Numero Febbraio '06
EDITORIALE
Salve a tutti, e benvenuti a quello che è il secondo numero del 2006 di Fuori dal
Mucchio, il nostro consueto appuntamento mensile che cerca di fornirvi una
panoramica quanto mai varia ed esaustiva – per quanto possibile, visto il numero
folle di uscite discografiche – del panorama “emergente, autoprodotto, esordiente,
sotterraneo, di culto” italiano. E proprio l’eterogeneità ci pare una delle
caratteristiche più rilevanti del sommario di questo mese: dal punk al folk, dal pop al
metal, tutti (o quasi) i generi sono rappresentati. Nelle recensioni così come nei live
report e nelle interviste, presenti in quantità proprio per permettere di approfondire la
conoscenza con alcune delle realtà a nostro avviso più significative e meritevoli.
Ma non è tutto, perché già qualche giorno è possibile non soltanto leggere Fuori dal
Mucchio – quello nuovo così come tutti gli arretrati – sullo schermo del proprio
computer, ma anche scaricarlo in formato .pdf (cliccando sull’apposito link nella
pagina del sommario), stamparlo e goderselo comodamente in formato cartaceo,
con una nuova e colorata veste grafica.
Altre gustose novità, poi, sono allo studio, per rendere il nostro sito ancora più
interattivo e a misura di utente, ma di questo parleremo più avanti. Per il momento,
quindi, non ci rimane che augurarvi una buona lettura e – soprattutto – buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Febbraio '06
Dottor Livingstone
L’assenza
I Presume/Emi
È il buongusto la cifra dei Dottor Livingstone. Lo indovini e quasi lo annusi dal
libretto, che trabocca di sensuale lingerie femminile – corpetti, bretelline, slip. È pop
elettronico, che non è fatto per diventare una suoneria di cellulare, come dicono
loro, molto anni ‘80 e certe volte forse volutamente fuori moda. Il gruppo torinese,
che qualche osservatore ricorderà a un Sanremo di sette anni fa (“Al centro del
mondo”, si chiamava il loro brano), imbastisce un sound estremamente cool attorno
alla limpida voce di Anna Basso, qualche timbro in comune con Mara Redeghieri. È
ai concittadini Subsonica che si rifanno “Anna” e “Ci sei sempre tu”, mentre “Sulla
mia pelle” ha un inciso che respira certe atmosfere degli ultimi Cocteau Twins, quelli
più rotondi e pacificati. È invece da “Creep School” il moog che apre “Strega”, e
l’apripista “Tutto è relativo” si correda di indianerie coi sitar e i tabla. Bello stile.
Il piede non è mai sull’acceleratore: “Mai più”, un po’ più uncinata, poteva essere un
singolo di presa, “Le ragazze di Osaka” di finardiana memoria riprende la versione
di Alice e ne accentua l’understatement. “Il futuro è un pianeta lontano”, canta Anna;
del resto, il secondo lavoro dei Dottor Livingstone, a cinque anni dal primo,
sottolinea tutte le sfumature di assenza, distanza, sottotono, trasparenza, perdita,
senza per questo risultare rinunciatario, tutt’altro. Un po’ troppo estetizzante,
semmai (www.dottorlivingstone.com).
Gianluca Veltri
Mattia Coletti
Zeno
Wallace/Audioglobe
Sorta di diario sonoro imbastito da Mattia Coletti (Sedia, Polvere, From Hands),
“Zeno” rappresenta un percorso di confine volutamente spezzettato e frammentario,
dove le chitarre acustiche ed elettriche e la voce si lasciano contaminare da innesti
rumoristi ed elettronici e da continue variazioni di prospettiva. In alcuni momenti, i
suoni si agglomerano in vere e proprie canzoni: è il caso di “Clessidra Boy”, ospite
la voce di Fabio Magistrali, il quale ha pure messo su nastro il lavoro, una marziale
melodia folk che evoca fantasmi di Rock In Opposition ed estreme derive
canterburiane (e non ci pare casuale la presenza di un brano intitolato “Canterbury
Tales”). O ancora di “A”, canzone tenue che si inabissa in un ambiente sonoro tutto
rifrazioni elettroniche e suoni ondivaghi. La musica prende sovente la forma di un
folk ambientale e impressionista, soffermandosi a tratti a disegnare bozzetti alla
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Numero Febbraio '06
chitarra acustica che rimandano a John Fahey e ai suoi allievi – è il caso delle
iniziali “Una e due” e “Red, Yellow Circle”, la quale diventa in seguito una canzone
stralunata e deviante. Se gli Animal Collective si fossero ulteriormente allontanati
dalla forma-canzone, avrebbero potuto incidere un disco del genere. Disco che
trova la propria cifra stilistica nell’incertezza delle proprie scelte estetiche, senza mai
scegliere una via a discapito di un’altra, ma sempre stimolando l’orecchio di chi
ascolta (www.wallacerecords.com).
Alessandro Besselva Averame
Veracrash
The Ghost EP
Go Down/Audioglobe
Abbastanza lunga e tortuosa la strada che ha portato i milanesi Veracrash
all’esordio ufficiale. Prima, con il nome di Duna, la realizzazione insieme a Paolo
Mauri di un promo, rimasto però inedito; poi, gli immancabili aggiustamenti di
formazione e un concerto di apertura all’ex Kyuss Brant Bjork, a cui peraltro si deve
la scelta della nuova ragione sociale. Un incontro tutt’altro che casuale, col senno di
poi, visto che il suono di questo EP risente – e non poco – dell’influenza dello
stoner, dai Kyuss, appunto, fino ai Queens Of The Stone Age. Ritmiche telluriche,
chitarre potentissime, riff travolgenti e una psichedelia corrosiva (ma non troppo
dilatata) a fare da contraltare a una urgenza non lontana dal punk: caratteristiche
che si ritrovano fin dai primi secondi dell’iniziale “Antwerp”, e che accompagnano
per tutta la durata del dischetto, che tuttavia ha il pregio di presentarsi
sufficientemente variegato, pur nell’apparente monoliticità. “Cuspide”, per esempio,
sfoggia asperità e nervosismi – anche vocali – che rimandano al noise come al
post-core fugaziano, mentre “The Ghost In The Shell” si apre su atmosfere acide e
desertiche, per poi concludersi con un’accelerazione travolgente. Degno preludio a
“Sicario”, che chiude il lavoro in maniera rabbiosa, omaggiando in maniera esplicita i
QOTSA. A questo punto, sarà interessante vedere i quattro alla presa con un
formato più lungo e impegnativo – e magari fare la conoscenza del progetto
parallelo electroclash V:E:R:A (www.veracrash.com).
Aurelio Pasini
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Numero Febbraio '06
Marco Turriziani
Bastava che ci capissimo io e i miei
Storie di Note
Lessico famigliare, in quattordici quadretti. Non è certo di primo pelo, il quarantenne
Turriziani – una lunga militanza con i Latte & i Suoi Derivati – e tanto spiega una
sorta di sonnacchiosa ed eterna tardo-adolescenza. Quei rimpianti di figlio rimasto a
casa troppo a lungo, le ansie di un’agognata e attempata paternità, amori indecisi.
Quello di Turriziani è un cantautorato garbato e ingenuo, che punta sulla tenerezza
e sull’ironia, sul rimorso leggero. “Il mio cane e io” ha qualcosa di Bersani (come
pure “L’ora delle luci magiche”), “Il figlio che” è la lettera al genitore che non c’è più
al quale non si è detto tutto, pensandolo eterno; contrappunti di clarinetti e sax
decorano “Benedetto amore”, con un ritornello in crescendo urlato alla Rino
Gaetano, mentre un piano scalcinato introduce “È già Natale”, che ha un sapore di
primo Bennato. È sorprendente “Forse è una strega”, che inciampa in un pazzerello
5/4, sudamericaneggia “Rosa da amar” e fa il verso al Novecento la strumentale “È
domenica”.
Non originalissimo melodicamente, il suono di Marco è benevolo e teatrale;
disarmanti le parole. “Meglio non crescere, è meglio scrivere nuove favole”, canta
dichiarando l’intento dell’arte peterpaniana; e addirittura in “Come a mammà” arriva
a dichiarare “Voglio una ragazza/che sappia cucire, stirare e far da mangiare come
facevi tu/dimmi perché non se ne trova una come te”. L’inno mammone
inconfessato di parecchi maschietti italiani (www.storiedinote.com).
Gianluca Veltri
Elvis Jackson
Summer Edition
Rude/Venus
Potremmo iniziare questa recensione con frasi del tipo “il segreto tenuto meglio del
punk in Italia” o simili, ma in casi come quello degli Elvis Jackson anche simili
iperboli ci sembrano davvero fuori luogo. Solo un destino beffardo ha infatti
cospirato finora alle loro spalle: con all'attivo già un paio di lavori, questa formazione
di origine slovena ha, con questo “Summer Edition”, aumentato le proprie possibilità
espressive aggiungendo ad un iper-collaudato impianto rock/punk i colori e i sapori
del reggae e dei ritmi in levare. E, ascoltando questi dodici brani, non si può non
ritornare con la mente ai Sublime, campioni nell'ibridare energia e poesia, chitarre
acustiche sulla spiaggia con ruvidezza hardcore, se non altro perché accoppiate
vincenti come quella “Hawaiian Club” - “Don't Go Too Far” non si sentono molto
spesso in giro.
