Numero Ottobre '05
EDITORIALE
PREMIO “FUORI DAL MUCCHIO” - LE 35 NOMINATION
ADDAMANERA - Nella tasca de il zio (Lizard/Audioglobe)
AGATHA - Greetings From S.Sg. (Wallace/Audioglobe)
AIDORU - 13 piccoli singoli radiofonici (Snowdonia/Audioglobe)
ARDECORE - Ardecore (Il Manifesto)
ARTEMOLTOBUFFA - Stanotte/Stamattina (Aiuola/Self)
BACHI DA PIETRA - Tornare nella terra (Wallace/Audioglobe)
BANDA DEI FALSARI - Il caso (Ethnoworld/Venus)
BIKINI THE CAT - Cold Water Hot Water Very Hot Water (La Matricula/Venus)
CAMERA 237 - Vectorial Maze (autoprodotto)
CHOMSKI - Chomski (Stoutmusic/Audioglobe)
CINEMAVOLTA - Weekend (Casasonica/Emi)
C.V.D. - Test di resistenza all’onda d’urto (Eclectic Circus)
DEEP END - Kiss The Light Goodbye (Fratto9UTS-Zahr/Goodfellas)
DISCO DRIVE - What’s Wrong With You, People? (Unhip/Wide)
E42 - Libera (Subhuman/Self)
HORMIGA - Shore (Ghost/Audioglobe)
IN MY ROOM - Saturday Saturn (Suiteside/Audioglobe)
THE INTELLECTUALS - Black! Domina! Now! (Hate)
ALESSIO LEGA - Resistenza e amore (Black Nota)
LOMBROSO - Lombroso (Mescal/Sony)
LOMÈ - Fiori su Marte (L’Eubage)
LO.MO. - Camere da riordinare (Desvelos/Audioglobe)
MANIACI DEI DISCHI - Hey Presto! (Temposphere/Self)
VERONICA MARCHI - Veronica Marchi (La Matricula/Venus)
MELLONCEK - Melloncek (Ghost/Audioglobe)
MIURA - In testa (Volume/Edel)
NON VOGLIO CHE CLARA - Hotel Tivoli (Aiuola/Self)
OFFLAGA DISCO PAX - Socialismo tascabile (Santeria/Audioglobe)
PORT-ROYAL - Flares (Resonant/Goodfellas)
SCUOLA FURANO - Scuola Furano (Riotmaker)
SIKITIKIS - Fuga dal deserto del Tiki (Casasonica/Emi)
SQUARTET - Squartet (Jazzcore)
STRIPPOP - Factory (Hkw/Venus)
SUPER ELASTIC BUBBLE PLASTIC - The Swindler (Redled/Self)
VALERY LARBAUD - Altro non è rimasto (Acide Produzioni/Venus)
Come ogni anno di questi tempi a partire dall’ormai lontano 1998, lo staff di Fuori
dal Mucchio (più alcuni ospiti) si trova ad assegnare il suo Premio riservato al
miglior album d’esordio della precedente stagione discografica; Premio che, com’è
risaputo, si svolge con il patrocinio del Meeting delle Etichette Indipendenti di
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Ottobre '05
Faenza, e proprio al MEI viene consegnato - sotto forma di una targa-ricordo nell’ambito del più ampio contesto del PIMI.
Pressoché identica al solito la procedura. Tra i numerosissimi “primi album” (non
“mini”) usciti sul mercato fra il 1 settembre 2004 e il 31 agosto 2005 abbiamo
selezionato i trentacinque - cinque in più dello scorso anno - che ritenevamo più
meritevoli. I titoli in questione sono quindi stati sottoposti ai giurati, che indicheranno
cinque preferenze ciascuno; il disco vincitore sarà, ovviamente, quello che
raccoglierà più voti, e che si imporrà all’eventuale, successivo ballottaggio in caso di
parità. Nel ricordare che le precedenti sette edizioni hanno registrato le affermazioni
di Santa Sangre (“Ogni città avrà il tuo nome”), Lalli (“Tempo di vento”), Baustelle
(“Sussidiario illustrato della giovinezza”), Giardini di Mirò (“Rise And Fall Of
Academic Drifting”), Valentina Dorme (“Capellirame”), es (“The Mistercervello ep”) e
Methel & Lord (“Pai Nai”), elenchiamo anche i componenti della giuria: Fabio
Massimo Arati, Alessandro Besselva Averame, Giuseppe Bottero, Emiliano
Colasanti (Losing Today), Gianni della Cioppa, Loris Furlan, Andrea Girolami
(Loser), Federico Guglielmi, Fausto Murizzi (Rockit), Francesca Ognibene, Aurelio
Pasini, Gabriele Pescatore, Gianluca Polverari (Radio Città Aperta), Marina Pierri,
Giorgio Sala, Hamilton Santià, Eliseno Sposato (Radio Libera Bisignano), Gianluca
Veltri, John Vignola, Enzo Zappia. I risultati saranno comunicati sul numero di
novembre del Mucchio e sul nostro sito.
Federico Guglielmi
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Numero Ottobre '05
L’insolita compilation
L’insolita compilation
Pippola Music/Goodfellas
Sarà anche questione di gusti, ma certo Pippola non è proprio il nome più felice che
si possa scegliere per un’etichetta. Un’etichetta che per giunta si propone di essere
seria, rigorosa, accurata. Cosa che tra l’altro è veramente, a sentire questa “Insolita
compilation”. C’è infatti del buon materiale qua in mezzo. Giova sicuramente la
presenza del nume tutelare Gianni Maroccolo (presente in prima persona con una
creazione dal piglio ambient-rumorista) che nelle note viene identificato come
originatore dell’idea e del concetto che sta alla base di questa compilation. Nulla di
geniale in sé: la varietà stilistica, l’elettronica dal tocco umano, eccetera eccetera; a
fare la differenza in senso positivo è la qualità media, che è alta in molte tracce. Si
può ricondurre tutto all’indietronica volendo, ma sarebbe riduttivo. Perché la varietà
stilistica di cui sopra evita che si cada nei soliti cliché alla
ma-quanto-ci-piace-il-disco-dei-Notwist, e anche le parti dove l’elettronica si fa esile
o rumorista arriva ad un certo punto sempre qualcosa che evita la pozza della noia.
Spendiamo quindi buone parole per IG, Blume, Pt-r, per gli stessi Maroccolo e
Favati; rimandiamo solo gli A.M. Boys (l’electro anni ’80 bella e sostenibile è quella
di Marco Passarani, non la loro) e Cpt. Nice, bravo in “Linea di Venere” ma
leggerino e banale in “Electronic Dancer”. Nota di merito finale per l’ottima e
visionaria versione a più mani della morriconiana “Indagine su un cittadino al di
sopra di ogni sospetto”: bella, bella davvero (http://www.pippolamusic.com/).
Damir Ivic
Sun Eats Hours
The Last Ones
Sun Media/Rude
Anche se da queste parti abbiamo sempre tifato per loro, non era facile
sinceramente credere che, nel giro di tre album, i vicentini Sun Eats Hours
potessero arrivare a tanto. "The Last Ones", questo il nome della nuova fatica, verrà
infatti distribuito in quattro continenti, ed è la prima volta che capita a una band
nostrana. Un lavoro, questo, che osa parecchio e su più fronti, a partire da quello
produttivo, con una registrazione che non teme il paragone con le migliori cose
d'oltreoceano. Ma è sulla musica che si nota maggiormente il salto qualitativo
compiuto da Lore e soci: non una stantia ripetizione di un cliché, quello dell'hardcore
melodico, ormai logoro, quanto piuttosto una ricerca a 360° di spunti musicali,
ricerca portata a compimento in queste quattordici tracce. C'è spazio così per la
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melodia di "July, 27th" o per le accelerazioni di "Endless Desire", e salutiamo con
piacere anche un testo certo originale come "Letters To Lucilio". Molti i particolari su
cui soffermarsi, e anche dalla cura degli arrangiamenti si comprende come per i Sun
Eats Hours questo sia un passo molto importante, un passo compiuto con la volontà
di portare la propria musica molto lontano, ma anche con la consapevolezza che le
uniche cose che pagano, nell'arte come nella vita, sono quelle fatte con convinzione
e passione. E "The Last Ones" queste qualità le possiede tutte, unite ad una
manciata di ottimi pezzi: si poteva chiedere di più? (www.suneatshours.com).
Giorgio Sala
Mariano Deidda
L’incapacità di pensare
Zelda Music/Sette Ottavi
Gaudio per fini palati, arriva il terzo episodio della trilogia pessoiana di Mariano
Deidda. Nuovi frammenti di prosa inquieta, a settant’anni dalla morte dello scrittore
di Lisbona. Tutte le tinte e le tonalità del “desassossego”, quel tedio triste e ansioso
che pervade le pagine di Fernando Pessoa e della folla multipla dei suoi eteronimi.
Fini palati, ma anche orecchie disposte ad adagiarsi sulle malinconiche note che i
versi richiedono. Come sostiene nel booklet Luciana Stegagno Picchio, studiosa di
Pessoa, la musica e la voce di Deidda si soffermano “davanti a ogni strofa come
uno specchio sonoro, come una eco capace di riprodurne in un altro linguaggio le
impennate intuitive”.
Nei solchi de “L’incapacità di pensare” si respira lo stesso dolente esilio esistenziale
degli episodi precedenti, quel che viene definito “incompetenza verso la vita
comune” da Antonio Tabucchi, traduttore di Pessoa e quindi anche di questi versi.
