Numero Maggio '06
EDITORIALE
Bentrovati a tutti sulle pagine virtuali – ma non solo, se decidete di stampare la
versione in formato .pdf scaricabile dal link qui sopra – di Fuori dal Mucchio, il nostro
inserto dedicato al meglio di quanto accade in ambito “emergente, autoprodotto,
esordiente, sotterraneo, di culto” in Italia.
Così come a livello internazionale, la situazione del mercato discografico tricolore –
indipendente ma non solo – è non solo difficile, ma pure parecchio contraddittoria.
Nelle ultime settimane abbiamo ricevuto due comunicati in tal senso fin troppo
significativi. Nel primo, una band attiva già da parecchi anni come quella dei
Rosaluna annunciava il proprio scioglimento per questioni meramente economiche.
Pur potendo vantare una discografia qualitativamente più che buona, infatti, la
formazione non è riuscita a trovare la risorse necessarie per portare avanti una
proposta la cui unica “colpa” era quella di non seguire alcun trend esterofilo o meno.
“Il mondo delle etichette indipendenti si muove con le stesse identiche logiche che
regnano tra le major”, si legge; “la differenza sta solo nei soldi che girano. E questa
non è un presa in giro per tutti i ragazzi che vogliono diventare musicisti
mantenendo la loro indipendenza? Quanti gruppi affermati sono composti da
ragazzi tra i 20 e i 30 anni? Quanti locali sono disposti a pagare un gruppo più di
300 euro se è al primo disco? Quante etichette discografiche sono disposte a
stampare, promuovere e distribuire il disco senza chiedere niente al gruppo stesso?
Quante a pagare anche quindici giorni in studio agli artisti? L’economia della musica
indipendente non gira forse sulle spalle delle famiglie dei musicisti o di quegli artisti
stessi che si ammazzano di lavoro per poi rinvestire tutto in un nuovo disco o sogno
che dir si voglia?”.
Domande pesanti, che dovrebbero indurre a una riflessione su quale sia in effetti lo
stato di salute della cosiddetta “scena” italiana – e che diventano ancora più urgenti
alla luce del secondo comunicato, a firma degli organizzatori del Six Day Sonic
Madness, nel quale in pratica si dice che l’edizione 2006 del festival rischia di
saltare. Per questo motivo, durante le festività pasquali Guardia Sanframondi – la
sede della manifestazione – è stata teatro di una tre giorni di musica e incontri,
proprio con lo scopo di sensibilizzare quelle istituzioni che dovrebbero vedere in un
evento del genere un fiore all’occhiello dal punto di vista sia culturale che
aggregativo, ma che invece preferiscono guardare – e finanziare – altrove.
Insomma, se da una parte la produzione discografica sconsideratamente non
accenna a diminuire, dall’altra la situazione economica e logistica non pare in grado
di supportarla se non in minima parte. Con il rischio sempre più concreto di una
rovinosa esplosione. Una crisi che può essere risolta soltanto con un’attenta
riflessione da parte di tutte le parti in causa: musicisti, promoter, locali, stampa,
etichette, radio, webzine.
Intanto, incrociando le dita, non possiamo che fare i più sentiti in bocca al lupo agli
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ormai ex Rosaluna (il cui chitarrista, Marco Ambrosi, ha coordinato la realizzazione
dei CD-tributo a De André, Tenco e Battisti allegati al Mucchio Extra) e al Six Day
Sonic Madness, festival che da queste parti abbiamo sempre apprezzato e
sostenuto.
Buona lettura, e soprattutto buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Numero Maggio '06
Lacuna Coil
Karmacode
Century Media/Emi
Decine di migliaia di copie vendute (record della Century Media, storica label
metal), un album nelle classifiche di Billboard (il precedente, terzo, “Comalies”),
concerti all’Ozzfest e in giro per il mondo e un brano per la colonna sonora del
kolossal “Underworld: Revolution”. Questi i dati da citare quando si parla dei Lacuna
Coil, i primi italiani ad aver varcato i confini statunitensi e a ritrovarsi concretamente
vincitori, suonando rock. Risultati raggiunti attraverso professionalità, ambizione,
un’attenta operazione pubblicitaria e un talento rigoroso, che in questo nuovo disco
trabocca nitido da ogni solco. Se “Karmacode” doveva dare garanzie per il futuro del
gruppo, non credo ci siano dubbi: siamo davanti ad un lavoro impeccabile, intriso di
malinconia, energia e melodia. Cristina Scabbia (ospite di Battiato nell’album “Dieci
stratagemmi”) è cantante abile e fascinosa, la sua voce si libra sola e con quella
virile di Andrea Ferro per un connubio perfetto, sostenuto da una strumentazione
solida e moderna – curata anche nei dettagli – e da una produzione sontuosa.
Dodici pezzi di altissimo livello: il singolo “Our Truth”, “You Create”, “Fragile” e
“Closer” con un tocco in più, e in chiusura “Without Fear” (tratteggiata in italiano) e
la cover “Enjoy The Silence” dei Depeche Mode, band a cui i Nostri, hanno rubato
più di qualche trucco. Chi li ama continuerà a farlo; per gli altri: se superate i
pregiudizi, vi aspettano sorprese (www.lacunacoil.it).
Gianni Della Cioppa
Studiodavoli
Decibels For Dummies
Record Kicks/Audioglobe
È difficile, per non dire impossibile, stabilire quale sia la formula pop perfetta, quali
gli ingredienti e i trattamenti necessari per ottenerla, e quanto questo o quel gruppo
riesca ad avvicinarsi a tale formula. Tuttavia c’è chi – è il caso dei leccesi
Studiodavoli, qui al secondo album – dà l’impressione di aver trovato un equilibrio
solidissimo, funzionale e privo di artificiosità. Equilibrio che è il frutto di un talento
non comune nel mediare spinte diverse, nello specifico una più passatista ed
elegantemente vintage, che ammicca senza mai cadere nella paraculaggine, una
decisamente tecnologica, di limatura e scultura del suono (è ospite l’amico Populous
in alcuni dei brani), e una dimensione più chitarristica e psichedelica. Innegabili le
parentele con il retrofuturismo di scuola Stereolab, con le musiche da film di matrice
italiana e con l’attenzione per il particolare del pop nostrano ai tempi della TV in
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bianco e nero, ma è la schiettezza di fondo che caratterizza la scrittura a rendere le
tredici canzoni in scaletta un perfetto prodotto della modernità: tredici episodi
notevoli tra cui una formidabile accoppiata iniziale (“All Things”, geometrica e fluida;
“Kiss”, morbida e jazzata), una trasognata “City Dweller”, una “Optical Love” che
flirta con il pop-punk e infine una splendida cover – sexy e stilizzata – di “Senza
Fine” di Gino Paoli, perfetta chiusura di un circolo virtuoso venutosi a creare tra
radici ricostruite e traiettorie future. E uno sguardo che punta, senza vergogna
alcuna né motivi per averne, al mercato internazionale (www.studiodavoli.net).
Alessandro Besselva Averame
Numero6
Dovessi mai svegliarmi
Eclectic Circus-V2/Edel
Arrivano al secondo disco i genovesi Numero6, formazione nata dalle ceneri dei
Laghisecchi. Muovendosi parimenti nei territori dell’indie pop e in quelli della
canzone d’autore, la band rimanda al minimalismo quotidiano di certi autori che si
possono oggi considerare mainstream: Samuele Bersani e Niccolò Fabi, tra gli altri.
“Dovessi mai svegliarmi” arriva a distanza di due anni dal fortunato “Iononsono”,
disco che aveva fatto circolare il nome della band fuori dagli ambienti del culto da
circuito cittadino e delle webzine. Differentemente dal predecessore, questo disco si
sposta su coordinate più elettro-acustiche laddove prima v’era un più marcato
utilizzo della componente elettronica, qui limitato a sparuti episodi (un battito
sintetico qua, un filo di tastiere là – niente di impegnativo, comunque). Questo
secondo traguardo è quindi simbolo di un’evidente maturazione, sia stilistica che
compositiva, capace di ritagliare una propria cifra stilistica dentro un modus
operandi – quello del pop underground & indipendente che ammicca al mainstream
– abbastanza frequentato, soprattutto negli ultimi anni (Baustelle, Perturbazione, En
Roco). In definitiva, “Dovessi mai svegliarmi” ha tutte le carte in regola per bissare il
successo dell’esordio ed eventualmente superarlo. Le canzoni sono più convincenti,
smaliziate e “adulte”, la band sembra essere più consapevole dei propri mezzi e
delle sue potenzialità e il disco, nel complesso, ne esce con testa decisamente alta,
fiero del suo contenuto e coscienzioso della strada da percorrere (www.numero6.it).
Hamilton Santià
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Numero Maggio '06
My Cat Is An Alien
Different Shades Of Blue
A Silent Place/Small Voices
Mi sono distratto, lo ammetto. Tra servizio civile, beghe impiegatizie, e immersioni
subacquee ho perso di vista My Cat Is An Alien. Li avevo lasciati qualche anno fa
che ancora stampavano CD casalinghi in confezione artigianle. Li ritrovo oggi con
un catalogo in vinile che fa impallidire i più navigati rocker italiani. Pubblicazioni in
tutto il mondo, con gli omaggi di Thurston Moore e Jim O’Rourke. L’occasione di
riascoltarli me la offre la Small Voices di Andria (a mio avviso una delle più
interessanti realtà discografiche oggi attive in Italia) che, ristampando un loro CD-R
dello scorso anno, inaugura tra l’altro una nuova divisione dedicata alla musica di
ricerca. Manco a dirlo, l’opera è su microsolco: 33 giri con sette pollici in appendice;
tre edizioni in scala di rarità – la più preziosa in un magnifico box stampato in 19
copie e ricolmo di ogni ben di dio, pittura autografa compresa.