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Numero Febbraio '06
Una produzione discreta ma minuziosa completa poi l'insieme, riuscendo a
trasporre su disco sia l'impatto sonoro che le varie sfumature di cui i Nostri sono
capaci. Che questo sia un lavoro dalla caratura internazionale è poi ulteriormente
confermato dalla sua uscita in tutta Europa e dal relativo tour di supporto che vedrà
impegnati gli Elvis Jackson per quasi tutto il 2006. Insomma, dopo “Summer Edition”
non abbiamo più scuse per ignorarli. Anzi, forse una resiste ancora: la copertina; ma
quello è un peccato veniale, il contenuto vale davvero la pena (
www.elvisjackson.com).
Giorgio Sala
Paolo Di Cioccio - Giovanna Castorina
Les signes du zodiaque
Domani Musica
A pochi mesi di distanza dal delirio neo classico di “Oboe Sconcerto”, l’allegra
coppia Di Cioccio/Castorina è tornata in studio per incidere quattordici nuove
composizioni – questa volta tutte originali – ispirate all’influenza delle congiunzioni
astrali sulla vita terrena.
Per quanto l’astrologia sia comunemente assimilata alle più infondate superstizioni
popolari, la trattazione è di fatto riconducibile agli approfonditi studi esoterici che da
sempre contraddistinguono l’opera musicale e intellettuale del Di Cioccio. Non
avendo grosse conoscenze in questo campo, mi è assai difficile comprendere
quanto lo spirito di ciascun brano rispetti il carattere del relativo segno zodiacale da
cui prende il nome. È invece più semplice, come pure suggeriscono gli autori nelle
note di copertina, lasciarsi trasportare dal flusso elettronico che – dalla iniziale
“Overture” fino alla conclusiva “Ronde” – scorre fantasioso per circa un’ora.
Da un punto di vista prettamente stilistico, il duo recupera con la solita scrupolosa
maestria le coordinate espressive dell’elettronica tedesca anni ‘70, riprendendo il
filone delle opere soliste del musicista romano, pubblicate a cavallo del millennio.
Rock cosmico – qui è proprio il caso di definirlo in tal guisa – eseguito peraltro con
strumenti che fanno certo invidia ai cultori del vintage: sintetizzatori e sequencer di
ogni tipo (dal Moog al Doepfer A100 modulare), Mellotron, Trautonium, Theremin e
organo Hammond (www.domanimusica.it).
Fabio Massimo Arati
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Numero Febbraio '06
Mojito Bistrot
Per Margot
autoproduzione
Tempi strani e confusi per la discografia italiana. Non è certo una novità, ma è bene
ricordarlo di tanto in tanto. Prendete questi Mojito Bistrot, attivi dal 2003: hanno alle
spalle un mini-CD di esordio, “A due passi dalla luna”, con il quale si sono fatti largo
a suon di applausi in varie manifestazioni (citiamo in ordine sparso Sanremo Rock, Il
Festival delle Arti, due edizioni del Premio Augusto Daolio ed altri ancora), in virtù di
uno stile che avrebbe tutto per farsi largo nelle radio, ma che soffocato dal “troppo”
che circola, non trova invece sbocchi. Il quartetto di Scandiano ci riprova oggi con
“Per Margot”, forte di una maggiore maturità di scrittura e con le idee più chiare. Uno
stile asciutto, che definiamo pop per comodità e serietà, ma che inserisce ombre di
folk in un contesto orecchiabile. Scivolano via così i sette brani del CD, più la
rilettura per piano e voce della title-track, che nella sua versione estesa apre
l’album. Ascoltando appunto “Per Margot”, (l’eroina dei cartoon, ci spia maliziosa sul
retro del CD!), “L’ultimo pensiero”, “La vie du bistrot, “Ogni viaggio”, si entra
all’improvviso in quei sentieri pop che vorremmo odiare, tra Lùnapop e il Ligabue più
addomesticato, di cui invece subiamo il fascino, per quello scorrere sereno tra
melodie addomesticate. I Mojito Bistrot non lasciano spazio a voli pindarici, ma
sanno scrivere canzoni un passo oltre la banalità, e “Taxi con interni gialli” potrebbe
davvero diventare un tormentone radiofonico. Pregio o difetto? (www.mojitobistrot.it)
Gianni Della Cioppa
Comfort
Eclipse
Psychotica/Goodfellas
L’evoluzione della specie post-rock? Sarebbe riflessione azzardata e riduttiva per i
Comfort, ensemble toscano già segnalatosi con dei demo molto promettenti e
tramite alcune pregevoli partecipazioni su compilation tra cui il tributo crimsoniano
“The Letters ” pubblicato dalla Mellow: indizi a favore di una personalità di rilievo,
tutt’altra storia rispetto ai molteplici epigoni del dolente post-rockeggiare sparsi
nell’underground. Se il suono di “Eclipse”, ufficiale atto primo pubblicato dall’attiva
pugliese Psychotica Records, si è fatto più etereo ed atmosferico rispetto a fraseggi
maggiormente aggressivi e nervosi palesati precedentemente, è comunque il frutto
di un percorso consapevole, un bisogno di introspezione piuttosto che di scontate
esibizioni tecnico-compositive. Un’evoluzione dunque non attribuibile a infatuazioni
dell’ultima ora esterofila, bensì dispiegata in sonorità ricercate, caratterizzate dalle
puntellature del piano di Leonardo Chirulli in un impianto rock delicatamente
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Numero Febbraio '06
free-form striato appena di elettronica. Un linguaggio sonoro che è realmente
“avanti” e discretamente “in progress”, senza stupire con estremismi o effetti
speciali. Perché in definitiva i sette brani strumentali rivelano una soffusa
scorrevolezza, tenuemente sull’orlo del “precipice” avant-pop, parafrasando il titolo
in apertura, incidentali ed algide svagatezze neo-canterburyane per un debutto in
qualche modo atteso e già annotabile fra le più belle realtà dell’odierno scenario
indie nazionale (www.psychoticarecords.com).
Loris Furlan
Fabryka
Testing Toys
autoproduzione
La passione per certe band, che emerge forte e chiara in un’altra band: è una
vecchia storia, non sempre particolarmente eccitante, è vero. Eppure a volte ci si
imbatte in progetti che, senza pretese di sorta, espongono le loro proprie
ascendenze sonore non per mancanza di talento (tutt’altro), ma per esprimere un
opinione ed imprimersi una direzione. È davvero questo il caso dei Fabryka,
progetto barese nato nel 2004 e oramai ben nota realtà locale che immerge le sue
dita sonore in quel glitch di casa Portished/Lali Puna fino, a ritroso, alla prima Björk.
Non è una coincidenza che tutte le band citate siano capeggiate da una donna. E
non è neppure una coincidenza che si tratti di formazioni che si reggono su di una
sezione vocale d’eccezione in grado di condensarne ispirazione, potenzialità e
potenza, suggellando la voluta freddezza degli effetti con tutta l’impalpabilità del
cantato femminile di genere. Perché ascoltare “Testing Toys”, primo EP
autoprodotto per i Fabryka, implica anzitutto l’entrare in contatto con una voce jazzy
– quella di Tiziana Felle – che passa difficilmente inosservata. La tonalità e la
curvatura melodica che impone a pezzi come “Handful Of Dust” o “Legoland”, ne
farebbero ottimo pane per i denti di casa Morr, ma Kazu Makino non è così distante
(fatto del resto palese per via della presenza di una cover dei Blonde Redhead
rivisitata in salsa electro, “A Cure”). La maturità piena, un full-lenght e un contratto
sembrano solo questione di tempo (www.fabryka.it).
Marina Pierri
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Numero Febbraio '06
Highschool Dropouts
Rivalry
Wynona
A prima vista, complice anche una copertina decisamente “invernale”, si direbbe
che gli Highschool Dropouts di questo “Rivalry” siano originari di una qualunque
sperduta cittadina svedese. Anche dopo l'ascolto il dubbio resiste; peccato, ma
sarebbe più giusto dire per fortuna, che Jimmy e soci siano una realtà italianissima,
che guarda all'estero solo quando si parla di influenze musicali. Rock‘n’roll punk
che, se da una parte guarda chiaramente ai primi Kiss (apre le danze lo strumentale
“Peter Criss” e le chiude una sorpresa a tema), dall'altra ci ricorda quanto sentito in
tempi molto più recenti da gruppi come Datsuns e D4. Attiva dal '99 e con una
discografia alle spalle comprendente tra l'altro due EP e tre split 7”, la formazione
sembra avere trovato stabilità dal 2003, con l'arrivo di Paco (già nei Retarded) e
Lennie a dar man forte al titolare Jimmy. Non sappiamo se sia questa raggiunta
stabilità, ma “Rivalry” è quanto di meglio da loro fatto finora, e lo è sia quando ti
sparano dietro un riff assassino come quello di “Reptile” sia quando rallentano il
ritmo con “Maximum Overdrive”, dove troviamo anche la miglior performance
vocale. Ed è proprio la voce l'unico tassello che ancora non convince in toto, anche
perché quando funziona dimostra di non essere da meno del resto. In ogni caso, gli
Highschool Dropouts possono, e aggiungo devono, confrontarsi alla pari con il resto
d'Europa, e questo è un risultato di tutto rispetto (www.highschool-dropouts.com).
Giorgio Sala
Bias!