Le parole di Pessoa qui misteriosamente si completano, perché il progetto del
musicista sardo è dettato da amore profondissimo, ma anche da perfetta sintonia e
rispetto. Le musiche composte insieme al pianista Nino La Piana vengono
impreziosite dalla fisarmonica di Luca Zanetti e dal lussuoso contrabbasso parlante
dell’ex Weather Report, Miroslav Vitous (www.marianodeidda.com).
Gianluca Veltri
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Numero Ottobre '05
Hell Demonio
Greatest Hits
Wallace/Audioglobe
A dispetto di una “non immagine” pubblica che sembra far riferimento alla teoria
dell’oscurità di residentsiana memoria e di una sana - ma anche ironica - arroganza
che li spinge a debuttare con un sedicente “greatest hits”, gli Hell Demonio partono
da un onestissimo e trasparente proposito: tornare al rock’n’roll nelle sue più
elementari particelle costitutive. Aiutati da Fabio Magistrali, i cinque sconosciuti (si
chiamano tutti Hell Demonio, appellativo seguito da una numerazione progressiva:
della sola Hell Demonio n. 5 si conosce il “nome”, Black Beauty Cowbell) riescono
agevolmente nell’intento. Non sappiamo se credere al fatto che, alla nascita del
progetto nel gennaio dello scorso anno, tre componenti su cinque non avessero mai
suonato uno strumento. In ogni caso sono cresciuti molto in fretta, arrivando a un
suono grezzo quanto tecnicamente impeccabile, che raccoglie in una formula
concisa punk, hardcore, r’n’r, il tutto alimentato da nutriti ascolti a base di Germs,
AC/DC, Stooges e una buona parte di epigoni e seguaci attivi a partire dagli anni
Novanta. Zero novità, ma questo era sottinteso. In compenso in “Greatest Hits”
trovate passione, sudore, chitarre senza fronzoli, punk’n’roll della migliore qualità.
Dovrebbe bastare (www.helldemonio.com).
Alessandro Besselva Averame
(P)neumatica
Ultimi attimi
Desvelos/Audioglobe
Tante volte la scelta del produttore (o co-produttore) la dice lunga su un gruppo, sul
suo approccio, anche solo sul suo gusto. Da questo punto di vista, i sardi
(P)neumatica sono semplicemente inattaccabili. Se, infatti, il loro omonimo disco di
esordio del 2003 vantava la presenza in cabina di regia di François R. Cambuzat e
Chiara Locardi, ovvero L’Enfance Rouge, per realizzare “Ultimi atti” è stato chiamato
Giorgio Canali. Il che è sintomatico non solo della scelta di continuare lungo la
strada di un rock nervoso e senza compromessi, ma anche di una evoluzione ben
precisa. In altre parole, l’impressione è che il quartetto abbia acquistato una
maggiore compattezza, che si traduce in composizioni forse più lineari e
relativamente prevedibili rispetto al passato, ma anche più potenti e meglio
riproducibili dal vivo. In particolare, il brano che inquadra la cifra stilistica della band
è “Nuda dentro”: chitarre sull’orlo della dissonanza, una strofa dalle convincenti
strutture melodiche, arrangiamenti che, pur muovendosi su una falsariga ben
definita (vengono in mente i Valentina Dorme come certe cose dei Marlene Kuntz),
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riescono a non suonare troppo calligrafici, ma anche un eccesso di enfasi nel
cantato del ritornello. Ecco, proprio questo pare essere il principale difetto del
lavoro: una voce che, quando eccede in rabbia, finisce per risultare un po’ troppo
sopra le righe (il recitativo in “Senza ombra”, “Considerazioni”). Sono comunque
cedimenti momentanei, ché l’insieme non fatica a convincere, anche negli episodi
più d’atmosfera (www.p-neumatica.it).
Aurelio Pasini
Gea
Baillame generale
Il re non si diverte/Audioglobe
Chi si è trovato a formare una band tra la metà e la fine degli anni ’90,
esplicitamente o no, ha subito gli stessi influssi di decine di altri ragazzi: il grunge, il
post-grunge, il crossover degli inizi. Insomma, a meno di non essere succubi delle
mode più apertamente commerciali, da quei pilastri non si scappava. Stava poi al
gruppo limare le influenze per non diventarne stucchevole fotocopia.
Parlando di rock in italiano, sono tanti i nomi di formazioni che, in questi ultimi tempi,
si sono avvicendate unendo a riff decisi e di chiaro stampo “american” testi in
italiano a uso di voci a metà tra la melodia nostrana e le urla di seattleiana memoria.
Non ultimi i Gea, che con “Baillame generale” giungono al loro terzo lavoro - nonché
primo numero di catalogo per la lombarda Il re non si diverte - confermando il loro
stile fatto di rock dalle sfuriate elettriche e ritmiche determinate. Un’attitudine che
favorisce un cantato che salta all’orecchio grazie a un’enfasi e una personalità
capaci di far perdonare certi passaggi lirici un po’ farraginosi. Ancora incerti su quale
strada imboccare definitivamente - la psichedelia “pesa” alla Motorpsycho? L’hard
rock mutante alla Mike Patton? Le svisate noise dei Sonic Youth? - e protagonisti di
una lunga lotta per essere qualcosa “di più” rispetto agli altri, i Gea compiono nuovi
passi avanti. Starà a loro cercare di maneggiare al meglio quanto fino a qui raccolto
per evolversi e diventare qualcosa di veramente speciale, cercando di non cadere
nell’ovvio e nel banale perennemente in agguato dietro l’angolo (www.geaband.it).
Hamilton Santià
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Numero Ottobre '05
Foresta di ferro
Bury Me Standing
Hau Ruck/Tesco
L’immaginario crudele e cruento a cui si sono ispirati i Foresta di ferro per il loro
album di debutto è facilmente riconducibile alle tendenze nostalgico-militaresche
caratterische del movimento post industriale, dai Death In June ai Der Blutharsch.
D’altro canto, il gruppo nasce proprio dall’incontro di tre artisti assai noti in questo
ambito: John Murphy, batterista e manipolatore elettronico, attivo sin dai primi anni
’80 al finaco di SPK, The Associates, Current 93 altri; Richard Leviathan, chitarrista
già titolare dei progetti Strenght Torough Joy e Ostara ma conosciuto soprattutto per
la sua collaborazione con il Douglas Pearce di Kapo!; Marco Deplano, terrorista del
suono e noto agitatore della scena nostrana, a cui probabilmente possiamo
attribuire sia la paternità, sia l’approccio stilistico di questo sodalizio.
“Bury Me Standing” vede la luce all’indomani di un singolo e di una manciata di
collaborazioni che hanno suscitato molte aspettative. Gli otto episodi di questo bel
digipak si dividono tra mantra rumortisti (su tutti la cover di “Kshatrya”, già apparsa
sul tributo agli Ain Soph) e aggraziate ballate acustiche (una menzione la merita
certo “Oak Leaf”, in cui prevale l’ascendente neo folk di Leviathan). Tuttavia, seppur
nella dignità di un album compiuto e ben confezionato, nulla trascende strategie
sonore per lo più abusate e parimenti interpretate da molti altri esponenti del settore.
Solo nella conclusiva “Seppelliscimi in piedi”, canto austero e drammatico di una
generazione sconfitta ma indomita, il trio apre a scenari espressivi meno frequentati
e forieri di imminenti sviluppi creativi ([email protected]).
Fabio Massimo Arati
Anima
Anima
Gas Tone
Gianfranco Salvatore è uno di quei personaggi di cui non necessariamente conosci
il nome, ma che sta dietro a molti fenomeni importanti. Uno è il Festival della
Taranta; un altro è la Piccola Orchestra Avion Travel, che Salvatore tenne a
battesimo prima che il gruppo spiccasse il volo. Dopo anni in cui si è dedicato a
studiare e scrivere, Salvatore è tornato dall’altra parte. Ha imbracciato l’oud e
messo su l’ensemble Anima, che debutta adesso con l’album omonimo (per la
neonata etichetta Gas Tone).
“Anima” incarna “il nuovo suono del Salento”, che è tarantella e elettricità, passati
ancestrali e incursioni nella modernità. La convivenza di linguaggi è introdotta già
dal primo episodio, dove voci femminili chiedono “Addùi ti pizzicàu la tarantella?” su
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una melodia di rock mediorientale rubata al vecchio brano dei Led Zeppelin
“Friends”. Si prosegue con trip-hop che unisce Lecce a Bristol, jazz-rock, alternanze
di Miles Davis a tradizionali salentini come“Rirollalla” e persino Stravinskij, la cui
“Petrushka” ha contagiato “Benedettu”, lungo quasi dieci minuti. Una taranta
negroide prende a prestito l’approccio del rap, e questo è obbligato a convivere con
innesti di voci tradizionali registrate sul campo, e con antichi canti della Grecìa
Salentina (“Kali Nifta”). Questa è una fusion spericolata (www.gianfrancosalvatore.it
).
Gianluca Veltri
Gerda
Gerda
Wallace/Audioglobe
È musica estrema, quella dei Gerda, con un orecchio all’hardcore storico e un altro
a quello che c’è stato dopo, propaggini emo incluse. La voce, in italiano, è rabbiosa
e lanciata al limite, sembra sempre sul punto di lacerarsi, e solo a tratti torna a un
eloquio immediatamente comprensibile. La musica, invece, non trattiene mai il
respiro, magari rallenta e si apre su scenari più introversi ma non smarrisce mai una
tensione che lascia l’ascoltatore senza fiato, respirandogli tutto l’ossigeno intorno.
