di riempire i suoni con le
scene che si desidera, farne colonna sonora a proprio piacimento. Le atmosfere conducono,
lo diciamo magari con approssimazione – ma nemmeno troppa – di volta in volta a Daniel
Lanois, Ryuichi Sakamoto, Astor Piazzolla, Ennio Morricone, Michael Nyman, lo stesso Eno.
E così si susseguono gli scenari ventosi di “Arriver moins rapidement à la mort”; la spaziosa
ossessività di “L’Africa per noi è troppo grande”, sottotraccia di un percorso (per un
documentario sul continente nero) che contiene anche “Il Mali migliore” e “In Africa non sei
mai solo, mai!”; la cameristica esattezza urbana di “Utopia tagliata al realismo”. Arie
balcanizzanti, bandistiche, ironia e anche la cover folk dell’aria “Un bel dì vedremo” dalla
“Butterfly” di Puccini. Risultati interessanti, grazie anche agli ospiti. I titolari della ditta –
Matteo Romagnoli (LE-LI), Nicola Manzan (Bologna Violenta, Il Teatro degli Orrori),
Francesco Brini (Swayzak) – sono infatti affiancati da bravi e ben noti musicisti come Enrico
Gabrielli (fiati), Pasqualino Nigro (fisarmonica), Vincenzo De Franco (violoncello) e altri.
Contatti: www.myspace.com/4fioriperzoe
Gianluca Veltri
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Aedi
Aedi Met Heidi
Seahorse/Audioglobe
Quando un album funziona e un gruppo ha talento bisogna dirlo. E ci sono pure diversi punti
che dimostrano come questo “Aedi Met Heidi” sia un disco capace di risvegliare l’entusiasmo
ingrigito da troppi ascolti mediocri. 1) È ambizioso: non è facile ascoltare lavori capaci di
mischiare alle suggestioni di un’indie “canadese” (Broken Social Scene, Stars) alle astrazioni
sonore di area Kate Bush e uno sperimentalismo istituzionalizzato da Björk e risultare
credibili. 2) È suggestivo: i landscape sonori costruiti dalla band creano un universo di
riferimento multistrato e in grado di offrire notevoli hook all’ascoltatore attento. 3) Le canzoni
girano bene. Nella ricerca di una melodia insolita, gli Aedi non cadono nel grottesco
neobarocco, ma finiscono per citare quella ridda di influenze e veicolarla in canzoni che
mantengono ferma e forte la propria identità. 4) È presentabile. Se all’estero ascoltassero un
disco del genere, avrebbero lo stesso tipo di reazioni provate per gente tipo Beatrice
Antolini: si tratta di un’opera che se fosse uscita a nome – facciamo un esempio – St.
Vincent, avrebbe guadagnato una buona attenzione e visibilità. 5) È imperfetto e non si
compiace di cercare la perfezione. Questo è un merito perché se è vero che la bellezza sta
nello scarto che separa la maniacale perfezione della tecnica dal fuoco musicale che brucia
dentro, allora “Aedi Met Heidi” ne è pieno.
Contatti: www.myspace.com/aedimusic
Hamilton Santià
Pagina 27
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Numero Dicembre '10
Alcool Etilico
Alcool etilico
EnZone
Dispersi nel mare, al largo dello stretto sull'isola di Lipari, il sestetto degli Alcool Etilico
imbraccia chitarre e solitudine e si mette a strimpellare. E sarà il mare, saranno la distanza
dal continente, il mediterraneo e l'isolamento, ma il risultato è un rock melodico come un
incontro tra dei Baustelle privi di pretese intellettuali (mi rendo conto di aver appena scritto
qualcosa di ossimorico) e dei Diaframma solari ed estivi (idem come sopra). In quaranta
minuti, in dieci tracce un po' tutte uguali, il disco omonimo degli Alcool Etilico fila via leggero,
senza testi disturbanti, ma nemmeno così campati per aria, con un buon uso dell'italiano
privo di “gl” come ogni buon accento siculo che si rispetti, e con le chitarre che la fanno da
padrone tra tastiere accennate e batterie diligenti. Saltano fuori anche le influenze un po'
nefaste di Negroamaro e Vibrazioni, ma fortunatamente i sei di Lipari sono abbastanza
scaltri da evitare certe banalità compositive per mantenere tutto l'impasto sulla melodia e
sulle chitarre. “Alcool Etilico”, l'album, è tutto qui, senza canzoni imprescindibili ma anche
senza eccessive cadute di stile. Forse il punto più interessante sta in quella fisarmonica che
fa capolino in “Nala” tra una specie di tango rock di marce e arpeggi, e forse è lì che si
dovrebbe concentrare il sestetto, insieme alle hit scanzonate come “Anni '70”, perché
quando riparte il rock melodico pare che manchi qualcosa. Un tocco di sud, forse. E il mare,
la distanza dal continente, il mediterraneo e l'isolamento.
Contatti: www.myspace.com/alcooletilico
Marco Manicardi
Pagina 28
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Numero Dicembre '10
Apart
Digital Frame
KrisaliSound
Per moto ribelle o necessità il mondo sta riscoprendo il gusto per le cose fatte in casa.
Cucinare, scopare, ascoltare un disco, farne uno. Ne sa qualcosa Francis M. Gri che dopo
aver pubblicato i precedenti lavori su Final Muzik, ha deciso di fondare un’etichetta
(KrisaliSound) e dare così una maggiore omogeneità ai propri progetti, dei quali Apart spicca
per essere il più compiuto e personale. “Digital Frame”, terzo album ufficiale dopo i
precedenti “Across The Empty Night“ e il doppio “Winter Fragments”, è uno di quei dischi
che non poteva uscire in un periodo migliore di questo. I suoni circolari, le atmosfere
rarefatte e gli innesti ritmici carichi di riverberi, sono l’ideale colonna sonora per ore pensose
passate dietro un vetro, mentre fuori piove, fa freddo e tutto va a rotoli. In tal senso il
background dark (Gri è stato fondatore degli All My Faith Lost) è un’eredità che Apart non
trascura o, maliziosamente, non riesce ad evitare. I 9 brani in scaletta hanno il sapore della
malinconia, ma mai dell’autocommiserazione; anche quando sfiorano l’eccessiva dolcezza
tipica di colleghi illustri (i primi Sigur Rós), si tratta di brevi istanti, squarci sonori che
lasciano intendere nuove direzioni per il futuro piuttosto che una semplice e passeggera
affezione. “Digital Frame”, offre molto di più, dice molte più cose, pur senza tradire
l’omogeneità del lavoro. La conclusiva “Exit Dream”, con i suoi tredici e più minuti di flusso
sonoro in continuo mutamento, lo dimostra ampiamente. Da ascoltare. In casa.