BIAS!
Wallace/Audioglobe
Giunta all’ottavo capitolo, la serie WallaceMailSeries ospita un incontro tra Xabier
Iriondo (ex Afterhours e componente di A Short Apnea, Uncode Duello, Polvere), e
l’ex Ulan Bator, ora titolare del progetto Permanent Fatal Error, Olivier Manchion.
Inevitabile per i due, al di là di una affinità data dal background che va a pescare in
una ricerca a cavallo tra rock e territori attigui, incontrarsi sul terreno di antiche
passioni comuni: l’impianto sonoro unisce infatti musica concreta e patchwork
strumentali guidati da chitarre ripetitive, rumori e percussioni sparse, facendo venire
in mente i Faust del periodo d’oro così come certa sperimentazione di confine attiva
nell’ultimo decennio, a cavallo tra improvvisazione, avanguardia e propaggini rock A
rendere questo lavoro uno dei più riusciti della serie, una fruibilità che non va mai a
discapito della volontà di esplorare il suono in tutte le sue forme, e soprattutto
dell’esplorazione incompromissoria di nuovi linguaggi. Il risultato è un’alternarsi di
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nenie folk dal sapore ancestrale e psichedelico (“Profumo di un’aia”), proto-blues
scheletrici e minimali che si dissolvono in echi e riverberi (“Solitarie/duo”), una
destabilizzante “Mongol Lesson n° 5” che innesta voci provenienti dal paese
asiatico su strumenti a corda che assumono sembianze inquietantemente esotiche.
Si sentono l’artigianato della ricerca e il primitivismo di un suono scarnificato. Venti
minuti sono sufficienti per dipanare il proprio manifesto sonoro. Notevole (
www.wallacerecords.com).
Alessandro Besselva Averame
Echran
Echran
Small Voices-Ebria/Wide
Una virtuale installazione, deputata sostanzialmente a generare fragore, ha unito in
uno straordinario sodalizio due delle più radicali etichette indipendenti attive sul
territorio nazionale (almeno per quanto concerne la ricerca rumoristica): un
possente albero di trasmissione che attraversa l’Italia da Desio ad Andria e lascia
cadere detriti chimici altamente pericolosi, per le orecchie e per la mente.
Il primo di questi sancisce il debutto degli Echran, progetto nato dall’incontro di due
navigati manipolatori del suono: Fabio Volpi (già negli Otolab) e Davide Del Col (di
cui ricordiamo i cupi scenari allestiti alla fine dei ‘90 con l’acronimo di Ornament). Il
loro omonimo CD propone ambientazioni ipnotiche e sinistre, scandite da liriche
recitate in lingua francese. Il rumore si diffonde progressivamente – tra allucinate
distorsioni e vaghe linee melodiche – fino a pervadere integralmente l’ambiente
circostante, fin quando anche il più recondito angolo della stanza si riempie di
frequenze disturbate.
Abbracciando da un lato le visionarie alchimie del kraut-rock e dall’altro stringendo
la mano alle tumultuose pulsioni del primo industrial anglosassone, gli Echran
intraprendono un percorso sonoro comunque lineare, senza mai abbandonarsi ad
eccessi di sorta, anzi privilegiando arrangiamenti asciutti e minimali. A dispetto
dell’inquietudine e delle cospicue dosi di rumore di cui sono pregni, i sei movimenti
del loro album risultano dunque fruibili e non scadono mai nella soffocante
monotonia che sovente caratterizza anche le più celebrate opere dark-ambient (
www.smallvoices.it).
Fabio Massimo Arati
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Garden Wall
Towards The Silence
Mellow
Il precedente “Forget The Colours” aveva tolto di mezzo ogni residua indulgenza
prog-Seventies con complicità tastieristica, palesata nelle comunque notevoli prime
quattro tappe discografiche. Ora giunge “Towards The Silence” a ribadire quello che
sono oggi i friulani Garden Wall: efferata estremità art-heavy senza compromesso
alcuno, libera di dar voce alla visionaria e viscerale poetica di Alessandro Seravalle,
anima originaria del progetto. E che si tratti di un’anima inquieta, proiettata dagli
oscuri labirinti interiori, votata ad una violenza sonora ossessiva, decadente,
ineluttabilmente nichilista, lo si può intendere da subito: il breve enigmatico intro di
“Please Wait… Forgetting” e poi l’assalto di riff senza tregua, la potente ed
ineccepibile macchina ritmica dei tamburi di Camillo Colleluori e del Chapman stick
di Pino Mechi, il lancinante chitarrismo di Raffaele Indri, una tensione mai sopita in
cui la voce “paranoica”, spesso urlata, di Seravalle trova terreno adeguato alle
proprie visioni e strategie. “Caesura”, “Luna”, “Oxymoron”, “Bottom”, “Inadeguato”
(titolo magari emblematico), “Cursed Nature (For Caligola)”: tutti poemi
estreme-avant-metal, devastanti quanto onirici, cenni di luce da electronic
soundscapes e sinistri arpeggi assediati da claustrofobiche oscurità. “Verso il
silenzio” dunque, speriamo non fino in fondo per questa band storica e davvero
unica nel panorama italiano, con un sito ufficiale appoggiato a una prestigiosa
fanzine-web dell’Uzbekistan (www.progressor.net/garden-wall).
Loris Furlan
Adharma
Risvegli
Jestrai/Venus
Le qualità principale, all’interno dell’universo Jestrai, è senz’altro la versatilità. Dopo
alcune uscite in odore di rock and roll, infatti, questo EP di esordio degli Adharma
riporta la rotta dell’etichetta bergamasca all’interno di un rassicurante percorso
legato al rock d’autore.
Gli Adharma, terzetto dalle origini da sarde ma dal presente bolognese,
costruiscono un mosaico che lega rumore e suggestione poetica, cantautorato e
digressioni oblique. È il caso, per esempio, della coinvolgente “Estate”, che riporta a
certi umori cari ai Marlene Kuntz, contaminando una poetica classica con
divagazioni zoppicanti e, in un certo senso, free. Certo, anche i cantautori,
Francesco De Gregori e Fabrizio De André in primis, sembrano giocare un ruolo
importante nelle influenze del trio, ma la sensazione che è, pur restando fedeli a un
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cantato (in) italiano, i tre abbiano radici più complesse, da cercare nei solchi dei
Pink Floyd e dei primi Radiohead. Lo dimostra, fra l’altro, la traccia che dà il nome al
dischetto, “Risvegli”: una traccia oscura e decisamente non “allineata”, viene da dire
coraggiosa nell’abbandonarsi a un’enfasi tutt’altro che usuale. Piccoli segnali di
originalità, quindi; piccoli passi avanti in un processo magari ostico, ma capace,
dopo lo spiazzamento causati dai primi ascolti, di farsi sempre più affascinate (
www.adharma.it).
Giuseppe Bottero
Neronova
Memorie di un clown
RY Productions/UdU
Una grafica semplice ma efficace, un nome altrettanto produttivo e un suono figlio
del nuovo rock italiano, se tale vogliamo definire quel piccolo/grande esercito che
cerca di farsi largo con l’ossimoro per eccellenza, vale a dire il nostro linguaggio su
basi di chitarre elettriche. Dopo un intenso rodaggio sul palco, il quartetto dei
Neronova arriva a questo debutto, grazie anche al sostegno dell’associazione
Ululati dall’Underground. Sin dal primo ascolto sorprende la pienezza della
produzione, grassa e potente, con la voce di Tiziano Panini, anche chitarrista, che si
incunea roca nelle viscere dei riff di canzoni con liriche da marciapiede, generate da
un senso di disagio e di ribellione. Niente di nuovo, a ben vedere, ma ascoltare i
testi in modo così diretto è una sensazione quasi nuova, che gratifica. Più di mille
parole dice tutto la cover posizionata alla fine, una “Rebel Yell” di Billy Idol sparata
con sudore e convinzione. Gli stessi elementi, con un pizzico di idee, che troviamo
tra i solchi di “Memorie di un clown” (la canzone), nell’inserto della voce femminile di
“1984”, nel groove funky di “La bestia e il fuoco”, nel refrain caratteristico di “Il
circolo delle mosche”, nell’ipnosi metal blues di “Ogni effetto”, in “Cicatrici”, fino
all’accusa di “Giuda”. Un po’ Nickelback e un po’ Metallica; All’appello manca
qualche frammento melodico, ma niente male davvero questi Neronova (
www.neronova.com).
Gianni Della Cioppa
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Nettezza Umana
Il teatro dell'assurdo
Derotten
Con piacere, mese dopo mese, notiamo l'ottimo stato di forma dell'hardcore
italiano, stavolta confermato dai Nettezza Umana. A quattro anni da “Allo stremo”
ecco infatti ritornare la formazione lombarda con “Il teatro dell'assurdo”. Registrato
presso il Living Rhum Studio, questo si è rivelato un lavoro lungo e sofferto, tanto
che prima di uscire ha dovuto vedere il cambio di due quarti della formazione, ma
che ha saputo tirare fuori il meglio da questi ragazzi. La via italiana all'hardcore ha
qui fatto scuola, e, pur non mancando qualche accenno a suoni più attuali alla
Skruigners, siamo come atmosfere nel pieno degli anni '80, con solo i testi,
decisamente più introspettivi di quelli dei predecessori, a tradire l'effetto d'insieme.
