Numero Settembre `05

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Numero Settembre '05
EDITORIALE
Questo quarto “numero” del nostro Fuori dal Mucchio On Line coincide con l’inizio di
una nuova annata discografica: com’è ben noto, infatti, il notevole rallentamento
delle uscite che si verifica ogni agosto segna la chiusura di un ciclo, così come - di
conseguenza - settembre sancisce la normale ripresa delle normali attività. Alla fine
di novembre, poi, il consueto appuntamento del Meeting delle Etichette Indipendenti
e delle Autoproduzioni di Faenza catalizzerà l’attenzione dell’intero ambiente,
fungendo nello stesso tempo da riassunto per quanto avvenuto nei mesi precedenti
e da piattaforma di lancio per quel che accadrà nel prossimo futuro. Doveroso esser
presenti, perché l’ormai classica “due giorni” in terra di Romagna - per quest’anno
sabato 26 e domenica 27 novembre, con anteprima la sera del 25 - non delude mai
le attese. Informazioni assai dettagliate sulla storia e sul programma della
manifestazione presso il sito http://www.meiweb.it/.
Null’altro da dire, a questo punto, se non ricordarvi che a ottobre saranno rese note
le “nomination” per il Premio Fuori dal Mucchio (riservato al miglior album d’esordio
dell’ultima stagione discografica). Augurandovi buona lettura, vi lasciamo quindi alle
nostre pagine, che oltre a quattro interviste e ben ventotto recensioni di cd
accolgono anche la prima di una serie speriamo lunga di report di eventi live, nella
tradizione della rubrica “Sul palco” che appariva nell’inserto allegato al Mucchio.
Federico Guglielmi
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Settembre '05
TBH
L’indescrivibile alle parole
Jestrai/Venus
È una strada abbastanza rischiosa quella che hanno deciso di percorrere i TBH:
coniugare un approccio tipicamente indie con velleità da classifica o, per lo meno,
da passaggi radiofonici nei network commerciali. Impresa non facile, perché il
rischio è quello di scontentare entrambe le tipologie di pubblico, finendo per non
essere né carne né pesce. Difetti che, in un certo senso, si potevano trovare anche
nel debutto del quintetto monzese, “Tutti contro Bob” (2003), che pure poteva
vantare al suo interno un singolo di grande efficacia come “Pac Man”.
Rispetto ad allora, “L’indescrivibile alle parole” non segna particolari cambi di
direzione ma si dimostra maggiormente compatto ed efficace, tanto nelle melodie e
nel cantato di Tatiana Fumagalli quanto nell’intreccio tra sonorità tipicamente rock e
istanze sintetiche, grazie all’interazione della chitarra di Andrea Vittori con le tastiere
di Andrea Ronchi. Una crescita di cui sono una riuscita testimonianza brani
dall’ottimo tiro pop quali “Come” e, ancora di più, “L’importanza di ricordare”, ma
anche una ballata suggestiva come “Fiori”, che non a caso è stata scelta per aprire il
cd. D’accordo, non tutto funziona ancora alla perfezione, e qualche passaggio
pecca un po’ di scarsa incisività (“Aspetterò”, la pure orecchiabile “If You Come To
Me”), ma nel complesso il lavoro risulta gradevole, oltre che assai curato. Non sarà
niente di davvero memorabile, e probabilmente non ha alcuna velleità di esserlo, ma
nell’immediato diverte, il che è comunque un pregio (www.tbh.it).
Aurelio Pasini
Bron Y Aur
Vol. 4
Wallace/Audioglobe
È quasi un ritorno alle origini quello del quartetto milanese, all’interno di quell’alveo
rock (seppure fortemente dopato da ingredienti psichedelici e hard) da cui si era
allontanato sempre più nei due lavori precedenti. Lo denuncia innanzitutto una
copertina che fa il verso al quarto album dei Black Sabbath, e poi, come se non
bastasse, il fatto che l’ultimo brano in scaletta sia una cover, seppur trasfigurata, di
Sam Cooke, “Bring It On Home To Me”. Una canzone vera e propria quindi. Più che
di ritorno alla forma canzone, però, forse è meglio parlare di una vena appena meno
destrutturata, più legata ai riff e a strutture regolari. Non si tratta comunque di un
passo indietro: semmai del tentativo, a nostro parere riuscito, di far quadrare il
cerchio tra la ricerca di nuove strade e il legame con la tradizione. Il gusto per la
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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decostruzione non si perde del tutto nella iniziale e felicemente intitolata
“Superkraut”, mentre l’andatura stop‘n’go di “M2424”, poi stemperata in soluzioni
dilatate e affidate a dissonanze e glockenspiel, si rapprende nei riff finali, e la tribale
e acida “Amanita’s Mood” si autoalimenta attraverso chitarre circolari e ipnotiche.
Sempre in movimento i Bron Y Aur, da buoni militanti di un’avanguardia che vuole
essere presa sul serio (www.wallacerecords.com).
Alessandro Besselva Averame
Ataraxia
Arcana eco
Ark/Masterpiece
La piccola Ark Records - emanazione discografica dei partenopei Argine - ha
recentemente inaugurato la collana Obscura, ambizioso progetto editoriale che
accoppia saggi e documenti sonori monografici. Titolari della prima uscita sono gli
Ataraxia, che certo meritano di essere annovertati tra i gruppi più longevi e
apprezzati (anche all’estero) della nostra scena neo-folk.
Il libro, curato da Ferruccio Filippi con la collaborazione della cantante Francesca
Nicoli e del fotografo Livio Bedeschi, consta di ben 164 pagine (in formato A5) ed è
ricchissimo di immagini a colori, che rendono perfettamente il preponderante
messaggio estetico del gruppo emiliano. Oltre ad una lunga intervista al quartetto e
ai commenti - forse un po’ troppo didascalici - sulle varie produzioni discografiche, il
volume raccoglie anche numerosi versi inediti della Nicoli, rivelando un
sorprendente talento poetico sospeso tra elegante formalismo linguistico e incisiva
profondità di contenuti. Il cd che completa l’opera propone sette composizioni quattro completamente inedite e tre già note in differenti versioni - assai
rappresentative delle svariete influenze musicali dell’ensemble; tra queste spicca la
dolcissima “Astimelusa” (già apparsa nel superbo “La malediction d’Ondine”), per
l’occasione arricchita di un nuovo, prezioso arrangiamento acustico (
www.arkrecords.net).
Fabio Massimo Arati
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Numero Settembre '05
Amari
Grand Master Mogol
Riotmaker
“Bolognina Revolution” parla chiaro: la rivoluzione degli Amari si fa su di uno di quei
divani dimessi da appartamento di studente fuorisede, dentro uno dei portoni del
quartiere bolognese Bolognina, giusto dietro la stazione centrale. A cantare il
paradosso dell’inattività creativa sono tre ragazzi dai natali udinesi - Dariella, Pasta
e Cero - che per il loro terzo disco (su Riotmaker, udinese anch’essa) hanno scelto
un titolo che chiama all’appello niente meno che Mogol come musa lirica ispiratrice:
non è dunque un caso che i testi possano essere definiti a buon titolo epicentro e
autentico punto di forza dell’album. Le strutture hip-hop, i bassi tesi e/o funkeggianti
e le sonorità parzialmente sintetiche che, come del resto l’artwork, strizzano l’occhio
all’estetica retro-gaming, restano tonde e curate come già nel precedente “Gamera”
ma a fare la differenza è in certa misura il (coraggioso) cantato in italiano, unito alla
manipolazione furba, ma onesta, dei luoghi comuni più tipicamente
post-adolescenziali (basta dare un ascolto a“Tremendamente belli” e “La prima
volta” per accorgersene).
Insomma, vogliamo immaginare che un Battisti ventenne fuori dal comune e
catapultato nell’oggi si sarebbe volentieri cucito addosso una canzone come
“Campo minato”, racconto precocemente cinico ed efficace sulla stanchezza degli
stereotipi di nicchia; con buona pace del Grande Maestro, s’intende (
www.farraginoso.com).
Marina Pierri
Kash
Open
Sickroom
La sindrome da zio d’America continua. Ogni volta che un gruppo italiano riesce a
conquistare un po’ di spazio oltre i confini della Penisola, comincia una fase che allo
stupore dell’inizio fa seguire il rammarico di vedersi scippati alcuni talenti che
avrebbero meritato maggior fortuna anche qui, nella terra dei santi, dei navigatori e
dei blogger leader d’opinione. La realtà, scavando sotto lo strato più superficiale e
miope, parla a favore delle band che sono riuscite a coniugare originalità e
sacrificio, spirito d’iniziativa e attitudine giusta. Tra queste i cuneesi Kash, combo
sperimentale- rumorista, dedito alla contaminazione fra generi e alla dilatazione
degli stimoli noise.
“Open” è caratterizzata da un marcato uso dell’ironia, a partire da copertina e
booklet, passando per passaggi sonori d’assalto e spesso - volutamente - fuori
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fuoco, che sfiorano un certo tipo di no wave e ne arricchiscono le spigolosità con
divagazioni free, con il basso che va a infrangersi molto spesso contro le note di
sax. Non mancano gli episodi più ordinari, come la deflagrante “37 Telephones On
Fire”, ipotetico hit di una college radio lunare, storta e zoppicante dichiarazione
d’intenti. Non hanno smussato gli spigoli, i quattro, anzi, hanno spesso alzato il tiro,
coadiuvati dagli ospiti Steve Sostak e Mitch Cheney, superando a sinistra il post
rock e abbandonandosi al gusto dell’improvvisazione. Piccoli miracoli di provincia,
quindi, piccoli tasselli di un puzzle - quello che rappresenta il sommerso che si
svincola dai riferimenti e alza fiero la testa - che definire emozionante non è
criminoso né fuori luogo: lo zio d’America, probabilmente, ha colpito ancora (
http://www.kash.it/).
