Numero Ottobre `08

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Ottobre '08
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Ottobre '08
Numero Ottobre '08
EDITORIALE
Come da tradizione ormai ben più che consolidata, il mese di ottobre è quello in cui vengono
rese pubbliche le nomination (quest’anno, come per il 2006/07, venticinque) per il Premio
“Fuori dal Mucchio”, il nostro riconoscimento al miglior album ufficiale d’esordio - i CD-R e gli
EP, quindi, non sono presi in considerazione - uscito nell’ambito del rock (e dintorni)
nazionale nell‘ultima stagione discografica (dal settembre 2007 all’agosto 2008). A
determinare il vincitore sarà una votazione che coinvolgerà il nostro staff, integrato da alcuni
ospiti particolarmente attenti alle vicende del nostro underground.
Questo l’elenco dei candidati al Premio, scaturito da una laboriosa selezione volta a
documentare non solo i titoli più interessanti ma anche le principali tendenze:
The Accelerators, “Oddville” (Apple Paint Factory)
Annie Hall, “Cloud Cuckoo Land” (Pippola/Audioglobe)
Atari, “Sexy Games For Happy Families” (Freakhouse-Green Fog/Venus)
Cat Claws, “Magic Powers” (42 Records)
I Cosi, “Accadrà” (Atlantic/Warner)
Dead Elephant, “Lowest Shared Descent” (Robotradio)
Esterina, “Diferoedibotte” (Nopop/EMI)
Fake P, “Fake P” (42 Records)
Il Genio, “Il Genio” (Disastro/Cramps)
Massimo Giangrande, “Apnea” (Fiorirari/Egea)
Hollowblue, “Stars Are Crashing (In My Backyard)” (Midfinger/Venus)
Gli Illuminati, “Prendi la chitarra e prega” (Hit Bit)
Lento, “Earthen” (Supernaturalcat)
Les Fauves, “N.A.L.T. 1 - A Fast Introduction” (Urtovox/Audioglobe)
Lucertulas, “Tragol de rova” (Robotradio)
Le Luci della Centrale Elettrica, “Canzoni da spiaggia deturpata” (La Tempesta/Venus)
My Awesome Mixtape, “My Lonely And Sad Waterloo” (L’Amico
Immaginario-MyHoney/Audioglobe)
N.A.N.O., “Mondo/Madre” (Fosbury/Audioglobe)
Princesa, “JP” (Madcap Collective)
The Styles, “You Love The Styles” (H2O/Sony BMG)
The Niro, “The Niro” (Universal)
Trabant, “Music 4 Losers” (RSVP/Self)
Vanvera, “A Wish Upon A Scar” (Here I Stay)
We Were OnOff, “What Does A Fish Think About Water?” (Green Fog/Venus)
Winter Beach Disco, “After The Fireworks, We’ll Sail” (Black Candy/Audioglobe)
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La premiazione avverrà nell’ambito del MEI, il Meeting delle Etichette Indipendenti e delle
Autoproduzioni in programma a Faenza (RA) l’ultimo fine settimana di novembre. Non
rimane quindi che darvi appuntamento al mese prossimo, per scoprire quale tra i
summenzionati dischi si aggiungerà all’Albo d’oro comprendente, nell’ordine, “Ogni città avrà
il tuo nome” dei Santa Sangre, “Tempo di vento” di Lalli, “Sussidiario illustrato della
giovinezza” dei Baustelle, “Rise And Fall Of Academic Drifting” dei Giardini di Mirò,
“Capellirame” dei Valentina Dorme, “The Mistercervello LP” degli es, “Pai Nai” dei Methel &
Lord, “Socialismo tascabile” degli Offlaga Disco Pax, “Setback On The Right Track” dei
Tellaro e “I Am The Creature” dei MiceCars.
In bocca al lupo a tutti i partecipanti, buon lavoro ai giurati e, a voi tutti, buona lettura e
buoni ascolti.
Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
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Airportman
Il settimo lavoro dei cuneesi Airportman, “Letters” – appena uscito per la Lizard – vuole
essere, riuscendoci, un disco di confidenze. Partendo da delle lettere toccanti che si
scrivevano gli stessi musicisti e che vengono riportate sul libricino del CD e arrivando ad
impreziosire il treno dei ricordi con giunture forti e rassicuranti capaci di intessere specialità
emotive incantevoli. Come ci racconta Giovanni Risso, sebbene le note si assemblano per
caso, il trio si comprende da sempre e per passione si dona.
“Letters” è il settimo disco. Sette anni in sette dischi. Come fate ad essere così
prolifici e puntuali?
Noi siamo regolari, a cadenza annuale, ma non è una cosa predeterminata. In realtà,
quando arriviamo ad avere un disco appena uscito, abbiamo anche altro materiale per quello
dopo e se da una parte chiudiamo un capitolo dall’altra pensiamo già al prossimo lavoro.
Avete trovato il vostro equilibrio musicale che vi permette di percepire l’atmosfera
giusta, attraverso le stesse persone, lo stesso studio di registrazione. Forse è questo
che vi fa andare così a manetta?
Diciamo che la dimensione di ormai parecchi dischi, ha trovato un suo atto creativo che ci
rende molto liberi grazie forse anche al nostro studio di registrazione. Sai, non avere il
problema di cercare lo studio, con i suoi tempi e i suoi costi, fa sì che queste gestazioni
avvengano in modo molto più naturale. Per noi non è un lavoro ma è una cosa che vogliamo
fare.
Siete un gruppo strumentale, però stavolta avete aggiunto delle parole, separandole
dalla musica, solo sul libricino del CD, quanto invece queste parole appartengono a
queste musiche?
La parte musicale, ogni volta, nasce in maniera diversa; nello specifico di “Letters”, la
musica è stata scritta tutta dopo la parte letteraria, formando una sorte di narrazione molto
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più coerente con se stessa, per cui anche le parole sono state scritte di getto legate a questa
serie di lettere. Mentre in altri casi, si andava avanti un po’ a spizzichi, nel senso che
nasceva un testo anche breve e ci fermavamo per mettere su la musica.
Come avete fatto a condividere come gruppo le lettere dei testi che sembrano così
personali e intime.
Beh, questo tipo di approccio viene fuori dopo anni e anni in cui si prova assieme. Marco
Lamberti e io abbiamo quarant’anni quest’anno e suoniamo insieme da quando ne avevamo
quindici, per cui non è più come può essere con un collega di un gruppo che incontri poco
tempo prima. Paolo Bergese è con noi da meno però con gli Airportman dal secondo disco
in poi per cui anche lui ha avuto ormai modo di entrare in questo approccio musicale. Per
quanto riguarda Marco non abbiamo nessun tipo di problema: quando scendiamo in studio le
cose escono fuori senza predeterminarle. E alla fine esce veramente quello che sentiamo in
modo comune.