La scuola di riferimento è precisa, un codice cui è difficile aggiungere nuovi spunti,
anche se a tratti si intravedono altri linguaggi/accenti e si capisce di non essere
rimasti fermi a quello che accadeva vent’anni fa. Tuttavia resta l’intensità, al di là di
qualsiasi collocazione di tipo stilistico, la principale chiave di lettura di questo cd,
sette brani per ventun minuti suonati con furia e energia da manuale, realizzato da
Wallace in collaborazione con Shove Records e Donnabavosa: un’intensità che
produce testi forse un po’ ingenui ma efficacissimi (“Pistello”, “Carne del mondo”) e
riff marmorei che sfondano le casse dello stereo. Nel genere, un piccolo capolavoro
(www.degerda.com).
Alessandro Besselva Averame
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Lemeleagre
Lemeleagre
Ammonia-West Link/Edel
Spesso e volentieri, il disco di esordio rappresenta non soltanto un punto di
partenza, ma anche il compimento di una lunga gavetta. Non fa eccezione
l’omonimo debutto dei riminesi Lemeleagre, che arriva a otto anni dalla nascita della
band; nel mezzo, la partecipazione (e vittoria) a numerosi concorsi a livello
nazionale, la realizzazione di svariati demo e un ep (“La grazia dei felini”, 2000) e la
presenza nel cast del Tora! Tora!. Tutto questo per dire che ci troviamo di fronte a
un gruppo esperto, che sa quel che vuole e sa come ottenerlo. Rispetto al passato,
le sonorità si sono inspessite, le chitarre si sono ingrossate e i cambiamenti di
organico hanno portato alla rinuncia alla voce femminile; ciò nonostante i punti saldi
del suono della band sono rimasti pressoché intatti, a partire dal gusto per le
melodie che quasi sempre riescono a emergere da sotto l’imponente muro di
distorsioni che caratterizza la maggior parte dei brani in scaletta. Dagli Smashing
Pumpkins al punk, dal grunge al power pop degli Ash, sono tanti gli ingredienti a
disposizione del trio composto da Silvio Pasqualini (voce e chitarra), Alan Fantini
(basso) e Barbara Suzzi (batteria), che dimostra di saperli dosare in maniera
soddisfacente, anche se troppo spesso finisce per cadere nello schema “strofa (più)
pulita/ritornello (più) distorto”, riproposto con tutte le variazioni del caso ma, alla
lunga, un po’ prevedibile. Il che non inficia comunque l’impeto e l’energia del CD (
www.lemeleagre.com).
Aurelio Pasini
Theatricantor
Vorrei insegnarti amore
Cdf/Venus
L’esordio dei siciliani Theatricantor è un disco traslucido e azzimato; se fosse un
capo d’abbigliamento sarebbe una cravatta (costosa). Un disco che si fa leggere su
due livelli: ogni notazione se ne tira appresso un’altra, di segno contrario.
Allora: è elegante - questo si è capito - ma in esso non si riscontra un significativo
scarto dal canone a cui si richiama. E il canone è essenzialmente Cammariere,
Avion Travel; non Paolo Conte, e ancor meno Capossela, perché i “cantori del
teatro” non suonano abbastanza sporchi e sudati. È un album ottimamente suonato
dal piano di Salvo Guglielmino (anche cantante e compositore), dalla fisarmonica di
Maurizio Burzillà, dal violino di Tony Granata. La maestria strumentistica è fuori
discussione e certo dal vivo dà il meglio di sé. A onta di liriche non originalissime, è
appassionato quanto mai il tango siculo, e però un senso di convenzionalità sovente
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prevale. L’attenzione per i suoni e i particolari è palpabile, nella canzone leggera da
camera venata di pop-soft-jazz (“La nostra vita insieme”), nel beguine di “L’alibi più
abile”, o nella delicatezza di “La nostra storia”, ma nel singolo apripista “Quando un
amore può far male”, o in “M’incanti”, si esprime al massimo un suono un po’ troppo
compiacente, in cui a latitare sono lo spessore e l’allusività (www.cdfproduzioni.net).
Gianluca Veltri
By Popular Demand
You Are Nervous
Fosbury/Audioglobe
Ai By Popular Demand ci si avvicina con un tocco di scetticismo. I quattro
post-ventenni di Galliera Veneta si dichiarano promulgatori e sostenitori di un
rock’n’roll facile e diretto che, tanto per cambiare, pare volersi aspirare a quel sound
anglosassone piuttosto sciapo tanto di moda di questi tempi. Allora ci si prepara al
solito fast-listening, al solito prodotto pulito e ben confezionato di cui, però, non è
che si senta esattamente la mancanza. Poi si ascolta. E ci si lascia almeno
parzialmente smentire: la qualità sicuramente non manca e l’impronta nervosa del
sound, in stile One Dimensional Man, fa il suo bel gioco (il disco è stato, del resto,
registrato e mixato da Giulio “Ragno” Favero, ex ODM) imprimendosi anche nelle
zone più chiaramente pop della scaletta. L’impasto si mescola ulteriormente, in
maniera più o meno indiscriminata, alle - particolarmente invocate, a giudicare dai
titoli - influenze nordamericane; si spazia dal blues rimbalzante della Jon Spencer
Blues Explosion di “Sugar” all’handclapping della riuscita “West Coast Revolution”
che rimanda di sbieco ai Violent Femmmes, a una “Oh My Polly Jean!”
tautologicamente ispirata a PJ Harvey, ad una “Pop Song” che quasi cita una “(This
Is Not) A Love Song” come se fosse, però, suonata dai dei PIL appena emersi da
una montagna di zucchero filato rosso. Come le magliette che i By Popular Demand
pare amino portare sui palchi dei loro live, a quanto si dice coinvolgenti (
www.fosburyrecords.org).
Marina Pierri
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Kalamandra
Kalacafè
Room Service
Il debutto dei Kalamandra, sulla breve durata, è una boccata di buonumore e
intelligenza. Cinque brani che promettono una storia futura assai interessante,
condita con gli ingredienti dell’autoironia e del dissacramento. La singolare dedica
iniziale di “Elsa” è un inno alla casuale bellezza del mondo; le note fanfarone di
“Un’altra becera canzone d’amore” meta-dissertano sulla saturazione del discorso
sentimentale. Se “I marinai” prova a raccontare una storia di quelle che non
finiscono mai, come i racconti di chi va per mare (con una chitarrina giocattolo in
levare), le scorribande sgangherate di“Stelle buie”, tra klezmer e odori balcanici, ci
riportano a terra, sotto un cielo privato di sogni. E la “Serenata malandata” è proprio
come il suo titolo, una sghemba dichiarazione su una storia che “era amor, o
qualcosa di affine”.
La confraternita arruffata dei Kalamandra ha un immaginario che si nutre di swing,
dei film di Jarmush e di certo Burton, di atmosfere sonore in bianco e nero alla Tom
Waits. Difficile segnalare qualcuno, nel compatto quintetto: ritmica movimentata di
Alessandro Raise (batteria) e Dario Balmas (basso), melodie e contro-melodie
guastatrici di Mattia Siccinio (fiati) e Marco Gentile (archi e corde), voce sporca di
Nicola Lollino, teatrale ma mai fastidiosamente vissuta né manierata (
www.roomservicerecords.it).
Gianluca Veltri
N.y.X.
N.y.X.
New Lm
Piccole realtà da esportazione crescono: dopo essere stati distribuiti in Francia,
sotto le ali della Musea, i N.y.X. trovano una casa anche in Italia: è infatti la New Lm
di Ravenna a ripubblicare questo cd dalla copertina piuttosto inquietante e,
sostanzialmente, poco convenzionale. E poco etichettabile è la musica dei sette
episodi qui contenuti, in bilico fra progressive-rock e psichedelia, capaci di svelarsi
lentamente e con movimenti circolari mai semplici, che sfuggono ai silenzi del
post-rock per alzare con orgoglio la testa. Si tratta di una scelta coraggiosa, quella
degli N.y.X., quasi anacronistica e fuori dai circoli chiusi ma rassicuranti del
panorama indie, che mette in risalto sensibilità e tecnica ma soprattutto dimostra di
avere uno sguardo preciso sulle scelte stilistiche.
Certo, è possibile che la radicalità e gli abbandoni psichedelici non favoriscano
l’appeal di un prodotto che, in ogni caso, non è mai autoindulgente. Le chitarre a
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volte sature e spesso acustiche, la sezione ritmica mai invadente, si intersecano a
formare un magma che in certe occasioni si mostra suggestivo e ardito, senza
cadere nelle banalità di genere e senza dimenticare la canzone d’autore italiana, pur
guardando con convinzione verso il passato glorioso del prog, con i numi tutelari
King Crimson ad indicare la strada. Segnali positivi, insomma, in vista di alcune
collaborazioni che potrebbero spostare le coordinate geografiche ma non attitudinali
del duo (www.crotalo.com).
Giuseppe Bottero
Dilaila
Musica per robot
Il re non si diverte
Sull’onda della fantasia si potrebbe dire dei Dilaila come: “un incontro tra Nada e i
Radiohead”. Non del tutto sbagliato, perché il timbro della voce graffiante ed
emotiva di Paola ricorda da vicino l’autrice di quel piccolo capolavoro che è “Tutto
l’amore che mi manca”, così come gli arrangiamenti richiamano le suggestioni
evocative del periodo più legato alla canzone di Thom Yorke e soci.
I Dilaila sono artefici e promotori di una musica malinconica e cupa, dal retrogusto
romantico - nel senso storico del termine - ma che, a differenza di moltissimi altri
esempi, non lascia spiragli alla luce. Si potrebbe parlare della disillusione di “I/O”
(quando qualcuno mi guarda/se solo sapessi correre/correre via) o dello sguardo
cinico al quotidiano di “Moderna” (l'inverno/è l'unica stagione/sopravissuta alla
noia/fra le modelle e le vetrine/da ammirare) o del continuo alternarsi di momenti
d’estasi musicali e durezza lirica (come in “Lucy”). Elementi che consentono la
lettura di un disco sorprendentemente maturo e affascinante, che lima le immaturità
del precedente “Amore+Psiche” e dimostra tutto il suo potenziale crescendo ascolto
dopo ascolto.