Giuseppe Bottero
Indaco
Porte d’Oriente
Squilibri
Cosa si ottiene frullando jazz-rock, post-new-age, progressive, acide sonorità ‘70,
etno-world e folk spirituale? Facile: gli Indaco. Solo che per raccontare un loro
album tocca dissezionare quel che, da programma, fa di tutto per sfuggire alla
catalogazione. Intanto, i Nostri giungono al traguardo non trascurabile del quinto
album; non male per un ensemble nato come parallelo alle rispettive attività dei suoi
membri, anche se qualcosa di già sentito comincia a fare capolino tra le tracce.
Per Mario Pio Mancini, Rodolfo Maltese e Arnaldo Vacca - i tre Indaco istituzionali il gruppo è attività tutt’altro che residuale, e “Porte d’Oriente” è la consueta nave
carica e traboccante d’ogni lavoro degli Indaco, che accoglie a bordo mercanzie e
spezie. “Andalusiana” imbarca Antonello Ricci (stretto collaboratore di Vacca) alla
zampogna e Mauro Pagani (ospite anche in altri episodi) a violino e flauto, Enzo
Gragnaniello si produce in vocalizzi in varie tracce, Andrea Parodi canta nell’iniziale
“Salentu” e in “Soneanima”. Non finisce qui: Toni Esposito, Francesco Di Giacomo
(Banco, come Maltese) e Antonello Salis sono alcuni degli altri amici invitati. La
tromba di Lester Bowie rende “Amorgos” preziosamente inaccessibile come una
scatola nera, mentre l’arpa celtica e la voce di Fiona Davidson costruiscono una
“Father P.” eterea, facendola però assomigliare pericolosamente al sottofondo d’una
delle tante “terapie del benessere”. I brani di più ripiegata spiritualità, a firma
Mancini, “Mantra” e “Waiting For Kundalini”, descrivono arcani avvitamenti (
www.musica.ilmanifesto.it).
Gianluca Veltri
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Miami & The Groovers.
Dirty Roads
Autoprodotto
C’è tanta polvere in questo esordio dei riminesi Miami & The Groovers. Non però di
quella che si accumula nelle soffitte col passare tempo, ma frutto di un incessante
viaggiare lungo quelle “Dirty Roads” che Lorenzo Semprini e soci percorrono ormai
da un lustro. Strade che, se geograficamente sono collocabili dalle parti della riviera
romagnola, idealmente si trovano negli States. È infatti un immaginario lirico e
musicale tipicamente a stelle e strisce quello a cui si rifà la formazione, con una
particolare predilezione per Bruce Springsteen - non solo perché ne riprende una
composizione, “Further On Up The Road”, ma perché con il Boss il sestetto pare
condividere una visione artistica di cui libertà, epicità e intimismo sono le parole
chiave.
Una proposta classicissima, insomma, e quindi ben codificata, ma talmente pregna
di passione da risultare assai più convincente di tante uscite simili che provengono
da Oltreoceano. D’altra parte, le strutture dei brani appaiono ben solide, quasi
sempre sorrette dalle chitarre (elettriche e acustiche) e da una sezione ritmica
compatta - ma non è da trascurare l’apporto del pianoforte - e di volta in volta
abbellite da organo, sassofono, violino, armonica. Potenti quando serve, ma anche
avvolgenti e malinconici, Miami & The Groovers piaceranno a tutti gli appassionati di
certe sonorità senza tempo. Garantiscono per loro i fratelli Severini e Joe D’Urso,
compagni di viaggio d’eccezione sulle vie del rock’n’roll (www.miami-groovers.com).
Aurelio Pasini
Maisie
Morte a 33 giri
Snowdonia
Abbandonata l’estetica della dissonanza, pure cara all’etichetta messinese e al suo
curato roster, i creatori stessi del “mistero snowdoniano” Cinzia LaFauci/Alberto
Scotti aka Maisie si arricchiscono del contributo della voce di Carmen D’Onofrio e
del polistrumentista Paolo Messere. Il risultato è un lavoro decisamente fuori dal
comune, che testimonia palesemente dell’implosione di un cuore tutto italiano nella
cassa toracica delle influenze sperimentali straniere pilastro dei lavori precedenti: i
Matia Bazar incontrano il krautrock, Mogol azzanna alla gola Siouxsie and the
Banshees, Rettore si contorce sui rumori sintetici dei New Order. È nell’intersezione
transnazionale tra suoni e liriche che, dunque, nascono i picchi di un album
rischioso e forse per questo sorprendente, coerente come unità olistica ed efficace
negli episodi isolati come la battistiana “Inverno precoce”, “?Uma.no”, “Sottosopra”
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(cantata da Bugo) e “Maria de Filippi (una vergine tra i morti viventi)”, inno caustico
alle nefandezze dei palinsesti televisivi.
Si viaggia bene, dunque, nelle dodici tracce di “Morte a 33 giri”; si vaga, valigia alla
mano, nella tradizione d’autore di un’Italia il cui vissuto musicale accoglie, integra e
spezza il movimento “di genere” dell’album, a ritroso negli anni ottanta americani e
inglesi. In altre parole, un disco-manifesto per la Snowdonia, una sintesi delle
ambizioni che l’hanno resa un unicum nella scena indie italiana (www.snowdonia.it).
Marina Pierri
Agatha
Greetings From S.Sg
Wallace/Audioglobe
Sembra essere la forza della disperazione, l’energia che nasce dalla desolazione
delle periferie, dai casermoni abbandonati dell’hinterland postindustriale,
affascinante luogo di alienazione per chi lo racconta a uso sociologico, forse, magari
un po’ meno per chi lo vive, a fornire combustibile musicale alle Agatha, trio tutto al
femminile di area milanese che non avrebbe potuto intitolare il proprio debutto su
Wallace che “Saluti da Sesto San Giovanni”. Titolo perfetto che introduce, insieme
alla grafica “escatologica”, una certa dose di ironia, ironia trasmessa anche da titoli
come “My Teacher Plays In A Metal Band” o l’impareggiabile “Dani Was In Love
With Burzum”.
Se questa è l’attitudine, affatto seriosa, imbracciati gli strumenti le tre ragazze
pestano duro senza mezze misure, intrecciando un basso tellurico e preciso, una
batteria che fornisce salutari calci nello stomaco, chitarre che oscillano tra hardcore,
crossover (“We’re A Band Of Freaks” si merita una menzione particolare) e noise e
una voce sguaiatamente rock’n’roll, il tutto catturato su nastro dal puntuale Fabio
Magistrali, il sigillo di garanzia dell’operazione. Abbiamo trovato, fatte le debite
proporzioni e tenuto conto delle differenze, le nostre Sleater-Kinney? Le orecchie
bombardate ci fanno dire di sì ([email protected]).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Settembre '05
Mothercare
Traumaturgic
Freecom/Edel
Quando tutto e tutti definivano rumore e nulla più certe sonorità metal estreme erano i primi anni ’90 circa - toccò a John Zorn mettere ordine imbastendo una
proficua collaborazione con i Napalm Death, che di quella frangia erano
sicuramente tra i più violenti portavoce. A distanza di tre lustri il confine del genere
si è spostato sempre più oltre, valicando e sfiorando la cacofonia. In tal senso molto
hanno contribuito le nuove tecniche di registrazione, ma è innegabile che il desiderio
di furore e potenza sia una caratteristica di ogni nuova generazione dell’heavy.
La fusione tra metal e tecnologia ha generato un ibrido forse non di successo ma
seguito da una folta frangia di ascoltatori, e i Mothercare - quintetto veronese noto
anche oltre i confini nazionali - ha sfoderato per questo terzo album una
sorprendente capacità di scrittura; sebbene i riferimenti si chiamino Fear Factory,
Slipknot e Strapping Young Lad, l’album è infatti pervaso di umori creativi, con echi
dei Nine Inch Nails che martellano di tempeste industriali le canzoni. Il gruppo è
abile nel rifuggire la banalità, inserendo partiture melodiche, spunti addirittura jazz
(“Traumaturgod”) e cantati massacranti ma coinvolgenti, sorretti dai polmoni
inossidabili di Guillermo Gonzales che in “Senseseedsex” divide il proscenio con
Mieszko Talarczyk in quella che purtroppo è la sua ultima performance (visto che il
cantante dei Nasum è da poco scomparso). Competitiva la produzione del
chitarrista Mirko Nosari, che con il cantante divide l’intera scaletta dell’album, ad
eccezione di “Breed To Breath”, convincente cover dei... Napalm Death. Certo, metà
uomini e metà macchine, ma “Traumaturgic” convince appieno (www.mothercare.it).
Gianni Della Cioppa
Marco Ongaro
Achivio postumia
Rossodisera
L’eccentrico Ongaro sfida le leggi del mercato, pubblicando in un unico CD due
album risalenti al 1990 (“Archivio Postumia” propriamente detto) e al 1991
(“Eptalogia - Delle colpe e del perdono”) senza alcun ritocco rispetto agli originali ai
tempi rimasti inediti. Si tratta di un ripescaggio interessantissimo, ricco di spunti.