Contatti: www.myspace.com/apartlyseconds
Giovanni Linke
Pagina 29
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Numero Dicembre '10
Argine
Umori d’autunno
Ark
Difficile per gli Argine confrontarsi col passato, difendere la fama di “Mundana humana
instrumentalis” e “Luctamina in rebus”, due album che hanno segnato profondamente gli
anni a cavallo tra i ’90 e il 2000. Allora il gruppo partenopeo aprì un po’ la strada a un modo
– sostanzialmente nuovo in Italia – di interpretare il suono acustico, attingendo parimenti alla
nostra musica popolare e alla new wave e ispirandosi all’orgoglio antico della tradizione. Poi
il neo-folk si è trasformato in un boom per i soliti adepti, esaurendosi rapidamente su pochi
giri di chitarra e sul prevedibile scandire di percussioni marziali.
Ma gli Argine erano già fuori delle righe nel ’96, con i loro testi colti e ricercati come poesie
di D’Annunzio, con i loro coraggiosi sperimenti strumentali, con progetti grafici sempre molto
raffinati. A sei anni di distanza dal loro ultimo CD, che aveva fatto un po’ storcere il naso agli
ammiratori della prima ora, Corrado Videtta e compagni seguono un percorso stilistico a
metà strada tra rock e canzone d’autore, affermando di nuovo il proprio elegante lirismo con
una manciata di brani piuttosto lontani dallo stile neo-folk ma parimenti intensi, orgogliosi,
malinconici.
Comunque contraddistinto dal dialogo tra chitarra acustica e violino, divenuto ormai marchio
di fabbrica della band partenopea, “Umori di autunno” propone una forma canzone ben
delineata che – sebbene nelle dinamiche meno convulsa e nei toni meno epica rispetto al
passato – s’impone per la semplicità e l’eleganza, per il fraseggio morbido di chitarra e
violino e per uno stile vocale che ben si addice alle capacità canore del Videtta.
Contatti: www.argine.net
Fabio Massimo Arati
Pagina 30
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Numero Dicembre '10
Distanti
Enciclopedia popolare della vita quotidiana
Triste
A distanza di pochi mesi dalla pubblicazione del loro omonimo ep autoprodotto – cinque
canzoni che avevano fatto ben parlare della band di Forlì -, ecco adesso arrivare l'agognato
album d'esordio per i Distanti sotto l'egida della torinese Triste Records: disponibile sia in
free download sul sito della “non etichetta” (www.robatriste.com) sia in formato vinile.
L'album suona come immaginavamo e come ci sembrava giusto che fosse - sporco, opaco,
frenetico, tormentato, urgente – coerentemente alla loro proposta musicale. Appena venti
minuti totali che scorrono veloci e sofferti su trame in bilico tra punk, hardcore e indie-rock
primi Novanta – con tutti i “pre” e i “post” e gli “emo” del caso -, senza rinunciare però a una
certa inclinazione sensibile verso la provincia italiana grazie ai testi e al cantato in lingua
madre. Proprio in quest'ultima sfumatura risiede il valore aggiunto della band, come già
emergeva nell'ep. È come se i Fugazi e tutta la Dischord flirtassero con Pier Vittorio Tondelli
con una rabbia e una disperazione giovanili inarginabili. Niente di nuovo, vero. I loro
concittadini La Quiete, i Fine Before You Came e gli Altro si muovono su questi stessi
territori musicali già da un po' di tempo e con ottimi risultati. Ma se non ci sofferma al primo
ascolto e si concede più tempo a questa “Enciclopedia popolare della vita quotidiana”,
emergerà palese la forte, originale e contagiosa personalità artistica dei Distanti. E canzoni
come l'anthemica “Limonare duro”, la sadica e acustica “Appunti per un’amica” e la
travolgente “Ingenuità dei lettori e delle lettere”, con quel suo crescendo finale da urlare a
squarciagola, lo dimostrano benissimo. Restiamo convinti però che una produzione più
attenta avrebbe sicuramente giovato a questi dieci brani donandogli una più incisiva
profondità e differenziandoli maggiormente tra loro.
Contatti: www.myspace.com/distanti
Andrea Provinciali
Pagina 31
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Numero Dicembre '10
Duemanosinistra
Intimo rock
Mexicat/Audioglobe
“Build The Modern Chansonnier”, cantavano i Baustelle al principio della loro avventura e,
anche se le direttive musicali di Duemanosinistra, ovvero il torinese Orlando Manfredi, sono
decisamente lontane da quelle del gruppo toscano, l'impressione che si ha nell'ascoltare il
suo progetto, allargato in studio e soprattutto dal vivo ad una vera e propria band, è proprio
quello di un cantautorato evoluto, “costruito” con elementi eterogenei, capace di agganciare
di volta in volta input e suggestioni molto lontane tra loro, includendo il tutto nel proprio
piccolo mondo senza per questo snaturarsi. A far da guida tra i rimandi, le suggestioni
atmosferiche più o meno tecnologiche, le strutture pop più o meno lineari di “Intimo Rock”,
prodotto da Max Viale di Gatto Ciliegia e targato Mexicat, una voce che se da un lato può
rimandare di tanto in tanto a riferimenti noti (Manuel Agnelli direbbe qualcuno, ma noi in
queste canzoni ci sentiamo di più, a livello di impostazione non lineare, Cristina Donà, quella
di “Nido” in particolare) dall'altra ha una presenza scenica abbastanza autorevole da dare il
giusto peso alle parole. L'immaginario è personale, il respiro letterario dei testi e i riferimenti
poetici classici (“Icaro”, “Narciso”) convivono pacificamente con i riferimenti al quotidiano, e
tra gli estremi che toccano un pop immediato e frizzante (“Portami per mano in guerra”) e
soluzioni più sfuggenti (l'ottima “Icaro grigio”, ospite Lalli, l'aerea e incisiva “La caduta di un
passero”) ci troviamo ad ascoltare un artigianato cantautorale di ottimo livello, estremamente
maturo trattandosi di un disco d'esordio.