Ecco, però quest’atmosfera è proprio da disco solista, non da gruppo, secondo te
come siete riusciti a farla venire fuori?
Questa è una domanda alla quale non ti saprei rispondere, nel senso che la nostra
esigenza principale è quella di fare emergere la nostra anima, la nostra intimità e ci risulta
alcune volte difficile. Quando non viene fuori il pezzo, lo scartiamo e teniamo quello che
effettivamente ci rappresenta nel modo più esplicito ciò che sentiamo senza bisogno di
raccontarci uno con l’altro tutta questa emotività interna perché poi i testi sono molto
personali. E finché il risultato viene fuori in questo modo ci appaga, e raggiungiamo quello
che vogliamo se così non fosse allora non avrebbe più senso parlare di dischi.
Come vi è venuta l’idea di scrivere queste lettere?
Dopo “Rainy Days”, ancora prima di pensare ad un disco nuovo, Marco e io abbiamo
cominciato a scambiarci queste lettere, senza pensare che poi avrebbe potuto diventare
altro, trovando in questo rapporto epistolare una piacevole novità. Prima io scrivevo alcuni
testi, lui ne scriveva altri e ognuno lavorava sul suo brano. Uno scriveva a un amico quello
che in realtà gli passava sulla testa e questa cosa qua è stato oltre che trasposto in musica,
è stato bello a livello personale. E anche scoprire alcune cose nuove per entrambi che non ci
eravamo mai detti ha lasciato il segno.
Come componete in generale? Suonate a non finire per estrapolare le parti migliori o
da una bozza ne allargate le idee?
Tutto inizia da una bozza in studio in modo abbastanza semplice e poi il brano “cresce” per
sovrapposizione, nel senso che normalmente il pezzo nasce su una chitarra o su un
pianoforte e quella stessa bozza viene poi sviluppata con una sommatoria di strumenti e di
effetti. Paolo si occupa in modo predominante del suono ed è lui che riesce a catapultare il
brano in un’altra direzione rispetto magari a quella che noi Marco e io, avevamo in mente
prima. Però anche se il brano nasce come bozza questa deve reggere da sola, poi si
trasformerà in qualcos’altro, ma deve reggere prima in quella dimensione.
Avendo in mano queste lettere/testi, non vi è neanche venuto in mente che potevate
quantomeno recitarle?
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Non è la migliore cosa che possiamo fare dal vivo nel senso che sono testi sempre
estremamente personali per cui notiamo noi stessi, suonando e pensando al testo sulla
musica che il risultato esce molto più forte emotivamente solo con lo strumento e ci ritorna di
più a livello emotivo sentirci suonare e basta. A volte comunque abbiamo letto delle parti
però non è la cosa che più ci soddisfa.
Ricorda gli altri componenti del gruppo e perchè ti piace come suonano. Una loro
caratteristica.
Per quanto riguarda Marco, ha la capacità con qualsiasi strumento si suoni di entrare
immediatamente nel brano. Questo rende tutto molto semplice ed è per questo che è negli
Airporman fin dalle origini. Non esisteremmo senza di lui, perché è il pilastro del gruppo a
livello concettuale. Paolo ha il grande pregio di essere estremamente curioso. Non si
accontenta mai di un suono e cerca sempre nuove strade e le trova in modo anche per noi
inaspettato. Musicalmente io e Marco siamo più affini e Paolo (sarà anche una questione di
età), apporta questo tipo di approccio molto più naif che però è diventato in tutti i nostri dischi
una caratteristica essenziale. Come gruppo andiamo molto d’accordo.
Contatti: www.airportman.com
Francesca Ognibene
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Arnoux
Già bassista nei Ten Thousand Bees, Fabio Arnosti si riscopre, con “Cascades” (Knifeville),
manipolatore di beat e arrangiatore fulminato dall' indietronica. Ne abbiamo parlato con il
diretto interessato, a un mese dalla pubblicazione del suo primo disco solista sotto lo
pseudonimo di Arnoux.
Un passato – e un presente – da bassista con i Ten Thousand Bees e un disco solista
che propone un' indietronica indolente lontana dallo stile della band in cui militi. A
quale delle due realtà musicali ti senti più vicino ?
Ad ambedue, in modi differenti: i Ten Thousand Bees sono un gruppo di persone che
costruiscono insieme delle canzoni, che provano, che discutono. Si suona e si esce insieme,
c'è un rapporto di scambio, sia professionale che umano. Amo molto i Ten Thousand Bees,
c'è un bel rapporto di amicizia. Arnoux invece è la mia personale realtà musicale, qualcosa
che nasce nella solitudine dei miei pensieri.
Come è nato il tuo interessamento per l'elettronica? Con i Ten Thousand Bees, di
solito, ti occupi di altro...
In “Cascades” c'è tutto quello che ascolto, da Aphex Twin ai Fugazi, dai Daft Punk ai T.Rex.
Diciamo che mi sono divertito ad esplorare sia il mio lato acustico che quello elettronico. Nei
Ten Thousand Bees ci sono quei quattro o cinque strumenti e ognuno fa il suo senza
strafare.
“Cascades” è un'operazione estemporanea o l'idea di realizzare un disco come
questo ti frullava in testa già da qualche tempo? Che tipo di obiettivi ti sei proposto di
raggiungere?
“Cascades” è una raccolta di canzoni nate in un determinato periodo della mia vita.
Inizialmente non c'era l'intenzione di fare un disco, ma come ti dicevo prima, avevo voglia di
sperimentare e di cimentarmi nell'uso di strumenti poco convenzionali per me. Scrivere
canzoni con il basso non è facile. Meglio partire da un giro di chitarra, trovare una melodia,
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registrarla sul portatile e poi arrangiarla.
Come cambia, a tuo modo di vedere, il lavoro di scrittura per un'opera solista rispetto
all'approccio che si deve tenere all'interno di una band?
La cosa fondamentale è che, lavorando da solo, purtroppo perdi il fatto del costruire
qualcosa assieme ad altre persone. Per questo, per il prossimo lavoro di Arnoux, gran parte
del materiale verrà scritto in sala prove con alcuni amici. Ovviamente è più gratificante
suonare con delle persone che davanti ad una base midi. La cosa positiva dello scrivere
canzoni da solo è l'assoluta libertà che hai di far uscire il brano esattamente come lo vuoi tu,
così da raggiungere un grado di introspezione molto più profondo.