Scopriamo luci e ombre, nelle vecchie note riesumate d’una canzone orchestrale,
lieve e colta, da camera, francesizzata, d’impronta nettamente jazz. Con uno stacco
che s’avverte tra le prime undici tracce, quelle di “Archivio”, prodotto dallo stesso
Ongaro, e le successive sette di “Eptalogia”, affidate al maestro Cicci Santucci;
queste ultime risentono forse un po’ di più del quindicennio trascorso, ma non per
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questo risultano meno accattivanti. “Eptalogia” è una suite ciampiana concepita a
fine anni ’80, con arrangiamenti swinganti a tratti enfatici, “Archivio Postumia” è più
secco e privo di sbavature e, oltre a proporsi come progenitore postumo di molte
produzioni italiane future, non risente affatto del tempo passato.Tra le due bonus
track, una versione di “Non lacrimate le aiuole” cantata da Dodi Moscati, scomparsa
anzitempo, come del resto Renato Venturiero, produttore e sodale di Ongaro.
Nel frattempo, nei tre lustri successivi, si sono srotolati e imposti nel gusto corrente
Capossela, Avion Travel e uno stuolo di artisti che hanno seguito quelle orme.
Ongaro, che è un artista originale e provocatorio, si è preso lo sfizio di scoprire le
sue carte molto tempo dopo (www.marcongaro.com).
Gianluca Veltri
Three In One Gentleman Suite
Some New Strategies
Black Candy/Audioglobe
Esiste una zona grigia in cui le simmetrie millimetriche di scuola math rock e l’isteria
organizzata degli Shellac si incontrano con le vellutate asperità dei Karate. I
modenesi Three In One Gentleman Suite l’hanno scovata e se ne sono appropriati,
popolandola di intuizioni e canzoni. Non di sola derivazione stiamo parlando,
tuttavia, altrimenti il gioco sarebbe troppo semplice e non varrebbe la pena
discuterne in questa sede. Già titolare di un esordio su Fooltribe risalente ad un paio
di anni fa (“Battlefields In An Autumn Scenario”), il trio (Giorgio Borgatti alle chitarre,
Federico Alberghini alla batteria, Paolo Polacchini, basso e voce) debutta su Black
Candy con un disco composito e vario negli umori, dove i riferimenti citati in apertura
vengono “sporcati” dall’intervento di fiati e pianoforte, creando deviazioni non
pianificate e sterzate che inaugurano nuove traiettorie, e dove, soprattutto, i vari
ingredienti interagiscono in modo assai dinamico, senza fossilizzarsi sugli schemi
dell’abitudine. Le canzoni? Squarci intimisti tra costruzioni complesse ma mai troppo
cerebrali, che raggiungono probabilmente l’apice nella conclusiva “Delikatessen”,
dopo aver dato vita a pagine altrettanto convincenti (www.tiogs.com).
Alessandro Besselva Averame
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Mushroom’s Patience
Water
Hau Ruck/Tesco
La crescita e la maturazione conseguite dai Mushroom’s Patience negli ultimi
cinque anni vanno oltre ogni aspettativa. Il raffronto delle produzioni discografiche
parla chiaro: tre album in studio (di cui uno doppio), un live e due singoli contro un
solo lp realizzato nei precedenti tre lustri di carriera. Il merito di codesti positivi
sviluppi è senz’altro da attribuire al rafforzamento dell’asse Roma-Vienna, ossia
all’interscambio artistico tra Raffaele Cerroni - fondatore e unico leader del gruppo
capitolino - e l’imprevedibile J. Weber, già titolare del progetto Novy Svet. A questa
florida sinergia fanno poi da corollario i preziosi contributi del ben noto rumorista
Clau D.E.D.I. (Ain Soph), del trombettista post industriale Flavio Rivabella (DBPIT) e
della pittrice frl Tost, la cui ricerca iconografica è divenuta elemento di assoluto
rilievo nell’economia espressiva dell’ensemble.
Sulla scorta di queste collaborazioni oramai consolidate, “Water” risulta essere
l’opera più ispirata e compiuta che i Mushroom’s Patience potessero concepire. Le
strategie sonore non hanno certo subito sostanziali variazioni, ma oggi la perversa
fantasia psichedelica del Cerroni è più che mai elegante e austera. Senza peraltro
rinunciare alla proverbiale impenetrabilità delle sue composizioni, questi coordina
con seducente disinvoltura fraseggi acustici e deliri elettronici, rumori e voci,
melodie e dissonanze, in uno scenario sonoro a tutto tondo che fugge classificazioni
di sorta (www.hauruck.org)
Fabio Massimo Arati
Blown Paper Bags
Arm Your Cameras
Suiteside
Ai Blown Paper Bags, quintetto genovese femminile quasi per metà, non manca nè
l’(auto)ironia, né il talento: tanto vale mettere subito le cose in chiaro e dire che al
loro ep di debutto su Suitside non manca praticamente nulla; tutti gli elementi che
compongono “Arm Your Cameras” - dal packaging alla produzione e persino al sito
della band - sono come dovrebbero essere.
L’ascolto, nonostante le influenze chiaramente chiamate in causa (pensate a
LeTigre, ai Beastie Boys, a Lydia Lunch, alla no wave, al punk-funk in piccole dosi
ed immancabilmente ai Sonic Youth) non richiede orecchie particolarmente
resistenti alla dissonanza, perché le canzoni conservano una solida stuttura pop in
grado di coordinare le volute cacofonie dei synth e i profluvi di uptempo della
sezione ritmica. I titoli, paeraltro, guidano egregiamente all’ascolto di piccoli
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anthems coaotici come “Spell Athlete!”, “Panda Gang” e “Blown Manifesto”, sorretti
da un sound decisamente orientato verso il noise più melodico, mentre l’hip-hop
contaminato della sorniona “Pass My Tape (to DFA)” fa l’altro. I Blown Paper Bags
suonano come esiliati in patria, come fuorisede sonori che ammiccano alla fascia
stretta dell’indie italiano più rumoroso ed eserofilo. “Arm Your Cameras” funzionerà
bene, live, sui nostri palchi, ma funzionerebbe altrettanto bene in un fumoso club di
Brooklyn, su una pedana scalcinata, tra un’orda di ragazzini americani sudati
(blownpaperbags.arecool.net).
Marina Pierri
Arecibo
Audiosfera
i3D
Dolcezza e aggressività. Impatto e raffinatezza. Questi gli estremi entro cui si
muovono gli Arecibo, quartetto varesino guidato da Marilena Anzini (voce) e Giorgio
Andreoli (chitarra) formatosi nel 1998 ma solo ora giunto all’esordio sulla lunga
distanza, seguito di un omonimo ep autoprodotto datato 2001. Nel mezzo, tanta
esperienza dal vivo, quella che ha permesso alla formazione di crearsi una cifra
stilistica propria, dalle ascendenze a volte abbastanza chiare (Cristina Donà, per
esempio) ma non per questo priva di personalità. Tanto che la proposta del gruppo
è immediatamente riconoscibile sia che i ritmi si facciano incalzanti e le chitarre
distorte, come nel caso di “Tracce” e “Sorprendimi”, sia che invece sia la
componente acustica ad avere la meglio (l’incantevole “Goccia”). Non sorprende,
dunque, che la formazione si trovi perfettamente a proprio agio in entrambi i
contesti, riuscendo a coniugare leggerezza e spessore, e arricchendo il piatto non
solo con qualche leggera spruzzata di elettronica, ma anche con la presenza di
strumenti relativamente inconsueti per questi contesti, come il flauto scozzese, il
flicorno o il didgeridoo. Questo perché, pur rimanendo quasi sempre entro un alveo
strettamente tradizionale, non manca mai il desiderio di cercare soluzioni sempre
nuove e oblique. Non a caso, dovendo scegliere il brano migliore, la scelta cada su
quello più insolito, vale a dire l’ipnotica ed effettata “Engram”, il cui splendido video
rappresenta uno dei bonus inclusi nella traccia ROM del cd (www.arecibo.it).
Aurelio Pasini
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The Marigold
Divisional
Black Desert
Giovani, confusi, convinti e bravi. Così potremmo definire questo trio di Lanciano
che in questo suo mini-cd di esordio (trentanove minuti divisi per sei brani con il
sesto, “Divisional”, che fluttua e rinasce dopo oltre cinque minuti di spargimenti
psichedelici), dimostra che pur nella convinzione che poco si possa inventare ci
sono margini per fondere e mescolare ingredienti già noti ma apparentemente
inavvicinabili. Prendete “Coercive Mind”: come non riconoscere la spinta emotiva di
Kurt Cobain e dei Nirvana, ma anche l’intreccio post punk dei Cure del signore della
notte Robert Smith? E il riff fangoso dell’iniziale “The Bodypart” assembla Mudhoney
e Tuype O Negative come nessuno avrebbe mai immaginato. Coraggio, ma anche
incoscienza, che poi fa rima con incoerenza, la stessa che genera “Nada”,
un’armata di riff e distorsioni a un passo dal noise, con innesti di percussioni
etniche. Più canoniche invece “Melanie” e “Tried”, versioni aggiornate dello sludge
metal partorito anni fa da una costola dello stoner. Spicchi di talento che si
innalzano tra la polvere, volano e tornano polvere, con la conclusiva “Divisional”
strategico punto di (ri)partenza, verso nuovi e sconosciuti orizzonti. Davvero una
piccola ma grande rivelazione, questi The Marigold. Lasciamoli crescere e maturare
(www.themarigold.com).