Se in ambito collezionistico i fratelli Opalio fanno faville sin dagli esordi, in fatto di
qualità musicale non sono da meno. Nel riascoltarli dopo cinque anni non soltanto
ritrovo quell’estro indomito dei primi lavori, che sconfina ben oltre le orbite del nostro
sistema solare, ma debbo anche riconoscere una conquistata maturità creativa. Non
più talentuosi adolescenti, ingenui e temerari, bensì due artisti consapevoli di poter
stupire l’ascoltatore pur senza molestarlo. Ieri dilatavano le corde delle loro chitarre,
oggi ci mettono un po’ più di elettronica, ma il loro viaggio spaziale è ancora una
volta sbalorditivo (www.smallvoices.it).
Fabio Massimo Arati
Deasonika
Deasonika
Volume/Edel
Ci vuol sempre coraggio per un gruppo nato e cresciuto in ambiti indipendenti a
tentare la strada di Sanremo. Questo perché, nonostante il caso-Subsonica insegni
che i risultati possono essere clamorosi senza sacrificare di un grammo la proprie
integrità, il rischio è quello di venire additati come “venduti” o, peggio, come
“sputtanati”. In attesa di capire bene se e come l’ensemble lombardo trarrà benefici
dalla partecipazione alla kermesse ligure, vale comunque la pena soffermarsi sugli
esiti artistici dell’avventura. Dignitosi ma non straordinari, visto come il brano in
questione, “Non dimentico più”, sia una classica ballata orchestale raffinata ma
senza particolari guizzi emozionali. A farle da seguito nel programma di questo
omonimo CD, un paio di inediti (tra cui una buona cover di “Calling You”, dalla
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colonna sonora di “Baghdad Café”, in chiave vagamente Radiohead) e le nuove
versioni di undici brani provenienti dai primi due dischi del gruppo – “L’uomo del
secolo” (2001) e “Piccoli dettagli al buio” (2004) –, riletti in chiave prevalentemente
acustica e intimistica. Un contesto che, messo da parte l’impatto, pare ideale per
fare risaltare gli aspetti più melodici della musica dei Deasonika – che, se in alcuni
casi finiscono per ricordare un po’ troppo l’ultimo Renga, spesso (“Il giorno della mia
sana follia”, “P.A.D.”) confermano in pieno le proprie doti compositive e
interpretative. In chiusura, una cattivissima “Betrayal (00:16)” impreziosita dalla voce
di Jaz Coleman dei Killing Joke (www.deasonika.it).
Aurelio Pasini
Sazizz' Trio
Sazizz’ Trio
Ethnoworld
Un album-narrazione, tutto strumentale, che percorre il mondo. Tre uomini, figli
dello stesso padre, nati in angoli del mondo distanti: Goran, Ruben, Patrick.
Sarajevo, Bogotà, Parigi. Tre fratelli riuniti nel rifiuto e nell’impossibilità della
solitudine. Dal viaggio sgorga il folk pietroso della terra, che il papà Sazizz’ ha loro
trasmesso insieme ai geni. Ed è la necessità della musica popolare, quel che questo
pseudo-esordio trasmette. Pseudo, ché in realtàil Sazizz’ Trio è costituito dai
¾ dei disciolti Rosaluna, gruppo calabrese con base a Bologna, che ha
annunciato poche settimane fa la fine della propria storia, per mancanza non di
accordo interno ma di fondi per continuare.
Se quasi identico è l’organico, diversa appare la missione della ditta-Sazizz’. Niente
progetti cantautorali, bando alle rielaborazioni ricercate: questo è folk. “Tarantella
battente”, la “Molisana”, la “Danza albanese” spezzata e pronta a rinascere come la
fenice: bastano un tamburello, una fisarmonica e una chitarra, a Manuel Franco,
Marco Ambrosi e Pasqualino Nigro, per siglare il ritorno alle origini.
Progetto programmaticamente, diremmo polemicamente, povero, che utilizza una
ricchezza diffusa: gli strumenti della tradizione e la “sazizza”, la base alimentare che
non manca mai nelle case dei meridionali, la carne del maiale. Come se Ambrosi e
soci volessero dire: non ci sono soldi, tutte le porte sono chiuse, ma noi possiamo
andare avanti anche quando vi sembrerà che non ci è rimasto più niente (
www.ethnoworldmusic.com).
Gianluca Veltri
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The Huge
Landescape
L’Amico Immaginario/Audioglobe
Difficile spiegare, soprattutto all’interno di uno spazio dedicato alla musica indie, un
progetto come The Huge. Partiamo dal suo artefice, Gianluca Plomitallo: insegnante
di lingue campano, il Nostro ha evidentemente passato l’adolescenza ascoltando
George Michael e il pop mainstream più sofisticato degli anni ’80, rielaborandolo poi
in alcune registrazioni a circolazione carbonara. Ci occupiamo del suo debutto
ufficiale non perché si tratti dell’ennesima rivalutazione in chiave goliardica di
musiche che nella migliore delle ipotesi vengono bollate come kitsch e trash.
Tutt’altro: il talento di Plomitallo è evidente, così come è palese una sincera
ammirazione per i modelli originali. Grazie anche al contributo dello staff de L’Amico
Immaginario (Cristiano Lo Mele – pure nei Perturbazione, presenti anche attraverso
il violoncello di Elena Diana e i cori di Tommaso Cerasuolo – e Maurizio Borgna,
entrambi alle chitarre), The Huge trasforma le sue composizioni al piano in una serie
di hit da classifica che nelle situazioni più ludiche ricordano i Phoenix (“3.40 P.M.”,
perfetto tormentone estivo) e che altrove rimandano, oltre all’ex Wham, nume
tutelare e modello vocale, a nomi come Prefab Sprout e Steely Dan. Senza
sbagliare una canzone, “Landescape” regala piccole perle come “Winter Out In The
Summer” e “Always”, brani un po’ ruffiani, certo, ma soprattutto divertenti e opera di
qualcuno in grado di maneggiare perfettamente i difficili utensili del pop. The Huge
ispirerà inevitabilmente qualche alzata di sopracciglio, ma non potrà che divertire
qualsiasi ascoltatore privo di parao(re)cchi (www.lamicoimmaginario.it).
Alessandro Besselva Averame
Club Dogo
Penna capitale
Vibra/Self
Un disco imperfetto, “Penna capitale”. Ma questo non ne sminuisce le qualità e i
motivi di interesse. Alla fine puoi perdonare ai Club Dogo il fatto di non avere
un’alchimia impeccabile a livello di metrica con quelle che sono le basi; o forse è
semplicemente il lavoro di Donjoe ad essere un po’ legnoso, perché quando la parte
sonora è affidata a DJ Shocca, che zitto zitto è diventato il migliore beatmaker hip
hop d’Italia o giù di lì, allora scorre tutto che è una meraviglia, e avvolge con cupo
fascino (“Falsi leader”). Sia quel che sia, quello che i due MC ovvero Gué e La Furia
hanno da dire ha il suo impatto, ha la sua lucidità, ha la capacità di descrivere l’Italia
e la Milano dei giorni nostri, vista dalla prospettiva dei bassifondi. “Gangsta”
all’italiana? Magari anche, come definizione ci può stare. Basta però aggiungere che
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non c’è nessun tentativo di imitazione di stilemi, contenuti e formule verbali
americani. È tutto magari grezzo e talvolta grossolano, ma reale e credibile; e
quando fai hip hop questa è la qualità migliore, quella che in qualsiasi caso ti salva e
ti fa meritare rispetto, punto. E che ti permette di rifare e reinterpretare un caposaldo
come “Cani sciolti” mettendoci le proprie rime (la strofa de La Furia ha poco da
invidiare a quelle originali, tra l’altro): operazione benedetta proprio da un Sangue
Misto originale, ovvero Deda, che ha firmato un remix di questa libera
reinterpretazione. Giudizio decisamente positivo quindi, nonostante una parte
musicale insufficiente, molto migliorabile e talora ingenua com’è: foss’anche per
vedere una ipotesi credibile di hip hop in Italia, dateci un ascolto (www.clubdogo.org
).