Dovessi citare un artista a cui ti senti particolarmente vicino con la tua musica?
Ce no sono molti. In termini generali, tutti quelli che si sentono liberi di esprimersi
fregandosene delle mode e dei generi.
Come giudichi l'esperienza con la Knifeville e cosa ti ha portato ad incidere per la
label di Maniago?
Sono molto orgoglioso di avere pubblicato questo disco su Knifeville. Questa piccola
etichetta è la nostra Dischord. Maniago è un piccolo paese di quattordicimila abitanti e
raccoglie moltissime realtà musicali. Per molti anni prima della Knifeville questi gruppi
nascevano nelle cantine, facevano qualche concerto e poi sparivano. Con la nascita
dell'etichetta le band hanno avuto l'opportunità di registrare, di farsi un po' di pubblicità e di
suonare in giro, uscendo dai nostri confini piuttosto ristretti. Senza la Knifeville, in effetti, non
ci sarebbe stata nemmeno questa intervista.
Contatti: www.myspace.com/arnouxindahouse
Fabrizio Zampighi
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Cinemavolta
Uno strano caso, quello dei Cinemavolta. Noti ai più come uno dei gruppi della scuderia
Casasonica (“Ne facciamo ancora parte. Se uno va sul sito, siamo lì”), Max Tozzi e i suoi
hanno dato vita l’ultimo anno ad una piccola rivoluzione silenziosa. Rivoluzione premiata con
risultati ben sopra le attese.
Nasce tutto da “Smetti di essere felice”, libro + CD in cui Casasonica c’entra molto poco,
mentre il grosso del lavoro è stato fatto dalla casa editrice No Reply, non nuova ad
esperimenti di “crossoveraggio” letterario: un libro che è un romanzo vero e proprio, scritto
dal leader del gruppo, e un cd allegato al libro – che è un disco vero e proprio, non un
semplice palliativo. Un disco pure valido, probabilmente il materiale migliore mai scritto dal
trio di Montichiari, e un libro nella sua semplicità efficace e suggestivo, sospeso tra
ricordi/nostalgie anni 90, storie di basket e di vita minima.
Ma al di là del risultato artistico, ciò che è interessante è quanto è seguito dopo all’uscita del
progetto: “Sono arrivati risultati che assolutamente non ci aspettavamo. In libreria ‘Smetti di
essere felice’ è andato bene, compatibilmente a quelle che sono le cifre attuali del mercato
editoriale italiano, e già questo è sorprendente, visto che si tratta comunque di un oggetto
dal prezzo non indifferente, 19 euro, su cui noi stessi per primi eravamo inizialmente
perplessi. Soprattutto, lo abbiamo venduto in grandissima quantità durante i nostri concerti.
A dimostrazione che l’acquisto di oggetti non è pratica morta, nella musica, checché se ne
dica; c’è ancora chi ha voglia di spendere per comprare un CD, o addirittura di spendere di
più per avere un romanzo oltre al cd stesso”.
Concerti che non sono stati pochi. Tutt’altro: “A dire di tutti la situazione al momento nella
scena musicale italiana alternativa è nera. Però noi non possiamo non constatare che mai
come quest’anno abbiamo potuto suonare in giro. Giusto poco tempo fa abbiamo festeggiato
l’anno di uscita di ‘Smetti di essere felice’, con conseguente tour: un tour di quaranta date e,
sinceramente, non ci sembrano proprio poche... Con in più, una puntata molto importante ed
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allettante a Parigi. In Francia siamo stati accolti benissimo (senza contare che pure lì
abbiamo smerciato più di una copia del nostro libro + CD), e già per marzo dell’anno
prossimo abbiamo fissato cinque o sei date nel sud del paese, senza contare che
probabilmente nel frattempo riusciremo ad aggiungere qualche altra tappa”.
Tutto bene, quindi. Com’è possibile? Dove sta il trucco? “Ce ne sono alcuni. Il primo, è aver
scelto la massima flessibilità: costi minimi, dimensione acustica, totale adattabilità. Il
secondo è lavorare bene su Internet. Al momento dell’uscita del progetto, No Reply ha dato
una buone spinta promozionale ma, come del resto tutte le case editrici, hanno lavorato solo
a ridosso dell’uscita nelle librerie (questa è la prassi nel mondo letterario, le case
discografiche invece tendono per fortuna a seguire l’artista nel tempo). Da un certo punto in
avanti abbiamo fatto tutto noi, senza l’aiuto di nessuno: Internet, MySpace, passaparola.
Faticoso, ma efficace ancora oltre le nostre aspettative”. Allora che una promozione di
questo tipo possa funzionare non è solo una leggenda metropolitana... “Nel nostro caso non
lo è stata”.
Nel caso dei Cinemavolta, il rischio è che questa strada lontana dal glamour indie nostrano
e dalle varie macchine promozionali in favore di un artigianato fai-da-te porti a risultati
piuttosto importanti. Uno, è già dietro l’angolo, come ci racconta Tozzi: “Il 21 ottobre uscirà
un altro libro + cd, in questo caso per Sperling&Kupfer. Non compariamo né io né il gruppo
come autori titolari del progetto, ma i nostri compagni d’avventura sono di tutto rispetto. Uno
è Giorgio Terruzzi, famoso giornalista sportivo e ottimo autore di testi, in questo caso di un
monologo, ‘Il mio Dio è ateo’. Monologo recitato da Claudio Bisio; recitazione accompagnata
dalle nostre musiche. Una bella sfida. Ma intanto stiamo già cominciando a pensare al
nostro prossimo album vero e proprio, non abbiamo certo intenzione di fermarci adesso.
Sappiamo già che cercheremo di mettere più colori, più timbri, alla nostra formazione in trio
si aggiungeranno di volta in volta altri collaboratori, già ora ci stiamo regolarmente
incontrando con un bravo trombettista, Francesco ‘Cico’ Venturini”.
Importanti le parole che vanno a concludere la nostra chiacchierata: “Comincio a sospettare
che dipenda tutto non da quale etichetta hai alle spalle o quale spinta promozionale, né da
quale genere fai, se sulla cresta dell’onda o meno; dipende tutto dalla sincerità. Se cerchi di
vendere, artisticamente parlando, una cosa che non hai, il pubblico se ne accorge. Può
sembrare di no, ma a guardare bene i fatti... Noi, ora, siamo sinceri. Siamo quello che siamo,
con semplicità. Non sempre lo siamo stati in passato, un errore che va ammesso”.