Lasciando da parte ogni retorica, sono episodi come “L’ora del tè”, la già citata “I/O”
o “Musica per robot” a rendere questo piccolo lavoro indipendente qualcosa di
speciale. Sarebbe un vero peccato non accorgersi di musica così suggestiva e così
pungente, lirica ed espressiva. Perché capita sempre meno di imbattersi in canzoni
così ruvide e al tempo stesso vellutate, forti ma non per questo invadenti, e i Dilaila
sono capaci di riempire questo vuoto (www.dilaila.it).
Hamilton Santià
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Numero Ottobre '05
Libra
Il viaggio di Zebra
Macaco/Audioglobe
Quantomeno interessante il percorso artistico dei Libra, capaci nel corso degli anni
di andare oltre ai confini del muscoloso rock d’autore che ne aveva segnato gli
esordi, allargando progressivamente la tavolozza di colori e sfumature in loro
possesso. In particolare, grande è l’evoluzione di cui sono stati protagonisti nel
periodo trascorso tra il precedente “Penso a cose strane” (Srazz, 2002) e “Il viaggio
di Zebra”. E non soltanto dal punto di vista dell’organico, che comunque ruota
ancora ad Alberto Stevanato (voce e chitarra) e Marco De Rossi (chitarra), ma
soprattutto da quello delle sonorità. Pur non rinunciando a occasionali sfuriate e a
sonorità spigolose, infatti, il quintetto di Mestre pare ora voler privilegiare le proprie
inclinazioni indie-pop, oltretutto accentuate dall’entrata in scena di tastiere e
drum-machine di annata.
In altre parole, senza tagliare del tutto i ponti con il passato, “Il viaggio di Zebra”
mostra una band in movimento, più che mai matura e tutt’altro che prevedibile, lirica
e insieme di sostanza. Valgano come esempi la psichedelia semiacustica di “Io
resto qui”, le sonorità sintetiche di “Strategia del terrore”, la sognante cantilena
elettronica “Tv”, fino all’eplosivo crescendo di “Tu non vedi niente” e a una “Due di
notte” scura e intensa. Il tutto reso con un piglio tale da compattare la varietà delle
soluzioni e delle idee messe in campo. Come a dire che, a sei anni dal suo inizio, il
viaggio dei Libra appare ora più che mai ricco di stimoli. Chissà quali itinerari
seguirà in futuro (www.librait.it).
Aurelio Pasini
Il Vortice
Le cose da evitare
Ethnoworld/Venus
Avanza tra suggestioni noise, tentazioni psichedeliche e svisate acide l’album
d’esordio del Vortice, terzetto napoletano la cui opera prima si muove attraverso i
clichè del genere tra propensione al riciclaggio e scarti in avanti occasionali che ne
costituiscono il motivo di interesse principale. Tra riferimenti (più o meno) espliciti ai
Marlene Kuntz e ai Massimo Volume, citazioni (più o meno) consapevoli di
Motorpsycho e Spaceman 3 e legami (più o meno) evidenti con la new wave ed il
post-rock, la personalità del Vortice emerge nei momenti più eterei e rarefatti,
quando la stratificazione sonora si assottiglia e diviene essenziale: accade in “Cose
da evitare”, dove è il fender rodhes ad aggiungere sfumature nuove alla tavolozza di
colori della band, e in “La cenere addosso”, atipica ballata basata su un arpeggio di
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chitarra che rimanda ai Radiohead di “Paranoid Android” e “Street Spirit”. Nel
complesso, “Le cose da evitare” è il ritratto fedele di un gruppo ancora impegnato
nella definizione del giusto equilibrio tra impatto emozionale e cura del suono (con la
bilancia a pendere, per il momento, dalla parte del primo) e che, pagato dazio ai
modelli e agli ascolti di una vita, può finalmente dedicarsi alla ricerca di un approccio
personale alla materia. Nel bene e nel male, si tratta di ciò che caratterizza gran
parte delle opere prime e che, inevitabilmente, distingue anche quella del Vortice (
www.ethnoworldmusic.com).
Enzo Zappia
Alessandro Grazian
Caduto
Macaco-Trovarobato/Audioglobe
È nato con il rock, Alessandro Grazian, ma il suo attuale approdo non è
esattamente frutto di una repentina conversione alla musica d’autore. Infatti, pur se
impreciso e tagliato con l’accetta, l’equidistante accostamento a Jeff Buckley e
Fabrizio De Andrè che è stato fatto in più di un’occasione per descriverne il percorso
non è del tutto campato in aria. Al primo il Nostro è in qualche modo accostabile per
via dell’utilizzo duttile ed espressivo della voce, al secondo per via di certi arcaismi
linguistici e musicali (la conclusiva “Via” sarebbe piaciuta al De Andrè di
“Ottocento”): solo qualche paletto, giusto per capire da che parti ci troviamo,
siccome Grazian ha talento poetico e personalità in quantità anche quando incappa
in alcune peraltro trascurabili incertezze. Alla qualità delle composizioni si affianca
l’azzeccatissima scelta degli strumenti(sti) - tra gli ospiti, Enrico Gabrielli dei
Mariposa ai fiati -, impegnati in arrangiamenti minimali e cameristici sostenuti da una
schietta vena popolare. “Caduto”, “Prosopografie”, “Santa Sala” e “Tattile” sono
splendide esternazioni - felicemente fuori moda - in un panorama che non sempre
premia il coraggio dell’originalità. Che l’autore ci abbia messo l’anima in questo
disco, è evidente. Che sia a pochi centimetri dalla perfezione espressiva, pure (
www.alessandrograzian.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Ottobre '05
Soluzione
Ciliegia ep
Jost Multimedia
C’è da gioire alla nascita di realtà come la Jost Multimedia, piccola e agguerrita
etichetta di Mestre che sfrutta le coordinate comuni di rock, immagini e letteratura
per imbastire un discorso i cui limiti possono risiedere solo nell’eccesso di stimoli.
Non è fortunatamente il caso di questo “Ciliegia ep”, esordio sulla media distanza
dei Soluzione - datato 2003 ma ora disponibile in una nuova, più elegante veste
grafica - che coniuga le influenze tipiche dell’ex nuovo rock italiano con le soluzioni
(si scusi il gioco di parole) dell’elettronica. Elettropop, quindi, o per restare alle
dichiarazioni degli interessati rock estetico, suscettibile alle decadenze della scuola
new wave ma non per questo incapace di assemblare brani dal sicuro impatto,
come “Il voto” o “Il tempo di un’estate”, spaccato realistico che non dispiacerebbe a
Federico Fiumani. Hanno un appeal decisamente particolare, i Soluzione, che si
immergono spesso nei territori di Bluvertigo e La Crus, scegliendo con cura le
parole e le sonorità, mai aggressive né esibite. E sebbene arrivino un po’ fuori
tempo massimo, lo fanno con eleganza e concentrazione.
L’apporto di Massimiliano Nuzzolo, conosciuto con il romanzo a sfondo musicale
“L’ultimo disco dei Cure” e qui impegnato come collaboratore, garantisce equilibrio e
uno spessore pop alla parte “comunicativa” della band, che evita alla grande le
cadute tipiche di un certo filone legato all’uso dell’italiano, spesso preda di
improponibili reiterazioni degli stilemi tipici del “disagio a tutti i costi”. Segno che le
sinergie funzionano, e che, con sollievo, si può contaminare più forme artistiche
senza timore di essere sovrastati dalla mole degli stimoli in gioco (
www.soluzione.biz).
Giuseppe Bottero
Tilak
The Incredible Export-Guru
Ethnoworld/Venus
Gettare un ponte tra Oriente e Occidente, segnatamente tra le loro tradizioni
musicali, in modo da dare vita a un unicum sonoro organico e compatto. Un’idea
non delle più nuove, ma che in Italia non ha mai attecchito più di tanto. Fanno
eccezione i Tilak, che dal 1996 portano avanti un simile discorso di contaminazione
e compenetrazione, e che con “The Incredible Export-Guru” sono arrivati al
traguardo del quarto album. In particolare, ciò che colpisce di più questa volta è
l’uso dell’elettronica, mai così massiccio, che si concretizza tanto nella presenza
delle tastiere quanto nelle programmazioni ritmiche, spesso vicine al dancefloor e ai
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suoi tempi serrati. Come è intuibile, però, non si tratta che di una metà del tutto,
visto che altrettanto importante è il ruolo ricoperto da strumenti e suoni di matrice
soprattutto indiana, che si tratti delle corde del sitar o dei battiti delle tablas. Quel
che ne risulta è un lavoro ricco di idee e sfumature, a volte avvolgente, altre
decisamente più incalzante, altre ancora relativamente minimale, tenuto insieme
con piglio sicuro dal polistrumentista Francesco Landucci, da sempre primo motore
del progetto, coadiuvato da tutta una serie di collaboratori, a partire dalla cantante di
origini greche Marina Mulopulos. Da una “Tika” che fa incontrare drum’n’ bass,
hip-hop e Bhangra al quasi pop di “Green Man” passando per la chitarra acida di
“Saraswati”, un CD decisamente interessante, che per essere apprezzato non
richiede altro che una mentalità appena un po’ più aperta del solito (
www.tilakmusic.com).