Gianni Della Cioppa
Neo
La quinta essenza della mediocrità
FromScratch
Attenzione a non farsi ingannare dalla copertina, raffigurante una scatola di
cioccolatini, ché di dolce nella musica dei Neo da Terracina non c’è assolutamente
niente. Così come non vi è nulla di mediocre, a dispetto del titolo, anch’esso
fuorviante, ancorché ironico. Non solo, infatti, la musica del trio - Fabrizio
Giovampietro (basso), Manlio Maresca (chitarra, anche negli Squartet) e Antonio
Zitarelli (batteria) - non lascia spazio a compromessi, ma colpisce anche da un
punto di vista prettamente qualitativo. Tanto per stabilirne l’ambito stilistico, si può
dire che i territori battuti siano quelli del cosiddetto jazzcore: in altre parole, una
commistione iperveloce e spesso sferragliante di jazz, estetica punk, blues, funk e
avanguardia, per un risultato pieno di scarti e spigoli, nervoso quanto aspro e, nei
momenti migliori, imprevedibile.
Tutte influenze e caratteristiche che si trovano variamente miscelate ne “La quinta
essenza della mediocrità”, lavoro vitale e multiforme, che fa della destrutturazione
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controllata delle forme canoniche la sua arma vincente, senza però che l’aspetto
intellettuale prevalga mai sulla sanguigna fisicità, come ben testimoniano i ripetuti
cambi di tempo di “Sunday Morning” e “Water”, le pulsazioni industriali di “Incidenti
domestici” o la calma solo apparente di “An Unsane Blues For Unhappy Beast”. Non
lasciano un attimo di respiro, i tre, e scuotono come si deve le convenzioni di stili e
generi, grazie anche all’aiuto di amici come Luca Mai degli Zu, ospite col suo sax in
“Terrore vigile” (www.neoneo.it).
Aurelio Pasini
Paolo Di Cioccio - Giovanna Castorina
Oboe sconcerto
Domani Musica
Il dubbio è amletico: musica classica o pop? Albinoni, Bach, Fasch, Marcello,
Vivaldi: i nomi dei compositori non lascerebbero dubbi. Ma stavolta a suonare le loro
aristocratiche ed austere partiture non c’è nessuna orchestra, solo un oboe e ben
nove sintetizzatori. A prima vista la grafica del cd suggerirebbe comunque
l’archiviazione nello scaffale più alto, in mezzo a Chopin, Wagner ed Orff. Poi,
osservando meglio il ritratto del Di Cioccio, si scorgono i blue jeans sotto la giacca
del frac. Allora è forse più opportuno riporre l’album su un’altra mensola, tra i
Descendents e i Dickies.
Già nel 1968 Walter Carlos ottenne enorme successo con le sue trascrizioni per
Moog delle fughe di Bach (“Swiched-On Bach”); nessun primato di originalità,
pertanto. Ma dubito che nel registrare “Oboe Sconcerto” Paolo Di Cioccio e
Giovanna Castorina - compagni di vita, oltre che di scorribande artistiche intendessero sorprendere qualcuno o addirittura ottenere sbalorditivi riconoscimenti
commerciali. Invero il loro approccio è sostanzialmente arguto e sarcastico, in barba
a chi pretende di mantenere distinta la musica popolare da quella colta, relegando
quest’ultima sotto asettiche teche di cristallo. D’altro canto il musicista romano maestro di oboe presso il Conservatorio di Vibo Valentia nonché membro dei
Theatrum Chemicum e autore di numersi album di rock elettronico - ha sempre
manifestato la volontà di riscoprire il senso profondo della musica quale percorso ed
esperienza interiore: gioia dell’anima e piacere dell’intelletto. Obiettivo conseguito
anche qui, peraltro con sommo divertimento ([email protected]).
Fabio Massimo Arati
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Numero Settembre '05
Stop The Wheel
Morning
Madcap Collective
Sembra passato un secolo, eppure è successo solo l’altro ieri. Tutto d’un tratto, una
generazione che sembrava addormentata si risvegliò abbandonando le camerette
ma ricreandone fuori le stesse pigre caratteristiche. Era il momento in cui i primi
video dei Belle and Sebastian venivano trasmessi da Mtv, in cui la Svezia sembrava
dettare le mode senza timori, in cui addirittura la figura di Nick Drake, fino a
quell’istante culto per pochi, sembrò conoscere una diffusione quasi preoccupante
per chi lo amava da tempo. Ecco, per questo un album come “Morning”, seconda
prova sulla lunga distanza della one-man band che ruota attorno alla persona di
Francesco Caldura, può guadagnarsi senza imbarazzi l’aggettivo generazionale:
perché rappresenta le contraddizioni e le ansie di chi quel periodo l’ha vissuto da
protagonista, incappucciato in felpe troppo larghe o nascosto da sciarpe invernali
dall’aria buffa e demodè.
È una rappresentazione sfuggevole, quella di “Morning”, eppure assolutamente
coinvolgente: alle asperità intimiste di “Bastard He Was” si contrappongono i
contorni morbidi di “Emotions Are Priceless” e “Kate”. Il tutto in un continuo gioco di
citazioni che vanno da Drake ai Sodastream senza scordare i primi Turin Brakes.
Non mancano alcuni stilemi tipici del defunto Nam, evidenziati e coccolati dalla
registrazione ambientale, che non nasconde i difetti ma si mostra con sincerità ed
entusiasmo. Certo, l’appellativo generazionale è qui usato quasi provocatoriamente,
ma l’album, impreziosito da una copertina deliziosa, è fragile e affascinante,
orgogliosamente indipendente, riassunto di una scena di songwriting che in realtà
potrebbe non essere mai esistita. Ma che meriterebbe di farsi ascoltare (
http://www.maledetto.it/).
Giuseppe Bottero
Milagro Acustico
Poeti arabi di Sicilia
Cni
Ai tempi della conquista normanna, nel 1091, la Sicilia era una fiorente isola araba.
Così splendida che i Normanni e poi gli Svevi non seppero allontanarsi dal gusto
moresco, e, pur prevalendo militarmente e politicamente sugli Arabi, ne furono
soggiogati dal punto di vista culturale. Quasi tre secoli arabi avevano prodotto, a
cavallo dell’anno Mille, arte, musica, architettura, poesia. A quest’ultima espressione
- la poesia - attinge il Milagro Acustico, che riscopre il repertorio lirico arabo
siciliano, per adattarlo alla lingua di Trinacria e musicarlo con buongusto e
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Numero Settembre '05
sensibilità. Per la trasposizione il Milagro si è avvalso della collaborazione di Sharifa
Hadj Sadok e della scrittrice siciliana Daniela Gambino.
Perché riscoprire quell’incrocio virtuoso, oggi? Troppo facile la risposta, sballottati
come siamo in queste nuove orribili guerre di religione, armate con armi, persone e
parole odiose e intolleranti. Al suo quarto lavoro, il gruppo di Bob Salmieri - autore di
tutte le musiche - si affida alle malìe del ney di Turker Dinletir, che veste d’un sole
mattutino desiderato “Luci di lu iurnu”, al kaval di Volkan Gucer, che spruzza
melodie struggenti su “Stanno arrivannu”. Ben quattro poesie sono del poeta Ibn
Hamdis, vissuto nella fase finale del periodo arabo-siciliano, le cui liriche contagiano
la musica di nostalgia per l’esilio forzato e per la perdita di un paradiso pieno di luce
e grazia. Le voci femminili, i canti arabi, le percussioni registrate sul campo, gli
strumenti tradizionali del Mediterraneo, tutto fa di “Poeti arabi di Sicilia” un progetto
meritevole e serio (www.cnimusic.it).
Gianluca Veltri
The Preachers
Voodoo You Love
Teen Sound/Misty Lane
Rifacendosi ad una filosofia anni ’80 che vede come massimi esponenti i
Fuzztones, i Preachers concepiscono un disco che raccoglie gli stilemi del garage
psichedelico di quegli anni: estetica horror, pedali fuzz, santini dei Sonics nel
portafoglio, Phantom Guitars. Ma c’è molto altro nell’esordio dei piemontesi: in
queste dieci canzoni - otto autografe più due cover di Fred Neil e Burt Bacharach - i
Preachers toccano gli anni ’60 dei Doors (la conclusiva “The Preacher”), il glam dei
T-Rex di “Electric Warrior” (la trascinante “Sex Rules”) e certe atmosfere
psych-rock’n’roll alla Kula Shaker (“Kill Jims Jay”, “Try To Joke”). È però nei territori
garage fuzztonici che i Nostri sanno dare il meglio: l’iniziale “Ants Room”, con il suo
organo alla Piccoli Brividi e le sue risate sataniche, porta Bettlejuice in studio con i
Kingsmen, mentre “Shaker Your Bones”, nel suo breve assalto distorto e nel suo
invito ad unirsi alla festa, è un pezzo che ti aspetteresti di trovare tra gli scarti di
“Here Are The Sonics”.
Sono solo trentatré minuti, ma è la giusta durata per un lavoro così. Nessuna pausa,
nessun tempo morto. Un disco da toga party che fa muovere la testa a tempo e fa
passare in secondo piano la palese derivazione del sound della band. Siamo
d’accordo che non è niente di speciale, ma di questi tempi un lavoro come “Voodoo
You Love” va preso per quello che è: una dichiarazione d’intenti senza punti deboli
e, nonostante una personalità non ancora definita, trascinante. Per i cultori del
genere, una nuova scoperta da non perdere. Per gli altri, un gruppo che colpisce
esattamente dove deve colpire (www.the-preachers.net).