Contatti: www.cinemavolta.it
Damir Ivic
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Klimt 1918
Non importa da che parte stiate, è impossibile non innamorarsi dei Klimt 1918. Suonano di
cuore e di passione, alcuni loro pezzi potrebbero spopolare se trasmessi in radio, ma non
sono commerciali, sono malinconici, ma non alla moda, hanno fascino, ma non sono ruffiani.
Chi si imbatte sulla loro strada, non cambia mai più direzione. Questa è una di quelle volte
che maledico di non avere tre desideri da esaudire, perché il primo lo userei per destinare
alla fama mondiale questa band. Per parlare del loro terzo album “Just In Case We’ll Never
Meet Again” (Prophecy/Audioglobe), abbiamo incontrato il chitarrista/cantante Marco
Soellner, che con il fratello Marco (batteria), divide l’intero percorso di questa incantevole
band.
Come si arriva ad una risonanza europea partendo da una band che nasce per la
passione di alcuni amici. E perché si arriva, lungo il percorso, a modificare la line up
in più occasioni? È davvero così difficile avere obiettivi comuni?
Alla “risonanza europea” ci si arriva a piccoli passi, giorno dopo giorno, mettendo in campo
tanta perseveranza. Quello che ha fatto la differenza è stato credere fermamente nelle
nostre possibilità. Non abbiamo mai dato per scontato nulla ma, viceversa, ci siamo sempre
posti con grande umiltà nei confronti della musica. Inoltre, il fatto che la band sia stata
fondata da due fratelli ha conferito un’enorme solidità al nostro progetto. Ci sono stati degli
avvicendamenti, è vero. I motivi sono stati diversi e a volte estranei alla musica. Ma finché
Marco e Paolo Soellner continueranno a lavorare insieme i Klimt 1918 continueranno ad
esistere (oggi il quartetto si completa con Davide Pesola al basso e Francesco Conte alla
chitarra, Ndr).
Intorno al vostro nome, c’è un’aurea positiva, di voi parla bene anche chi non
apprezza la vostra musica. Cosa pensi che i Klimt 1918 possiedano che altre band
non hanno?
Penso che i Klimt 1918 diano spazio alle emozioni e tralascino invece quello che ha a che
fare con le cosiddette “religioni dell’appartenenza”. Siamo estranei a qualsiasi scena e la
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nostra musica è troppo trasversale per essere apprezzata da tutti. Però le suggestioni che
creiamo parlano a molti. Le nostre canzoni raccontano cose vere, cose piccole, cose che
hanno a che fare con la vita di tutti giorni. Mi piace pensare che i ragazzi che ci ascoltano
riescano a notare tutta l’empatia che mettiamo in quello che facciamo.
Quando un mio amico mi ha chiesto di dare una definizione della vostra musica, non
ho trovato niente che mi soddisfacesse. Ho azzardato un “ladri di suggestioni”. Voi
avete qualcosa di meglio?
Beh, la tua definizione l’apprezzo moltissimo. Ci calza a pennello. Trovo assai stimolante
che ognuno si sforzi di dire la sua sul nostro modo di fare musica. Però devo essere sincero,
per noi non rappresenta una priorità dare un’etichetta al nostro stile. Qualche anno fa,
quando abbiamo stampato le prime magliette ufficiali della band, avevamo inventato la
definizione “Uncomfortable emotional music”. Erano tre parole molto vaghe, però nella loro
indefinitezza si adattavano perfettamente al nostro sound sfuggente. La vaghezza è
fondamentale quando si cerca di descrivere con le parole quello che dovrebbe essere
semplicemente ascoltato.
Con i testi delle vostre canzoni cosa volete mettere in scena, pessimismo, speranza,
dolore, malinconia. Te la senti di spendere qualche parola sulla copertina?
Se fossi brasiliano definirei i testi che scrivo come “saudade”, ovvero malinconici ma nel
modo più dolce e felice possibile. La saudade carioca è un sentimento davvero affascinante:
significa ricordare il passato, anche quello più amaro e donargli un’aura nostalgica. Così è la
vita. Quando gioia e disperazione collidono, quando il dolore e la speranza camminano sulla
stessa strada. La copertina, opera di Federico Erra, un giovane ma promettentissimo
fotografo toscano, è perfettamente in linea con il mood dell’album. Raffigura due donne che
si abbracciano di fronte una finestra. Sono rimasto letteralmente folgorato dalla postura dei
due corpi: uno nascosto, l’altro invece in evidenza, impegnato in questo gesto materno e
protettivo. Il sentimento che vuole trasmettere l’album è lì, in quegli occhi persi lontano, oltre
la finestra: un richiamo al futuro e all’inevitabilità della vita.
Il vostro album ha un sottotitolo fantastico “Soundtrack For The Cassette
Generation”. Ma non mi sembrate così anziani, da ricordare o almeno da aver vissuto
questo tipo di supporto. Cosa vi ha spinti ad omaggiarlo?
Io sono nato nel 1976, ho trentadue anni e mi reputo sufficientemente anziano per poter
omaggiare le cassette. Ho ricordi bellissimi legati a questo supporto. Quando ero
adolescente pochi si potevano permettere un lettore cd portatile così gli album che
compravo (sia che si trattasse di CD o di LP ) li registravo su cassetta per poterli ascoltare
con il walkman. Io non ho mai avuto dimestichezza con i vinili, erano più pratiche le cassette,
più trasportabili. Molti album li compravo direttamente in questo formato. Inoltre tutto
l’underground girava attorno al tapetrading. Se compravi demo, oppure eri in qualche modo
coinvolto nella scena come musicista, non potevi non avere a che fare con le cassette.
Omaggiare la musicassetta quindi significa in un certo senso omaggiare quegli anni
formidabili durante i quali abbiamo imparato a scoprire, condividere e amare la musica.
Recentemente i Mogwai hanno detto, “I musicisti sono tutti in bilico, senza soldi, in
attesa che qualcosa possa succedere, anche molti di quelli che crediamo famosi”.
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Cosa ne pensi e come credi si possa superare l’evidente crisi della discografia?
Sono perfettamente d’accordo con i Mogwai. È difficilissimo sopravvivere con la musica. Ci
riescono solo in pochi, spesso scendendo a compromessi davvero inquietanti. Io però nella
frase di Stuart Braithwaite non leggo frustrazione, né tanto meno disagio. In fondo la musica
(quella vera, non il business) ha bisogno di persone molto motivate. Per dirla alla Rocky
Balboa “persone con lo sguardo della tigre”. La povertà e la precarietà sfiancano i corpi, ma
non inaridiscono la creatività. Anzi, a volte la trasformano in una vera e propria urgenza.