Aurelio Pasini
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Numero Ottobre '05
Three In One Gentleman Suit
È finalmente uscito, per la Black Candy, il secondo album dei Three In One
Gentleman Suit, “Some New Strategies”. Un disco che porterà il trio emiliano a
calcare i palchi numerosissime volte, perché è parere comune che siano bravi. Ci ha
raccontato tutto il chitarrista Giorgio Borgatti.
Voi siete tra quelli che hanno la fortuna di suonare tanto dal vivo, una cosa
non proprio facile neppure per i migliori. Come fate?
Non saprei, non credo ci sia un metodo. Cerchiamo di lavorare come una squadra
dividendoci i compiti, così tutto diventa più facile e gli aiuti che arrivano da un
booking e da un’etichetta possono venire sfruttati al meglio; per il resto, penso che
ci abbia trascinato il nostro desiderio forsennato di suonare. Club dove esibirsi ce ne
sono, anche se da un po’ di tempo in evidente calo. Ovviamente non possiamo
confrontarci con situazioni estere, se non per sentito dire. Speriamo di poterlo
testare in prima persona il più presto possibile.
Nel 2003, quando uscì il vostro esordio, vi circondavano con il loro supporto
e la loro passione Massimo Mosca dei Three Second Kiss e Tizio dell'etichetta
Fooltribe. Chi sono adesso per voi le persone chiave?
Farei una precisazione: Massimo ha semplicemente curato il mastering per la
Fooltribe. Abbiamo grande stima dei Three Second Kiss, una band che ha cambiato
il modo di vedere la musica a tutti e tre prima che nascessimo come band, ti
assicuro che è stata una grande soddisfazione sedere al suo fianco e vederlo
lavorare per “scaldare” i suoni del nostro disco. Tizio e Matteo di Fooltribe ci hanno
accompagnato ed aiutato lungo tutto il corso di “Battlefields...”; un’altro è stato
Simone Mambrini, il bassista degli Ornaments, che ci ha dato un grande aiuto a
migliorare il nostro sound dal vivo.
Oggi siamo felici di avvalerci dell’aiuto di Davide Cristiani, che già dal primo disco ci
aiuta nella pre-produzione e nei suoni, di Lorenzo Monti (Milaus) che ha fatto un
lavoro con i fiocchi al Bips Studio dove abbiamo prodotto interamente "Some New
Strategies", e poi Leo e Giuse della Black Candy, Gianluca di DeStijl concerti ed altri
come Stefano Bortoli (al mixer) e Carlo Alberto Grandi (trombone), che quando
possono ci accompagnano nei concerti.
La vostra musica com’è "maturata"? Cambiamenti? Dubbi spariti?
La nostra musica è in movimento. Ci siamo mossi dalle dilatazioni e dalle aperture
di “Battlefields...”, gettando semi diversi che potrebbero maturare in futuro.
Pensiamo che sia pieno di spunti che convivono: dalla forma canzone al nervosismo
ruvido di alcuni pezzi, da brani strutturati molto affini a quelli di “Battlefields…” fino a
episodi semplici e scarni. Dubbi non ne abbiamo mai avuti, a parte quelli che
normalmente vengono mentre si costruiscono le canzoni. Noi tendiamo a
semplificare molto le cose: pensiamo solo a suonare.
Arrivare a finire quest’album quali ostacoli vi ha comportato?
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Tutto è stato molto lineare: siamo entrati alla Bombanella Studio, da Davide Cristiani
a Marano, con cinque pezzi, e abbiamo realizzato un provino di sette pezzi. Poi
siamo andati al Bips Studio di Milano, da Lorenzo Monti e abbiamo registrato un
disco che ne contiene undici... Certo Milano non è la Bombanella, dove puoi godere
il panorama stupendo dell’Appennino modenese, ma questo ci ha aiutati a
concentrarci sul lavoro da svolgere.
Attualmente mi sembrate un po' più morbidi rispetto al passato...
Dici? Per noi è sempre difficile essere oggettivi su queste cose, ma ci sembra di
avere abbandonato buona parte degli appoggi, delle cadenze e delle dilatazioni di
un tempo in favore di un approccio più nervoso; poi, visto che “Some New
Strategies” è un disco molto vario, sicuramente contiene episodi decisamente soffici
e rarefatti. I nostri concerti, comunque, hanno ancora toni decisamente sostenuti.
Come definireste i vostri testi?
La voce, per noi, è uno strumento al pari degli altri ma con un ruolo da solista: è
quindi utilizzata in maniera funzionale dov’è necessario, e per questo i testi sono di
solito brevi. Questa necessità di sintesi li rende strettamente dipendenti
dall’andamento musicale e finiscono per essere una sorta di “didascalia del suono”.
C’è uno strumento in più che vorreste aggiungere alla vostra formula?
In “Some New Strategies” ci sono, gli strumenti in più, e sono ben evidenti. Carlo
Alberto ha seguito tutto il periodo di creazione dei brani: l’uso del trombone è
estremamente mirato e non abbiamo voluto eccedere, ci sembrava però una buona
idea aggiungere un fiato così particolare nel calderone dei nostri brani... ha la
doppia valenza dello strumento d’appoggio e di quello solista, troviamo che la sua
presenza arricchisca davvero le nostre canzoni. L’utilizzo del pianoforte è stato
assai meno ricercato ed è avvenuto in studio. Se capitasse di aggiungere ulteriori
strumenti continueremmo con i fiati: troviamo la loro timbrica affascinante e poi
hanno il pregio di potersi muovere liberamente al di là del blocco
chitarra-basso-batteria.
Qual è stato il momento più bello vissuto grazie alla musica?
Sarebbe terribile se ce ne fosse solo uno, vorrebbe dire che gli altri sono da meno. I
momenti belli sono quelli di iper-attività, della “frenesia del fare” legati ai concerti, o
al lavoro in studio. È bello partire, arrivare, suonare, dormire (poco), ripartire per
un'altra città, arrivare, suonare, dormire (poco), ripartire per un'altra città, arrivare,
suonare, dormire (poco), ripartire... il problema è che poi si torna a casa.
Trarrete video da quest’album?
Non ci abbiamo ancora pensato bene. Ovviamente ci incuriosisce l’idea di vedere la
nostra musica in una dimensione “cinematica”. Si direbbe un lavoro bello e
complesso, dovremmo trovare qualcuno che abbia voglia di pensarlo, dirigerlo e
tradurlo in realtà.
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Numero Ottobre '05
Francesca Ognibene
Contatti: www.blackcandy.it
Father Murphy
Quando parli con Father Murphy, non capisci mai se è serio o ti sta prendendo in
giro. Ma sotto la sua ironia si nasconde una mente lucida e piena di cose da dire. Vi
proponiamo un estratto di conversazione dove il “Reverendo” ci parla di sé stesso.
“Six Musicians Getting Unknown”: i musicisti sono sconosciuti così come il
concetto di folk, che in questo disco appare mutato e - appunto irriconoscibile?
Il folk? È un modo di presentarsi e di esprimersi che ci garantisce quel qualcosa di
infantile che quando sei tra le carte del mondo di Alice tutti vorrebbero rubarti.
Questo disco non è lontano dal folk, esprime il nostro folk ma anche il nostro punk e
noi crediamo nel punk. Anche nel pop, nel senso di popular.
Le tue prime prove discografiche erano molto più anarchiche, da dove arriva
questa razionalizzazione?
Non è razionalizzazione, semplicemente non lavoro più del tutto per conto mio.
Questa volta abbiamo registrato tutti assieme, Vittorio, Chiara Lee ed io, dopo dieci
mesi di concerti in cui abbiamo rodato alcuni pezzi. Metà del disco è nato al
Bombanella Studio, l’ambiente stupendo che abbiamo trovato ci ha dato enormi
libertà. Ho scoperto inoltre che Vittorio e Chiara sono gli unici che riescono a
ostacolare i miei tentativi di looppare all’infinito un giro di chitarra.
Ascoltando il disco possiamo riconoscere anche influssi più tradizionali. In
“Indie Labels” troviamo addirittura strumenti country come il banjo e il fidale.
Non è un banjo, è uno yueqin, una sorta di banjo cinese! Chiara ha vissuto lì per
quasi due anni e quando sono andato a trovarla ho deciso che non avrei dovuto
possedere un dobro, ma un banjo cinese! Impossibile da accordare! Solo Vittorio è
riuscito nell’impresa di maneggiarlo e renderlo affine alla canzone. Ma in verità,
appena Paolo Iocca dei Franklin Delano si stancherà delle mie richieste, mi venderà
il suo bellissimo dobro.
Sempre nello stesso brano canti “I like indie-labels but indie-labels don’t like
me”: ironia o presa di coscienza?
“Indie Labels” nasce come regalo di compleanno per Chiara. Vivevamo a Berlino e
continuavo a stressarla che nessuna etichetta era interessata alla nostra proposta.
Poi, tornati in Italia, insieme a Littlebrown e Oswald abbiamo creato Madcap. Ironia
e presa di coscienza sono due facce della stessa medaglia.
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Numero Ottobre '05
Ecco, il Madcap Collective di cui sei fondatore. La dichiarazione del brano
potrebbe sembrare paradossale se consideriamo questo aspetto. Comunque,
leggendo le note, si può notare come al disco abbiano preso parte
praticamente tutti gli artisti del vostro giro, dai Franklin Delano a Littlebrown.
È questa la tua idea di collettivo?