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Numero Settembre '05
Hamilton Santià
Zoldester
Se
Cadaveri & Papere
Come si dice, anche l’occhio vuole la sua parte. Che, siamo d’accordo, alla fine
quel che conta è la musica, ma una veste grafica di un certo livello rappresenta per
un cd un valore aggiunto di tutto rispetto. E, venendo a noi, la confezione di “Se” è
veramente, veramente bella. Opera di Francesco De Napoli, che non a caso è
accreditato come titolare del progetto Zoldester insieme a Fabrizio Panza (per
entrambi un passato nei Quarta Parete), cantante e chitarrista acustico, nonché
autore o co-autore di tutti e nove i brani qui contenuti. Che, come il loro corrispettivo
visivo, sono realizzati con una cura che non ci pare così esagerato definire artistica
e un’attenzione per i dettagli di scuola artigianale: soffici, ma anche amari e dolenti,
e forti di melodie che avvolgono e conquistano.
Lungo i ventisette minuti del dischetto, ballate pop-folk ricche di sfumature (grazie
anche alla presenza degli archi), facili da assimilare (“Dietro i se”, “Ninna nanna
della fine”) ma tutt’altro che accomodanti, si alternano a episodi più propriamente
rock, non privi di occasionali ed efficacissime dissonanze (“Attraverso”). Quel che ne
risulta è un ascolto piacevole e tutt’altro che monocorde, la cui portata emotiva è
ribadita da testi che sanno essere poetici e introspettivi senza cadere nell’ermetismo
fine a se stesso. Volendo fare un paragone si potrebbero chiamare in causa i
Valentina Dorme: non tanto nei suoni, quanto piuttosto nella capacità di parlare del
quotidiano trascendendone i confini e i limiti (www.zoldester.com).
Aurelio Pasini
Sannidei
Andare via
autoprodotto
Un album di esordio dedicato a Ivan Graziani, il successivo che omaggia Franco
Franchi e Ciccio Ingrassia e in questo terzo capitolo il rifacimento di “Ti bevo liscia”,
presa dal repertorio del primo Renato Zero. Ce già abbastanza materiale per
stimolare la curiosità ma anche per unirsi in un ideale abbraccio con questi quattro
ragazzi piemontesi che giocano con la materia basilare del rock - ovvero riff,
ritornelli ed energia - come pochi sanno fare in Italia. Solari, vivaci, sempre pieni di
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brio ed entusiasmo, capaci di trarre linfa vitale per i loro testi positivi e intrisi di vita
quotidiana anche da sconfitte in amore, le canzoni di questo “Andare via” (seguito
ideale, ma più maturo di “Dove Nasce il sole” e “Liberamente”) regalano oltre
quaranta minuti di eccitazione, condensati in nove canzoni che hanno i vertici
nell’iniziale title track dal groove funky rock, “Casa comoda” che sforna un refrain
ammaliante, l’altalena melodica di “Strade del sole” fino alla delicatezza di “Fragile”,
passeggiata di note che scopre i nervi del pop rock tricolore. Senza forzare sul
piano della tecnica strumentale, i Sannidei dimostrano di saper addomesticare il
pentagramma rock, scrivendo brani efficaci e coinvolgenti. Lascia invece interdetti
scoprire che il gruppo sia ancora costretto all’autoproduzione (www.sannidei.it).
Gianni Della Cioppa
Marcilo Agro e il Duo Maravilha
Tra l’altro
Room Service
Ci sono dischi che, nonostante piacciano da subito, presto escono dal lettore per
non farvi quasi più ritorno. Altri, invece, si rivelano compagni di viaggio fedeli e
duraturi. Per quanto ci riguarda, questo primo ep di Marcilo Agro e il Duo Maravilha
appartiene senza dubbio alla seconda categoria, visto il numero ormai elevatissimo
di volte in cui, nelle ultime settimane, abbiamo provato il desiderio di ascoltarlo, nello
stereo di casa come in macchina, in città e in vacanza. Ovunque ci trovassimo, ci ha
accompagnato e riscaldato con le sue note. Fosse uscito qualche anno fa in
Inghilterra, ora “Tra l’altro” sarebbe giustamente annoverato tra le pietre miliari del
New Acoustic Movement; trattandosi invece di un prodotto autoctono - nonostante i
nomi esotici, i suoi autori provengono da Novara - ci si deve accontentare di qualche
recensione sparsa e del passaparola degli appassionati. Questo però non toglie
nulla alla grazia e alla delicata bellezza dei cinque brani che lo compongono, piccoli
gioielli dal grande valore, ballate senza tempo interamente giocate sugli intrecci dei
plettri e delle voci. L’iniziale “Terra”, per esempio, che parla di amore e fiducia con
una grazia rara; oppure la più veloce “Un sorriso da indossare”, con il suo tappeto di
archi, o ancora i doppi sensi sottilmente ironici e i virtuosismi di “Zanzara”. E poi una
“Tra le mani” per la quale i Kings of Convenience pagherebbero una fortuna, e “Arpa
birmana”, scandita dal battito lontano delle tablas. Una meraviglia - anzi, una
Maravilha - da procurarsi assolutamente (www.marciloagro.com).
Aurelio Pasini
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Numero Settembre '05
Tv Lumière
Tv Lumière
Tele Noise Art/Venus
Gli umbri Tv Lumière sono nati nel 1999 dall’amore per gruppi come Swans, Sonic
Youth e Ulan Bator. In questo debutto omonimo, registrato un paio di anni fa proprio
con l’aiuto di Amaury Cambuzat degli Ulan Bator - che produce, mixa e interviene di
tanto in tanto mettendoci chitarre, piano e violino - la genesi del progetto è piuttosto
evidente. Ma anziché limitarsi ad approfondire il lato più squisitamente sonico delle
proprie influenze, il quartetto ( i fratelli Federico e Ferruccio Persichini, chitarristi e
cantanti, Irene Antonelli al basso e alla voce, Yuri Rosi dietro ai tamburi) cerca di
trovare una via noir al genere, attraverso parti vocali che evocano scenari
crepuscolari e decadenti, lavorando sul formato canzone più che sui suoni, che
sono comunque curati con grande perizia. Un tentativo apprezzabile, soprattutto in
pezzi come “I gatti (parte 1)”, convincente nonostante il forte ascendente degli Ulan
Bator, e la darkeggiante “Riflesso”, quasi una via di mezzo tra i CSI e gli Swans.
Tuttavia va detto che gli spazi di crescita sono ancora piuttosto ampi, e non sempre
i brani sono alimentati da una sufficiente tensione. Il gruppo è comunque meritevole
di attenzione, e ci sono tutti i presupposti affinché si possa assistere alla costruzione
di un vocabolario più personale (www.tvlumiere.it).
Alessandro Besselva Averame
Father Murphy
Six Musicians Getting Unknown
Madcap Collective
Tutti in ginocchio, signori, il reverendo Murphy è qui per catechizzarvi, rivoltarvi
l’anima, guidarvi verso la salvezza. Il tutto, naturalmente, passando attraverso
quella lente deformante che si chiama indie rock, materia che i Father Murphy
affrontano con piglio obliquo e artigianale, senza spazio per melodie ammiccanti e
cadute nell’ovvio.
È un calderone di riferimenti, quello in cui sguazza la band trevigiana, che a una
passione per i suoni d’oltreoceano aggiunge uno sguardo timido alla tradizione
autoriale. L’effetto è quello di un Devendra Banhart ubriaco di grappa, alla prese con
il pre-war folk ma svincolato da riferimenti temporali, dal country, insomma, dalla
terra. Alla seconda prova sulla lunga distanza, Federico F. Zanatta, Chiara Lee e
Vittorio Demarin riempiono il gap che li separava da realtà più organiche e
complesse, giocando a volti scoperti e con una ingenuità che a tratti lascia sbigottiti.
Ma “Six Musicians Getting Unknown” - da abbinarsi possibilmente alla lettura di
“Brevi routine e sei racconti + un come”, libretto edito sempre dal collettivo Madcap,
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è un album davvero singolare, non lontano da certe atmosfere dei Midwest eppure
originale, fuori fuoco e sofferente, che si fa amare anche per i suoi difetti e per le
sue mancanze, per i vagiti slowcore e per i cambi di regime improvvisi e non
previsti. Una divertita anomalia, quindi, che si lega ad un monito da tenere a mente:
state attenti, gente, liberate le anime (www.maledetto.it).
Giuseppe Bottero
Camera 237
Vectorial Maze
autoprodotto
Il post rock: una vera e propria croce per il recensore, a questo punto della storia.
Già, perchè il celeberrimo (non) genere sembra essersi ormai fissato su parametri
rassicuranti e sentieri frequentati fino alla nausea, esiste ormai una robustissima
tradizione nel campo, è sempre più difficile vedere qualcosa di nuovo all’orizzonte
nell’apposito settore e quindi chiunque rivendichi una appartenenza all’idea può
essere tacciato di conservatorismo o maniera. Poi però ci si imbatte in dischi come
questo, che sono indubbiamente post rock (tracce strumentali, intrecci di chitarre,
cambi di tempo, esplosioni ed energie trattenute) ma che, grazie al gusto per i
particolari, alla cura dei suoni (l’ubiquo Fabio Magistrali, anche qui), alle sfumature,
trasmettono ben di più di quanto le soluzioni utilizzate e i riferimenti facilmente
individuabili potrebbero far pensare. “Vectorial Maze” racconta poche novità, ma le
racconta bene, sa amalgamare a dovere intuizioni sperimentali e vena
improvvisativa con costruzione millimetrica e bravura strumentale. Non è detto che
si debba sempre essere degli innovatori e a volte, proprio come in questo caso, il
percorrere strade conosciute riesce comunque a coinvolgere e a trasmettere
emozioni (www.camera237.com).