Sembrate ben organizzati dal punto di vista del marketing, t-shirt, un MySpace
sempre aggiornato, vivo e pulsante . è davvero solo questa la via per farsi conoscere?
Io trovo la cosa disarmante, anche perché è una ragnatela senza fine, dove si resta
invischiati in una band spesso casualmente.
Purtroppo se hai poche possibilità di suonare all’estero e l’etichetta per cui incidi (sempre se
ne hai una) è piccola, l’unica carta che ti rimane è il web. MySpace è molto casuale, è vero.
Ma in giro ci sono altri programmi che riescono ad esserlo in modo minore, come ad
esempio Last FM. In ogni caso, da quando esistono gli Internet Social Network, anche il più
amatoriale dei gruppi musicali ha una chance di farsi conoscere. Questo è tanto disarmante
quanto fenomenale.
Come vedi te e la band tra dieci anni e dove pensi possa portarvi la musica?
Mi vedo “sempre in bilico, senza soldi, in attesa che qualcosa possa succedere”. Più di
questo, credimi, non posso dire.
Contatti: www.klimt1918.com
Gianni Della Cioppa
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Motorama
Tornano più agguerrite che mai le “bad girls” del garage-punk italiano. Dopo il fulminante ed
esplosivo debutto, “No Bass Fidelity” (2003), registrato da Bugo, le Motorama sono diventate
un duo: Daniela (chitarra, voce e synth) e Laura (batteria e voce). Non cambiano tuttavia le
coordinate della loro proposta, la solita deragliante e convulsa miscela di garage-punk, blues
e r’n’r, con deviazioni surf e no wave. Anzi, il nuovo disco “Psychotronic Is The Beat” (Dead
Beat-Radiation/Goodfellas) è ancora più sanguigno e a fuoco del precedente. Di questo e
altro abbiamo discusso con Daniela.
Cominciamo dall’assetto della band. Rispetto al primo album si registra una novità: la
fuoriuscita di Elena e la trasformazione del gruppo in duo. Come mai questo
cambiamento?
Siamo diventate un duo nel 2003, quando è uscito “No Bass Fidelity”, il nostro primo album.
Elena ha lasciato il gruppo e noi abbiamo deciso di sperimentare la formazione a due.
Abbiamo pubblicato un singolo e uno split ma questo, in effetti, è il primo disco sulla lunga
distanza.
Perché avete deciso di stampare il vostro secondo album, “Psychotronic Is The
Beat!”, su due etichette differenti, la versione in CD sulla Dead Beat di Cleveland e
quella in vinile sull’italiana Radiation Records?
La scelta di avere due etichette è legata soprattutto a un discorso di
distribuzione/promozione (territori e canali diversi). Visto che siamo spesso in tour all’estero
ci è sembrato naturale pensare che l’album potesse essere prodotto da un’etichetta
straniera, ma ci sembrava importante anche avere una produzione italiana. Così Tom di
Dead Beat ha stampato il cd che è uscito a giugno, mentre con Marco di Radiation abbiamo
deciso di pubblicare un’edizione limitata di 300 vinili, che uscirà nei prossimi giorni.
Le vostre influenze sono tra le più svariate: dai Pussy Galore al primo Jon Spencer,
dai Gories alle Bikini Kill. Ci sono altri gruppi che vi hanno influenzato?
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Ce ne sono molti. A volte è divertente prendere spunto anche da generi musicali distanti dal
garage-punk e dal blues. Le nostre canzoni sono il risultato di una miscela di influenze
diverse derivanti in parte dal background musicale di ognuna di noi e in parte dagli ascolti
del momento. Quello che conta di più quando facciamo un pezzo è tirare fuori qualcosa di
personale.
Il nuovo album non si discosta molto dalle sonorità del disco precedente: una
miscela urticante e selvaggia di garage-punk, r’n’r e blues, all’insegna del più rigoroso
minimalismo e della più incompromissoria bassa fedeltà sonora. Che cos’è per voi
allora il punk? Un’attitudine, un suono, uno stile di vita...?
Il punk è un’attitudine che dà un’impronta speciale a un suono, a un’immagine e che alla
fine contagia anche la tua visione delle cose quotidiane.
Come mai la scelta della cover di “Damaged Goods” dei Gang Of Four?
Non abbiamo mai fatto molte cover né dal vivo né in studio. “Damaged Goods” è una delle
poche e risale addirittura alla primissima formazione, quando eravamo ancora in quattro.
Uscì al tempo su un demo in cassetta. Abbiamo voluto toglierci il gusto di registrarla col
gruppo dimezzato e metterla nella versione cd di “Psychotronic Is The Beat!”, sul vinile
invece al posto di “Damaged Goods” abbiamo messo “Girl U Want” dei Devo.
L’ultimo brano, “If You Could See Me”, vede la collaborazione di Margaret Doll Rod,
chitarra e voce delle eroine trash Demolition Doll Rods. Mi raccontate com’è nato
questo incontro e com’è stata questa esperienza?
Ci siamo conosciute qui a Roma (Margaret vive in Italia per buona parte dell’anno) ad una
cena organizzata da un amico comune. Abbiamo suonato insieme dal vivo e abbiamo
cominciato a frequentarci. È nata un’amicizia e la collaborazione al disco è venuta in modo
spontaneo.
Il titolo dell’album “Psychotronic Is The Beat!” allude a qualche particolare
significato?
È un riferimento cinematografico. “Psychotronic” è un termine inventato nei primi anni 80 da
Michael Weldon per dare il nome a un famoso magazine che trattava di film low-budget, che
spaziavano dall’horror alla fantascienza, spaghetti western, exploitation movies. Film di serie
B, in poche parole.
Dischi ascoltati di recente e per voi irrinunciabili.
Tra i dischi ascoltati di recente: Screamers, Volt, Gizmos: “1976/77 - The Studio
Recordings”, Booker T. & the MG’s: “Hip Hug-her”; Morlocks: “Easy listening”. Dischi
irrinunciabili: The Fall: “Grotesque”; Jonathan Richman tutto o quasi, Suicide, Joy Division:
“Closer”; Cramps: “Songs The Lord Taught Us”; Gories: “I Know You Fine, But How You
Doin’”; Dirtbombs: “Ultraglide In Black” e “If You Don’t Already Have A Look”. E la lista
sarebbe ancora lunga.