Contatti: www.duemanosinistra.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 32
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Numero Dicembre '10
Elizabeth
Ruggine
Mescal/Universal
Osservando il debutto degli emiliani, ehm, Elizabeth, racchiuso in un bel digipack
minimalista, si viene subito assaliti dai dubbi: estetica mod, riferimenti alla bandiera del
Regno Unito, grafica che sembra richiamare a gran voce gli Who. Quanto c’è di
giocosamente citazionista e quanto c’è di esplicitamente revivalistico? Marco e Matteo
Montanari (rispettivamente voce più chitarra e tastiere), Michele Smiraglio (basso) e
Francesco Micalizzi (batteria) non si fanno giustamente troppi problemi nell’ammettere di
essere cresciuti ascoltando i medesimi Who, Paul Weller e Radiohead, ovvero la
quintessenza del classico sound britannico. Dalle cover ai brani autografi in italiano, il passo
è stato però necessario e naturale. La distribuzione major e il successo del singolo “Piove su
Milano”, presente come bonus track in versione inglese dopo essere stato utilizzato come
colonna sonora per alcuni, importanti spot della Edison, fanno senz’altro drizzare le antenne:
non capita di frequente che venga prestata tale attenzione alle nostre band emergenti. Bene,
le motivazioni restano misteriose perché “Ruggine”, a parte la scelta del titolo, che rimanda
in un colpo solo alla chimica, al disfacimento etico dei tempi odierni e alla strumentazione
vintage dello Studio Esagono di Rubiera, non rivela francamente molti pregi. Anzi, le canzoni
sono abbastanza banali e sul piano formale siamo vicini agli ultimi Negramaro, sia che ci si
concentri sul pop sia che si inaspriscano i toni.
Contatti: www.myspace.com/elizabethdisinfettante
Elena Raugei
Pagina 33
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Numero Dicembre '10
Ely Bruna
Papik Presents Ely Bruna – Remember The Time
Irma
Un po' come i Nouvelle Vague, ma partendo dal “basso”: Ely Bruna, già autrice di brani per
Mario Biondi, interpreta in questo album una serie di successi da classifica di anni Ottanta e
Novanta, con arrangiamenti di Papik e un'impronta soul-jazz che attraversa i brani
trasfigurandoli in modo più o meno deciso, generando alcune versioni parecchio godibili e
altre un po' più prevedibili. Alla prima categoria appartengono senz'altro di “Material Girl” di
Madonna, trasformata in un florilegio di jazz orchestrale, “Tarzan Girl” in salsa
downtempo-ska, “Take On Me” in punta di spazzole e pianoforte sinuoso che prende il posto
delle tastiere degli A-Ha, “Clouds Across The Moon” reso con l'incalzare di una limpida
bossanova. Alla seconda le pur piacevoli “Barbie Girl” e “The Final Countdown”, i cui
arrangiamenti fanno venire in mente, qua e là, quel genere di sofisticata patinatura che
troviamo su all'incirca qualunque disco solista di Sting. Carini e poco più per farla breve,
mentre lo spessore e l'inventiva di molte altre interpretazioni contenute nel disco mostrano le
vere potenzialità del sodalizio tra il produttore italiano e la cantante di origine messicana.
Lavoro più che godibile, al di là della nicchia lounge e del suo circolo di appassionati.
Contatti: www.irmagroup.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 34
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Numero Dicembre '10
Ezra
Solo
No.Mad/Audioglobe
“Solo” è il secondo album del musicista torinese Ezra dopo l’esordio del 2005 “In grembo”,
entrambi usciti per No.Mad: etichetta e studio di registrazione voluti da egli stesso. Tutto il
mondo musicale di Ezra ruota attorno allo studio che per lui vuole essere punto d’incontro:
per debutto aveva cercato i suoni giusti e li aveva messi nel suo speciale ordine per dare un
primo significato; adesso con “Solo” ha preso maggiore consapevolezza di se stesso come
musicista e compone, scrive i testi e canta. Un remixer e producer come Ezra ha maturato
una lucidità per i percorsi di altri, limandoli dal superfluo o arricchendoli di groove con il suo
estro compositivo. “Solo” ne è dimostrazione lampante. Suddividere in generi il disco
seguendo un percorso tutto dettato dal suo istinto ci porta la consapevolezza che il gioco
della musica ancora una volta non lo guidano i musicisti ma il loro cuore, la passione negli
ascolti, il sentirsi ragazzini riascoltando e cantando di continuo una stessa canzone quasi a
volerla interiorizzare, come in questo caso la cover di “Mannish Boy” di Muddy Waters. Ezra
si fa trasportare dai suoni e li fa suoi, li cerca di controllare, li ottimizza, li mischia, li rallenta.
Un pianoforte può aver dato il la alle prime versioni di queste composizione ma l’impeto
costruttivo, le cattedrali musicali risultato finale, sono venute dopo. E sono la vera bellezza
del disco: gli orli. Con Paolo Spaccamonti, Davide Compagnoni, Cecio di Mr. T-Bone, Suz,
Deian e altri come amici, ispiratori di suoni ed esecutori, anche loro sono trasportati dalla
musica senza generi e con tanti meravigliosi colori.