L'energia e l'impatto, poi, sono oltre i livelli di guardia, e non mancano bordate come
“Disarmo”, brano nobilitato dalla presenza di Mauro “Raw Power” Codeluppi, quasi
un imprimatur alla nuova generazione da parte di chi ha fatto la storia di questo
movimento. Se volessimo trovare un appunto da fare è che, semmai, “Il teatro
dell'assurdo” risulta eccessivamente granitico, e solo in parte le soluzioni di
arrangiamento adottate tolgono quest'impressione. All'ascoltatore il giudizio finale; a
noi non resta che constatare come in questo momento lo stato di salute del mercato
musicale in Italia sia spesso inversamente proporzionale alla qualità della musica
prodotta (www.nettezzaumana.it).
Giorgio Sala
Corde Oblique
Respiri
Ark
Non posso esimermi dal lodare l’impegno e l’intraprendenza della Ark Records, a
dispetto degli scarsi mezzi a sua disposizione. A seguito del prestigioso cofanetto
biografico dedicato agli Ataraxia, l’etichetta partenopea dispensa un’altra opera di
elevato profilo culturale: il primo album realizzato dal chitarrista e compositore
Riccardo Prencipe sotto l’acronimo di Corde Oblique. Un progetto che muove
dall’esperienza da questi maturata alla guida dei Lupercalia, titolari di due ottimi
album tra il 2000 e il 2004. L’ultimo dei due – “Florilegium” – era stato tra l’altro
prodotto dalla label portoghese Equilibrium Music e aveva offerto all’artista
napoletano l’opportunità di entrare in contatto con alcuni degli ospiti internazionali
che contribuiscono alla buona riuscita di “Respiri”; tra questi la cantante Catarina
Rospo, voce degli apprezzatissimi Dwelling.
La cifra stilistica è quella del folk acustico, invero più legato a una tradizione colta
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Numero Febbraio '06
che non ad uno spontaneismo popolare. Che si manifestino impetuose e travolgenti
o che seguano la via del malinconico intimismo, le composizioni del talentuoso
autore partenopeo godono sempre di arrangiamenti eleganti e compiuti, lasciando
alle sue percussioni ed al violino di Alfredo Notarloberti (Argine) il compito di tessere
le trame più suggestive.
Lodevole è anche l’intento di ampliare gli orizzonti espressivi del messaggio sonoro,
dando spazio a stimoli interdisciplinari che vanno dalla poesia all’arte visiva
(doveroso menzionare l’opera di Kenro Izu raffigurata in copertina) e che certo
innalzano lo spessore artistico del tutto (www.arkrecords.net).
Fabio Massimo Arati
Giorgio Barbarotta
Schegge (di vita propria)
GB Produzioni
Cantautorato classico, semplice, privo di fronzoli; intimista, scritto con il cuore. Si
potrebbe descrivere così la proposta di Giorgio Barbarotta, artista trevigiano che
magari qualcuno ricorderà alla testa dei Quarto Profilo. Ma non solo di musicista si
tratta, ché negli ultimi anni non gli sono mancati consensi e riconoscimenti anche
per l’attività di poeta. Mondi che inevitabilmente si incontrano in questo esordio da
solista, un lavoro estremamente curato nella grafica – una nota di merito per la
splendida confezione – come nei contenuti. A livello formale, ché l’ensemble di
musicisti assemblato dal Nostro (ne fa parte anche Nicola “Accio” Ghedin, batterista
degli Estra) è composto da musicisti ottimamente dotati di tecnica e gusto, così
come a livello compositivo, visto che i brani proposti si distinguono per la leggerezza
del tocco e la solidità di scrittura. Non sempre originalissimi, specie per quanto
riguarda alcune tematiche, ma ben lontani dalla banalità e liricamente assai
equilibrati. Notevoli, in particolare, gli intrecci tra le chitarre acustiche – con
menzione speciale per la sorprendente “Quello che rimane” – e, di tanto in tanto, il
violino, ma piacciono anche le sporadiche incursioni in territori appena più
elettrificati. Davvero niente male, insomma – basti dire che l’unico difetto che
davvero possiamo imputare al CD è l’ora e un quarto di lunghezza totale: un
minutaggio forse eccessivo, sebbene la qualità media dei singoli episodi sia
piuttosto alta (www.giorgiobarbotta.it).
Aurelio Pasini
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Viola
A volte una passione cova per decenni intimamente, fino a farsi largo quando meno
te lo aspetti. È certamente così per Violante Placido, attrice emergente – beh ormai
emersa, si può dire – del cinema italiano, ora anche cantautrice esordiente col
vellutato album “Don’t Be Shy” (N3 Music/Self), realizzato con la complicità di Giulio
“Giuliodorme” Corda. Abbiamo intervistato l’attrice-cantautrice mentre è impegnata
sul set del suo prossimo film.
Dopo la pubblicazione del tuo disco, stai già girando un film con Pupi Avati.
Insomma, la supremazia del cinema non si discute...
La scelta di aver fatto un disco non voleva significare un allontanamento dal cinema.
Certo, nel momento in cui si fanno due cose che assorbono molto, bisogna cercare
di dare una priorità; finora però il destino ha voluto che un impegno non escludesse
l'altro.
È stata solo una parentesi o per te è nata una carriera parallela?
È stata una sorta di sfida molto personale, da una parte un bisogno interiore di
esprimermi e dall'altra un pudore che mi opprimeva e mi frenava, finché ho capito
che la parte più sincera era quella che voleva esprimersi. Se sarà una carriera
parallela lo capirò con il tempo, da marzo mi dedicherò molto alla musica, visto che
è previsto un tour in giro per l'Italia.
Con chi ti piacerebbe collaborare musicalmente?
Mi viene in mente Zamboni, che ho visto ultimamente insieme a Nada, hanno fatto
cose molto interessanti. Con i Marlene Kuntz, per le loro sonorità cupe e suadenti
che, anche se non si avvertono quasi per nulla nel mio disco, mi appartengono. Ma
anche con Gazzè potrebbe nascere qualcosa di più ironico; credo nell'alchimia di un
incontro casuale.
Cosa volevi fare da piccola, l’attrice o la cantante?
Tutte e due le cose, poi crescendo mi ero un po’ allontanata da questa idea, avevo
cominciato uno sport che mi assorbiva completamente. Per me la musica è una
compagna di vita. Quando sono io che suono, diventa la possibilità di entrare in
contatto con la mia parte interiore, in cui mi perdo, mi conosco e mi ritrovo.
Sei attenta alle musiche utilizzate nei film che interpreti?
Sì, sono molto curiosa, e se ho un’idea la suggerisco; a volte ho avuto questa
possibilità. In ”Che ne sarà di noi” ho potuto scegliere il pezzo dei Vines per la scena
in cui ballo al mulino, ne ho suggerito anche uno dei dEUS. In “Ovunque sei”,
mentre giravo, in un negozio ho sentito un pezzo di Ludovico Einaudi, volevo
proporlo a mio padre perché mi evocava le atmosfere del film. Poi ho scoperto che
era stato usato proprio Einaudi.
Cosa ti ha convinto a realizzare un disco?
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È stato un processo lento. È stato anche grazie alle amicizie nate a Pescara e a
quella con Giulio Corda (dei Giuliodorme, NdI), persone con cui stavo bene e con
cui potevo condividere questa passione e una certa affinità. Da lì ho iniziato a
portare sempre una chitarra con me. Negli anni sono nate delle canzoni che poi ho
fatto ascoltare a Giulio e insieme a Paolo Bucciarelli (anche lui ex Giuliodorme, NdI)
abbiamo deciso di buttarci in questo progetto. Giulio aveva lo studio in casa per
poter registrare. Non avrei proposto il mio materiale a una casa discografica con il
rischio di essere trasformata in qualcosa che non mi rappresenta.
Perché solo due brani in italiano? Non mancano i casi di ottimo rock nella
nostra lingua: la Consoli, la Donà, Afterhours, gli stessi Marlene Kuntz...
Volevo osare nella mia lingua, ma per me già l'idea di realizzare questo disco
rappresentava una prova con me stessa. Non ho voluto forzarmi troppo, rischiando
di andare fuori strada. Con l'inglese mi è venuto tutto più naturale e sciolto, ma
piano piano spero di familiarizzare di più con la mia lingua.
Quali sono i tuoi ascolti preferiti?
Da piccola Beatles, John Lennon, Prince, Eurythmics, Suzanne Vega, Police, poi i
Nirvana, per tornare ai più classici Billie Holiday, Hendrix, Battisti e altri: Jeff
Buckley, dEUS, Damien Rice, Sparklehorse, Devendra Banhart, Fiona Apple.
Come ti senti trattata dalla critica musicale?
Sorprendentemente bene e questo mi lusinga, ma anche se le critiche fossero state
più contrastanti le avrei accettate lo stesso, questo per me rimane un progetto
sincero. Sono curiosa di capire se piace anche al pubblico, di solito più istintivo e
sincero.
Ti faccio dei nomi di cantautrici. L’impressione è che da ciascuna di esse hai
preso qualcosa, che traspare dai tuoi pezzi. Cosa pensi di loro e in cosa ti
senti vicina a loro? Chrissie Hynde, Edie Brickell, Suzanne Vega, Tori Amos,
Beth Orton, Carmen Consoli, Cristina Donà.