Damir Ivic
Luigi Salerno
La giostra
Radiofandango/Edel
Nonostante “La giostra” sia di fatto un disco di esordio, il suo autore – piemontese
di Alba, classe 1970 – non si può esattamente considerare un debuttante. Da un
lato, infatti, vanta collaborazioni in veste di autore con Danilo Amerio e Giorgio
Faletti; dall’altro è stato co-protagonista de “I nostri anni” (2001) di Daniele
Gaglianone e ha realizzato due brani – qui inclusi – per un’altra pellicola del
medesimo regista, “Nemmeno il destino” (2004). Personalità sfaccettata, dunque,
che si riflette in dieci canzoni ottimamente curate e prodotte (grazie al contributo di
musicisti quali Emiliano Acciaresi, Stefano Bari ed Emanuele Flammini), in cui la
raffinatezza va a pari passo con la sincerità – quella di una voce che sa essere
matura e stupita allo stesso tempo. Sono storie semplici, quelle che racconta; storie
di vita quotidiana, di piccoli avvenimenti, sensazioni e stati d’animo, le cui sfumature
sono sottolineate da una buona varietà di soluzioni – tra chanson jazzata,
fisarmoniche languide, lontani accenni etnici (specie nelle percussioni), qualche
sintetizzatore tutt’altro che invadente, una pennellata di rock e, nell’incipit di
“Fischietto”, una strizzata d’occhio a Tom Waits. Riflessivo, intimista, intenso, ma
all’occorrenza anche ironico e scanzonato: insomma, tutto quello che un cantautore
– nell’accezione più ampia del termine – dovrebbe essere. D’altra parte, episodi
come “Quello che penso di te” e “Non posso accettare” sono testimonianza di un
artista dotato e dalle indubbie potenzialità (www.radiofandango.it).
Aurelio Pasini
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Spanish Johnny
Jokerjohnny I
AD
Gli elementi per incuriosire ci sono tutti in questo CD di esordio dei bresciani
Spanish Johnny – che rubano, per loro stessa ammissione, il nome da un
personaggio delle liriche del primo Bruce Springsteen – ma c’è il rischio concreto
che pochi ne vengano a conoscenza. Speriamo quindi di rendere un buon servizio,
con questa recensione. La band si forma nel 2000 intorno a un nucleo di ottimi
musicisti su iniziativa di James Gelfi – batterista dai trascorsi storici, attivo sin dagli
anni ’70, nei circuiti del rock progressivo. Cinque brani inediti che suonano sporchi e
ruvidi, con tratteggi di chitarre aspre, con suoni valvolari che accendono duelli con
armoniche a bocca e cantati che si impastano tra note e melodie, alcune volte
inquietanti, dove appare anche un Hammond dorato di hard rock (ascoltare
“Zebulon” e “Demas” per capire). Ma non mancano neppure spunti da impavido
cantautore, come dimostrano “Tombstone” e “Leaving Las Vegas”. Appare poi un
omaggio a Bob Dylan con il rifacimento di “Jokerman”, e verso la fine della mezz’ora
scarsa che addobba questo rock rurale e moderno ascoltiamo una sorta di poesia
musicata dai The Gang, l’inedito “Figlio”, recitato con la consueta passione vocale
da Marino Severini. Storie di indiani e di guerre a noi vicini, forse per dire che il
dolore resta identico. Nonostante la brevità, l’impressione è che gli Spanish Johnny
abbiamo tante frecce al loro arco (www.spanisjohnny.it).
Gianni Della Cioppa
Laura Mars
Nido dove riposano parole
Nest
Curatissimo debutto dopo anni di formazione per Laura Rebuttini, alias Laura Mars.
“Nido dove riposano parole” è un album di interessanti intuizioni melodiche e
fragranze armoniche, disteso tra bossa, funk bianco e un sophisticated pop che
richiama più d’una volta l’azzimata piacevolezza di Donald Fagen e Steely Dan. Per
il primo album a suo nome, Laura Mars fa tesoro di un lungo apprendistato, durante
il quale ha collaborato con diverse realtà della musica italiana. Ora tutto le torna
indietro: Alessandro Garofalo (Sud Sound System) dà il suo apporto alle tastiere;
Alberto Debenedetti (Voci Atroci) e Bob Quadrelli (Sensasciou) lasciano un’impronta
nei cori e proprio le voci, per la felice vena contrappuntistica di Laura, regalano al
disco una la sua cifra migliore. Magnifico il lavoro alla tromba di Massimo Greco (del
gruppo di Gianluigi Trovesi), che in una buona metà delle tracce dissemina
contromelodie di ruggine e sordina, mentre Andrea Alessi e Giulio Cesare Ventrone
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(co-arrangiatore insieme a Laura) tessono il tappeto con le loro chitarre.
C’è voglia di divertirsi da parte dei musicisti con trovate preziose, e una maestria
mai fine a se stessa. Lo senti in “Semplice idea”, con una misura ritmica dimezzata
che disorienta l‘ascoltatore; nelle modulazioni della vintage“Equilibri e simmetrie”; o
in “Talvolta è possibile”, cantata a cappella su un testo della poetessa Nicoletta
Bidoia, quasi un canto spiritual sulla clemenza, con il battimani a tenere il tempo,
mentre “Souk” è mandolinata e piena di saudade, con una vocalità secca e severa
in odore di Teresa Salgueiro (www.lauramars.it).
Gianluca Veltri
Petra Mescal
Occhio
autoprodotto
“Occhio”, opera seconda dei milanesi Petra Mescal, è un lavoro curato e in grado di
mescolare con mestiere suggestioni pop e pretese cantautorali. Ipotizzando di
accantonare per un attimo un certo snobismo, potrebbe anche riuscire ad apparire
un disco intelligente e fruibile, ma troppo spesso, purtroppo, si rivela ammiccante e
fuori dalle logiche abituali del panorama indipendente italiano.
Questione di ascolti? Può essere, ma la sensazione di déjà-vu , insieme ad una
certa fragilità nella scrittura, non aiuta il compito del recensore, più abituato alle
cantine rumorose che alle ribalte sanremesi.
La produzione di Andrea Zuppino – già al lavoro, tra gli altri, con Alex Baroni,
Rossana Casale e Ivan Cattaneo –, d’altronde, non fa che confermare l’impressione
di un album che, sulla carta, potrebbe arrivare ad un pubblico decisamente ampio,
in virtù di un’attitudine spiccata per la melodia e per i ritornelli orecchiabili, ma che
non riesce davvero a decollare, sospeso com’è fra aperture melodiche e pruriti rock.
Certo, il CD scorre e a tratti si mostra in tutta la sua godibilità (soprattutto in brani
come “Illimiti” e “Carillon”): si poggia su una solida base testuale, non si svende alla
ricerca di hit dalla presa esageratamente facile, ma non riesce a trovare una sua
dimensione. Nessun problema, ma non sarà certo il lettore medio di Fuori dal
Mucchio (ma esiste davvero?) ad innamorarsi di pezzi come “Bimba” e “Odio lei”,
con buona pace di chitarre levigate, arrangiamenti preziosi e cori più leziosi che
incisivi (www.petramescal.com).
Giuseppe Bottero
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Lulù Elettrica
Venti rose porpora
Manzanilla/Audioglobe
Stranezze di questo mercato discografico. L’esordio sulla lunga distanza (esiste un
singolo del 2003) dei veronesi Lulù Elettrica risale a un anno fa circa, con tanto di
pubblicità (Mucchio compreso…) e tour promozionale al seguito, ma la mancanza di
una distribuzione ne ha limitato diffusione e spazio recensioni. Oggi la loro label
collabora con l’Audioglobe e quindi i Lulù Elettrica riprovano a far conoscere la
propria musica. A differenza di quello che accade con molte band giovani, in questi
dodici mesi poche cose sono cambiate per il quartetto: la line-up è immutata e
dobbiamo segnalare solo una maggiore solidità sul palco. La deliziosa copertina,
corona di un ottimo booklet, introduce undici canzoni che abbracciano i temi di
quello che per comodità in molti catalogano come indie-rock, anche se io mi sento di
sbilanciare la definizione solo verso il rock, con picchi di energia volubile e ritmiche
appassionate. L’epicentro del gruppo è Enrico Tedeschi, bassista e vocalist dalla
buona personalità, bravo a reggere il proscenio con abilità, un po’ frenato in studio,
ma capace di sviluppare parti originali, con testi che appassionano. L’asso
dell’album è “La pianura”, il brano che meglio disegna lo stile della band, che anche
in “Libera”, “Il bosco” e “Mary esclusa” dimostra un songwriting maturo. Altrove
appaiono un po’ di ingenuità e qualche frenata, ma nell’insieme “Venti rose porpora”
disegna una band ancora in crescita ma già interessante (www.luluelettrica.com).
Gianni Della Cioppa
Carnifull Trio
Modamare
Riotmaker/Wide
In libera uscita dai Fare Soldi, Luka Carnifull appronta il secondo album del trio che
porta il suo nome, con l’aiuto di Jama alle percussioni e Ale alla batteria. Questa
volta il tema svolto non è quello della canzonetta indie, ma piuttosto una forma
ibrida di “groove oriented music”, vicina da un lato ad un formato pop
tradizionalmente inteso, immersa dall’altra in una sorta di prolungata jam session
percussivo-elettronica spesso colorata di funk. Nella direzione incerta e ondivaga
della scaletta potrebbe risiedere il punto debole dell’ album, sennonché è proprio
nel clima da festa errante e debosciata (la piscina in copertina, racchiusa in una
cornice da vecchia collana di vinili a prezzo economico, un piccolo capolavoro in sé,
illustra al meglio il contenuto), con melodie che si muovono come fantasmi di playlist
radiofoniche in una afosa giornata di agosto, tra scenari a volte incongruenti ma
sempre funzionali, che “Modamare” trova la propria ragione di esistere. Al di là di
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qualsiasi elucubrazione possibile, però, la vera essenza di questo disco sta
nell’immediato e istintivo bisogno di buttarsi nella mischia, imbracciare gli strumenti
e celebrare un immaginario party dove le cose non sono esattamente ciò che
sembrano (Pop? Indie? Dance? Mainstream? Difficile dirlo) e dove qualsiasi
costruzione intellettuale può convivere in pace con un po’ di sano edonismo fine a
se stesso. Disco piacevolmente incompiuto, elegante, divertente senza essere puro
involucro (www.riotmaker.net).