Contatti: www.myspace.com/ezraingrembo
Francesca Ognibene
Pagina 35
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Numero Dicembre '10
Fabrizio Zanotti
Pensieri corti
Storie di Note/Egea
Avevamo lasciato Fabrizio Zanotti, già metà dei Foce Carmosina insieme a Lino Ricco,
all’indomani del valido debutto solista “Il ragno nella stanza”. Ritroviamo il quarantenne
cantautore piemontese tre anni dopo. Encomiabile la ricerca di una cifra più personale, verso
un affrancamento da modelli troppo connotanti (De André, Guccini, Lolli). Anche se verso
fine-scaletta Zanotti infila una rilettura di “Ho visto Nina volare”... “Chini Marco” è l’alter-ego
scelto per la traccia iniziale: un cognome ch’è un programma, per un lavoratore di call center
che diventa l’epitome sconsolante del furto di futuro. La nuova schiavitù, la restrizione della
mente, la svalutazione della persona. La mancanza di futuro è anche nelle promesse alle
quali non riusciamo ad aderire, come quelle raccontate in ritmiche afrocubane con “Barack
Obama”. Zanotti ricorre allo swing, al country, al folk. Il brano che dà il titolo all’album si situa
più dalle parti di un songwriting lo-fi, volutamente sporco e sgangherato, sottolineato da
chitarrine vibrate e un kazoo sfottente. È un episodio molto positivo, ma non fotografa
utilmente Zanotti, che è invece un cantautore dalla faccia pulita. “Musicalenta”, a metà disco,
ne rappresenta forse l’acuto: un brano che pare già un classico, sicuro e sommesso. “La
storia continua” è invece una filastrocca iterativa in stile CSI.
La strada non è tutta in linea retta, la giusta tensione non è continua per tutto l’album. La
ricerca di un tono proprio non si esaurisce certo in un baleno, ma “Pensieri corti” è un
tassello confortante nella parabola di una voce d’autore degna d’attenzione.
Contatti: www.storiedinote.com
Gianluca Veltri
Pagina 36
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Numero Dicembre '10
Jules Not Jude
All Apples Are Red, Except For Those Which Are Not Red
Produzioni Dada
Chissà se quel Jules della ragione sociale si riferisce davvero al primo figlio di John Lennon
Julian a cui Paul McCartney dedicò appunto la celeberrima “Hey Jude” storpiandone
volutamente il nome e chissà se la mela che campeggia in copertina vuole rimandare alla
Apple casa discografica del quartetto di Liverpool. Certo è che il pop morbido e rotondo che
si ascolta in questo esordio dei Jules Not Jude ha più di un punto di contatto con i Fab Four
e indirettamente con tutta quella filiera brit di figli e nipotini che porta fino ai Belle And
Sebastian. 
L'esordio sulla lunga distanza di Simone Ferrari, Mirza Shaman, Mauro
Parolini e Marzia Savoldi è l'ennesimo esperimento partorito da quella fucina di nostalgici
elettro-acustici Sixties che è la Brescia dei Le Man Avec Les Lunettes – presenti anche loro
tra i crediti di “All Apples Are Red, Except For Those Wich Are Not Red” – e degli Annie Hall,
con gli ...A Toys Orchestra di Enzo Moretto (“Chance”) a fare capolino in qualche passaggio.
Il che significa piglio da navigati artigiani del suono, passioni analogiche su chitarre
elettriche, batteria, basso, synth, percussioni, qualche concessione a un'elettronica tuttalpiù
decorativa. Il risultato è un album di debutto davvero promettente, formalmente ineccepibile
e da cui non ci separa facilmente.
Contatti: www.myspace.com/julesnotjude
Fabrizio Zampighi
Pagina 37
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Numero Dicembre '10
Lloyd Turner
Hints
Face Like A Frog/Goodfellas
Difficile – e forse neppure necessario, in fin dei conti – dare una definizione bella tonda e
ragionevole di ciò che fanno i Lloyd Turner, ovvero Paolo Tornitore e Donato Loia
(quest'ultimo già nei Lento): più interessante, dal punto di vista delle coordinate stilistiche ed
espressive, il fatto che il loro primo album esca al di là dei confini italiani per la
Recommended Records, etichetta fondata da Chris Cutler ormai più di trent'anni fa e punto
di riferimento costante per le musiche eterodosse e non allineate di tutto il mondo. Il
presupposto di partenza del duo è la creazione di composizioni che si appoggiano sicure
sulle atmosfere più che sui brani, o, meglio, di partiture che concedono alla tessitura e alle
sfumature il compito di dire tanto quanto le pure e semplici note. Tutto nasce
dall'interscambio tra pianoforte e chitarre, il primo settato su un range di note basse e
solenni (ma anche ariose, in “Two” ad esempio), le seconde impegnate anch'esse a
monitorare fondali dell'anima con un approccio densamente emotivo e rarefatto al tempo
stesso. Vengono in mente Rachel's, This Mortal Coil e Popol Vuh, se proprio ci si deve
agganciare a riferimenti passati, ma ascoltando la conclusiva “Unveiled”, con quella scala
discendente di note che disegna un mondo tutto suo, possiamo dire senza temere smentita
che i Lloyd Turner sono una realtà originale e piuttosto solida.
Contatti: www.facelikeafrogrecords.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Numero Dicembre '10
Marcello Capra
Preludio ad una nuova alba
Electromantic Music/Ma.Ra.Cash
Una chitarra acustica come un pennello, agile e talentuoso, a dipingere lontani angoli di
mondo, profumi di culture diverse, in un vivace gioco di danze e colori. È quella di Marcello
Capra, storico musicista torinese (un passato prog Seventies con i Procession e altri sette
dischi solisti alle spalle), soprattutto il suo brillante e versatile stile flatpicking sul confine tra il
bluegrass americano, frontiere new age e tanto Mediterraneo, ma poi aperto e curioso nello
sconfinare ovunque ci sia da soffermarsi a raccogliere immagini ed ispirazione. Un’Ovation
Legend come fedele compagna di viaggio, e via in un tumulto di sapienti note cristalline che
si rincorrono a perdifiato, tra danze “verdi”, “turchesi”, “russe”. Talvolta si acquietano, in un
susseguirsi di suggestioni e scenari fascinosi , tra “Corsari” immaginari e orizzonti di mare
(“Bassa marea”, “Canto di mare”). Quando ci si cimenta in un disco con quindici brani di sola
chitarra c’è sempre il rischio di finire imbrigliati fra le corde di Narciso, prigionieri della
lusinga del virtuosismo, ma Marcello Capra ha troppo estro, cuore e fantasia, coniugati ad
esperienza ed equilibrio compositivo, per lasciarsi sopraffare dall’autocompiacimento. Gli
umori folk, il calore e la poesia prevalgono ovunque nel “Preludio ad una nuova alba”, anche
quando l’autore imbraccia una Gibson Les Paul Deluxe (“Tracce Mediterranee”, “Aura”): le
dita scorrono veloci e sicure, mai invano, accompagnate infine dalla brezza di un canto,
sempre in simbiosi emozionale ed immaginifica.