Per me il collettivo è un piccolo circuito di amici dove tutti hanno un compito. Nel
caso del disco è stata la voltan di volere attorno a Father Murphy tutte le persone
che avevano reso possibile la nostra riuscita. Ecco quindi Paolo Iocca che canta
nell’ultima canzone, Littlebrown è la nostra assistenza per tutto quanto concerne la
grafica e Oswald è il miglior metro di giudizio per ogni mia produzione. Senza
parlare di Onga, l’inventore di Basemental, insieme a Roger il vero nostro guru. Ha
centomila e più idee, un gusto sopraffino ed è sempre sincero. Il nostro salvatore. Ci
vogliamo bene! A volte abbiamo tanta paura, ma siamo in buona compagnia.
So che state preparando un tour, cosa dobbiamo aspettarci dai vostri
live-set?
Abbiamo scoperto di avere fisici e sistemi nervosi delicati, quindi abbiamo deciso di
non fare più di tre concerti al mese. Sembra stupido, ma non riusciremmo mai a fare
quaranta e più date come i Delano negli States. I nostri live rispecchiano molto il
disco: Lee usa molte tastierine giocattolo, Vittorio suona contemporaneamente
violino e batteria mentre io posso abbandonarmi alla propensione per la voce
grattata di gola e una chitarra. Poi, le diapositive che Figlio Tucano ci proietta contro
sono sempre più fondamentali, come le proiezioni dell’”Almanacco” di Vittorio
Demarin, dieci viaggi che Alice vorrebbe aver vissuto.
Se dovessi trarre un bilancio della tua esperienza artistica fino a ora, sia
come musicista che come discografico, come sarebbe?
Il mio responsabile, al lavoro, dice sempre di contare quello che ho fatto solo
quando ho finito. Nessuno di noi è un artista, siamo semplici artigiani che producono
qualcosa. Mi piacerebbe essere un artigiano che plasma nuvole sonore. Lavoriamo
tutti, quindi possiamo permetterci di non andare fuori la sera e investire soldi in
progetti in cui crediamo, come allo stesso tempo sputtanarci mezzi stipendi in casse
di birra e elio per poi riderci su. Ti dicevo, siamo una famiglia, ma ancora non si è
deciso chi sono il padre e la madre con il compito di portare i soldi a casa, quindi va
bene. Onga ha fatto sì che il metodo casalingo della Constellation ci influenzasse
abbastanza da rivolgerci ad artigiani del posto per avere quello che vogliamo ad un
costo minore. Poi a volte dobbiamo adattarci, ma va bene, bisogna crescere consci
dei propri limiti, che possono essere compositivi come economici. Quindi, sincerità e
sempre dritti. Assolutamente no autoglorificazione, più che altro siamo tanti nani e
tante Biancaneve...
Hamilton Santià
Contatti: www.maledetto.it
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Numero Ottobre '05
Camera 237
Con un debutto salutato assai favorevolmente, i Camera 237 si sono appena
affacciati sulmercato discografico. Catalogato quasi obbligatoriamente come
post-rock (contro il volere del gruppo calabrese), “Vectorial Maze”, che si avvale
della navigata produzione di Fabio Magistrali, è un lavoro onirico e ricco di immagini.
Abbiamo incontrato i quattro kubrickiani (Marco Orrico, Luigi Iannini, Ignazio Nisticò,
Yandro Estrada) che esprimono tutta la freschezza di una gioventù piena di
entusiasmi.
Come vi sembra la vita, dopo aver pubblicato un disco?
Artisticamente è stato un passo fondamentale. Con l'uscita di “Vectorial Maze”
abbiamo cominciato a farci notare. La stampa, ad esempio, ha apprezzato il lavoro,
giudicandolo quasi sempre in maniera positiva. Anche la partecipazione al Neapolis
Rock Festival e all'International Noise Festival Musica d'Alta quota, in Sicila, ci ha
aiutati alla divulgazione del prodotto. Il disco comuque sta riscuotendo un discreto
successo e un notevole interessamento.
Suona esattamente come volevate?
Partorire un album non è molto semplice. Devi mettere insieme tante idee, che poi
devono convincere tutti i componenti, ma siamo molto soddisfatti di come abbiamo
tirato su l'album. Suona molto "live", è coinvolgente e vario, e per un disco quasi
interamente strumentale non è poco.
Come è stato lavorare con Fabio Magistrali?
È stata la più importante esperienza che abbiamo fatto. Ha capito fin da subito dove
volevamo arrivare. L'intesa è stata immediata, le sue idee e i suoi suggerimenti
sono stati azzeccatissimi. È una persona squisita, che ti mette a tuo agio. Ci ha
aiutato tantissimo a migliorare la nostra composizione e nel disco ha evidenziato i
nostri punti di forza, tutto questo in poco tempo. Una persona come poche.
Quali sono i vostri ascolti formativi?
Beh, musicalmente ascoltiamo veramante di tutto... gli ascolti formativi vanno dai
Pink Floyd ai Sonic Youth, dai Motorpsycho ai Blonde Redhead. Sono molti i gruppi
che abbiamo ascoltato e che ascoltiamo tuttora. Il post-punk americano (Fugazi),
l'indie in generale. Sopratutto quello americano: Slint, June of 44, ma anche jazz
(Miles Davis, Tony Williams) e prog.
E quelli attuali?
Attualmente siamo molto interssati ad un certo tipo di elettronica minimale, per fare
un nome gli Air. Ma anche Sigur Rós e Radiohead ci affascinano molto.
Quattro nomi che vi hanno influenzato (uno per ciascuno di voi).
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Numero Ottobre '05
Quelli che abbiamo già citati: Sonic Youth, Pink Floyd, Fugazi, Motorpsycho.
Il vostro nome richiama un celebre film di Stanley Kubrick tratto da un libro
altrettanto celebre di Stephen King, “Shining”. Cosa lega la vostra musica al
cinema e alla letteratura?
La nostra musica evoca immagini, ascoltando il disco capita di “vedere” scenari o
paesaggi. La cosa che più ci piace è che sia una cosa del tutto personale. Cioè...
ognuno ascoltando il disco si può fare un viaggio interiore e immaginare ciò che la
sua fantasia e il suo coinvolgimento emotivo gli permette. Più il coinvolgimento è
alto più le "immagini mentali" saranno nitide. Ci piace associare al live delle
proiezioni, come abbiamo fatto durante la presentazione di “Vectorial Maze”:
notiamo che aiuta alla comprensione del nostro concerto, lo rende ancora più
suggestivo.
Vi sentite parte di una scena italiana? Di che? Di post-rock?
Ci sentiamo parte soprattutto di una scena calabrese, con ottimi gruppi con delle
ottime potenzialità, che non hanno nulla da invidiare a colleghi più famosi (fra tutti i
Proteus 911, NdR), ma con pochi mezzi per dimostrare il loro valore effettivo... è un
grande limite.
Come classifichereste la vostra musica?
Non ci definiamo assolutamente post-rock perché non partiamo con l'idea di fare un
certo genere; la nostra composizione si basa sui nostri umori, sui nostri stati
d'animo, a noi piace metterci in discussione e sperimentare cose nuove... non
classifichiamo la nostra musica perché non ne sentiamo il bisogno, lasciamo questo
compito ai nostri ascoltatori e a chi ci segue.
Il riscontro dal vivo vi sta dando soddisfazioni?
Sì, specialmente i live in Sicilia e al Nepaolis, dove molta gente che non ci
conosceva è rimasta molto colpita dalla nostra performance. Per
novembre-dicembre stiamo organizzando una tournée che ci vedrà girare tutta
l'Italia, sarà importante vedere il riscontro che avremo.
Cosa significa per voi fare musica partendo da una piccola realtà del Sud?
C’è uno specifico o è uguale dappertutto?
Al Sud siamo più svantaggiati. Purtroppo, tranne qualche caso isolato, finora non si
è riuscito a creare un circuito che renda protagonisti i validi gruppi delle nostre parti.
Notiamo con piacere però che piccole realtà hanno la voglia di farsi notare e
sarebbe anche ora che istituzionalmente ci si accorgesse certe cose e si
collaborasse per farle crescere. Al Sud notiamo che c'è tanta voglia di emergere e
dimostrare che si fa buona musica.
Che progetti avete per il futuro immediato e non?
Ora stiamo componendo nuovi pezzi, stiamo sperimentando e cercando di capire
dove ci stiamo dirigendo. Questo materiale ci rappresentano molto, quanto quello
dell'album. Cresciamo di brano in brano e speriamo di arrivare al prossimo album
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con una maggiore maturità, anche se ancora è troppo presto per parlarne. Ora
pensiamo a promuovere ”Vectorial Maze” con tanti concerti dal vivo, che ci piace
tanto!
Gianluca Veltri
Contatti: www.camera237.com
Agatha
Tre ragazze da Roma che si abbandonano al piacere del rock. “Greetings From
S.Sg” è uscito per la Wallace e rivela una certa personalità che presto apprezzerete
sui palchi nostrani. Hanno una carica simile alle romane Motorama: chissà se anche
loro finiranno in tour negli Stati Uniti? Per ora parliamo del loro primo album con
Claudia, la batterista.
Questo è il vostro esordio. Cosa rappresenta per voi?
Suoniamo tutte e tre da un sacco di tempo, ognuna di noi ha avuto esperienze
diverse con molti altri gruppi. Quando ci siamo incontrate, circa due anni fa, Pamela
e Daniela suonavano già insieme, mentre io facevo parte dei Monochromes ma
cercavo di costruirmi un’altra situazione senza un’idea ben chiara su cosa avrei
voluto da questo nuovo gruppo. Così un giorno misi un annuncio su un sito e poco
tempo dopo mi chiamò Pamela, ci siamo incontrate e abbiamo iniziato a provare. Il
fatto che loro suonassero assieme da tanto tempo è andato solo a nostro favore,
era come se io dovessi imparare ad andare d’accordo con una persona sola e non
con due. Anche il “genere” non era importante, abbiamo iniziato e basta,
ovviamente tutte noi avevamo e abbiamo i nostri gusti... che, anche se diversi tra di
loro, siamo riuscite a fondere.