Alessandro Besselva Averame
Valentina Lupi
Non voglio restare Cappuccetto Rosso
Altipiani/GDM/Edel
Non arrendersi, non rinunciare alla felicità, coltivare il proprio destino con rabbiosa
consapevolezza. Sono le fondamenta del debutto rock di Valentina Lupi, nome non
più ignoto ai frequentatori del Locale romano.
È facile ironia attardarsi sul cognome della rockeuse in associazione al titolo del suo
primo album. Fatto sta che Valentina è affetta da sindrome opposta a quella che
affligge le generazioni di 30enni e oltre: lei vuole crescere. Si presenta da monella in
“Il giorno del samurai” – allegoria del combattente che non può tirarsi indietro mai –
a esprimere le tematiche di un’età adulta conquistata a fatica. “È questo il vero?”, “In
modo naturale”, “Qualcosa di agrodolce” sono tappe di una crescita umana e
musicale. “Casa di bambola” è un 5/4 sdrucciolo alla Carmen Consoli; “Non voglio
restare Cappuccetto Rosso” – la title-track – è un terzinato rovente, cantato bluesy
e nasale, con un sipario a separare elettrico da acustico, che richiama Cristina
Donà, anche se, della Donà, manca alla Lupi quel manto di ambigua e fascinosa
distanza. In “Solo 21 anni”, un bel rockaccio che renderebbe il doppio se solo
durasse il doppio, Valentina, che è nata a Velletri, delinea i contorni autobiografici
della sua diversità in una vita di provincia.
Disseminazioni letterarie: “Come scriveva Benni” è nata da un frammento di “Blues
in sedici”; “I fiori del male” è naturalmente ispirata a Baudelaire e “Casa di bambola”,
altrettanto naturalmente, a Ibsen.
Ad accompagnare la Lupi un quartetto agguerrito: Corrado Maria De Santis e
Matteo Scannicchio (del Cappello a Cilindro) a chitarre e tastiere; Santi Romano al
basso e il consoliano Puccio Panettieri alla batteria (www.valentinalupi.it).
Gianluca Veltri
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Numero Maggio '06
Gaby And The Batmacumba
Anatomia per artisti
Mammutone/Venus
Sarebbe facile etichettare – e, in un certo senso, liquidare – Gaby And The
Batmacumba come “demenziali”. Facile, ma sbagliato. Perché i tre pseudo-ferraresi
divertono parecchio e lo fanno scientemente, ma il loro non è puro e semplice
“cazzeggio”: in ogni episodio del disco c’è sempre qualcosa che mette in rilievo uno
spessore inedito per un progetto del genere – negli arrangiamenti assolutamente
non banali come nella scelta stessa delle cover. Già, perché tutti e quattordici i pezzi
contenuti in questa “Anatomia per artisti” sono rivisitazioni, oltretutto delle più varie.
Vediamone qualcuna: una improbabile “Non ho l’età”, “Sono un simpatico”
dell’Adriano nazionale, una versione dialettale di “Der Mussolini” dei D.A.F. che
sfocia nella sovietica “Katyusha”, un delirante medley a tema vampirico; e, nel
mezzo, i Cramps e il cantautore di culto Charlie Rokketto, ma anche la Spagna
anarchica (la furiosa “Por allí viene Durruti”), la Romagna d’antan (“Il
Passator cortese”) e gli States rurali (“Man Of Constant Sorrow”). O, ancora, una
“Amoreux solitaires” completamente trasfigurata e una versione in italiano di
“Scarecrow” dei Pink Floyd che è un gioiello di ironica psichedelia. Insomma, si ride
parecchio, ma son risate che hanno sempre una base incredibilmente solida e
stratificata. Del resto, lo stesso riferimento tropicalista nella ragione sociale della
band è sintomatico di una conoscenza profonda della materia musicale. A questo
punto, sapere che si tratta di un progetto parallelo di due Modena City Ramblers
non sorprende più di tanto (www.gabyandthebatmacumba.com).
Aurelio Pasini
Flyindolly
Le teorie dell’uomo moderno
Airbag/Goodfellas
Molti sono quei dischi che portano gli appassionati di musica a porsi determinate
domande. Proporzionalmente all’inquietante allargarsi delle proprie collezioni, si
allarga la quantità di album che, stringi stringi, rasentano l’inutilità. Magari ben fatti,
ma che non smuovono alcunché a livello emotivo, né incentivano la volontà di
riascolto. E la situazione non riguarda solo il mercato italiano. In questi primi mesi
del 2006, escluso uno sparuto gruppo di miracolati, si fatica a riconoscere un’opera
non dico memorabile, ma che possa resistere uno o due mesi nelle memorie di chi
ascolta. E mi riferisco all’estero. Ovvio, quindi, che anche in Italia si arrivi a questa
situazione di aridità e non me ne vogliano i Flyindolly. Il loro “Le teorie dell’uomo
moderno” – pubblicato dalla neonata Airbag Records – sarebbe anche un disco ben
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fatto: un delicato drappo intimista tra canzone d’autore e divagazioni elettroniche,
coprendo uno spettro sonoro che in Italia hanno già percorso Subsonica e
Bluvertigo prima, Negramaro e Deasonika poi. Ciò che manca è la sensazione di
fatalità, la volontà di fare musica come esorcismo del quotidiano. Sembra che siano
più intenzionati a piacere agli altri piuttosto che a se stessi, con un risultato che
tende verso un pollice inequivocabilmente verso. Canzoni innocue, quindi, che
sembrano scivolar via senza scossone alcuno: un segno dei tempi, tutto sommato.
Ai Negramaro una formula del genere ha portato comunque un sorprendente
successo commerciale; auguriamo ai Flyindolly eguali fortune, anche se l’Arte sta
da un’altra parte (www.flyindolly.it).
Hamilton Santià
Lua
Sottovoce
MP Records
Estate 2004: gioca l’Italia per gli Europei, ma io sono giurato a un festival itinerante
tra le colline veronesi. Il primo gruppo che esibisce si chiama Magmasonoro e arriva
da Mantova. Primo pezzo: ottimo. Secondo: oltre ogni previsione. Il regolamento
prevede per tutti una libera interpretazione di “Rimmel” di De Gregori, e questi
ragazzi ne offrono una versione fantastica, esile, leggera, quasi sottovoce. I
Magmasonoro, pur raggiungendo la finale, non vinceranno il concorso. Oggi però ho
tra le mani il loro esordio discografico, dove si presentano con la line-up immutata,
ma con un nome nuovo (“più elegante e meno vincolante” si giustificano). Dieci i
pezzi in esso contenuti, compresa la citata “Rimmel”, che confermo assolutamente
stupenda, con quel suo ondeggiare vocale merito di Alan, cantante incrociato tra
Jeff Buckley e Ornella Vanoni (!!), capace di scrivere testi che incastrano poesia e
realtà. Colpevolmente manca però la hit “Il mare in camera”, gemma presente sul
loro demo di esordio. L’apertura del CD è affidata a “Bianche margherite atomiche”,
in possesso di un refrain che potrebbe sedurre tutte la radio del mondo. Altrove il
quintetto assume toni più raffinati (“L’incantevole ingenuità”, “La camera migliore”),
non lesinando sbuffi di energia, come in “Figlio” e “Oltre”. Una registrazione priva di
profondità non rende però giustizia al potenziale dei Lua, che sul palco dimostrano
invece una maturità ed una compattezza straordinari (www.lua-music.it).
Gianni Della Cioppa
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Gaspare Bernardi
Singolare abitatore dell’Appennino tosco-emiliano, coi sensi costantemente all’erta,
Gaspare Bernardi è un artista che vive la sua arte poeticamente e senza
preclusioni. Musicista a tutto tondo (cornista), cantante, autore, poeta, Bernardi ha
pubblicato da poco “Estati lontane” (Storie di Note), che è “solo” il secondo album di
canzoni (dopo “L’arco terrestre”) d’una carriera lunga e ricca, costellata di molteplici
collaborazioni. Ne abbiamo parlato con l’artista.
Il tuo nuovo lavoro contiene brani composti nel dodicennio tra il 1984 e il
1992. Al prossimo affiderai le canzoni composte tra il 1993 e il 2005?
Beh, in qualche modo è già andata così… Il primo album, “L’arco terrestre”,
pubblicato nel 2000 dopo inenarrabili vicissitudini, era stato concepito tra il ’90 ed il
’93, poiché “Estati lontane” era stato momentaneamente “parcheggiato” per altre
questioni. I due album vanno quindi cronologicamente letti in modo inverso.
Com’è potuto succedere?
Senza aprire un dibattito sui “come e perché”, diciamo che non è stato propriamente
voluto. Da un lato i miei tempi sono un po’ lunghi, specie per il primo album, che
mostra un notevole sforzo produttivo, raccogliendo un’infinità di musicisti e un sacco
di tracce. Con una ricerca alle sonorità per ottenere quella “pasta” timbrica per le
atmosfere in cui volevo calare i testi. Ma certo più lunghi sono stati i tempi della
pubblicazione. Già nel ’94 tutto si stava avviando in un progetto poi fallito; poi con
Franco Battiato, cui era molto piaciuto questo lavoro, non riuscimmo a vararlo.