Grazie per il complimento, sono tutte artiste che stimo, anche se la Orton non la
conosco e su Chrissie Hynde non ho mai approfondito. Di Edie Brickell mi conquistò
“What I Am” ma anche la sua voce un po’ svogliata e grintosa. Di Suzanne Vega
molte canzoni e la voce semplice e trasparente ma incisiva. Con Tori Amos vengo
trascinata in atmosfere più viscerali e passionali, soprattutto dal vivo sembra in
contatto con qualcosa di profondo e quasi soprannaturale. Carmen Consoli in Italia
è l'artista femminile più rivoluzionaria e con più personalità, una grande musicista
anche come autrice dei testi. Di Cristina Donà apprezzo la grazia e le atmosfere
sonore. Di calcolato non c'è nulla sicuramente mi avranno influenzato, dato che i
loro mondi mi hanno emozionato.
Gianluca Veltri
Contatti: www.violanteplacido.com
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Fratelli Di Soledad
I Fratelli Di Soledad sono tornati a calcare le scene da alcuni anni (risale al 2003 il
live “Sulla strada in concerto”), ma “Mai dire mai” (il manifesto) è il primo album di
brani originali da quel “Balli e pistole” che, dieci anni fa, sanciva momentaneamente
la fine di una delle formazioni torinesi storiche. I nuovi Fratelli guardano al passato,
recuperando sonorità calde di origine giamaicana e omaggiando i Clash, ma lo
fanno lasciando da parte la nostalgia. Ecco, nelle parole del chitarrista Giorgio
“Zorro” Silvestri, il presente del gruppo sabaudo.
Siete tornati in attività da alcuni anni, e la prima testimonianza del nuovo
corso documentava il vostro ritorno sui palchi. C'è voluto qualche anno prima
di avere tra le mani un disco di inediti. Immagino che vi siate presi un po' di
tempo per sedimentare nuove storie e nuovi spunti. Come sono nati i brani del
nuovo disco?
I brani del nuovo disco sono nati col tempo, alcuni erano delle bozze scritte in questi
ultimi anni, anche durante i concerti, altre risalgono ad un periodo in cui io mi sono
dedicato esclusivamente alla scrittura. Sono stati arrangiati insieme in sala prove,
dopo che li avevo proposti in versione chitarra e voce. Alcuni sono nati con piano e
voce, con l’aiuto di Gianluca (Vacha, NdI). Racchiudono bene o male tutto quello
che ho vissuto. Parlo in prima persona perché la maggior parte dei testi, tranne un
caso, li ho scritti io: tutte le esperienze, tutti i vissuti di nove anni lontani dalla sala di
registrazione. C’è anche stata, probabilmente, una maturazione nei testi, dovuta alla
crescita e anche ad un diverso approccio agli argomenti. Ad esempio si parla della
morte, tema mai apparso prima nei testi dei Fratelli.
Il nuovo disco mi pare un ritorno al passato, non nel senso nostalgico di un
"come eravamo", ma piuttosto nel senso di un ritorno alle origini musicali, i
Clash e Joe Strummer ad esempio. Contemporaneamente non vi siete sentiti
in dovere di suonare nuovi e al passo coi tempi a tutti i costi. Questo
riallacciarsi al punto di partenza, alla scintilla iniziale, è testimoniato anche da
una ghost-track che credo risalga alle primissime fasi della band.
Effettivamente c’è un ritorno agli inizi. In modo più ricercato, probabilmente, siamo
andati a recuperare le origini della nostra musica. Com’è inevitabile, durante tutti
questi anni i nostri ascolti si sono perfezionati: partendo dal revival ska ci siamo
appassionati allo ska giamaicano degli anni ’60, cercando di riprodurne i suoni. Si
può parlare di ritorno riveduto e corretto, nel senso che abbiamo utilizzato suoni
quanto più possibile originali, qualsiasi stile adottassimo. Io penso che sia
fondamentale per la crescita di un gruppo ascoltare quanta più musica possibile,
non chiudersi, non avere paraocchi. Abbiamo cercato di riprodurre determinate
timbriche perché volevamo rendere omaggio agli artisti che ci hanno insegnato ad
ascoltare la musica. La ghost-track è una dedica al primo cantante in assoluto dei
Fratelli, Adriano, scomparso lo scorso anno. Abbiamo pensato che il modo migliore
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per ricordarlo fosse inserire un brano cantato da lui, tratto dal primo nostro concerto
in assoluto, ad Imperia
Come i precedenti, anche questo è un disco molto legato a Torino, e non
potrebbe essere altrimenti. Dagli spunti di attualità forniti dalle vicende della
Fiat (“Taca Borgnu”, che però si riallaccia alla tradizione, ad una storia
tramandata), a un brano come “I ragazzi escono a piedi”, sembra che vogliate
raccontare una Torino che cerca di sopravvivere ad un momento non
felicissimo, orgogliosa ma non autoghettizzata. Tutto questo in un contesto
preolimpico un po' irreale che a volte invita allo scetticismo. È una
impressione corretta?
Sì, lo scetticismo c’è perché comunque l’Olimpiade dà una visione di Torino forse
troppo influenzata da sponsorizzazioni e business olimpici. A noi piace la Torino di
due ragazzi che, come in quel brano, escono a piedi e la raccontano attraverso una
nottata passata tra un locale e l’altro, nelle vie della città. Il racconto di “Taca
Borgnu” vuole essere una visione romantica della vita difficile dell’operaio. Una
storia tramandata, che ci ha colpiti. Ci piaceva raccontare la Fiat in quel modo.
Lo strumentale “MCQ3188” è l'ennesimo omaggio al cinema: Steve McQueen
in questo caso, laddove in “Balli & pistole” si omaggiava Gian Maria Volonté.
Un certo tipo di cinema che appartiene da sempre al vostro immaginario. C’è
anche un secondo brano strumentale, già eseguito in concerto, dedicato a
Julio Velasco...
Il cinema appartiene da sempre all’immaginario dei Fratelli, e Steve McQueen è
sempre stato un personaggio fuori dagli schemi. Abbiamo cercato di omaggiare una
figura al di fuori dei cliché hollywoodiani, che ogni tanto prendeva moto e sacco a
pelo e andava a vivere dai suoi amici indiani nelle riserve. Come gli Skatalites, che
erano soliti dedicare brani strumentali a personaggi più o meno famosi, noi abbiamo
voluto fare lo stesso con Steve McQueen in “MCQ3188”, che era il suo numero al
riformatorio, e con Julio Velasco. “Velasco” ha parecchi anni, è nata dopo
l’appassionante finale olimpica perso con l’Olanda. Ho deciso di intitolarla così
pensando ad un personaggio anch’esso fuori dagli schemi, un allenatore che era
solito regalare libri ai suoi giocatori. Un personaggio atipico anch’esso, e quindi non
retorico.
Alessandro Besselva Averame
Contatti: www.fratellidisoledad.it
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PuntoG
Li avevamo conosciuti circa tre anni fa, grazie all’album d’esordio “5 gradi di
escursione”, uscito a nome PuntoG Blu. Ora, maturati e con una diversa
formazione, i PuntoG sembrano decisi ad intraprendere una nuova strada, che
lascia da parte le sonorità più ruvide e si muove con disinvoltura fra suggestioni
new-wave e impeto beat. All’indomani della pubblicazione di “Esplode il Mondo Pop”
(Terzo Millennio/Self), ne abbiamo parlato con Gianluca Romele e Sergio Maggioni,
rispettivamente voce e chitarra della band.
Sono passati quasi tre anni dal vostro esordio. Cosa è successo nel
frattempo?
(G) Beh, sono stati anni di assestamento. La formazione ha subito dei cambiamenti,
abbiamo perso qualche membro per strada. La difficoltà è stata proprio lì,
nell’affrontare una serie di difficoltà che proprio non avevamo previsto, e che credo
siano le difficoltà tipiche che una band italiana si trova a vivere. Ci siamo trovati
davvero spiazzati, soprattutto i ragazzi che stavano lavorando hanno un po’
accusato il colpo. Superato questo periodo, che è davvero quello di gavetta,
possiamo affermare di essere molto più maturi. Non è un luogo comune: ci sentiamo
realmente fortificati, sereni, carichi e credo che questo possa essere considerato, in
qualche modo, il nostro vero primo album.
Anche musicalmente sembra che ci sia stata un’evoluzione.
(G) Questo disco, secondo noi, ha una qualità: la compattezza. Ci sono quattro
persone, nella band, ed ognuna ha contribuito in modo determinate. Questo si
sente, ora il nostro sound è maggiormente riconoscibile, maggiormente efficace.
Addirittura, l’ordine delle tracce, rispecchia quasi fedelmente l’ordine di
composizione. Non significa nulla, forse, ma è significativo per rendersi conto dei
passaggi che hanno portato “Esplode il mondo pop” ad essere quello che è. Anche i
nostri ascolti si sono un po’ spostati, per esempio verso la new-wave di fine anni
settanta: credo che in un pezzo come “Quorinrivolta” l’influenza di Pop Group, Virgin
Prunes e altre band della stessa ondata sia chiaramente percepibile. Naturalmente
questo parziale ampliamento delle nostre passioni ha segnato in modo netto la
stesura dei nuovi brani.