Di cosa parlano le vostre canzoni? Al di là dei testi, cosa vi preme descrivere
ed evocare?
Fino al giorno prima delle session non davamo molta importanza alle parole; poi,
ovviamente, abbiamo dovuto scriverle, visto che stavamo per registrare. Non so
come mai, però alla fine del disco ci siamo rese conto che c’erano molti pezzi
“dedicati” a Daniela, tipo “Dani Was In Love With Burzum” oppure “March 1st 2005”;
comunque di base credo che i nostri testi e la musica stessa rispecchino i nostri stati
d’animo di quel periodo preciso. Dentro ci sono Claudia, Daniela, Pamela e tutte le
persone che ci circondano e che ci hanno coinvolte, in modo sia positivo che
negativo.
In quali occasioni avete conosciuto tutta la bella gente che ringraziate nel cd?
Abbiamo voluto salutare, appunto, tutte le persone che ci hanno tirato in mezzo o
che ci hanno permesso di suonare e che ci hanno organizzato concerti: tutte quelle
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persone di cui parlavo prima, quindi il disco è un po’ anche loro! Sono tutti amici che
suonano, o quasi, sono persone che sanno, proprio perché lo hanno vissuto, quanto
sia bello e allo stesso tempo faticoso esporsi così tanto, come quando ti esibisci o
realizzi un disco.
Ci sono gruppi italiani che vorreste emulare?
Credo che la risposta giusta dovrebbe essere che noi non vorremmo assomigliare a
nessuno, ma so che questo non è totalmente possibile; così, posso solo dichiarare
tutta la mia stima per Uzeda, A Short Apnea, Madrigali Magri. Ma senza andare a
scomodare grupponi, ci sono un sacco di altri da cui mi piacerebbe prendere spunti:
Disquited By, Ornaments, Zurigh Against Zurigh, e ultimamente sono molto presa
dal disco dei Bachi da Pietra.
Cosa vi piace e cosa non vi piace della musica italiana underground?
Per fortuna noi abbiamo finora avuto modo di avere a che fare solo con gente
carinissima che si è sempre sbattute molto per organizzarci date. Di base noi
Agatha se abbiamo la sensazione che una cosa non ci piace allora non la facciamo,
ma ovviamente il rischio di sbagliare c’è sempre. Personalmente forse non mi
piacciono tutte quei discorsi sulla “scena” che sta dietro ai vari gruppi, ma magari
anche noi involontariamente ne facciamo parte...
Avete altri progetti musicali oltre alle Agatha?
Pamela sta suonando da un po’ di tempo con alcuni componenti dei Fine Before
You Came e degli As a Commodore, io invece a breve dovrei iniziare a suonare con
uno degli Spastic Pill, nonchè ex chitarrista dei Monochromes.
Tornando al cd, quali sono state le difficoltà per l’incisione, se ce ne sono
state?
A parte il fatto che io mi sono dimenticata la cassa della batteria, non abbiamo
incontrato particolari problemi. Per me è stata la prima volta e mi sono divertita un
sacco. Alcuni pezzi li avevamo finiti e provati solo una settimana prima di registrare
e così ci preoccupavano un po’, mentre altri li suonavamo già da molto tempo.
Abbiamo anche registrato due pezzi che erano del nostro primo demo “May To
February”. Alcune cose sono nate li, come l’intro e la fine dell’ultima traccia, oppure
il finale di “My Teacher Plays In A Metal Band”, con il piano tutto incasinato e
Daniela che urla e con le seconde voci. Forse l’unica cosa che ci ha un po’
spiazzate è stata l’incisione della voce, volevamo renderla il più ruvida possibile ma
non lavorarla con effetti. Così appena Pamela ha capito il meccanismo è andata
dritta come un treno.
Come mai avete voluto far notare che la cacca è così presente nella vostra
musica, visto che è in bella mostra dappertutto? Un gesto scaramatico?
Non volevamo far capire che la cacca è un elemento presente nella nostra musica, il
fatto è molto più banale. Volevamo fare uscire il disco prima dell’estate, perché
avevamo un po’ di concerti da fare, ma eravamo in alto mare per la grafica. All’inizio
avevamo pensato di dare al disco un’atmosfera country, ad esempio con una
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cucina, perché Daniela ed io siamo fissate con gli arredamenti rustici, solo che l’idea
alla fine non ci convinceva molto. Pamela un giorno si presenta con una cacca di
plastica. La cosa buffa è stata che le nostre foto che sono all’interno del cd, con noi
in compagnia della cacca, sono state fatte prima di decidere che avremmo messo
una bella merda sul nostro disco... questo significa, che era proprio destino. Come
al solito, tutte le cose che facciamo sembra che non abbiano un senso apparente
ma se poi vai a scavare il senso lo trovi. Infatti, se ci pensi, se metti una C davanti
ad Agatha diventa... caghata, e quindi tutto torna.
Francesca Ognibene
Contatti: [email protected]
Stop The Wheel
L’ascolto di “Morning” è stata una graditissima sorpresa: melodie fresche e vivaci
con testi malinconici e “piccoli”. Un folk da cameretta capace di emozionare e di
colpire del quale abbiamo parlato con Francesco, l’artefice unico di questa piccola
epifania lo-fi.
Partiamo dagli inizi: la genesi di Stop the Wheel?
Il nome deriva da una canzone di Gemma Hayes, molto bella. Il progetto invece
nasce nel 2001, quando a San Francisco sono stato costretto a registrare alcune
mie canzoni per un progetto e, una volta tornato a casa, ho deciso di non smettere.
La registrazione del tuo disco - definita “ambientale” - fa venire in mente
certo lo-fi da cameretta alla Lou Barlow. Da dove viene questa esigenza di
povertà?
In realtà siamo abituati a sentire dischi che, per quanto vantino suoni meravigliosi,
non rispecchiano affatto la realtà: se io suonassi la chitarra e cantassi a un metro da
te, senza microfoni, non somiglierebbe affatto a un disco di Bruce Springsteen.
Questo è un bene, perché così esistono dischi fantastici con produzioni geniali. Ma
essendo già da anni un patito di “field recordings”, cioè registrazioni di suoni e
rumori del mondo così come le orecchie li sentono, senza effetti, avevo già deciso
che il mio disco sarebbe stato così. Magari crudo, però autentico. Infatti, se ascolti
“Morning” in cuffia, ti sembra di sentire me che ti suono davanti senza microfoni.
Ti riconosci nell’aggettivo “generazionale”? “Morning” potrebbe essere il
diario di un adolescente in musica...
Immagino questo voglia dire che, anche se sono un adultaccio, continuo a ragionare
come un adolescente. Se è una critica la accetto, se è un complimento pure (è un
complimento, NdI).
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Quali sono le guide spirituali della tua musica? Ascoltando il disco mi è
venuto in mente “New Amsterdams”, progetto acustico del cantante dei Get
Up Kids.
Non lo conosco, ma mi informerò. Per guide addirittura spirituali direi nessuna.
Anche se alcune cose che hanno detto Björk o Ani DiFranco in tempi non sospetti le
ho prese a cuore. Musicalmente mi muovono John Fahey, Satie... cose così. Ah! Le
melodie dei Green Day sono fantastiche, non fate gli snob.
Hai suonato il basso in tour coi Jennifer Gentle. In che misura questa
esperienza ti ha segnato? Su brani come “Bastard He Was” sembra quasi
un’influenza diretta...
È stato entusiasmante essere chiamato da un gruppo di cui ero già un fan in
precedenza! Aver suonato coi Jennifer Gentle ha rafforzato sempre di più in me
l’idea che, alla fine, quello che conta è scrivere belle canzoni. Intendo proprio belle e
sincere; secondo la tua visione, non inquinate da mode o imitazioni varie. Il resto
conta un sacco di meno… anche se aiuta qua e là. Per quanto riguarda “Bastard He
Was”, qualcuno ha detto che sembra gli Housemartins, qualcun altro i NOFX. Il
mondo è vario. Secondo me non assomiglia a nessuno di questi, ma fate pure.
Com’è stato suonare in America con i Jennifer Gentle?
A ritmi serratissimi! Però fantastico, il più delle volte. Quei ragazzi là crescono
immersi in mille tipi di musica, ne sanno veramente un sacco e vanno ai concerti
principalmente per ascoltare. Non ci vivrei, però per suonare è un altro mondo a
livello di realtà di pubblico e qualità media. Forse solo perché è un posto grande è
c’è più competizione, ma di fatto è così.
In concerto sarai accompagnato dalla band o manterrai il tuo profilo “da
cameretta” in solitario?
Per adesso vorrei provare da solo, anche se tutt’altro che “da cameretta”: come dice
Hamell On Trial “questa non è una chitarra, è un mitra” (del resto, “this machine kills
fascists”, NdI). Ecco, quella è la mia idea.
Ultima curiosità personale: come mai non hai inserito nel disco la cover di
“I’m Sitting Down Here” di Lene Marlin, che avevi però incluso in un ep di
presentazione chiamato anch’esso “Morning”?
Perché non apparteneva al ciclo di canzoni di “Morning”. In fase di scaletta ho visto
che spiccava come diversa dalle altre. E perché non volevo che Lene ricevesse altri
soldi di royalties, oltre a quelli dalla pubblicità delle pastiglie effervescenti.