“Estati lontane” in un anno e mezzo ha invece visto la luce.
“Estati lontane” segna, nelle note che tu stesso consegni, un congedo da una
stagione musicale intrisa di echi ormai alle spalle (pop, jazz). Cosa c’è davanti
a te?
A parte l’inoltrarmi sempre più verso l’ultima stagione, l’ho detto per svincolarmi da
questi lavori in cui mi sentivo un poco impastato; poi, senza rinnegare le radici tra
classica e pop, per sottolineare il mio indirizzarmi in nuovi lavori, verso sonorità che
mi abitano in modo più profondo. È infatti probabile che il prossimo lavoro sia un
album strumentale.
La tua poetica appare percorsa dalle piccole cose della quotidianità e della
memoria, la ricerca di una felicità in una vita che “va sempre in salita”.
Il testo cui alludi appartiene a una stagione lontana e piuttosto faticosa. In ogni caso,
“Vivere” intensamente, di un’intensità non tanto smodata e vorace, quanto attenta,
con i sensi aperti a ogni percezione che giunge dalla realtà che ci circonda,
formando un ponte sottile tra “interno” ed “esterno”, abitare nella poesia, evitando la
banalizzazione, di noi stessi, del mondo che ci circonda e di ogni creatura.
Quando ti vesti da “songwriter” quali lezioni tieni presenti?
Molti anni fa avevo un mezzo vocale davvero brillante e duttile, suoni, imitazioni,
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voci della natura; poi per incuria, fumo e nottate, si è un po’ deteriorato. A quel
tempo la canzone d’autore non mi faceva impazzire. Apprezzavo e mi ritrovavo nelle
canzoni di Tenco, Paoli, da un lato e, scusa il salto, in Ian Anderson, dall’altro. Ma i
brani che scrivo hanno il difetto di non essere il modo migliore per esprimermi
vocalmente. Non di rado mi trovo meglio cantando canzoni di altri.
Nell’ascoltare il tuo disco ho avuto un flash. Ho immaginato le tue canzoni
cantate da Fiorella Mannoia.
Non ci avevo pensato ma l’idea non mi dispiace affatto. Le sue qualità e le sue
caratteristiche credo potrebbero far ben risultare ed arricchire diversi brani sia del
primo che del secondo album per una loro insita liricità e come Alan Goldberg ebbe
a dirmi, una certa teatralità che esige, appunto, un’interprete come la Mannoia
potrebbe ben essere.
“Estati lontane” contiene due omaggi. Uno è “Grazie Miles”, composto da te e
dedicato alla musica di Miles Davis. Cosa rappresenta per te?
Molto davvero, per un lungo periodo ho ascoltato solo lui. A parte che amava il
corno francese… Nel suo modo di suonare si sente una dimensione evocativa, in
certe frasi brevi e solenni, una vicinanza con chi suona uno strumento come il mio.
Poi il suo essere sempre vero artista in continua ricerca, la sua inquietudine, teso
come a trovare un suono, una musica imprendibile ricca di passato, ma che non
scivoli mai su qualcosa di scontato. Il mio brano resta una canzone che solo qua e
là allude a colui cui è dedicata, anche grazie alla straordinaria tromba di Paolo
Fresu.
E poi la tua versione di “E la chiamano estate”…
Ho voluto mettere una cover in questo album sicuramente più leggero: è quasi un
gioco di parole con il titolo del disco, ho pensato allo standard di Bruno Martino che
differentemente dall’altro (“Estate”) non ho quasi mai sentito eseguire. Più che in un
clima jazzistico vero e proprio, cercavo di calarlo nell’acqua, cercavo il mare. Per
questo ho inserito la voce sensuale di Sarita a pennellare di vocalizzi (quasi una
“sirena” di Odisseo) e le corde di un chitarrista straordinario, Flavio Cucchi.
Sei un antenato del post-moderno, grande affabulatore, apologeta della
lentezza… Qual è la descrizione migliore, quella che non è stata fatta?
Mah, è un po’ imbarazzante… Non sono probabilmente nessuna di queste cose e
tutte insieme e anche più. Direi, più autenticamente, una creatura, come tutti, in
cerca di senso. Credo si debba passare inevitabilmente attraverso l’amore nel suo
senso più misterioso e profondo, che porta alla comprensione del bello, del vero,
ecc… Questo in me passa anche attraverso una sensibilità artistica e mi è sempre
parso che un buon modo di vivere potesse essere, forse… cantare, parlare e
raccontare della vita stessa.
Contatti: www.gasparebernardi.com
Gianluca Veltri
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Satellite Inn
Impressioni e considerazioni di Stiv Cantarelli, voce e chitarra dei Satellite Inn, giunti
con “In The Land Of The Sun” (Urtovox/Audioglobe) al secondo album. Un viaggio
tra America ed Italia, passato e futuro, progetti e sogni. Oltre a essere una delle più
interessanti realtà del paese, il gruppo è uno di quelli che di cose da dire, in un
modo o nell’altro, ne ha.
Il vostro esordio è del 1999, per l'americana MoodFood. Cos'è successo in
tutto questo tempo? E come mai sono passati così tanti anni per tornare sulle
scene?
Di tutto! Dopo un inizio fatto di tante promesse, i rapporti con la nostra casa
discografica sono peggiorati, culminando poi nel fallimento e la chiusura subito dopo
il nostro secondo tour americano, nel 2001. I Satellite Inn non avevano alcun
rapporto precedente con la scena musicale italiana, per scelta. Ho sempre creduto
che il modo giusto di proporsi passasse per un'etichetta straniera, proprio per
evitare la scomoda etichetta di “gruppo italiano”. Così, la ricerca di un'altra
possibilità all'estero ha rallentato la nostra crescita: non avevamo una visibilità
sufficiente per convincere altre label americane. Poi c’è stata l'evoluzione naturale
della band. Questo processo, per noi, è stato estremamente lungo ed accurato.
L'ingresso di Dario Neri ha cambiato le coordinate del suono. In più, l'incontro con
Robert Fisher (Willard Grant Conspiracy) e le collaborazioni che abbiamo avuto ci
hanno definitivamente segnato. Abbiamo imparato a gestire la nostra musica con
metodo professionale. Nel 2003 abbiamo fatto oltre settanta concerti con solo un
demo che usavamo principalmente per il booking. Insomma, ci siamo dati da fare.
Che cosa vi ha lasciato l'esperienza americana?
Un grande bagaglio di esperienze, positive e negative. È stato il nostro primo
approccio a una scena musicale. È stato un salto veramente grande e non ce la
siamo cavata male. Sono contentissimo di quello che abbiamo fatto come gruppo e
lo rifarei, inclusi gli errori, le incazzature e i concerti davanti a due persone. La cosa
che abbiamo però assimilato maggiormente è stata quella di dare tutto noi stessi sul
palco fregandocene delle condizioni esterne. Negli Stati Uniti ti rapporti solo con il
valore delle tue canzoni. Sali sul palco, attacchi la spina e vai. Non c'è tempo per
pensare. Per questo sono molto orgoglioso di come ci siamo comportati nonostante
fossimo degli esordienti assoluti.
Nel momento in cui tutte le band cercano gli States (dagli Afterhours ai
Franklin Delano), voi tornate in Italia. Cosa ha determinato questa scelta della
Urtovox?
La Urtovox si è innamorata della nostra musica al primo ascolto. Ci hanno
fortemente voluto. E per noi queste cose hanno un valore assoluto. In passato ci è
capitato di lasciar perdere alcune situazioni che ci avrebbero aiutato come
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esposizione mediatica perché non eravamo convinti del coinvolgimento di chi ce le
prospettava. Era quello che volevamo, insomma. Qualcuno che credesse in noi e
che fosse in grado di valorizzarci. Per il resto, penso che sia sempre e comunque la
nostra musica a parlare per noi. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, direi che
l’esperienza fatta in passato ci ha insegnato a come muoverci in un mercato come
quello americano. Voglio dire, il problema per tanti gruppi che si confrontano con la
scena USA non è tanto raggiungere il circuito, ma farlo nel modo giusto. Non
funziona come da noi: non è sufficiente mettersi sulla strada e suonare. Il territorio è
così vasto che il problema non è mai trovare le occasioni per esibirsi, ma far sapere
alla gente che ci sei anche tu. Questo, senza il dovuto supporto, è veramente
difficile e rischia anche di vanificare tutti gli sforzi fatti, senza contare le enormi
perdite economiche, visto che negli USA non si prendono soldi. Preferiamo
concentrarci sull’Europa, dove la scena è molto più circoscritta.
Parliamo di "In The Land Of The Sun". C'è una certa evoluzione rispetto al
passato, come se le canzoni fossero più personali. Come nascono?
L’evoluzione è dovuta alla ricerca sonora che abbiamo fatto in questi anni. La
composizione nasce in modo semplice e naturale. Sia io che Dario siamo attratti
dalla forma-canzone. Per noi, quello che suona bene su una semplice chitarra
acustica diventa qualcosa su cui vale la pena lavorare. Difficilmente ci
abbandoniamo ad esercizi di stile, preferiamo che le note e gli arrangiamenti si
incastrino naturalmente. Preferiamo risuonare, ogni volta, la forma completa.