(S) Poi, ovviamente, ha giocato la sua parte anche il rinnovato interesse verso quei
gruppi stranieri che si rifanno con molta continuità alle band di quel periodo. Penso
agli Zutons, ai Mando Diao… Credo che, nonostante la piega un po’ triste che ha
preso fenomeno, diventano praticamente di puro revival, da questo calderone di
new rock‘n’roll, siano uscite delle realtà veramente molto interessanti. È stato uno
stimolo importante, abbiamo trovato una strada già aperta, ci siamo lasciati
entusiasmare. Tutto qui.
L’impressione è che, nonostante il tono sempre molto vivace delle vostre
canzoni, in realtà ci sia come una seconda chiave di lettura, ricca di
chiaroscuri. Penso soprattutto ai testi di alcuni pezzi, che sono carichi di
insoddisfazione.
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(G) Sì, e mi piace che questa cosa salti all’occhio. C’è un grande lavoro intorno ai
testi, che mi piace considerare introspettivi ma sociali. E non può esserci nessuna
soddisfazione, analizzando e rappresentando questa realtà: assolutamente volgare,
contraria alla cultura. Sono sensazioni che avevo dentro, sono uscite da sole, così,
mentre scrivevo. Eppure, nonostante questo, c’è un forte uso della componente
ironica, che emerge chiara in pezzi come “Zombie a brandelli”.
Quindi c’è un certo sconforto…
(G) Non potrebbe essere altrimenti. Ci si sente spesso soli. Quando si esce, quando
si accende la TV. C’è un vuoto, c’è una sensazione forte di essere veramente ad un
punto di rottura. E io sono convinto che potrà nascere qualcosa di nuovo solo
rompendo questa situazione terribile. L’Italia si è involuta in modo pauroso, e non mi
stupirebbe un ritorno alla violenza. Non è che mi auspichi questo ritorno, ma
purtroppo lo vedo come una cosa quasi inevitabile.
Una particolarità del vostro lavoro è la cura che avete riservato all’artwork, e
in generale a tutto l’aspetto grafico.
(G) Sì, crediamo sia importante. È estetica, fa parte del complesso. E abbiamo
scelto il fucsia e il nero, per rappresentarci. Non a caso.
Ci sono dei gruppi che sentite particolarmente vicini, per attitudine e
sensibilità?
(G) Potrei dirtene molti, ma la maggior parte di questi sono davvero sconosciuti.
Penso che il panorama italiano abbia un difetto sostanziale, ovvero la mancanza di
comunicazione con un pubblico che non sia quello degli “addetti ai lavori”. Mi
sembra quasi inutile suonare davanti a una platea composto esclusivamente da
musicisti. Questo, insieme ad una certa autoreferenzialità, mi sembra sia il limite
principale del mondo indie. È inutile preoccuparsi di fattori inutili, come l’etichetta
che licenzia il disco, o la provenienza dei musicisti. È molto meglio cercare di avere
una portata più ampia, tentare in qualche modo di arrivare ad un numero maggiore
di persone.
Penso che la vostra partecipazione alla campagna sulla sicurezza stradale
promossa dalla Renault si inserisca in questo discorso. Ci raccontate come è
andata?
(G) È stato tutto molto semplice. Ci hanno chiesto un pezzo, noi abbiamo accettato.
Poi sono subentrate delle complicazioni. Ho dovuto presentare sei progetti diversi,
visto che avevamo idee decisamente differenti. Non volevo che il nostro messaggio
fosse il solito monito, ma che riproducesse in modo reale la situazione. Quando ho
deciso che la stesura era quella definitiva, non c’è stato verso di farmi cambiare
idea. Però si è trattata di una esperienza molto stimolante, soprattutto sotto il profilo
artistico. Anche perché quel pezzo, “Segnali di vita”, in qualche modo può essere
considerato il primo del nostro nuovo corso.
Giuseppe Bottero
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Contatti: www.puntogblu.com
Rosolina Mar
Già con l’omonimo debutto pubblicato poco più di due anni fa i vicentini Rosolina
Mar avevano messo in campo l’efficacia del loro rock strumentale e spigoloso,
emissione di due chitarre e una batteria perfettamente affiatate. I tre – Enrico
Zamboni e Bruno Vanessi alle chitarre, Andrea Belfi alla batteria – si sono spostati,
in occasione del nuovo “Before And After Dinner” (Wallace/Audioglobe), dalle iniziali
suggestioni math-rock e noise per abbracciare una visione più ampia,
comprendente forme funk e rock trasfigurate da una curiosità onnivora e mutante.
Abbiamo parlato con il gruppo di questa evoluzione, e dei presupposti da cui è nato
il progetto.
Il vostro legame con certe influenze di matrice indie americana (diciamo post
e math-rock, per prenderla molto alla larga) resta molto forte ma, al di là di
suoni ed approcci compositivi, il concetto che sottende “Before And After
Dinner” mi pare: “questo genere di musica può (deve?) essere anche
divertente e non va preso troppo sul serio”. Non vi siete fatti nessun problema
a inglobare, questa volta, colori funk e svisate rock che riportano nel pieno
degli anni Settanta, con gli eccessi più "stradaioli" smorzati da un velo di
ironia. Mi pare che, in questo senso, vi siate molto divertiti a scompaginare i
luoghi comuni.
Questa domanda contiene già la sua risposta. Influenze post e math-rock ci sono
nella misura in cui chi si muove oggi nei territori del rock indipendente non può
prescindere da quei suoni e da quei gruppi. Sarebbe una mancanza di curiosità e di
attenzione. Detto questo, siamo convinti di non avere più, ormai, un riferimento
preciso. Si può essere indie senza ricalcare gli stilemi del genere.
Siamo musicalmente onnivori, ci nutriamo di qualsiasi materiale che stimoli
interesse e creatività. In generale, amiamo la musica “primitiva”, i generi colti nel
momento in cui sono nati, come espressione viscerale e originale di un luogo, di
un'epoca e di una cultura. Il nostro intento è di trattare gli strumenti con la
freschezza e l'energia delle origini tenendo i piedi ben saldi nella contemporaneità.
Riallacciandomi alla domanda precedente, un'altra chiave di lettura del disco
sta nell'attitudine cannibale, nel modo in cui avete inserito nel flusso continuo
della vostra musica momenti del passato, citazioni appena accennate. Quasi
come se voleste trasformarvi in una sorta di amplificatore dell'immaginario
musicale collettivo, un amplificatore saturo di distorsione però, che fornisce
un'ottica straniante.
Un rapporto occasionale e non protetto con il nostro disco può dare l'idea di un
patchwork di generi. Possiamo assicurare che nessun pezzo è nato a tavolino e a
mente fredda. Ce li siamo sudati in sala prove provando e riprovando strutture che
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sono nate attraverso l’improvvisazione. I cambi di umore e di “genere” sono arrivati
fisiologicamente, come parti di un unico racconto.
Nonostante l'assenza del basso, mi pare che con “Before And After Dinner”
siate riusciti a dimostrare come il groove non sia una questione tecnica ma
attitudinale. È così?
I Rosolina Mar esistono prevalentemente come gruppo live. Abbiamo un bel po’ di
concerti alle spalle, e l'esperienza ci ha portato a sviluppare energia e dinamicità
indipendentemente dal volume prodotto. Non basta mettere in linea fuzz e distorsori
per suonare forte: bisogna mettere in gioco il proprio corpo totalmente e dare tutto.
“Volume è potere”, ma si può suonare piano ad un'altissima
intensità.
Visto lo schema relativamente libero del vostro approccio compositivo,
immagino che i brani del disco dal vivo siano una sorta di canovaccio sul
quale sviluppare nuove strade e nuovi innesti.
L'approccio di cui parli ha caratterizzato il periodo che ha preceduto e seguito la
nascita del precedente lavoro. I brani di “Before And After Dinner” hanno una
struttura più rigida e precisa, e non sempre è possibile divagare. Dal vivo dipende
dall'umore, da come ci si sente sul palco, dalla risposta del pubblico... un insieme di
fattori inspiegabili che crea le condizioni ottimali per la sinergia e per l'ascolto tra di
noi.
Da dove proviene il gusto surreale - che però rispecchia molto spesso i toni
della musica - per i titoli delle canzoni? Un modo per ovviare all'assenza di
parole e, allo stesso tempo, non dare loro troppo peso?
Alcuni titoli hanno il loro significato, la loro storia, pur non essendo didascalici. Altri, i
più, rispecchiano la nostra voglia di giocare anche con le parole, con la loro triplice
natura di segno/suono/senso.
Questo disco rappresenta una evoluzione del vostro percorso, si sono già
manifestate possibili nuove strade, considerate questo disco il punto di
partenza per una nuova ricerca? Che musica faranno i Rosolina Mar tra un
paio d'anni?
Il nostro percorso assomiglia ad una spirale molto stretta. Siamo al secondo giro e ci
avviciniamo al punto di partenza, l'amore per l'improvvisazione. La prossima tappa è
il punto equidistante tra cuore, pancia e cervello.
Alessandro Besselva Averame
Contatti: www.rosolinamar.com
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Acustimantico
Dopo una trilogia e un ancora recente live (“Disco numero 4”, il manifesto), gli
Acustimantico hanno costruito un canone di musicalità forbita e sincera, trasversale
ai generi, appassionata e ricca di spunti artistici (teatro, letteratura, cinema).