Hamilton Santià
Contatti: http://www.maledetti.it/
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Spazio Giovani 2005
Foggia, Teatro Mediterraneo, 1-2-3 settembre 2005
Sono tante le caratteristiche che deve avere un concorso per band emergenti per
potersi definire buono. In primis la sede, in questo caso il Teatro Mediterraneo, un
grande anfiteatro all’aperto dotato di uno splendido palcoscenico. Poi, la cornice di
pubblico, nello specifico semplicemente incredibile, che una media di mille persone
a serata in una manifestazione così sono in pochi - anzi, forse nessuno - a poterle
vantare. E ancora, l’organizzazione, e anche qui niente da dire, visto che a “Spazio
Giovani” ogni aspetto della questione, dai suoni alle luci al trattamento riservato alle
band, è risultato impeccabile.
Un insieme di fattori fondamentale, ma che rischia di cadere in secondo piano nel
caso la musica dei gruppi in gara non sia all’altezza. Pericolo scongiurato (come
sempre, da queste parti), visto anche l’alto numero di iscrizioni - quasi cinquecento provenienti da tutta Italia e anche dall’estero. Tra queste, sono stati scelti sedici
semifinalisti, esibitisi l’1 e il 2 settembre, tra i quali la giuria ha selezionato gli otto
finalisti, protagonisti nella serata del 3.
Non facile decidere il nome del vincitore visto, appunto, il buon livello medio delle
proposte. Alla fine, a spuntarla è stata la capitolina Chiarastella, cantautrice
sospesa tra elettronica e tradizione, che ha colpito - e non poco! - per la bontà delle
soluzioni sonore e per alcuni passaggi melodici davvero interessanti. Vista la
giovane età, il futuro è tutto dalla sua parte; nel mentre, anche il presente è dei più
rosei. Per quanto riguarda il “premio della critica”, la scelta è invece caduta sugli
Eugenie di Latina, autori di una pop-wave assai vitale e curatissima sotto il profilo
tanto sonoro quanto melodico. Detto dei vincitori, è comunque doveroso menzionare
anche i rimanenti finalisti, in rigoroso ordine alfabetico. I palermitani Bonanova,
anzitutto, con le loro raffinate sonorità etniche, ancora perfettibili ma interessanti;
poi, il funky-pop-rock potente ma non troppo dotato di spessore dei bergamaschi
Different Style Keepers, il gothic-metal a dire il vero un po’ “spuntato” dei Maledia
da Roma, l’originale incrocio tra sperimentazioni alla Radiohead e rock più
tradizionale dei foggiani Shoe’s Killing Worm (premio “La Gazzetta del
Mezzogiorno” e della giuria popolare), potenzialmente in grado di fare grandi cose, il
gradevole country-pop degli olandesi Sub, fino all’ultimo in lizza per la vittoria finale,
e il trascinante hip hop dei napoletani Traballera (premio “Radionorba”), non
originalissimo ma molto ben eseguito.
Come si è visto, una proposta variegata, a dimostrazione che la musica, se è
buona, può superare qualsiasi steccato di genere. Oltre che, se vogliamo, una
ulteriore dimostrazione di come, giunto ormai alla ottava edizione, “Spazio Giovani”
sia giustamente considerato come una delle vetrine più prestigiose a livello
nazionale per le nuove leve della musica tricolore. Prendano nota quanti, finora,
hanno colpevolmente fatto finta di non accorgersene.
Aurelio Pasini
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Disco Drive
Cuneo, 2 settembre 2005
Qualcuno la chiama elaborazione del lutto. Altri, più scherzosamente, incazzatura
feroce. In ogni caso, la definizione sfugge, a maggior ragione in questa data
cuneese dei Disco Drive, appena derubati di tutti i loro strumenti. Quindi, per
reazione, la determinazione si trasforma in rabbia, che pervade tutto il set, fulmineo
e imperfetto, lontano dalla pulizia eppure vivo, intimo, se di intimismo di può parlare.
È un live rodato da una lunga tournée estiva, quello dei torinesi, che solo i meno
informati potrebbero scambiare per la risposta italiana alla voglia di punk-funk che
ha marchiato il 2004. La realtà, invece, dice di una band matura e ormai svincolata
da generi e intenzioni, che si mostra senza pudori, sostenuta da una struttura
ritmica convincente e incalzante, maturata dall’esperienza degli Encore Fou e qui
ulteriormente perfezionata, che raggiunge i risultati migliori in “All About This”,
l’episodio più divertente del lotto. Certo, la situazione d’emergenza e il poco tempo a
disposizione per il soundcheck non aiuta il terzetto, bravo a contenere le difficoltà e
a incanalarle nel modo migliore. I brani tratti da “What’s Wrong With You, People?”
si sommano ad alcuni inediti che non smentiscono le coordinate base della band, in
procinto di lasciare la penisola per qualche data all’estero, da sempre vero banco di
prova per i nostri gruppi. Non per i Discodrive, però, che quest’ostacolo l’hanno
superato con entusiasmo già nella scorsa stagione, raggiungendo buoni risultati e
ottimi feedback. Potenza del sacrificio, dunque, che sfugge all’hype e alle trappole di
percorso, allestendo con cura un set concentrato e affascinante, resistente agli urti e
agli incidenti, più o meno inaspettati, che aggiungono problemi al già troppo
bistrattato indie-rock italiano.
Giuseppe Bottero
Chomsky + Offlaga Disco Pax
Nuvolari Libera Tribù, Cuneo, 8 settembre 2005
È una programmazione virata sull’indie-rock, quella dell’edizione 2005 del Nuvolari
Libera Tribù, storico festival che da anni anima le estati cuneesi, che non disdegna
musicisti dal passato pesante come Marlene Kuntz e Afterhours ma guarda con
interesse alle proposte più innovative del panorama italiano. Lo testimonia
l’accoppiata Chomsky-Offlaga Disco Pax, azzardata solo sulla carta ma in realtà
capace di suggestionare e divertire.
I torinesi sono in formazione tipo, senza gli ospiti che ne impreziosiscono l’album ma
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che, nella dimensione live, ne compromettono la compattezza; la loro è
un’esibizione scura e a tratti claustrofobica, che alle rassicuranti aperture
cantautorato preferisce i momenti dilatati e prossimi al post. Poi, gli Offlaga. Attesi,
ma in qualche modo inaspettati. Perché, è vero, il concerto non è così lontano
dall’album (anzi, ne ripropone intera la scaletta), ma il trio emiliano emoziona, in
virtù di un background musicale composito eppure essenziale, scarno ma in qualche
modo vivo. Le liriche, che il pubblico dimostra di conoscere a memoria, instaurano
un rapporto duplice, anche in relazione alla location: è la provincia, è la pianura
padana, nei suoi estremi. Sono orfani di sinistra, gli Offlaga Disco Pax, ma
riempiono il vuoto con personaggi mai scontati, che prendono vita nei deliziosi
spaccati di realtà immaginata, virata in racconto nelle asperità di “Kappler”, nel
candore incalzante di “Robespierre”, nelle atmosfere surreali di “Piccola
Pietroburgo”, scarabocchio di parole uscite direttamente dalle pagine di Guareschi e
sprofondate senza timori nelle paludi del post moderno. Il recitato di Max Collini, poi,
soprende per la naïvete e per una “carenza di autorevolezza” che gli dona,se
possibile, una credibilità ancora maggiore. E l’inedito con cui conclude la serata,
“Cioccolata I.A.C.P.”, vale da solo l’attenzione che l’orchestra Offlaga, vero buco
temporale, merita.
Giuseppe Bottero
Franklin Delano
Milano, Film Festival, 22 settembre 2005
Ci sono band che, una volta sul palco, non rispettano le attese create da dischi
decisamente riusciti. Purtroppo, quello dell’esibizione è un aspetto sempre meno
considerato, specie da parte di artisti nostrani che, dopo aver scritto qualche bella
canzone, non riescono a renderle giustizia dal vivo. Per fortuna questo non è il caso
dei Franklin Delano, un gruppo che una volta accesi i riflettori riesce a convogliare
emozioni e note in un affascinante viaggio attraverso il deserto, la sabbia e la
psichedelia, un folk dilatato che non disdegna sfuriate elettriche e rifrazioni
strumentali tra Thin White Rope e Red Red Meat. La data in questione è la prima di
un nuovo corso per la band bolognese. Sciolto il legame con Vittoria Burattini, Paolo
Iocca e Marcella Riccardi si presentano in compagnia di Zeus Ferrari della Juniper
Band alla batteria e Marcello Petruzzi dei Caboto al basso. Proprio quest’ultimo
strumento è una novità assoluta, che inaugura una nuova line-up che può quindi
vantare un suono più rotondo, una base ritmica più solida su cui lanciare le proprie
ossessioni strumentali. Scaletta in gran parte dedicata all’ultimo “Like A Smoking
Gun In Front Of Me”, i cui brani risultano ora più dinamici, più efficaci e trascinanti,
persino più “cattivi”. L’ottimo lavoro della sezione ritmica, infine, permette alle sei
corde dei due cantanti di prendersi maggiori libertà e di vagare nell’ispirazione nel
migliore dei modi. Sono piccoli grandi concerti capaci di dare un senso a un’idea
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musicale che spesso viene a mancare, proprio per la passione che sanno
trasmettere e le emozioni che sanno far crescere con dei minimi accenni di chitarre
(come la conclusiva “Your Perfect Skin Line”), e la suggestiva cornice del Castello
Sforzesco di Milano non fa che aumentare il sentimento di trasporto verso queste
vibrazioni in libertà. L’ennesima conferma di quanto i Franklin Delano siano tra i
pezzi più pregiati del nostro rock e di come siano capaci di fare il loro lavoro giorno
dopo giorno, in silenzio, lasciando parlare le corde degli strumenti e la voce delle
loro canzoni.
Hamilton Santià
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