A Roma c’è una fertile scena underground di area più o meno “punk”: oltre alle
Motorama, gli Intellectuals, i Taxi, i Transex, i Cactus (Filippo dei Cactus dà pure il suo
contributo in due pezzi del vostro album). Secondo voi cosa spiega tale fermento?
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Numero Ottobre '08
Particolari condizioni geografiche, politiche o sociali di una città come Roma o altro?
Che dire... ”Fatece largo che passamo noi! Li giovenotti de sta Roma bella... Semo ragazzi
fatti cor pennello e le ragazze famo innamorà!”
Progetti imminenti?
Saremo in tour in Serbia. Non ci siamo mai state e non vediamo l’ora.
Contatti: www.motorama.org
Gabriele Barone
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Numero Ottobre '08
Aim
Spirit Of Your Tide
Viaaudio/Jestrai
L’onda lunga dello shoegaze non ha perso slancio, e, incorporata in forme più
addomesticate e pop, compare ormai con una certa frequenza tra le maglie del suono indie
italico, quello di area più rock e meno “camerettistico”. I lombardi Aim, trio di cui fanno parte i
fratelli gemelli Marco e Matteo Camisasca, rispettivamente basso e batteria, e il cantante e
chitarrista Marco Fiorello, appartengono alla categoria, avendo realizzato un interessante
ibrido, a metà strada tra le coltri di suono più morbide e avvolgenti di area shoegaze (tanto
per fare un nome: Slowdive), il rock aereo dei Sigur Rós e qualche tentazione di
apertura melodica mainstream in odore di Coldplay. Ne viene fuori un disco ben suonato e
interpretato, attraverso un manierismo non molesto che diventa possibile rampa di lancio per
escursioni più coraggiose e personali. L’epica sbrindellata e nebbiosa di “Vega”, ottimo
compromesso tra pop di ampio respiro e sfuriate chitarristiche tenute sotto controllo poi
diluite in morbide tastiere ambient nella sezione di mezzo è un eccellente biglietto da visita,
la prova che l’amministrazione delle sfumature e dei colori è un’arte che il trio può praticare a
livelli eccellenti. Se pure manca il guizzo di un brano che rompa ogni indugio e faccia
pienamente esplodere l’innodicità pop – ci si avvicina in qualche modo la lenta e gassosa
“Salige”, che tuttavia viene tenuta sotto la superficie – l’impronta complessiva lasciata da
questo album è qualcosa di più di una semplice traccia passeggera (www.viaaudio.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Ottobre '08
A Classic Education
First EPautoprodotto
I volti e i nomi che stanno dietro alla ragione sociale A Classic Education sono ben noti –
Jonathan Clancy, Paul Pieretto (entrambi dei Settlefish) e Luca Mazzieri (Marla, Wolther
Goes Stranger) – ma parlarne come di un progetto parallelo sarebbe quantomeno riduttivo,
per non dire ingiusto. Non è infatti da side-project un’attività live intensa (anche fuori dai patri
confini) come quella della formazione, così come non lo è la scelta di esordire direttamente e
solo su vinile, con un dodici pollici contenente (su un solo lato) tutti e cinque i brani finora
registrati. Un repertorio non (ancora) corposo, quindi, ma sufficiente per fare la conoscenza
con una realtà che pare destinata a far parlare parecchio di sé: se l’iniziale “Stay, Son” mette
in mostra un’epicità che qualcosa deve alla lezione degli Arcade Fire, “Lovers Barricade” è
basata su atmosfere più meditative, e lo stesso sembra fare anche la successiva “Victories
At Night”, almeno fino a quando non cambia passo e si riempie. Dopodiché, appena il tempo
di far risalire i ritmi con “Badlands & Owls” ed ecco che “Wartime” chiude il lavoro in una
chiave rarefatta e acusticheggiante. Spaziando tra indie-rock e intensità emo, con una
predisposizione tutta particolare per la creazione di liquidi tappeti sonori nati dall’incontro tra
plettri e archi, gli A Classic Education mettono in mostra una buona personalità, ma lasciano
soltanto intravedere quelle che sono le loro effettive potenzialità. A ben vedere, però, è
questo il compito di un lavoro simile: stuzzicare l’appetito in vista di un album di debutto che
ci auguriamo imminente (www.aclassiceducation.com).
Aurelio Pasini
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Numero Ottobre '08
Barbara Eramo
BARBARO ERAMO
In trasparenza
Rossodisera/Egea
Dopo qualche passaggio giovanile a Sanremo, esperienze in musical e colonne sonore,
incontri eccellenti (tra i quali Mike Manieri, Nicola Piovani, Ani Di Franco), Barbara Eramo,
cantautrice tarantina ma di scuola romana, approda al suo esordio a pieno titolo. Alcune
tracce di “In trasparenza” lasciano intravedere quello che potrebbe – per non dire dovrebbe
– essere il percorso futuro della Eramo: quelle in cui il suono è più rarefatto, gli strumenti si
rompono intorno alla voce camaleontica e virtuosistica della cantante, anziché riempire
troppo gli spazi. Così il singolo “Black Out” (con Rocco De Rosa al piano e il chitarrista
“consoliano” Santi Pulvirenti), l’iniziale “D’acqua”, e la cover di Nick Drake “River Man”,
risultano più che riuscite, traducendo un’idea espressiva cara a – poniamo – una Cristina
Donà. L’idea di una canzone moderna, elettronica e acustica, d’irrequietezza. Piena di
sospensioni, in cui prevale il non detto, le pause, i fondali. Duetto con Fausto Mesolella è “Il
villaggio”; “Poche gocce” richiama certa Kate Bush; “L’eclissi” è Björk in 6/4 e orchestra
d’archi (pregevole). Dove convince assai meno, la Eramo, è in episodi come “Disco
incantato” e “C’era già tanto vento”, che ricorrono a soluzioni un po’ prevedibili, alla ricerca di
una formula pop poco originale. La Eramo deve rifuggire dalle scorciatoie più facili. Ma,
come si vede, per fortuna prevalgono le pagine chiare.