Contatti: www.marcellocapra.com
Loris Furlan
Pagina 39
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Numero Dicembre '10
Matteo Toni
Qualcosa nel mio piccolo
autoprodotto/Still Fizzy
L’ep d’esordio di Matteo Toni rischia di essere chiacchierato soprattutto per la sua
produzione, co-firmata da Moltheni - presente persino in tre brani, alle chitarre, ai cimbali o ai
cori, nonché autore della conclusiva “Tutti i miei limiti” - e Gilberto Caleffi. Sarebbe
abbastanza ingiusto, dacché il songwriter e chitarrista modenese si è fatto le ossa in varie
band nel corso dell’ultimo decennio, dai Sungria ai Man On Mars. Registrato alle Officine
Meccaniche da Antonio Cupertino, “Qualcosa nel mio piccolo” segna così una nuova
partenza in proprio, sebbene la formazione a tre comprenda Giulio Martinelli alla batteria e
Enrico Stalio al basso. Le cinque canzoni in scaletta, per circa venti minuti di durata, mettono
in luce un’indiscussa padronanza esecutiva, al servizio di un folk-rock lodevolmente cantato
in italiano e debitore, così si legge nelle note riservate alla stampa, a Ben Harper, Bob
Marley, Nick Drake e Xavier Rudd. In realtà, rimanendo all’interno dei nostri confini, si pensa
anche allo stesso Moltheni o a Roberto Angelini, ma l’intreccio delle trame sonore,
prettamente acustiche, risulta alla fine personale a sufficienza, coadiuvato dal dispiegarsi di
una voce che sa farsi calda, delicata e avvolgente, prossima in certi casi al blues. Le
melodie di “Capitano”, i toni maggiormente accesi di “Fluir”, l’intimismo in punta di dita di
“Neve al sole” e i cambi stilistici di “Senza fede” fanno ben sperare nell’ottica di un
auspicabile album sulla lunga distanza. Staremo a sentire.
Contatti: www.matteotoni.com
Elena Raugei
Pagina 40
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Numero Dicembre '10
Nino Bruno e le 8 tracce
Cane telepate
La Canzonetta/Goodfellas
Nino Bruno ha alle spalle una lunga carriera alla guida di varie formazioni underground,
nella Napoli a cavallo tra anni Ottanta e primi Novanta, e da qualche tempo è tornato a dare
notizie di sé con un progetto talmente rétro e devoto al suono analogico da sembrare, se
non proprio attuale, quantomeno freschissimo, Nino Bruno e le 8 tracce. “Cane telepate” è il
seguito di un EP pubblicato nel 2006 dalla Toast e si ispira ai dettami di un “Dogma 8” che
prevede l'utilizzo di apparecchiature vintage dal momento della ripresa a quello del
missaggio, facendo venire in mente già dalla prima nota i tempi pionieristici de Le Stelle di
Mario Schifano o de Le Orme agli esordi. Questo album, prodotto e mixato da un Marco
Messina al di fuori dei consueti panni di alchimista elettronico ma perfettamente sintonizzato
sullo spirito del progetto, è un piccolo gioiello di psichedelia stralunata, che ricorre all'apporto
di amici (Francesco Di Bella dei 24 Grana alla voce in “Tipo da evitare tipo da incontrare”,
Daniele Sepe ai flauti nel quasi-strumentale “Venite, venite ragazzi”) ma trae la propria forza
da una visione personale, all'incrocio tra l'inevitabile Syd Barrett, l'età leggendaria dei grandi
festival italiani dei primi Settanta, i Dungen e il primissimo Alan Sorrenti. Sulla carta poteva
essere la versione stinta e seppiata di additivi psichici ormai in disuso, ciò che ne viene fuori
è in realtà un piccolo gioiello di pop eccentrico e felicemente lontano dai giochi.
Contatti: www.myspace.com/ninobruno8
Alessandro Besselva Averame
Pagina 41
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Numero Dicembre '10
Paolo Toso
Poche parole di conforto
autoprodotto
Scaricabile gratis oppure a offerta libera per un tempo limitato, nonché acquistabile in
formato cd sul sito ufficiale dell’artista e tramite iTunes, “Poche parole di conforto” è l’esordio
sulla lunga distanza del piemontese Paolo Toso, a seguire il singolo “Il principe dei matti”,
qua riproposto, e l’ep “L’uomo a una dimensione”, ambedue risalenti al 2009. Prima di
divenire cantautore, l’esperienza nel campo delle sette note - avviata al passaggio fra gli
anni 80 e 90, marchiati a fuoco dalla new wave - è stata accumulata con vari progetti: su
tutti, i Neogrigio, duo in combutta con Matteo Ricci e influenzato da antesignani come
Diaframma e CCCP. La crescita si rispecchia in un netto cambio stilistico, rivolto a un
songwriting classicheggiante, essenziale e prevalentemente acustico, dove la voce e le
chitarre sono in assoluto, nitido primo piano. Prodotto da Gabriele Lunati, il disco si avvale
comunque dell’apporto di Paul Stephen Borile (basso), Massimiliano de Lorenzi (piano e
tastiere) e Alessandro Morbelli (percussioni): la materia prima, un folk-rock che rispetta le
radici senza dimenticare la contemporaneità, guadagna così in funzionali variazioni
strumentali (si senta, per esempio, la più stratificata “L’equivoco”). Pur con gli inevitabili
margini di miglioramento, l’ascolto rivela dunque spunti di interesse, anche perché i testi
girano alla larga dalla banalità. Quindici tracce in scaletta potrebbero sembrare troppe, ma il
fatto che scorrano in scioltezza dovrebbe essere un segnale indicativo.