Alessandro Besselva Averame
Auticada
Aurea
VideoRadio
Gli Auticada non sono una novità per “Fuori dal Mucchio”, visto che sono stati ospiti
della versione cartacea della rubrica in occasione della pubblicazione di un demo.
Dopo un lungo periodo di silenzio, interrotto da sporadiche apparizioni, sembravano
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però destinati a seguire la scia di tanti colleghi, mai arrivati a concretizzare su album
anni di passione. Ma, quasi a sorpresa, il quintetto mantovano ha prodotto questo
“Aurea”. Il cd, che non si presenta nel migliore dei modi a causa di una copertina
davvero brutta, prosegue il discorso interrotto dal demo: ovvero un rock sontuoso,
sorretto da chitarre e tante tastiere, con il nodo scorsoio del cantato in italiano. Nulla
da dire sulla voce di Riccardo Roverso, ma è l’insieme che fatica a decollare, in
rimandi a pomp rock e melodia italiana, anche se la parte strumentale è curata. Le
difficoltà di incastro tra musica e parole sono evidenziate dai pezzi strumentali, che
invece funzionano bene. Scelta consapevole e coraggiosa ma non facile da
realizzare, quella degli Auticada, che invece dal vivo appaiono meno rigidi e più
coinvolgenti (www.auticada.it).
Gianni Della Cioppa
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Slugs
Sono tornati gli Slugs, e lo hanno fatto con un disco - “Bob Berdella Bizarre
Bordello” (Black Candy/Audioglobe) - che conferma il loro approccio
anticonvenzionale alla materia rock mescolando hard, melodia, respiri acustici e
psichedelia. Di questa nuova avventura abbiamo parlato con Martino Pompili, che
della band emiliana è il cantante e chitarrista.
Da “Slugs” a “Bob Berdella Bizarre Bordello” sono passati due anni e un
cambio di etichetta. Cosa avete fatto in tutto questo tempo?
Fondamentalmente abbiamo suonato: concerti e sala prove. Abbiamo lavorato ai
nuovi pezzi che si sono sviluppati anche in relazione al live.
Com’è nato il matrimonio con la Black Candy?
È stato Leonardo a contattarci, circa due anni fa, per fare un concerto alla festa
dell’Unità di Firenze. Andammo, suonammo, e lui subito ci fece una proposta, anche
perché eravamo già praticamente orfani: Gammapop non aveva più tempo per noi.
Erano troppi i problemi...
L’evoluzione del vostro sound lo rende scarsamente definibile in un contesto
“rock”: infatti, mescola diverse scuole di pensiero che vanno dai Primus ai
McLusky. C’è un’idea dietro tutto questo?
Non c’è un’idea precisa. È piuttosto legato ad un flusso di sensazioni, a un sentire
che non ha niente a che vedere con le categorizzazioni o i generi. È un insieme di
tanti piccoli dettagli generati dalla nostra stessa complessità e dalle nostre singole
esperienze. Tutto ciò non ha premeditazione.
Nonostante un’atmosfera “tirata” troviamo comunque momenti in cui si
respira un’aria più rilassata e acustica, oltre che melodica. “I Could Have Been
A Contender”, ad esempio, si basa su questo rapporto tensione/calma che
sembra sfogarsi per tutto il disco. Stato d’animo o avete semplicemente
assecondato quello che “jammavate” in sala?
Stato d’animo legato all’azione creativa, direi. I pezzi li compongo generalmente da
me, a casa, in solitudine, con un quattro tracce che ora si è pure rotto. Ne
compongo molti e, nel tempo, seguono l’andamento del mio umore: raramente si
ispirano a riflessioni consapevoli. Poi, in una seconda fase, ci riuniamo in sala
prove, o in studio di registrazione, e lavoriamo tutti insieme. Ed ecco che i pezzi
assumono diversi significati, si tramutano rispetto alla loro genesi e diventano
testimoni di una sinergia di stati emotivi differenti. Tra l’altro, alcuni brani, come lo
stesso “I Could Have Been A Contender” sono stati composti parecchi anni fa.
Leggendo gli organi di informazione si rileva che il disco ha avuto un’ottima
accoglienza. Ora che un po’ di attenzione si è creata, cosa dobbiamo
aspettarci dagli Slugs?
Concerti sempre più interessanti e coinvolgenti. La nostra è una musica volubile ed
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è molto difficile da rendere con la dovuta intensità. Insomma, vogliamo lavorare in
una direzione che ci porti a suonare. Nel vero senso del termine.
Come vedete la situazione musicale italiana? Da un lato sembra che ci sia un
gran movimento, ma dall’altro ci si continua a lamentare...
Da una parte c’è un gran potenziale di idee e di tendenze, dall’altra c’è una profonda
ignoranza che si alterna a uno snobismo assurdo e provinciale. Non starò a parlare
di mercati o strategie perché, comunque, non possono prescindere
dall’atteggiamento generale di chi fa, scrive di e ascolta musica. Ognuno tende a
proteggere con paura quello che ha conquistato e manda a puttane tutte le
possibilità di condividere, alimentare e arricchire la passione per la musica. Molti dei
musicisti che conosciamo qui a Reggio Emilia viaggiano su binari paralleli e si
nascondono dietro atteggiamenti e scelte autoimposte che vanno a scapito della
loro possibilità di godere della vita stessa. Insomma, è abbastanza una merda. Ma
suonare e comporre pezzi è fantastico: questo non potrà mai impedirtelo nessuno!
E per il futuro? Avete programmi o vi affidate al fato?
Il solito: suonare sempre di più e in luoghi sempre migliori. Fare altri dieci dischi e
quello che dovrà essere, sarà.
Hamilton Santià
Contatti: www.slugs.it
Marco Ongaro
È piacevole discorrere con Marco Ongaro, un artista poliedrico e in più una persona
ironica e autoironica, consapevole e arguta. Inr realtà Ongaro meriterebbe una
doppia intervista: ha appena pubblicato due dischi in uno, “Archivio Postumia” e
“Eptalogia”, con una peculiarità: le registrazioni risalgono ai primi anni ’90. Il
cantautore veronese ci spiega com’è nata questa insolita operazione.
Domanda introduttiva obbligatoria: come mai hai pubblicato due dischi incisi
nel 1990 e nel 1991?
Perché il primo, ”Archivio Postumia”, era destinato a non essere pubblicato prima di
cinque anni dalla sua registrazione. Dopo quindici, sia il produttore Venturiero che io
avevamo stabilito che di tempo ne fosse passato a sufficienza. Il secondo,
“Eptalogia”, avremmo voluto vedesse la luce già nel 1991, ma per questioni
dipendenti dalla volontà del produttore anch’esso è finito nel medesimo cassetto.
...ma perché non pubblicasti allora “Archivio”?
Il motivo rientra nel campo della sperimentazione di mercato. Nel 1990 era appena
statopubblicato il mio lp “Sono bello dentro”. Ero esasperato dalla lentezza con cui
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la piccola etichetta indipendente Rossodisera metteva in cantiere progetti che io
partorivo con facilità. Mi ero definito “il primo cantautore postumo ancora in vita”. In
“Sono bello dentro” gli arrangiamenti non mi soddisfacevano minimamente. Il
tentativo benevolo del produttore era quello di rendere le mie canzoni appetibili a un
vasto pubblico, non riconoscendo il loro intrinseco elitarismo. Così mi son deciso a
incidere a mie spese i brani più attuali che avevo, rivestendoli con gli arrangiamenti
che in quel periodo usavo nel proporli dal vivo. Venturiero ha voluto partecipare alla
produzione a patto che il disco non uscisse per un po’. Avevamo in programma di
pubblicare in futuro la suite ciampiana “Eptalogia - Delle colpe e del perdono”, quindi
cinque anni d’attesa erano una previsione sensata.
Poi il tempo si è triplicato. Non temevi che gli arrangiamenti scadessero, nel
frattempo?
No, perché il jazz suonato con strumenti veri rimane sempreverde e i pezzi, come
immodestamente ritenevo, poggiando sul linguaggio dei classici della canzone,
conservavano in sé il sapore di tale classicità. Il mio pensiero fu qualcosa del
genere: “vediamo se sono un artista definitivamente fuori dal tempo o se
semplicemente lo precorro”. Il gioco interattivo con la caducità e la preveggenza
artistiche mi ha sempre molto interessato.
Cosa ti ha influenzato maggiormente?
L’atmosfera canora di qualche valore, all’epoca, era intrisa di jazz, da Conte al
nascente Capossela, da Max Manfredi - col suo smontaggio del linguaggio
compositivo cui partecipavo personalmente in un rapporto privilegiato di amicizia e
confronto - allo swingante Caputo, all’appariscente Baccini. Per non parlare del
lascito immenso dell’ultimo Piero Ciampi e di Tenco. Chi volesse usare ironia e
disincanto doveva passare per forza di lì.