Questo esalta la continuità in un progetto musicale dove i punti in comune, come le
differenze, sono parti da sottolineare.
Come mai avete deciso di allegare delle storie nel vostro libretto?
Sono un appassionato di racconti e sono un avido lettore di tutti i tour report che
riesco a trovare sui siti dei gruppi che mi piacciono. Ho sempre pensato che la
nostra musica avesse una forte componente da colonna sonora. Mi è sembrato
quindi interessante cercare di abbinare le due cose. Così, mentre scrivevo i testi
delle canzoni, si sono sviluppate delle storie che andavano ad integrare l’essenza di
quello che poche parole faticavano a illustrare. I buoni apprezzamenti ricevuti anche
per le storie mi hanno reso enormemente felice, anche perché ho sempre amato
scrivere. È stato il mio “battesimo” in pubblico.
Com'è stato accolto il disco?
Benissimo. L’unico rammarico è quello di essere accostati ad un genere che
adesso fa tendenza quando possiamo considerarci dei veri pionieri della materia. Il
pubblico, come ti accennavo, si accosta cautamente alla nostra musica. Questo
anche per la sua natura. Certo, amiamo il pop nel senso più creativo del termine,
ma la nostra vera caratteristica coinvolge attraverso improvvisazioni che creano
nuove canzoni. Mi piace pensare alla gente che ci segue come qualcuno che si
avvicina ad un’esperienza ogni volta diversa.
Tornerete negli Stati Uniti?
Non al momento. Ci stiamo muovendo, con i nostri amici Richmond Fontaine, per
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cominciare a lavorare su un’area ristretta del paese, in particolare la West Coast.
Per ora è tutto ancora da definire ma contiamo di prepararci adeguatamente. Stiamo
valutando l’ipotesi di reinserirci, a certe condizioni, nel giro dei Festival e vedere
dove questo nuovo disco riesce a portarci. Il tutto dipende dal tipo di supporto che
avremo. Per adesso, la nostra priorità è l’Europa.
Contatti: www.urtovox.it
Hamilton Santià
Fine Before You Came
Se siete dell'idea che le interviste servano a conoscere meglio un gruppo o un
personaggio, siate pronti a ricredervi. I Fine Before You Came - interpellati in
occasione dell'uscita del loro omonimo terzo album - giocano con qualsiasi
approccio "professionale" alla loro materia. Questo è quello che siamo riusciti a far
loro dire.
Come siete arrivati a questo ultimo lavoro? Cos'è cambiato e/o successo dal
vostro esordio?
"Cultivation Of Ease" era il nostro primo disco. Risale a sei anni fa. Tra quello e il
nostro ultimo disco ci sono un altro lavoro ("It All Started In Malibu", 2003) e due
split. nel corso degli anni abbiamo cercato di staccarci sempre di più da un suono di
maniera per tentare di raggiungere uno stile tutto nostro, un approccio più
personale. Poi è chiaro che noi si dice così esattamente come è chiaro che tutti i
gruppi dicono che il loro ultimo disco è il più bello. E poi son successe tutta un'altra
serie di cose tipo io e Marcone ci siamo laureati, Marchetti ha cambiato macchina,
ma quello anche Marcone, Pilipella adesso ha i capelli che pare uno dei Beatles, i
genitori di Marino sono andati entrambi in pensione. Ecco.
Vi muovente in un territorio tra punk ed emo. Molte band spesso sono state
schiavizzate da questa "trappola" risultando, ad orecchie esterne, uguali e fini
a loro stesse. Come cercate, voi, di rinnovare la vostra proposta per stupire se si può dire - il pubblico?
Noi non cerchiamo di stupire nessuno. Suoniamo quello che ci piace. Sono i
giornalisti ad avere bisogno a tutti i costi di inserire un gruppo in un pentolone. Il
pentolone è quella che tu chiami trappola. Dal pentolone però si può uscire.
Negli ultimi tempi vi siete dedicati a collaborazioni e comparsate varie (mi
viene in mente lo split con gli As A Commodore, o i Dummo). Queste
esperienze hanno aggiunto qualcosa al vostro bagaglio?
Beh, certamente. I Dummo sono un gruppo che ci piace molto e così gli As A
Commodore. Quello split ha un certo valore per noi, non solo perché frutto di una
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collaborazione con tutta una serie di amici ma anche perché per noi rappresenta un
punto di partenza verso appunto uno stile meno catalogabile.
Questo disco esce grazie ad una collaborazione tra la Black Candy e l'Amico
Immaginario. Come nasce quest'idea di sinergia tra le due label? E chi di
queste vi aveva contattato per prima? Come vi siete trovati al Garage
Ermetico?
Abbiamo suonato all'edizione del 2004 del Six Days Sonic Madness. In quella
occasione abbiamo conosciuto Maurizio Borgna, proprietario del Garage Ermetico e
dell'Amico Immaginario insieme a Cristiano Lo Mele. A Maurizio siamo piaciuti ci ha
chiesto se volevamo registrare delle cose con lui. Abbiamo registrato lo split con gli
As A Commodore e dei provini del nuovo disco da mandare a giro. Nessuna
etichetta sembrava interessata a un gruppo "emo" - accidenti a voi - quindi, alla fine,
Maurizio e Cristiano ci hanno proposto di fare uscire il disco per la loro etichetta..
Nel frattempo, però, si è fatta sentire anche Black Candy. Leo e Giuseppe sono due
persone simpatiche e disponibili e hanno chiesto a Maurizio e Cristiano di fare una
coproduzione. Loro hanno accettato. Quindi alla fine l'Amico Immaginario si è
occupato della produzione artistica e Black Candy della promozione e distribuzione.
Da cosa nasce l'idea di allegare al disco un dvd che tra l'altro non riguarda
strettamente la band, ma è un cortometraggio da voi musicato?
I testi del disco raccontano una storia. Non volevamo fare un disco convenzionale.
Avevamo voglia di confrontarci anche col linguaggio visivo per cui abbiamo affidato
le riprese di un corto a un amico video artista per poi montarle tutti insieme e
curarne la colonna sonora. Non direi che il corto non parla di noi. Il cortometraggio
esattamente come la storia esattamente come la musica parlano di noi. Di come
siamo in questo momento.
Avete già altre idee da sviluppare per il futuro?
Abbiamo in mente un concept album su Gianni Sperti, che ha vinto l'edizione della
Fattoria dell'anno scorso (!!!, NdI), e poi varie idee che ancora sono a uno stato
embrionale. Sicuramente continueremo a sperimentare più linguaggi. Sicuramente
continueremo a cercare di scrollarci di dosso questa etichetta di gruppo "emo".
Contatti: www.finebeforeyoucame.com
Hamilton Santià
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Nicola Ratti
Preceduto dall’EP “One Day With My Fishing Umbrella”, uscito nel 2004, ecco il
debutto ufficiale del chitarrista e per l’occasione anche cantante Nicola Ratti.
“Prontuario per giovani foglie” (Megaplomb/Wide) è un disco per gli amanti della
chitarra da pensiero, di una dimensione altra, dei silenzi, della spigolosità delle note
ma anche della loro rotondità. Vale la pena soffermarvisi.
Sei stato già membro di Pin Pin Sugar e Ronin, come è nata l'idea per questo
progetto solista?
L'idea, ma più che altro la pratica, di suonare da solo è nata tempo fa, durante
l'esperienza con i Pin Pin Sugar. All'inizio era la curiosità di sperimentare, e le prime
registrazioni in cameretta mi permisero di cercare di riprodurre le cose interessanti
che ascoltavo. I miei primi CD-R home-made risalgono al 2000 e sono delle rozze
improvvisazioni elettroacustiche. Andando avanti e affinando le mie conoscenze
nell’arte della registrazione iniziai ad accumulare materiale che assomigliava
sempre di più alla forma-canzone: i risultati mi piacevano e decisi di buttarmi, con un
po’ di coraggio, continuando su questa strada. Dopo aver sentito le registrazioni, il
mio amico Giuseppe Ielasi, mi propose di produrre nuovo materiale e si offrì di
aiutarmi nella registrazione e nel mixaggio; questa collaborazione diede alla luce
l'EP 10" “One Day With My Fishing Umbrella” e di seguito l'oggetto della nostra
chiacchierata, "Prontuario per giovani foglie".
I testi sporadici che ritroviamo nel CD cosa rappresentano per te? Come li
giustifichi?
Il significato del cantato nella mia musica - quindi la sporadicità, la leggerezza
(fisica) – risale alla mia considerazione della voce come una quota acustica del
lavoro al pari dei suoni di chitarre, di percussioni e musiche di ambienti. Considero
un'occasione mancata avere la possibilità di aggiungere un altro grado di
comunicazione ai brani attraverso la voce che non sia solo a livello acustico; poi,
attraverso la scrittura riesco a esprimere e suggerire sensazioni e immagini che
possono essere coerenti o no con le suggestioni musicali del brano e quindi a
ottenere un quadro eterogeneo, più complesso e più ricco. Il disco è strutturato in
quattro parti, omogenee al loro interno, intervallate da tre momenti, che sono un po’
delle pause, degli stacchi che assolvono la funzione di respiro tra un capitolo e
l'altro.