Contatti: www.paolotoso.com
Elena Raugei
Pagina 42
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Numero Dicembre '10
Petralana
Oggi cadono le foglie
Suburban Sky/Audioglobe
Ciò che colpisce immediatamente dei Petralana è la cura artigianale prestata a ogni
dettaglio, sia che riguardi la musica e i testi sia la grafica del bel packaging. Nati come duo
omaggiante Fabrizio De André e poi stabilizzatisi in quartetto, il songwriter Tommaso
Massimo (voce, chitarra acustica e Fender Rhodes), Marco Gallenga (violino), Piero Spitilli
(contrabbasso e basso elettrico) e Richard Cocciarelli (batteria) esordiscono con l’atipico,
immaginifico “Oggi cadono le foglie”. Atipico perché ispirato da un’ambientazione tutt’altro
che urbana, cioè un casolare circondato dai boschi, e soprattutto perché interamente
dedicato alla rilettura de “Il barone rampante” di Italo Calvino. Non è da tutti, insomma,
presentarsi sulle scene con un concept album volutamente fuori dal tempo e dallo spazio,
arricchito dalla partecipazione di Marco Superti, a dare una mano con gli arrangiamenti e
alle prese con chitarre acustiche ed elettriche, e ben condotto in porto da Guido Melis dei
concittadini Underfloor, al mixer e ad affiancarsi alla band in fase di produzione. Gli intenti,
che potrebbero sembrare pretenziosi o pedanti, si concretizzano in nove canzoni di buon
livello, che guadagnano in preziose sfumature grazie all’apporto strumentale di vari ospiti (il
piano di Simone Graziano, la fisarmonica di Mirko Guerrini, la viola di Giulia Nuti...). Uno
storytelling al contempo aggraziato e vivace, che non porta autentiche novità ma trova la
propria ragione d’essere in un progetto complessivamente ben architettato.
Contatti: www.myspace.com/petralana
Elena Raugei
Pagina 43
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Numero Dicembre '10
Piccola Banda Brigante
Certi ricordi
Loser's Company
Prima della seconda metà del secolo scorso l'Italia non aveva un genere folk vero e proprio,
com'è comprensibile per un paese che fino a poco tempo prima non era altro che un collage
di contee, stati e piccole nazioni regionali. Poi è arrivata l'unificazione, ma a poco è servita. Il
folk italiano è nato successivamente con la radio e con la televisione. C'è una linea più o
meno retta che va da Modugno a Capossela, con il baricentro preciso fissato su Fabrizio De
André. Questa linea più o meno retta può, da un certo punto di vista, rappresentare la nostra
tradizione contemporanea, il nostro folk. Antonio Brigante l'ha capito bene, e nella sua
Romagna, con la sua Piccola banda, cerca di condensare quella linea nei quaranta minuti di
“Certi ricordi”: chitarre, bassi e contrabbassi, batterie, percussioni, armoniche, kazoo,
mandolini, scacciapensieri e una voce caldissima, impostata e precisa; ci sono le storie, le
allegorie, l'attualità, la politica e la poesia in nove testi pensati con cura; c'è la voglia di
cercare le radici della musica italiana tradizionale, senza scadere nel regionalismo e senza
pretese intellettuali. Questo sembra essere l'intento della Piccola banda brigante, questo,
ancora embrionale seppur suonato con tutta l'accortezza del caso, è il germoglio di quella
che potrebbe rappresentare la sintesi o la presa di coscienza del punto d'arrivo del folk
italiano. Un punto d'arrivo che diventa un inizio, perché qualcuno, quella linea, dovrà pur
continuare a tracciarla.
Contatti: www.myspace.com/antoniobrigante
Marco Manicardi
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Numero Dicembre '10
Rein
È finita
OTR
Ogni band ha il suo centro, ogni lavoro il suo focus. Il focus dell’ultimo lavoro dei romani
Rein – il terzo – è la generosità, sia nelle tematiche che nelle soluzioni più strettamente
musicali. Le parole chiave del disco sono “consumo”, “anti-militarismo”, “sostenibilità”,
“resistenza”, “marginalità”. La traccia finale “L’erba ai lati della strada” – una delle migliori –
che avanza come una marcia in levare stracciona e sgangherata, recita: “Preferisco gli
zingari/ e i loro furti reali o inventati dai giornali/ per questo preferisco le strade di periferia”.
L’idea è che il consumismo sia giunto al capolinea, e ci si possa finalmente spogliare del
superfluo (sarà vero mai?). In “Sul tetto”, Gianluca Bernardo canta: “E scoperchiando i
palazzi/ la gente uscirà fuori da ogni nicchia di cemento/ volando su, sui tetti/ senza i pesi
morti dei bisogni indotti”. Una specie di realismo magico metropolitano, in mezzo alle
antenne paraboliche, simbolo della modernità spersonalizzante.
La band di Bernardo, voce e autore dell’intera scaletta (tranne che due pezzi in solido con
Matteo Gabbianelli e uno con Adriano Boni), ha all’attivo una buona attività live, nella quale
sa mettere a frutto la passionalità, il suono pieno e folkeggiante. Le maglie entro cui si
muove la patchanka dei Rein sono tutte entro una banda stilistica ben codificata: si va
dall’etno-combat un po’ risaputo della title track (che apre l’album) al cantautorato di marca
deandreiana di “Megalopolis”, dal folk-rock di “La notte e la benzina” (tra Dylan e De Gregori,
che poi è lo stesso) che poi vira verso atmosfere vagamente mariachi in “L’era dei pesci” e il
western in “Hiroshima Take Away”. Certo parole non nuove; non linguaggi innovativi né
assemblaggi inattesi. Un album di artigianato idealista, onesto anche se privo di unghiate
decisive.