Che segno avrebbe lasciato sul suo tempo, quindici anni fa, questo repertorio
rimasto finora inedito? Ci sono brani che anticipano un gusto poi assai in
voga nel decennio successivo.
Questo è il nodo dell’esperimento. Un esperimento rischioso e decadente. Sapevo
che “Archivio Postumia” così concepito non avrebbe forse lasciato alcun segno. Gli
anni Novanta ci avrebbero abituati a ben altro decadentismo, fatto di residui di
tastiere, rap e giovanilismo esasperato. Potevo sperare nella nausea che finalmente
è affiorata nel gusto degli italiani nei confronti di playlist delle radio, appiattimento
culturale del linguaggio canzone, potevo sperare solo in un ricorso. Per questo ho
sospeso la mia dubbia carriera nel 1995 con “Certi sogni non si avverano”, un disco
dal sapore rock ancora più decadente. Non era ancora passato sufficiente tempo. Il
pubblico non aveva ancora smesso di credersi ossessivamente “giovane e
moderno”.
E ora? Esiste una sintonia tra il disco e il gusto corrente?
Il mio snobismo critico ha avuto la meglio. Se suona attuale a chi ora lo ascolta,
suona attuale anche a me. Ho aspettato il cadavere del nemico sul fiume come in
ogni vendetta che si rispetti. Ammesso che qualcuno se ne accorga.
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Il disco si è purtroppo rivelato “postumo” per il tuo produttore...
Venturiero aveva già cominciato a dirmi che dischi così non se ne fanno più. Poi che
forse stanno cominciando a farne. Ma gli anni passavano. Finché siamo giunti
all’istante buono. Appena in tempo prima che l’amico, il fratello Renato Venturiero
dolorosamente ci lasciasse. Il giorno prima di morire mi ha detto per telefono, come
ultima frase, “Il disco è in stampa”. Che io sappia, non esiste un cd nella storia della
canzone italiana tanto carico di significato extratestuale.
Sei un artista vulcanico, ti dividi tra teatro, rock, libri, canzone. Cosa farai
adesso?
Ho appena scritto il mio secondo libretto d’opera lirica, “Kiki de Montparnasse”, per il
compositore Andrea Mannucci. Per la primavera prossima il debutto sarà pronto.
Intanto guardo girare in teatro l’opera buffa (sempre Mannucci/Ongaro) “Il cuoco
fellone”, che ha debuttato in marzo, e me la rido.
A proposito di libri. Ci racconti della tua opera letteraria “Fughe”? Com’è
possibile acquistarla?
Non ve la racconto perché trattandosi di una raccolta di racconti vi sciuperei il gusto
della lettura. Chi volesse leggerla senza dover prendere per il collo un libraio può
collegarsi al mio sito, dove si trovano dettagliate istruzioni.
Gianluca Veltri
Contatti: [email protected]
Kech
Non troppo tempo dopo l’esordio “Are You Safe?”, i Kech si sono rifatti vivi con “Join
The Cousins”, edito questa volta dalla Black Candy: un album lavoro
fondamentalmente pop fondato su leggerezza e creatività, ma soprattutto godibile e
raffinato, opera di musicisti che - per una volta - amano anche ascoltare la musica di
altri invece di pensare solo alla propria. Alle nostre domande ha risposto Giovanna,
la cantante.
Siete arrivati al secondo album. Due parole sui vostri inizi?
Noi siamo brianzoli e perciò anche un po’ campagnoli: ci teniamo a dirlo. Abbiamo
notato, girando per l’Italia, che il milanese non è proprio simpatico a tutti. Abitandoci
vicino, abbiamo approfittato di quanto Milano poteva offrirci a livello di concerti, ma
ci teniamo ad avere un’identità diversa. Ci siamo conosciuti suonando e abbiamo
scoperto una passione comune per il rock in tutte le sue sfumature. Formato il
gruppo e provate tante volte le canzoni in cantina, abbiamo deciso di registrare con
un amico che aveva un po’ più di esperienza e un’etichetta molto sperimentale, la
Ouzel; da lì è nato il nostro primo cd “Are You Safe?”. Poi, pian piano, abbiamo
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Numero Settembre '05
incontrato un sacco di altra gente.
Cosa vi piace di più dell’attività live?
Solo da gennaio a oggi abbiamo fatto più di sessanta concerti. Siamo sempre in
movimento e avendo anche altri lavori non è molto facile... però è bellissimo, perché
al di là dello stare insieme come gruppo siamo diventati come una piccola famiglia.
Inoltre, conoscere sempre gente e vedere posti in cui non eravamo mai stati è
un’esperienza impagabile.
Come siete capitati alla Black Candy?
Avevamo vinto un premio della Diesel, nel 2003: non era ancora uscito il primo
disco, né niente. Il premio consisteva in un concerto a Firenze e forse di spalla ai
Perturbazione, che per noi era come suonare con gli U2. E invece, passato tanto
tempo, non succedeva nulla, finchè gli organizzatori ci hanno chiesto se volevamo
fare una data vicino Firenze, ma da soli. Abbiamo accettato. La serata era
organizzata da Leo della Black Candy, che alla fine del concerto ci ha proposto di
pubblicare il cd successivo.
Sulla copertina di “Join The Cousins” c’è una mongolfiera. Chi ci è salito?
Non saprei, ma mi fa piacere potere parlare della copertina. Nel primo cd il disegno
fatto col mouse raffigurava una finestra dall’esterno: guardando verso la casa
avresti potuto vedere un mondo all’interno. Adesso, invece, le persone che stavano
in quella casa guardano fuori, per cui è un po’ il seguito della precedente.
Mi ricordi Shirley Manson dei Garbage. Quali sono i vostri gruppi di
riferimento?
A parte il primo album, che trovo bellissimo, in generale i Garbage non mi piacciono,
anche se trovo lei un personaggio meraviglioso, istrionico, nonché una cantante
dalla timbrica incredibile. Il bello del nostro gruppo è che nessuno ha gli stessi gusti:
quando dobbiamo mettere la musica in furgone litighiamo sistematicamente perché
non ci troviamo mai d’accordo. Abbiamo veramente gusti molto diversi: dai Velvet
Underground ai Pavement e ai Pixies, da Paul Weller al country folk o cose più
british, o i Marlene Kuntz di cui il nostro batterista è un fanatico. Quest’estate
avevamo però dei tormentoni che si ripetevano come Kings of Leon che piacevano
a tutti o i Coral. Insomma da un emisfero all’altro.
Scrivi tu i testi che canti?
Sì. I testi e le melodie del cantato sono miei.
E di cosa parlano?
L’inglese dà la possibilità di creare delle immagini molto suggestive con parole
semplici. Ad esempio, “Clifford” è una storia d’amore ambientata in un saloon. Però
mi piace moltissimo partire dalla letteratura perché io leggo abbastanza e anche in
inglese, per cui mentre magari mi imbatto in nomi che mi rimangono in mente
m’invento un'altra storia su questi personaggi.
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Le tue canzoni, quindi, sono ispirate dai libri?
Un po’ sì. Non a caso ci hanno invitato a Milano nella Biblioteca del giardino. La
nostra sala prove si trova nella cantina della cascina ed è piena di libri che vi sono
abbandonati. Frequentandola spesso abbiamo iniziato a portarne anche di nostri per
sentirci più a casa, e così ogni tanto mi piace improvvisare leggendo una riga da
una parte e una dall’altra con cose senza senso. Magari da lì deriva lo spunto per
inventarne altre, di righe.
E cos’altro c’è in cantina?
L’abbiamo insonorizzata con della gommapiuma rosa, e quindi la chiamiamo “la sala
prove di Elton John”. C’è la libreria di tutti e poi abbiamo appeso i poster dei concerti
con il nostro nome scritto male. Molto divertente.
Oltre a questi dischi, avete altre collaborazioni da segnalarci?
Ce n’è stata una molto carina con MusicBoom per la compilation tributo ai Velvet
Underground scaricabile dal sito http://www.musicboom.net/. Il nostro contributo è
“Afterhours”, una canzone che sento tantissimo e che dal vivo spesso facciamo. È
molto semplice ma altrettanto divertente.
In quanto tempo avete registrato il disco e dove?
Abbastanza in fretta. Nel dicembre scorso eravamo a Milano. Avevamo già provato i
pezzi live e quindi abbiamo deciso di inciderli. Tra l’altro siamo stati fortunati, perchè
il tecnico Max Lotti, che è amico del produttore Paolo Mauri si è offerto di fare dei
mix a titolo amichevole. È stato molto bello. Abbiamo registrato durante tutto il
periodo natalizio del 2004.
Avete usato strumenti particolari?
Dal vivo avevamo suonato con un amico che suona la tromba, e quindi abbiamo
pensato di chiamarlo. Il nostro bassista studia al conservatorio ed è un
polistrumentista, così abbiamo potuto aggiungere il violoncello e un po’ di
pianoforte. Io suono anche lo xilofonino della Barbie e l’armonica. E tra tutti abbiamo
anche il citofono.
Avete spedito copie del cd all’estero?
No. Non abbiamo fatto un bel niente, siamo molto pigri ma pensiamo di muoverci
meglio con il prossimo. In effetti il giro indipendente italiano è parecchio limitato...
quest’estate, quando abbiamo suonato a “Frequenze Disturbate”, guardando tra il
pubblico mi sono resa conto che ci sono sempre le stesse tremila persone. Rispetto
all’America o all’Inghilterra è un mercato davvero inesistente.