(www.myspace.com/barbaraeramo)
Gianluca Veltri
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Numero Ottobre '08
Cellulite Star
Explicit AttitudeAndromeda Relix
C’è più dell’innocente impertinenza che ironia in un nome come Cellulite Star, e tutta la
sfacciata esuberanza di quattro giovani monelle rock. Il rock’n’roll sembra talora
riappropriarsi della sua essenza trasgressiva e irriverente, uno sberleffo all’autorità del
mondo adulto che queste giovani patavine paiono interpretare con sfrontatezza, macinando
riff e ritornelli dall’accattivante estetica street-metal-punk. Non potremmo giurare
sull’autenticità di tale attitudine (“Explicit Attitude” è il titolo del disco), ma è innegabile che il
rock al femminile, soprattutto in un contesto italiano, sappia attingere da risorse di
freschezza da far invidia a tanto diffuso machistico rockeggiare. Soprattutto, il divertimento è
garantito, senza fronzoli ed intellettualismi, con un’inesausta energia ed immediatezza da
teenager impenitenti. Un riecheggiare sbarazzino di Guns n’Roses e Ramones, tanto per
citare un paio di nomi importanti e diversi per un cocktail sferzante e vitaminico (ma più
esattamente ci vengono in mente i newyorkesi Dictators), ci accompagna da “Shake Your
Music” a “Have Your Been Around”, cover quest’ultima di un brano degli Hardcore
Superstar. L’altra cover prescelta è la nota “Call Me” dei Blondie, come un vestitino succinto
e ammiccante trovato nell’armadio della mamma, mai invecchiato, che pare calzare a
pennello alle Cellulite Star (www.andromedarelix.com).
Loris Furlan
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Numero Ottobre '08
Cripple Bastards
Variante alla MorteFETO
Oggi più che mai c’è bisogno di Cripple Bastards. È un concetto che mi porto dietro da
molto tempo, e fa davvero molto piacere saperlo supportato da lavori come “Variante alla
morte”. Un disco che non ti aspetti da chi ha appena festeggiato i vent’anni di incursioni
sonore, un disco in cui si continua a crescere sia nelle musiche che nelle parole. Se ne sono
accorti anche Shane Embury (Napalm Death) e Mick Kenney (Anaal Nathrakh), che infatti
licenziano l’album per la loro FETO Records, ovvero una patente di credibilità assoluta a
livello mondiale; che ormai si possa ragionare a livello di continenti è confermato poi
dall’uscita in contemporanea dell’LP per l’americana Deep Six. Il risultato, complice anche il
lavoro di registrazione svolto in Svezia, è all’altezza delle più rosee aspettative, con una
band in stato di grazia, capace di infilare echi di Mastodon in un grindcore forsennato, ed i
testi del “Bastard” per eccellenza ormai da antologia, e vi basterebbe leggere quelli di
“Allergie da contatto” per venire dalla mia. Ed è forse questo il pregiudizio più duro a morire:
non sempre chi urla testi a velocità folle maschera un vuoto di idee, anzi in questo caso è
vero il contrario. Saranno pure scomode e per nulla ingentilite, ma ci sono, e sono più vive
che mai. Adesso possiamo dirlo: i Cripple Bastards stanno bene come non mai, e “Variante
alla morte” è quanto di meglio c’è finora nella loro sterminata discografia. Non accorgersene
è un delitto (www.feto-records.com).
Giorgio Sala
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Numero Ottobre '08
Dummo
Gelo chiama geloTo Lose la Track/Audioglobe
Una copertina come quella dell’esordio sulla “lunga” distanza dei Dummo è talmente
surreale che si presta ad una ridda di interpretazioni. Quella che personalmente trovo più
adatta vede “Gelo chiama gelo”, pubblicato dall’interessantissima To Lose La Track, come il
tentativo di un giovane power-trio di rianimare le sorti del punk italiano. Innanzitutto cercando
di rimodulare il genere dall’interno, partendo da ritmiche spesso composite ed evitando le
soluzioni più abusate. Quanto di buono già sentito nell’EP “A Hundred Times Mannaggia” è
qui ulteriormente sviluppato, a partire dall’abbandono del canto in inglese per abbracciare la
lingua madre, una scelta questa che abbinata a testi tanto scarni quanto declamati con
urgenza è la vera particolarità dello stile del gruppo. Nove brani, nove schegge impazzite
che solo nel finale riescono a superare i due minuti e che trovano la chiusura del cerchio
nella title track che chiude venti minuti che sanno essere disturbanti proprio come l’essenza
più vera del genere di riferimento. Certo, non a tutti piacerà un cantato sforzato ed una
musica più interessata al “togliere” che all’“aggiungere”, ma chi cerca di andare oltre il già
sentito si deve per forza scontrare con convenzioni ed esperienze. Non è facile raccogliere
soddisfazioni portando in giro musiche come queste, soprattutto lungo lo Stivale. Continuate
su questa strada, e speriamo che il mondo la fuori si accorga di voi (www.toloselatrack.org).
Giorgio Sala
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Numero Ottobre '08
Fabio Orsi/Mamuthones
The First BornA Silent Place
Fabio Orsi è in questo momento uno dei nomi più in vista della scena elettroacustica – vedi
alla voce field recordings, drone, ambient e improvvisazione di area noise – non solo
italiana; Mamuthones è invece l’alias di Alessio Gastaldello, ex batterista e co-fondatore dei
Jennifer Gentle. Unite le forze, i due hanno prodotto “The First Born”, lavoro a quattro mani
dagli esiti estremi ed estremamente sperimentali. Si tratta di cinque lunghe escursioni tra
ambient ed elettronica isolazionista, con qualche sconfinamento in territori noise (a qualcuno
verranno in mente i primi Third Eye Foundation). “A Whisper” è un lento e affascinante
intrecciarsi di trame quasi impercettibili mescolate a scampanellii e fruscii, la title track si
manifesta in un livido bordone dai colori cangianti scandito da percussioni metalliche di
sapore industrial, imponente e suggestivo, “The Battle” si evolve poco alla volta in una serie
di fratture e scansioni apparentemente casuali (gli errori e i lettori CD inceppati degli Oval),
uno schema questo che diventa un poco troppo prevedibile nelle ultime due tracce, che
tuttavia dispensano una notevole dose di paranoia. Disco che ci sentiamo di consigliare solo
a chi è abituato a determinate sonorità, essendo roba per stomaci forti, ma che mostra un
talento visionario di tutto rispetto, al livello delle analoghe produzioni internazionali. Ascolto
ad alto volume consigliato solo nel caso vogliate inimicarvi i vicini oltre il punto di non ritorno
(www.asilentplace.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Ottobre '08
Federico Zecchin
Sotto gli occhi del mondoNinfee
Una lunga storia, quella di Federico Zecchin, che parte dallo sport per confluire nella
musica. Un percorso artistico vissuto con passione e una dedizione al suo genere preferito –
il jazz, pensiamo, unito alla canzone d’autore – che lo ha portato anche a sostenere,
economicamente, lavori di Enrico Rava, Franco D’Andrea, Claudio Fasoli.