Attitudine confermata dal nuovo lavoro, “EM”, ancora solo teatrale, in cui il gruppo
allargato che accoglie nuovi (e meno nuovi) partner. Ne abbiamo chiacchierato con
Stefano Scatozza, chitarrista e autore delle musiche del gruppo. Gli altri componenti
di Acustimantico sono Raffaella Misiti, Carlo Cossu, Marcello Duranti, Paolo
Graziani, Massimiliano Natale e Danilo Selvaggi.
Impegno e poesia, teatro e musica. Gli Acustimantico non scelgono, non
escludono. Anzi rilanciano.
A chi ci diceva: “Ma come, fate uscire un disco (“Disco numero 4”) a solo un anno
dal precedente”, noi abbiamo risposto scrivendo un lavoro nuovo subito dopo. A
volte siamo un po’ “secchioni”, non lo nego, e ce ne infischiamo delle tanto
decantate logiche di mercato.
“EM”, vostro nuovo spettacolo, è un recital tematico, un concept teatrale,
poetico e musicale. Ce ne parli?
Danilo Selvaggi, autore dei nostri testi, ci ha fatto conoscere un personaggio
straordinario vissuto tra la fine dell’800 e la metà del’900. Un poeta italiano,
Emanuel Carnevali, diventato nei pochi anni di vita da migrante in America, uno
degli esponenti più grandi della “lost generation” americana del primo ‘900. Da
questo interesse è nata la canzone “Emanuel Carnevali va in America” (su “Santa
Isabel”, ndr) e poi “EM”, un lavoro che potremmo definire un “reading teatrale con
orchestrina dal vivo”. Acustimantico è accompagnato da Andrea Satta (voce
narrante), Luca De Carlo (tromba), ambedue dei Têtes De Bois, Andrea
Pagani al pianoforte, e Andrea Avena al contrabbasso.
Da questa esperienza nascerà un disco?
È presto per dirlo. “EM” è un work in progress. Dopo la molto incoraggiante
anteprima all’Auditorium di Roma, io e Danilo ci rimetteremo al lavoro di matita e
gomma per migliorarlo. Per il momento è un evento “live”, lo “sviluppo teatrale di
una canzone”.
Anche il vostro ultimo album, “Disco numero 4”, è un live. Di solito i dischi
dal vivo rappresentano delle cesure in una carriera artistica. Per voi ha
segnato la fine dell’autoproduzione e l’inizio di un rapporto con una scuderia.
Certamente stiamo vivendo una transizione e desideriamo esplorare nuovi territori.
“EM” è uno di questi. Ci sarà un quinto disco che aprirà forse una seconda trilogia.
L’argomento che tratterà è dei più appassionanti ma, come puoi immaginare, è
segreto. Ci piacerebbe che il rapporto con il Manifesto continuasse per una nuova
produzione insieme. Ci siamo trovati piuttosto bene, hanno un grande rispetto per
l’autonomia degli artisti, merce rara di questi tempi.
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Numero Febbraio '06
Ci racconti come avviene il momento della composizione, con te principale
responsabile delle musiche e un paroliere “esterno” come Danilo Selvaggi?
Danilo è tutt’altro che “esterno”. È esterno al palco, ma per il resto partecipa
attivamente alla vita del gruppo. Non ti nascondo che spesso abbiamo adottato idee
arrangiative venute in mente a lui. Pur non suonando, ha una cultura musicale vasta
ed eclettica. La composizione è frutto di un lungo lavoro di gestazione in cui io e lui
ci confrontiamo. Essere molto amici ci aiuta a trovare uno sguardo comune sulle
cose, pur nella diversità di carattere e gusti.
Si mette sempre in fila una catasta di generi, quando si parla di voi: folk,
balcanica, klezmer, tango, etno-world, autore, teatro-canzone, jazz, pop
d’avanguardia. Se dovessi inventare un genere per gli Acustimantico, cosa
diresti?
Esiste uno in Italia che è riuscito a trovare una definizione assolutamente azzeccata,
“musica obliqua”. Il caso vuole che quell’“uno” sei tu. Perché dovrei rimetterci le
mani? Scelgo “musica obliqua”. Si può?
Accordato. Sapresti indicare qualcuno che vi ha indicato il cammino, in
questi primi otto anni di carriera?
Molti, e non solo musicisti. Da De André a Battiato, a Björk e Sainkho ma anche
Daniele Sepe per il desiderio di ricerca, a Pasolini, Borges, Carnevali, per la poesia
e l’impegno sociale, a Mercedes Sosa, Silvio Rodriguez, Astor Piazzolla e Victor
Jara per ragioni diverse ma ugualmente sudamericane, a Marina Abramovic e alla
tragica allegra follia delle sue performance, al tanto cinema visto e discusso
insieme.
Quali sono gli ascolti preferiti di ciascuno di voi?
Ascoltiamo tutti cose diverse e un po’ di tutto. Di musica meravigliosa ce n’è
talmente tanta che mi dispiace sintetizzare: è più facile che ti dica cosa non
ascoltiamo sicuramente: Gigi D’Alessio, Max Pezzali, Eros Ramazzotti, Laura
Pausini… ne vuoi altri?
No, basta così! Si parla spesso dell’apporto che la musica può dare alla
società, di quale incidenza può avere una canzone sulla realtà. Qual è la tua
esperienza e la tua opinione?
Una cosa molto bella è leggere e rispondere alle e-mail che ci arrivano all’indirizzo
[email protected]. Una cosa piccola come una canzone può muovere
energie profonde. In questo sono importanti il testo quanto la musica, la voce di
Raffaella (Misiti, NdI) e i suoni di ognuno. Il fatto che molte persone conoscano i
brani a memoria e li cantino con noi nei concerti mi fa sentire responsabile e mi
impone riconoscenza e attenzione. La cultura è tutto ciò che ci resta, dopo
l’affossamento di economia, politica, sensibilità sociale, e ahimé, democrazia. Chi fa
arte ha la possibilità di ri-attivare micro-pezzettini dell’anima collettiva, ma non deve
stupirsi se il mercato, dominato da pochi monopolisti e dai pubblicitari, lo emarginerà
e censurerà. Ci vuole un po’ di follia e cocciutaggine, e anche un grande amore per
la musica e la libertà.
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Gianluca Veltri
Contatti: www.acustimantico.it
Appaloosa
Dopo il debutto omonimo nel 2002 e un cambio di etichetta, esce ora per la Urtovox
(con distribuzione Audioglobe) “Non posso stare senza di te”, secondo album degli
Appaloosa. È un peccato non riuscire a rendere l’accento e i modi colorati attraverso
i quali Niccolò Mazzantini, che della band livornese è bassista e chitarrista, parla
delle origini del gruppo e dell’evoluzione del suo suono, assestatosi attorno ad una
formula strumentale nella quale alle suggestioni tipiche del post-rock si sono
aggiunte quelle provenienti dall’elettronica. Poco male, comunque, perché per
divertirsi bastano le dieci tracce contenute nel disco, dove agli intellettualismi tipici di
una proposta del genere si sostituisce una fisicità debordante e un groove che non
potrà fare a meno di spingervi ad alzare i culetti dalle sedie e – ma sì! – mettervi a
ballare.
La storia degli Appaloosa passa attraverso vari cambi di formazione e
altrettanti mutamenti nella vostra proposta musicale. Puoi riassumercela
brevemente?
Non è mica facile! Siamo partiti in quattro, con il classico assetto
chiarra-basso-voce-batteria, tipico di ogni rock band. Eravamo piccini, avevamo
diciassette anni, e il nostro sound era molto influenzato dal grunge. Poi abbiamo
iniziato ad avvicinarci a gruppi come i Primus, cominciando a usare la voce soltanto
per alcune parti recitate all’interno delle canzoni, fino ad arrivare ad abolirla
completamente nel 1998, quando siamo rimasti in tre. Nel 2000 è entrato nel gruppo
il nostro attuale batterista, Marco Zaniniello, e nel 2002 abbiamo pubblicato il nostro
primo disco grazie a Ondanomala, l’etichetta che fa capo ad Arezzo Wave.
…ma non finisce qui!
Assolutamente no! Due anni fa si è aggiunto a noi Simone di Maggio, che si occupa
principalmente delle parti elettroniche. Il nostro scopo è quello di costruire pezzi
d’impatto, fondendo la componente fisica del rock con quella elettronica, e con il suo
ingresso nel gruppo il nostro suono sta assumendo un’identità sempre più precisa.
E a tutti quelli che hanno già catalogato gli Appaloosa alla voce math-rock
cosa rispondete?
Gli Appaloosa sono un gruppo rock, niente di più e niente di meno. Il fatto è che le
nostre canzoni, spesso, sono costruite “a blocchi”: otto giri, poi dodici, poi ancora
otto, e via così. Ecco, forse questo si chiama math-rock, ma il punto è che io del
math-rock non conosco neanche la definizione! E se me la dici, non saprei indicarti
neanche un gruppo che suona math-rock. Mica è roba tipo i Couch?
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Tra le vostre influenze citate NoMeansNo, Shellac, Kraftwerk e Aphex Twin.
Nessun riferimento a nomi come i Rapture, protagonisti dell’attuale revival
della scena dance-rock.