Francesca Ognibene
Contatti: http://www.kechworld.com/
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Valery Larbaud
Prendono il nome da un critico letterario. Hanno sogni, ambizioni e idee chiare. E la
cosa bella è che tutto questo non è una contraddizione. Dopo tre demo e un
mini-cd, apprezzati da pubblico e critica e supportati da molti concerti, sono arrivati
al vero esordio con “Altro non è rimasto”, curiosa e vivace sintesi di indie rock e pop
adulto. I Valery Larbaud sono Umberto Bellodi al basso, Manuel Landi alla batteria,
Paolo Ciuchi alla chitarra e Davide Ciuchi al piano, ma ci racconta tutto Diego
Pallavera, voce e cuore del gruppo.
Chi sono i Valery Larbaud?
Cinque individui ombrosi amanti allo stesso modo del cantautorato italiano quando
diventa spudoratamente poesia, del rock anni ‘70 e della sua attualizzazione nel
grunge (con tutte le controversie che questo termine porta perennemente con sé). A
queste influenze principali, con diversa passione per ciascuno di noi, si affiancano il
blues malato dei Bad Seeds e Tom Waits, la new wave, il furore dei Fugazi e altri
ancora.
Il vostro nome è un omaggio al critico letterario francese che ha dato fama
internazionale a Italo Svevo. La letteratura vi è cara?
La scelta di quel nome è stata fatta perché sembrava rappresentare una nobile
decadenza. Ci piaceva usare un nome e cognome di persona per chiamare la band,
quasi a voler dire che dall’unione delle cinque sensibilità dei componenti se ne crea
una sesta che le racchiude e completa reciprocamente. Inoltre non a caso il nome
appartiene al mondo della letteratura che per noi è componente fondamentale della
giornata, a prescindere dalla necessità di accrescere lo stimolo artistico in fase di
composizione. È prima di tutto un bisogno di capire il senso delle cose. La
letteratura è dove stanno le risposte. La sua potenza sta nell’impedirci di fermare
questa ricerca.
Cosa pensate della nuova scena indie rock italiana, che da anni è in fermento
e pronta al grande salto internazionale? Pensate che adesso ci siano i
presupposti per dare una visibilità concreta a quanto di buono viene prodotto
da noi?
Il primo pensiero va a gruppi come Yuppie Flu, Giardini di Mirò, One Dimensional
Man, che con le proprie produzioni sono riusciti a suonare all’estero riscuotendo a
quanto pare un buon successo e rispetto da parte del pubblico straniero. In questi
ultimi due/tre anni, poi, vari artisti stranieri di indiscutibile spessore artistico, hanno
collaborato con dichiarato entusiasmo a produzioni italiana. In sostanza, mi sembra
che in passato una commistione così forte fra stranieri e italiani non ci fosse mai
stata, e non a caso a queste collaborazioni stanno seguendo concrete operazioni di
promozione all’estero dei loro lavori. Vedi la distribuzione mondiale per Cristina
Donà prima e per gli Afterhours tra poco. Tradotti in inglese, è vero, ma sono
comunque canzoni che nascono in italiano e poi vengono tradotte per renderle più
fruibili a un mercato anglofilo per tradizione e col quale per ora è ancora necessario
scendere a compromesso. Ricordiamoci che negli anni ’60 in Italia era esattamente
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l’opposto: canzoni inglesi o americane tradotte in italiano (con risultati per lo più
patetici). A questi movimenti perciò guardiamo con molta speranza. È altrettanto
vero però che sotto questi gruppi che possiamo definire storici, c’è poi un gap
incredibile che li separa dalle band emergenti sulle quali nessuno investe più come
dovrebbe, e che si vedono costrette a vivacchiare di concerti anche in location
disastrose pur di portare a casa una data in più, utile a far rientrare le spese e fare
un po’ di promozione... nel caso ci sia un pubblico attento a seguirle. Non
dimentichiamo che anche il pubblico ha una bella fetta di responsabilità sulla
crescita musicale di una scena, e considerando il numero di band che compaiono
negli elenchi dei portali informatici, se tutti quelli che suonano in un gruppo
andassero a seguire i concerti delle altre band emergenti le presenze medie di un
concerto si triplicherebbero.
Nel vostro stile confluiscono più temi artistici: rock, pop, persino tracce di
hard e tocchi new wave. Con una punta di cattiveria, verrebbe da dire la
classica band degli anni 2000, brava in tutto ma incapace di scegliere. Come
nascono invece le vostre scelte stilistiche e compositive? È sempre un gioco
di equilibri e compromessi o remate tutti dalla stessa parte?
Non c’è un solo nostro brano che non sia nato dalla jam session di tutto il gruppo in
sala prove fino alla sua definizione completa nella struttura e negli arrangiamenti.
Questo mi porta a dire che non si tratta di compromessi, bensì di una volontà di
esprimere al meglio l’individualità di ciascuno e miscelarla a quelle degli altri. Siamo
convinti che solo in questo modo riusciamo a caratterizzare il nostro suono al punto
da renderlo personale. Non si inventa più niente, ma se si riesce ad imprimere il più
possibile la propria attitudine compositiva al brano siamo convinti che ciò lo renda
riconoscibile come un nostro pezzo, a prescindere poi dagli echi dei vari generi che
ci hanno preceduto, e che chiunque con un minimo di memoria storica musicale è in
grado di cogliere. Per altro scusa, ma ritenerci bravi in tutto è già un errore e di
conseguenza lo è anche ritenerci la classica band del 2000. La proprietà transitiva
offre possibilità incredibili.
Il vostro curriculum parla chiaro, siete un gruppo che suona molto dal vivo.
Sul palco le canzoni assumono nuovi connotati? Come reagite davanti ad una
platea indifferente?
Fin nei primi anni di attività live ci è sempre stato detto che rispetto al disco i brani e
il suono risultano sempre più graffianti, nervosi. In parte ce ne accorgiamo anche
noi. Questo è poi forse accentuato da un mio modo di stare sul palco molto fisico,
che mi porta ad accompagnare i testi e le sfumature degli arrangiamenti con posture
e gesti che rendono il concerto forse più sanguigno. In ciò vengo aiutato dal fatto
che scrivendo le liriche e mettendo in esse molto del mio vissuto, sono
inevitabilmente portato ad interpretarle senza troppi calcoli di rappresentazione e ciò
arriva al pubblico come una maggior carica del live che non su disco. Anche per le
suddette ragioni abbiamo deciso di registrare “Altro non è rimasto” al nuovo
AcidStudio di Cremona, dove c’era la possibilità di registrare in diretta tutte le
session musicali e sovraincidere solo la voce. Ci pare che l’obbiettivo sia stato
raggiunto. Con la dovuta consapevolezza che c’è comunque molto da migliorare.
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La platea indifferente ci fa incazzare non poco, quindi forse suoniamo anche
meglio... un pubblico attento e vivo, comunque, ci piace di più.
Gianni Della Cioppa
Contatti: www.valerylarbaud.it
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Musical Box
Urbino, 7/8/2005
Per la prima volta nella sua storia “Musical Box”, rassegna urbinate organizzata
dall’associazione Notturno Musicale e ormai giunta alla quinta edizione, è stata
inglobata nel programma del concomitante festival “Frequenze Disturbate”, con la
conseguente opportunità di utilizzare la suggestiva Piazza Duca Federico come
teatro dell’esibizione dei cinque gruppi finalisti, selezionati tra i duecento iscritti al
concorso. Un’ubicazione suggestiva che oltre ad aver fatto gridare allo scandalo secondo lo scoop giornalistico di quart’ordine di un noto quotidiano bolognese - un
Sergio Cofferati in visita turistica presso la città marchigiana, non ha purtroppo
risparmiato problemi meteorologici: la manifestazione è infatti stata più volte messa
in dubbio dal clima autunnale e dalle minacce di pioggia, poi concretizzatesi in
poche ma snervanti gocce. Il considerevole ritardo si è infine risolto nella decisione
di procedere nonostante tutto, e, dopo una esibizione che prevedeva tre canzoni per
ciascuno (decurtate a due per sopravvenute carenze di tempo), si è finalmente
giunti al verdetto appena in tempo per non invadere lo spazio riservato al concerto
di Niki Sudden, in coda al programma pomeridiano.
Ad aggiudicarsi il premio, un assegno di duemila euro, sono stati i parmensi Reflue
(nella foto), artefici di un pop tentato da ricordi beatlesiani, cantato in inglese,
elegante e ricco di trovate. Sul secondo gradino del podio i torinesi Là-bas, che
hanno proposto un rock d’autore in italiano, emotivo, intimista e orecchiabile,
promettendo ottime cose per il futuro. Terzi, i cremonesi Jenny’s Joke, tra indie-rock
e riferimenti alla tradizione cantautorale angloamericana più fragile e tenue. Fuori
classifica, gli Heza da Rovigo, con un rock in italiano di grande impatto dotato di
melodie di ampio respiro, e i Masquerada, ancora incerti nel destreggiarsi tra pop,
derive post-trip hop ed elettronica: un buon lavoro sui suoni, il loro, ancora da
definire e calibrare la presenza di una nuova cantante da poco entrata in organico.
Nonostante le difficoltà, e gli imprevisti in agguato fino all’ultimo, la vetrina di Urbino
ha mostrato una crescita visibile, confermata dalla qualità crescente (gli inascoltabili
erano in minoranza rispetto a coloro che oltrepassavano più o meno la sufficienza)
degli aspiranti vincitori.
Alessandro Besselva Averame
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