Contatti: www.rein99.it
Gianluca Veltri
Pagina 45
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Numero Dicembre '10
Sparkle In Grey & Tex La Homa
Whale Heart, Whale Heart
Black Fading/Grey Sparkle/MCL
Nel 2008 avevamo lasciato gli Sparkle In Grey in "un posto tranquillo" dicendone ogni bene,
sapendoli in viaggio verso il “México”, nuovo album che auguriamo veda presto la luce. Nel
frattempo il quartetto fondato da Matteo Uggeri sfida le convenzioni e il quotidiano vivere,
regalando ai propri fan (si usa ancora la parola fan?) nuove tracce per far battere forte il
cuore. Un cuore grosso, un cuore di balena. “Whale Heart, Whale Heart”, split album in vinile
(si usa ancora il giradischi?) porta la loro firma e quella dell’inglese Tex La Homa (al secolo
Matthew Shaw, che qui in Italia gode di una certa fama per l’album “Little Flashes Of
Sunlight On A Cold Dark Sea” uscito su Acuarela nel 2008). Un lato ciascuno, un comune
sentire, risultati diversi e allo stesso tempo, entrambi eccezionali. Di Tex La Homa diremo
che la sua idea di canzone, che semplifichiamo definendola ambient-folk, sarà in grado di
stupire parecchi ascoltatori (si usa ancora stupirsi per qualcosa?). Gli Sparkle In Grey, al
contrario, non vi stupiranno. Non solo, almeno. Vi faranno innamorare perdutamente. Le due
tracce che portano la loro firma (“These Nightmares Are Ending” e “L’innocence du
sommeil”) emergono dalle casse dello stereo con un crepitio quasi mistico, un rituale
collettivo dove il dialogo tra violino e chitarra rimane l’elemento catalizzante intorno al quale
ruotano glitch ed elementi di field recording. Una delizia strumentale, 20 minuti di puro
piacere sonico per i quali ringraziarli (dalle nostre parti si usa ancora ringraziare).
Contatti: www.greysparkle.com
Giovanni Linke
Pagina 46
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Numero Dicembre '10
Svetlanas
Svetlanas
Vampata
Fa un certo effetto nostalgico poter utilizzare la dicitura “punk filosovietico” a un gruppo che
incide e opera nel 2010. Ma a parte lo sfizio della dicitura non ci troviamo al cospetto di
emuli, o peggio cloni, di Ferretti e soci fuori tempo massimo, gli Svetlanas che esordiscono
sulla lunga distanza con un album omonimo sono “solo” un bel gruppo di punk’n'roll. La
formazione non è composta da esordienti: troviamo infatti Andrea Diste Di Stefano – già
Sottopressione e La Crisi – alla batteria, Alessio Riccardi degli Impossibili al basso, Michele
Mick Vaselli (fu Gambe di Burro) alla chitarra e alla voce Olga Svetlanas, al secolo Angela
Buccella, giornalista e scrittrice (Rolling Stone, GQ, Radio2) col pallino dell’amplificatore al
massimo. Dopo l’EP d’esordio i nostri si sono imbarcati in un tour negli States e, tra un
concerto e l’altro, han trovato anche il produttore e lo studio di registrazione, ovvero Mass
Giorgini e il suo Sonic Iguana studio. Inutile dire che troviamo anche un bel po’ di amici del
gruppo tra le tracce dell’album, da Phil Hill dei Teen Idols a Dan Lumley (ex Squirtgun), ma
quello che più conta aldilà dei nomi è che questo album è divertente e senza inventar nulla
di nuovo si fa ascoltare con piacere dall’inizio alla fine, e per questo dobbiamo anche
ringraziare le trovate verbali di Olga/Angela che mette in mostra il suo talento narrativo
intessendo bizzarre storie di spie oltrecortina. Insomma, non cambieranno il mondo ma in
attesa della prossima rivoluzione musicale con gli Svetlanas andiamo sul sicuro.
Contatti: www.myspace.com/svetlanas77
Giorgio Sala
Pagina 47
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Numero Dicembre '10
Jackie-O's Farm
Sandland
Forears
Secondo album per i Jackie-O's Farm dopo il debutto “Hard Times For Blonde Surfers”
risalente a poco più di un anno fa, “Sandland” è un disco che rispecchia con una certa
fedeltà la definizione che lo stesso gruppo dà di sé, indie pop: melodie limpide, a tratti pigre
e indolenti, chitarre moderatamente sporcate di distorsione, qualche aroma brit pop
recuperato dallo scorso decennio e un organo hammond che riporta viceversa su lidi
americani, verso un rock d'autore classico e quasi dylaniano. “Coffee And Cover” è
un'ipotesi di power pop solida e immediata, puntellata da efficace chitarre e attraversata da
un ritmo vivace, e la mano felice del gruppo non si smentisce nella restante parte della
scaletta, toccando di tanto in tanto momenti più sostenuti (“Killer In Love”, ballata mid-tempo
zuccherosa ma non troppo e appiccicosa quanto basta, un po' come se gli Yuppie Flu
avessero preso una lieve sbandata per John Mellencamp), producendo memorabili intrecci
di chitarra al servizio di una melodia ariosa (“Wide Awake”), spingendosi pure (con meno
successo, almeno per chi scrive) in territori funk-rock con “Wake Up”. Ne esce un disco
caratterizzato da una buona dose di mestiere, qualche buona idea e un impianto
complessivamente più che convincente.
Contatti: www.myspace.com/thejackieosfarm
Alessandro Besselva Averame
Pagina 48
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Numero Dicembre '10
The Ministro
Tempi moderni
EnZone
Dev'essere il mese delle band siciliane. Dalla EnZone, etichetta dell'isola, inseme agli Alcool
Etilico arrivano anche The Ministro, un gruppo di musicisti impeccabili che con “Tempi
moderni” imbastisce un teatrino satirico di rock, folk, blues, country e ska. È una specie di
concept, “Tempi moderni”, con tanto di pseudo comizio elettorale come “Intro” e una
votazione scalcagnata al Senato a far da “Outro”. C'è di tutto, nel disco, dall'ironia spicciola à
la Elio e le storie tese (“Tutti al ministero”) alle incursioni politiche di Stefano Rosso e
Celentano (con un medley tra “Una storia disonesta” e “Azzurro”) al traditional siciliano in
dialetto e in chiave jazz e reggae (“Si maritau Rosa”) fino a un blues elettrico e canonico
(“Da domani smetto”), e tutto in poco più di mezzora suonata come si deve, ora in levare,
ora arpeggiando, ora blueseggiando con stile. Il problema di “Tempi moderni”,
probabilmente, è la quasi impossibilità di andare oltre il primo ascolto, nel quale si sorride e
forse si muovono anche le natiche a tempo, sì, ma non è che venga poi tutta questa voglia di
ripartire daccapo. E come per gli Alcool Etilico, anche per The Ministro l'unica boccata d'aria
sembra essere il pezzo che più si avvicina al folk tradizionale siciliano, quello di “Si maritau
Rosa”. In fondo “Tempi moderni”, nella sua spiccata e maliziosa ironia legata
irrimediabilmente alla strettissima attualità italiana, è comunque un disco leggero, anche se
suonato con tutta la bravura del mondo.