Non potrebbe essere altrimenti visto che, anche se è stato registrato a maggio,
questo disco bolle in pentola da quasi due anni. I Rapture mi piacciono, ma li ho
scoperti da poco. Musicalmente le nostre influenze provengono dagli anni ‘70 di
Zappa e del prog-rock meno deleterio (Soft Machine, King Crimson), e da band più
moderne come i Fugazi, piuttosto che dalla attuale scena electro-rock. I nostri pezzi
nascono in sala prove, a partire dall’improvvisazione, e non ci poniamo il problema
di appartenere a una scena o a un genere preciso. Cerchiamo di sviluppare un
sound tutto nostro, anche se – è ovvio – non si tratta di inventare niente di nuovo. I
nostri brani sono molto diversi tra loro, per questo è facile quindi trovarci dentro le
influenze più disparate. Trovo sia bello, però, riuscire a far convivere canzoni
diverse tra loro anche all’interno dello stesso album.
Come descriveresti allora il suono degli Appaloosa, senza tirare in ballo
paragoni ingombranti?
Direi che cerchiamo di costruire un tappeto dinamico sul quale gli strumenti a corda
si sovrappongono, passano uno sopra all’altro e si intrecciano per riempire di colori
e di pennellate diverse ogni singolo brano. Ogni pezzo nasce con l’intento di
trasmettere una sensazione precisa, anche se poi ogni persona deve potersi
identificare al suo interno come più gli piace.
È raro ascoltare musica dalla struttura “geometrica” come la vostra associata
a un suono così caldo e naturale.
Il nostro problema più grande è sempre stato quello di riuscire a mettere su disco il
suono che tiriamo fuori dal vivo. A tal proposito, è stato importante entrare in studio
di registrazione dopo aver abbondantemente provato i pezzi in sala prove, in modo
tale da averne la completa padronanza. I bassi e la batteria del disco sono stati
registrati tutti in presa diretta, e soltanto nei pezzi più elettronici le tracce di organo e
synth sono state sovrapposte in un secondo momento. Anche in quei casi, però,
abbiamo cercato di filtrare tutti i suoni attraverso degli amplificatori valvolari. Avere
Giulio Favero in cabina di regia, in questo senso, è una garanzia. È come prendere i
tuoi soldi e metterli in banca, al sicuro. Finalmente, si può dire che dentro questo
disco c’è il suono degli Appaloosa, in tutta la sua ruvidità e in tutte le sue sfumature.
Molti dicono che l’ironia degli Appaloosa sia da ricercare nel contrasto tra la
musica che propongono e i titoli di canzoni come “Brigidino” e “Metal alle
Hawaii”. Io, però, ascoltando “4 Women” non posso fare a meno di pensare a
un b-movie degli anni ‘70 con Tomas Milian…
Certo, noi l’ironia proviamo a mettercela anche dentro le canzoni! I titoli, poi… beh,
quelli sono casuali. “La Roby”, per esempio, è una tipa che vive a Livorno. Forse è
straniera, non lo so con precisione. Lei è una punkabbestia assurda, ed è una
persona ignorantissima. La chiamano tutti “la Robbby”: devi pronunciarlo proprio
così, con tre “b”, la voce aggressiva e una mano che graffia. Ecco, poiché il nostro è
un pezzo molto dolce, abbiamo pensato di dedicarglielo con tutto il cuore! Durante i
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nostri concerti, usiamo delle videoproiezioni per ogni canzoni. Si tratta di video
realizzati dal nostro amico Martino Chiti e da Marco, il nostro batterista. Il video de
“La Roby”, ad esempio, è la storia-documentario di un gabbiano che arriva in Piazza
della Repubblica, a Livorno, e si mangia un piccione vivo, svuotandolo come un
uovo di Pasqua. Bello, no?
Enzo Zappia
Contatti: www.appaloosarock.net
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(P)itch
Centro Sociale Spartaco, Ravenna, 13/1/2006
Per un gruppo come i (P)itch, spentosi in gloria dopo appena due dischi, la data del
Centro Sociale Spartaco poteva essere una buona occasione per riprendere le fila
di un discorso iniziato con le giuste premesse nel ‘97 e interrottosi inaspettatamente
due anni dopo. In parte perché la dimensione live si era rivelata in più di
un’occasione un asso nella manica per i suoni anoressici ma coinvolgenti della
band, in parte perché il materiale proposto, pur nella sua semplicità, aveva saputo
conquistarsi, nel tempo, consensi sempre maggiori.
Quale sorpresa quindi, nell’apprendere che la re-entry dei (P)itch, oltre a non
prevedere alcuna incursione in “Bambina atomica” o “Velluto”", sceglie
coscientemente di abbandonare la lingua di Dante schierandosi a favore di
dichiarate passioni anglofone. Una scelta – temporanea? – accompagnata da una
netta sterzata nei suoni, che nello specifico, donano nuova dignità ad un’attitudine
noise presente anche in passato nelle corde del gruppo ma sempre soffocata in
favore delle più marcate inclinazioni punk.
Geometrie strutturate, elargizioni generose di dissonanze, brani sopra i tre minuti,
smaccata propensione al dialogo tra i musicisti: questi sembrano essere i punti fermi
dei nuovi (P)itch, che si debba parlare per il gruppo di vera e propria rifondazione o
semplice reunion. Una seconda vita artistica di cui è impossibile valutare i pro e i
contro nell'immediato, né garantire il lungo corso, ma che sembra comunque
dimostrare una ritrovata armonia e voglia di mettersi in gioco.
Fabrizio Zampighi
Amari
Jail, Legnano (MI), 20/1/2006
Una band sulla bocca di tutti, gli Amari. Nonostante il recente “Grand Master Mogol”
sia il loro quarto disco, è il primo che li sta davvero facendo conoscere in giro per
l’Italia. Merito sì del tam-tam mediatico che dalla scorsa estate ha investito
nell’ordine blog, webzine e riviste, ma anche di un lavoro sorprendente per qualità di
scrittura e nitidezza sonora. Il risultato è un Jail non pienissimo ma discretamente
popolato da un’attenta platea di appassionati di indie nostrano, pronta a cantare e
ballare per l’ora abbondante di concerto proposto dai cinque friulani. Ovviamente,
“Grand Master Mogol” domina la scaletta, con buona parte di quei brani che i
presenzialisti spillettati già mandano a memoria: “Bolognina Revolution”,
“Conoscere gente sul treno”, “Tremendamente belli”, “La prima volta”. Quello che
stupisce, nonostante l’acustica non certo magnanima del Jail, è la padronanza con
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cui la band gestisce il proprio ricco patrimonio sonoro. Ogni canzone viene replicata
in ogni sua piccola sfumatura: dalle chitarre distorte ai fruscii figli di una certa
indietronica alla 13&God.
Ma, alla fine, che musica fanno gli Amari? Definirlo hip-hop solo per le parti rappate
sarebbe riduttivo, perché gli arrangiamenti sono figli della musica indipendente a
tutto tondo che include sicuramente degli elementi di certo rap oltranzista (tipo
cLOUDDEAD), ma toccano anche territori cari a un post-rock prima maniera (la
bellissima “Whale Grotto”). E il tutto viene riproposto con efficienza e
consapevolezza dei propri mezzi. Forse troppa. L’unica cosa che si può contestare
agli Amari è appunto una mancanza pressoché totale di ingenuità e naïveté,
che genera un certo distacco col pubblico – che non sono certo le centinaia di
palloncini presenti sul palco a diminuire.
Hamilton Santià
Der Bekannte Post-Industrielle Trompeter
Linux Club, Roma, 11/1/ 2006
Der Bekannte Post-Industrielle Trompeter: era senz’altro ironico il leader dei Der
Blutharsch, Albin Julius, quando attribuì l’epiteto di notorietà al nostro Flavio
Rivabella. In effetti, considerate le deliranti sperimentazioni a cui si sarebbe poi
prestato il trombettista nei propri percorsi da solista, tutto gli sarebbe potuto capitare
ad eccezione del diventar famoso. Che poi l’artista romano si sia un po’ montato la
testa è un altro paio di maniche.
Fatto sta che da due anni a questa parte le sue allucinate visioni hanno trovato
estimatori un po’ ovunque: dal Canada, dove è stato prodotto il suo ultimo album
intero (“The Outstanding Story Of Mr. Mallory”), alla Germania. Recentemente
proprio sul mercato teutonico sono stati immessi due split con la band di Brema
F.T.B.D.: un primo su vinile a 45 giri e un altro a tiratura limitata su doppio cd a 3”,
peraltro realizzato con una confezione sbalorditiva studiata appositamente per
mandare i collezionisti fuori di testa.
Ma il Bekannte ha saputo raccogliere anche la benevolenza dei suoi colleghi più
istrionici, aprendo il progetto ad ogni sorta di collaborazione: tra le note dei suoi
dischi, infatti, ricorrono spesso i nomi di Lendormin, Novy Svet, Mushroom Patience,
Marco Deplano, ClauDEDI, Madrigali Magri, ecc.
Per il concerto al Linux – piuttosto gremito, se non altro per l’intervento di amici e
colleghi – la line-up godeva della presenza di Consuelo, già voce di Pulcher Femina,
per l’occasione conciata con un toppino artigianale sostenuto da nastro isolante
nero (ingegnosa soluzione fetish non proprio adeguata alle forme longilinee della
ragazza). Il Rivabella ha indossato il suo ultimo modello di occhiali psichedelici e ha
iniziato a dispensare storture minimali per circa un’ora. Bisognava starci. E in fondo,
nel bene o nel male, è stato divertente.
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Fabio Massimo Arati
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