A quali artisti pensi di dovere la tua sensibilità musicale?
Zoomando sul periodo in questione, quindi la composizione/registrazione di
“Prontuario per giovani foglie”, ecco una lista a braccia dei miei ascolti più frequenti
di allora: Christof Migone, Veda Hille, Dean Roberts, Fennesz, Tortoise, Henri
Salvador, Mina, Marc Ribot, Kelis prodotta da Pharrell, Vincent Gallo, Will Oldham,
DJ Hell, Devendra Banhart, David Sylvian, una masnada di bossanovisti brasiliani
(primo fra tutti Chico Buarque), blues-men delle origini, Rhythm & Sound, Loren
Connors, Olivia Block, Giuseppe Ielasi, i Talk Talk di “Spirit Of Eden”. Questa è una
lista parziale dei miei ascolti, ho omesso tutti i musicisti dai quali non mi sono sentito
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direttamente influenzato per quanto riguarda il mio disco, ma che certamente,
inconsciamente o no, invece lo sono stati.
Quando ascolti il tuo stesso lavoro, quali sono le tue sensazioni?
Ogni musicista sa che finire un disco è un po’ come partorire: ore di mixaggio, ore di
riascolto, o di masterizzazione. Alla fine non lo sopporti quasi più. È abbastanza
difficile ascoltare il proprio lavoro senza l'orecchio chirurgico, che controlla che tutto
sia al suo posto, ma può capitare d’avere voglia di godere dei frutti dell'albero del
proprio giardino; in quei casi mi siedo comodo e ascolto, e provo le stesse esatte
sensazioni della prima nota registrata per poi farmi guidare da quello che accade,
stupendomi talvolta di arrivare in luoghi imprevisti.
Due parole sulle collaborazioni a questo disco: Giuseppe Ielasi e Jacopo
Andreini.
Sia con Giuseppe che con Jacopo il rapporto è prima di tutto di amicizia;
quell'amicizia mista a stima e apprezzamento dovuta a esperienze musicali comuni
(Jacopo nei Pin Pin Sugar) o, per entrambi, all'importanza che hanno avuto nella
mia formazione musicale. Hanno
avuto due ruoli differenti nel disco: di Giuseppe ho già detto, ma è d'obbligo
aggiungere che ha anche suonato la chitarra in due brani e ha aggiunto l'elettronica
in un altro, mentre Jacopo suona il sax in un pezzo: una registrazione di pochi
minuti che dà al brano una profondità non indifferente. L'apporto di Giuseppe è stato
fondamentale in tutte le fasi della creazione del lavoro, sia dal punto di vista tecnico
che da quello artistico. La nostra collaborazione non è terminata con l'uscita del
disco: negli ultimi mesi stiamo lavorando a nuovo progetto che vedrà la luce nelle
prossime settimane.
Come ti è capitata fra le mani la foto che poi hai usato per la copertina?
Stavo cercando delle foto di tuffatori e ho trovato quella che mi sembrava perfetta:
un pomeriggio assolato, un tuffo da manuale sotto gli occhi di due donne e, più
distanti, altri due uomini. C'è un ottimismo nel tuffo, nel suo atterraggio, che mi
piace, e mi piaceva legare all'immaginario di questo disco. In fondo è primavera e le
foglie sono ancora giovani.
Com’è cambiato il tuo approccio da elemento membro di un gruppo a solista?
Quali differenze emozionali hai riscontrato?
Senza dubbio la prima differenza si riscontra dal vivo: non c'è più un gruppo alle
spalle, tutto deve essere sotto il tuo controllo e quindi niente distrazioni, niente cali,
soprattutto in un live come il mio che vuole essere intenso e procedere senza
soluzione di continuità tra chitarre, voce, mixer, effetti. Certo, in fase di produzione e
registrazione non devi discutere o scendere a compromessi con alcun altro
componente, e questo è un coltello a doppia lama. Per adesso la mia esperienza
live solista è ancora limitata, quindi durante i concerti sono molto più attento alla
resa che alle emozioni che posso provare.
Contatti: www.megablomb.it
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Francesca Ognibene
Feldmann
Feldmann è uno di quei progetti che nascono davanti ad un tavolo, senza ben
sapere dove porterà la spinta dell’entusiasmo iniziale. Nel caso specifico, Massimo
Ferrarotto, fondatore di Puertorico e Loma, e Tazio Iacobacci, attualmente in forze
ai Tellaro, hanno trasformato una estemporanea alchimia in canzoni asciutte e
scarne, vestite di pacata malinconia blues; quelle contenute in “Watering Trees”
(Stoutmusic/Audioglobe). Ne abbiamo parlato con Massimo.
Stando alla vostra biografia, il progetto Feldmann nasce inizialmente per
creare un repertorio da suonare nei pub di Catania, e poi prende una piega
decisamente diversa, più sperimentale se vogliamo, pur sempre in un
contesto pop. Ci potete raccontare un po' questo processo di "deriva", per
dirla in termini situazionisti?
Feldmann, come tanti altri progetti, nasce una sera d'estate seduti a un tavolo
davanti a una birra. Io e Tazio ci conosciamo da tempo anche se negli ultimi anni ci
siamo frequentati poco data la mia lunga permanenza a Milano. Nel settembre del
2004, dopo essermi congedato dal progetto Loma a tempo indeterminato, con Tazio
si comincia a discutere della nostra pessima situazione economica. per cui si pensa
di mettere su qualche pezzo in modo da poter andare in giro per i locali di Catania e
provincia e tirare su qualche soldo. Ma in realtà il progetto prende subito una forma
diversa. Anziché provare con strumenti alla mano optiamo per registrare subito le
nostre canzoni, avvalendoci solo dell'aiuto di pochi microfoni, un computer e una
scheda audio. Quello che man mano veniva fuori era per noi più che soddisfacente,
ma soprattutto inaspettato. Abbiamo subito dimenticato la nostra situazione
economica, tanto, peggio di così… E ci siamo concentrati sul lavoro. In breve tempo
avevamo materiale per circa 20 canzoni, dal quale abbiamo poi estratto “Watering
Trees”. Dopo di che ho deciso di spedire il tutto a tutte le etichette indipendenti che
avevo contattato negli anni. Non è trascorso molto tempo dalla risposta di Shinseiki
e Stoutmusic, alle quali abbiamo subito proposto una coproduzione per
masterizzare e stampare il disco. Il master è rimasto quello prodotto da noi nella
sala prove di Cesare Basile, Zen Arcade.
Che cosa è filtrato delle vostre precedenti esperienze musicali in questo
nuovo progetto? Non necessariamente a livello musicale, ma anche, per dire,
di attitudine nei confronti del difficile mestiere di musicista indie...
Per quanto mi riguarda ciò che è filtrato da questo connubio fra me e Tazio è la
consapevolezza. Dopo tanti anni dedicati alla musica prendo atto del fatto che ho
sempre vissuto di espedienti e che la mia intera vita è un espediente. È sempre
stato così ma a differenza del passato oggi non mi aspetto più nulla. Capisco
semplicemente che non posso fare a meno della musica, ecco tutto. Ho capito che
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sarò sempre così stupido da pensare che è sufficiente possedere una chitarra e una
buona dose d'amore accanto al letto per vivere serenamente. Quando prendi
coscienza di questo penso che, inevitabilmente, anche la musica che produci ne
venga influenzata.
L'impressione che si ha dall'esterno è che la Catania attuale sia un po'
diversa da quella “rinascimentale” - nel senso di movida musicale – di
qualche anno fa. È una sensazione corretta o ci sono comunque ancora oasi
creative e opportunità?
Se per Catania “rinascimentale” si intende la Catania del secondo Franco Battiato,
Denovo, Carmen Consoli e così via non mi interessa. Non che abbia qualcosa in
contrario, semplicemente non mi interessa. Negli anni c'è sempre stata una Catania
musicale della quale si è sempre fatto fatica a parlare, e per quella Catania le
opportunità sono sempre state centellinate. Ma credo sia un discorso trito e ritrito,
estendibile a gran parte del panorama italiano.
L'intervento di Cesare Basile è stato determinante, se ho ben capito, in
fase di post produzione, a livello di organizzazione del materiale già
registrato, con l'aggiunta di qualche strumento e colore... Che tipo di
rapporto avete instaurato?
Diciamo che il rapporto con Cesare Basile ha radici che ormai affondano nel
passato. Ci si conosce da oltre quindici anni, sono stato il suo batterista nel suo
primo disco solista, “La pelle", e oggi condividiamo una casa a Milano oltre che una
fraterna amicizia che spesso si imbarca in viaggi che sanno di birra e di fede in Dio.
Il suo supporto per me rimane fondamentale anche quando non si imbracciano gli
strumenti. Rilevante per noi è stato anche l'aiuto di Francesco Cantone (Tellaro),
Marcello Sorge e Marcello Caudullo (dalla band di Basile), nonché Laura d'Agate e
Udokant (ancora Francesco Cantone) per la realizzazione della copertina del disco.
Dal vivo avete optato per una riproposizione della nudità in cui sono nate le
canzoni, con il solo inserimento di una terza persona, Elena Mascolino, a
tastiere e batterie elettroniche. Un modo per rimanere fedeli alla semplicità
estemporanea in cui si è sviluppato il progetto, insomma.