Contatti: www.myspace.com/theministroband
Marco Manicardi
Pagina 49
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Numero Dicembre '10
The Unsense
Il pifferaio di Pandora
autoprodotto/Priames
Se le band mettessero nelle loro canzoni lo stesso impegno e la stessa fantasia che usano
per scrivere le cartelle stampa probabilmente avremmo la miglior scena alternativa
dell’universo conosciuto. “Il pifferaio di Pandora”, album degli Unsense, viene descritto come
“un abbraccio all'universo attraverso l’unione degli opposti: segue la sottile ragnatela che
lega il tutto, il buio alla luce, il dolore al piacere, ogni cosa ad ogni cosa” e: “storia di un
viaggio. Il viaggio che un uomo deve percorrere per trovare sé stesso”. Righe di un certo
livello per giustificare un insieme di disordinate citazioni che attingono ad un enorme
campionario di ascolti “deboli”, che formano uno spettro sonoro massificato che nelle sue
ambizioni deve sembrare “eclettico”, ma nell’attico pratico è solo un vuoto barocchismo.
Enunciare l’ampio numero di gruppi e musiche che si avvertono nelle dodici tracce di questo
disco non aggiunge ne toglie alcunché al discorso, ovvero che si sta cercando di scrivere di
qualcosa che non ha un’idea valida, uno scarto significativo, una melodia convincente o un
apparato puramente “sonoro” accattivante al punto di farti dimenticare tutto il resto. Alla fine
si tratta di un rock un po’ dozzinale che non si nega niente. Un po’ indie, un po’ wave, un po’
blues, un po’ vintage ma un po’ contemporaneo, un po’ in italiano ma anche un po’ inglese.
“Il pifferaio di Pandora” non prende una posizione. Noi invece sì.
Contatti: www.myspace.com/theunsense
Hamilton Santià
Pagina 50
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Numero Dicembre '10
Venua
Gli abitudinari
Libellula/Audioglobe
Raccontare la spersonalizzante e metodica routine che caratterizza le nostre vite di tutti i
giorni, descrivendola ma anche in qualche modo esorcizzandola. Questo il filo conduttore de
“Gli abitudinari”, album di esordio dei bergamaschi Venua (Samuele Ghiotti, voce e chitarre;
Jodi Pedrali, tastiere; Davide Paolini, batteria), raccolta di canzoni in cui il piglio autoriale si
sposa in maniera più che soddisfacente con una concezione di pop quanto mai ampia. Al
loro interno infatti riferimenti agli anni 60 incontrano soluzioni sonore tipicamente Nineties,
rock'n'roll e un tocco di psichedelia vanno a braccetto con sottili contaminazioni sintetiche,
allo stesso modo in cui indie-rock e un gusto per le melodie tutto tricolore sono
corresponsabili della creazione di impalcature musicali e liriche di buona fattura e indubbia
solidità. Coadiuvato in fase di registrazione da Paolo Pischedda dei Marta sui Tubi e Marco
Fasolo dei Jennifer Gentle, con il secondo a occuparsi anche anche del mixaggio, il trio
mette in mostra una personalità più che discreta, che si concretizza in brani gustosi tanto nei
testi quanto negli arrangiamenti, classici ma niente affatto banali, resi ancora più vivaci dalle
calde timbriche degli strumenti. Un primo passo degno di nota, insomma, potenziale capitolo
iniziale di un cammino ricco di tappe interessanti. La sensazione, insomma, è che il già ricco
panorama del pop-rock d'autore italiano si sia arricchito di un nome nuovo da seguire.
Contatti: www.myspace.com/venuaband
Aurelio Pasini
Pagina 51
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Numero Dicembre '10
Very Short Shorts
Background Music For Bank Robberies
Bar La Muerte
Prendete i King Crimson del biennio '73-'74 e sostituite la chitarra di Fripp con un pianoforte.
Oppure: prendete una di quelle scapicollate fughe sui tetti alla Morricone, da colonna sonora
giallo-horror primi anni '70, eliminate tutto l'armamentario elettronico e vintage e sostituitelo
con piano, violino e batteria. Il gioco viene facile, e potrebbe continuare, ma il punto è un
altro: i Very Short Shorts (i francesi Stefan Manca al piano e Jeremy Thoma alla batteria, il
nostro Stefano Roveda al violino) utilizzano il loro virtuosismo e i rispettivi background per
escogitare ingegnose costruzioni strumentali che strizzano l'occhio qua e là a certo
progressive (quello più contaminato con la musica da camera, e più obliquo) e altrove alla
nobile stirpe dei nostri compositori per il cinema degli anni Settanta, ma lo fanno con una
irruenza che fa pensare a dei Calibro 35 in versione Rock in Opposition, nuda ed essenziale,
priva di qualsiasi orpello o sovraincisione, lasciata esclusivamente alle dinamiche tra gli
strumenti. Si apre con “Suck It”, che parte ossessiva e in minore e subito si fa invadere da
un jazz angolare ed elegante, “Briganti” fa propria una certa vena mitteleuropea, “Fists And
Revange” media romanticismo pianistico e violenza centellinata, “Horny Rabbits” è
poliziottesca con tutti i crismi del genere (e del resto il titolo dell'album non mente), ma più in
generale è l'intero album a disegnare traiettorie complesse e non immediatamente afferrabili.
Un esordio memorabile, ricco di riferimenti ma ancor più di soluzioni inventive
Contatti: www.myspace.com/veryshortshorts
Alessandro Besselva Averame
Pagina 52
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