Sì, è decisamente così. Era nostro interesse mantenere l'aspetto nudo delle
composizioni, Elena ci garantisce un valido supporto senza per questo sbiadire o
appesantire il nostro intento iniziale. E poi il suo gusto musicale e il suo
temperamento ci forniscono un sacco di entusiasmo.
Contatti: www.feldmannsound.com
Alessandro Besselva Averame
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Songs For Ulan
“You Must Stay Out” (Stoutmusic/Audioglobe), il nuovo lavoro di Songs For Ulan, si
presenta come un’altra piccola perla di folk notturno e minimale, eppure capace di
scuotere a fondo con il suo blues profondo e viscerale. Roba che tutti quelli che
l’hanno fatto in passato (da Nick Cave a Tom Waits, passando per Jeffrey Lee
Pierce), sono stati costretti a scendere a patti col Diavolo. Probabilmente, anche per
Pietro De Cristofaro è stato così. Perché il calore e i fumi che provengono dalle
undici tracce del suo secondo disco non sono né quelli di Napoli, né quelli della
Sicilia: sono quelli dell’Inferno.
Anche questo disco, come il precedente, è nato in Sicilia, prodotto da Cesare
Basile. Questa volta, però, ti sei portato dietro pure i ragazzi che suonano con
te dal vivo.
Il primo album è nato per caso, in maniera assolutamente spontanea. Dal punto di
vista artistico, è il risultato dell’incontro tra ciò che più sentivo mio e la sensibilità di
Cesare Basile, Ciccio Cantone e Tazio Iacobacci, che hanno letteralmente preso in
braccio le mie canzoni, facendone un disco. Una volta trovata l’etichetta e la
distribuzione, è sorta la necessita di metter su una band per poterlo riproporre dal
vivo. Così ho coinvolto vecchi e nuovi amici come Floro Pappalardo alla batteria,
Enzo Mirone alla chitarra, e Fulvio Di Nocera al contrabbasso elettrico. Già nei live
successivi all’uscita del primo lavoro abbiamo iniziato a presentare parecchi pezzi
nuovi. E’ stato naturale, quindi, portare i ragazzi a Catania con me, quando è venuto
il momento di registrare “You Must Stay Out”. Lì hanno dato l’anima. Sono sempre
stati molto presi dal progetto Songs For Ulan e ora lo sono ancora di più. Mi accorgo
che cominciano a sentirlo come una cosa che appartiene anche a loro. E tutto ciò
non può farmi altro che piacere.
Come si sono adattati allo spirito rilassato ed informale che si respirava allo
Zen Arcade durante le registrazioni?
Benissimo, perché si tratta di ragazzi fantastici, oltre che di ottimi musicisti. Tutti
hanno portato le loro idee e hanno fornito il loro contributo, e Cesare è stato
bravissimo a vestire le canzoni, che esistevano nella loro struttura di base, ma non
erano state definite nelle sonorità e negli arrangiamenti. A questo proposito, a me
interessava soltanto che i pezzi suonassero il più crudo possibile. Si partiva da
un’idea, da un suggerimento, e poi ognuno era libero di suonare quello che voleva,
come voleva. C’era un’enorme empatia, non soltanto tra me e Cesare, che io
considero un fratello maggiore,ma tra tutti quelli che erano presenti in sala.
Provavamo qualsiasi idea ci venisse in mente, e poi sceglievamo quella che ci
piaceva di più. “Somebody Else Do It”, ad esempio, è un pezzo che avevo concepito
per sola chitarra e voce, con Fulvio che avrebbe dovuto accompagnarmi suonando il
contrabbasso elettrico con l’archetto. Doveva essere un pezzo alla Nick Drake. Poi,
in sala, l’abbiamo arrangiata con piano e banjo, e l’abbiamo tenuta così.
Si direbbe che non hai avvertito neanche per un attimo la pressione tipica di
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chi, col secondo disco, deve confermare quanto di buono fatto col primo.
In realtà un po’ di paura c’era, ma nessuno mi ha messo pressione. Me la sono
messa da solo. “You Must Stay Out” è il secondo passo di un progetto che
considero importante e che, seppur nel suo piccolo, ha già ottenuto un certo
riscontro. Per questo si tratta di un disco che ho maturato parecchio, anche se non è
passato molto tempo dal primo. In questo album ci sono cose molto forti e, al tempo
stesso, molto semplici. Sai benissimo che a me piacciono le canzoni: è ciò che
ascolto, ed è ciò che voglio scrivere. In questo disco sono finite principalmente le
cose che scrivevo di notte, in balia degli spettri che mi porto dentro, che parlano di
me e del mio modo di vivere – anche male, talvolta – la vita.
È la sincerità, dunque, la forza di “You Must Stay Out”?
Assolutamente, sì. Assieme a quella che io chiamo la “forza dell’imprevisto”. Ti
spiego. Quando abbiamo registrato il disco, non volevo che tutto filasse
necessariamente liscio. Volevo che succedesse qualcosa. E quel qualcosa è
successo, in più di un’occasione. Ad esempio, quando Cesare mi ha fatto ascoltare
per la prima volta “Secret Fires” dei Gun Club nello stereo della macchina,
chiedendomi se volevamo metterla sul disco. Oggi sono tutti lì a chiedermi dei Gun
Club, considerandomi un cultore. Ma io non mi vergogno a dire che i Gun Club li
conoscevo appena. Ecco, io i dischi voglio farli così. Raccogliendo gli stimoli da
qualunque parte essi provengano.
Consideri questo nuovo lavoro complementare rispetto al precedente?
Senza dubbio. Sentivo che la spinta che mi aveva portato alla realizzazione del
primo disco non si era ancora esaurita. Questi due album, assieme, dicono
esattamente chi sono. L’ho capito suonandoli dal vivo. Non è che ora abbia finito
quello che ho da dire, ma mi sento più calmo. Nonostante le difficoltà che questo
mestiere porta con sé, soprattutto per chi fa una musica come la mia, destinata a
trovare pochissimi spazi in Italia, io sono sereno. Questo non è stato un anno
semplice per me, soprattutto a livello personale, per motivi legati alla mia vita privata
familiare. Eppure, nonostante tutto, è uscito fuori questo disco, bellissimo, al quale
io e i ragazzi abbiamo lavorato con tutto l’amore possibile. E questo mi ha riempito
di pace.
I tuoi live sono molto intensi, anche più dei tuoi dischi…
Me lo dicono in parecchi. Dal vivo mi pongo in maniera diversa, forse perché mi
sento più libero. Questo non vuol dire che in studio mi senta prigioniero, anzi!
Semplicemente, ho un atteggiamento differente. In sala, preferisco stare ad
ascoltare quello che fanno gli altri. Lì dentro, io mi sento la cosa più piccola tra tutte.
Io sono semplicemente il primo, quello che da il “la” al progetto. La gara parte da
me: scrivo una canzone e la porto a Cesare, il mio fratello sarto; Cesare, poi, la dà
ai miei bambini, che sono i ragazzi della band. Loro ci giocano, e ci fanno quello che
vogliono. E io divento l’ultimo. Intervengo raramente. E’ giusto che sia così, proprio
perché si tratta del mio progetto, e sono stato io che ho voluto affidarlo in mano agli
altri.
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Contatti: http://www.stoutmusic.com/
Enzo Zappia
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Là Bas - The Huge
Zoo Bar, Torino, 5/4/06
L’Heineken Contest Night fa tappa nella capitale sabauda, ma il vero motivo di
interesse per la serata allo Zoo Bar, al di là della presenza dei comunque ottimi Là
Bas – che mescolano in modo sempre più convincente sonorità chitarristiche e pop
d’autore – stava soprattutto nel concerto di presentazione dell’album d’esordio di
The Huge, all’anagrafe Gianluca Plomitallo, ultimo acquisto nella famiglia de
L’Amico Immaginario. Insegnante di lingue campano che si è messo in testa di
scrivere sofisticate canzoni in inglese costui, con più di un piede nel mainstream e
più di un riferimento a George Michael (ma anche, per dire, a gente tipo Prefab
Sprout e Steely Dan) piuttosto che ai classici feticci dell’underground. Se
teoricamente il nome del cantante inglese può rappresentare qualcosa di fronte a
cui arricciare il naso, nei fatti il repertorio di The Huge è costituito da pezzi pop dalla
scrittura solida, indiscutibilmente radiofonici e divertenti ma mai banali. Il concerto,
con tanto di backing band torinese (e i due “amici immaginari” Cristiano Lo Mele e
Maurizio Borgna alle chitarre, impegnati a divertirsi nei panni degli scafati turnisti),
mostra un frontman in giacca e cravatta che gigioneggia e diverte con estrema
disinvoltura, infilando tra i brani autografi convincenti riletture di “Careless Whispers”
e “Your Song” (quest’ultima solo voce e piano). Certo, lo “spiazzamento” è
inevitabile, tanto che pure alcuni tamarri presenti all’evento, invece di gioire di fronte
allo sfoggio di edonismo Eighties esprimono massicce dosi di perplessità. Ma è un
problema tutto loro: noi ci siamo divertiti moltissimo, alla faccia di qualsiasi
riflessione sul postmodernismo o sulla decontestualizzazione. E The Huge scrive e
interpreta canzoni pop di ottima levatura.
Alessandro Besselva Averame
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