Ora, sulla soglia dei cinquant’anni, arriva un lavoro vero e proprio, come solista. Brani in cui
la cronaca prende i vestiti della poesia, ciò che accade “Sotto gli occhi del mondo” diventa lo
spunto per versi senza sconti sulle brutte faccende che tutti conoscono (dagli immigrati
clandestini che affogano, fra il rimosso generale, in “Anpalagan” alla pena di morte per
Ocalan di “Idama Mahkun”, fino alla scomparsa rimpianta del “Pirata” Marco Pantani, vittima
di un gioco affaristico senza sconti) e i piccoli dettagli sentimentali dell’individuo. Lo stile è
lieve, spruzzato di swing e lontano dal rock d’Oltreoceano, la voce di Zecchin appena roca e
parecchio convincente.
Peccato per i testi, che perdono spesso la capacità di poetare a favore di un uso troppo
piatto e poco fantasioso della lingua. Niente da discutere sui temi, insomma, ma si sarebbe
dovuto trovare un modo più costruttivo di porli che non desse l’impressione, qua e là, di
sentire un discorso piuttosto che una canzone (www.federicozecchin.it).
John Vignola
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Numero Ottobre '08
Fou
Procurarsi guanxiNovunque
C’è stato un tempo neppure troppo lontano in cui gruppi come Marlene Kuntz e soprattutto
Afterhours spingevano ondate di volenterosi musicisti a rielaborarne l’immaginario e il sound,
rielaborazione che il più delle volte non brillava per originalità. Adesso, evidentemente, tocca
ai Baustelle, a cui sembrano inequivocabilmente guardare, se non sempre nella forma
quantomeno nell’attitudine, i milanesi Fou. Con un pizzico di ironia e di spirito parodistico,
certo, che però non ci pare sufficiente a tenere in piedi l’impalcatura complessiva. Dotato di
una certa sfrontatezza e di un percepibile entusiasmo, il gruppo non riesce tuttavia a dare
vita ad un esordio memorabile. Troppo forzati certi inserti di quotidianità pop
decontestualizzata, troppo compiaciuti certi scorci di decadenza metropolitana milanese per
essere totalmente credibili, anche in chiave ironica (“Asintoti”, troppo cervellotica),
interessante ma ancora da mettere a fuoco l’eclettismo musicale che a tratti sfocia in una
estetica dell’eccesso un po’ fine a sé stessa (la sguaiata “Barcode”, con quei riffoni un po’
fuori contesto, la pomposissima coda di “Mivar”) ma che, potenzialmente, potrebbe essere la
chiave per liberarsi da riferimenti troppo evidenti. “Procurarsi guanxi”, ci spiace dirlo, non
colpisce il bersaglio, e non per assenza di spunti, ma per l’eccesso di materiali compositi
poco amalgamati. Sui quali, naturalmente, è possibile lavorare per ottenere risultati
soddisfacenti, magari pure molto buoni (www.novunque.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Ottobre '08
Gaia Riva
Come And SeeOyez!
Cantautrice rock bresciana attiva fin dal principio di questo decennio, Gaia Riva fa
anticipare il suo album di debutto, atteso per fine anno, da questo EP di quattro brani
pubblicato da Oyez!, etichetta digitale appena nata. Di che si tratta? Di un rock in cui si
sentono in modo piuttosto palese i riferimenti dichiarati, ovvero Guano Apes, Alanis
Morissette e Anouk, e che di conseguenza suona un poco fuori tempo massimo anche per i
fan del genere, vittima di un cantato tecnicamente eccellente ma pedantemente sintonizzato
su una aggressività rock un po’ stereotipata, una formula che ci sembra, per l’appunto, ormai
poco attuale. Realizzato in maniera estremamente competete e professionale a livello di
suono, con il coinvolgimento tra i produttori di “My Arms” di un tal Mark Gardener che non
sappiamo dire se caso di omonimia o ex chitarrista dei Ride, “Come And See” lascia poco
all’immaginazione e solo nella conclusiva “It’s Easier To Be My Mirror Than My Man”, con
qualche infiltrazione jazz e dance, ipotizza nuovi orizzonti sonori. A questo punto ci
auguriamo che sia quella la strada intrapresa nei brani dell’imminente esordio sulla lunga
distanza (www.gaiariva.it).
Alessandro Besselva Averame
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Numero Ottobre '08
Herself
Homework
Jestrai
L’uscita di “God Is A Major”, l’esordio discografico di Gioele Valenti alias Herself, è stata la
prima pietra della new wave di casa Jestrai: una nuova politica per la label di Bergamo, non
più indirizzata al rock in italiano sulla falsariga dei Verdena, ma a un indie internazionale
capace di spaziare dal rock’n’roll (Fiub) al cantautorato lo-fi costruendosi una nuova identità
di maggior spessore artistico.
Ora, due anni dopo, Herself torna con un nuovo lavoro, “Homework”, sempre su Jestrai (che
nel mentre ha perseguito la sua nuova politica pubblicando, tra gli altri, Dente) e conferma
tutto quello che di buono è stato scritto sul suo conto con un disco più maturo e più
focalizzato. Le coordinate sono sempre le stesse: un cantautorato lo-fi statunitense che
guarda a gente come Sparklehorse e Gravenhurst (con qualche tocco di Eels qua e là) ma
non rinuncia alla ricerca della personalità per evitare quel puzzo di stantio proprio della
scopiazzatura all’italiana.
In queste nove canzoni, Herself dimostra di avere diverse marce in più rispetto a chi, magari
con tutte le migliori intenzioni, si limita a riproporre il cliché del cantautore solitario. Le sue
canzoni vivono di vita propria ed è forse la cosa migliore, in una scena che si barcamena
grazie all’accanimento terapeutico (www.myspace.com/herselfweb).
Hamilton Santià
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Numero Ottobre '08
Il Compleanno di Mary
Holywood’ SongsRadiofandango/Edel
È un progetto ecologico, quello che sta alla base del collettivo denominato Il Compleanno di
Mary. Ed ecologica, e bucolica, è anche la musica prodotta dall’ensemble, un quartetto: il
“gigante” Mino Di Martino (chitarre e piano), la cantante Maddalena Bianchi, i due
strumentisti Angelo Avogadri (flauto) e Torunn Birgitte Sortvik (violino), che danno colore e
timbriche affascinanti alle undici composizioni. Che sono sognanti, folk nobile e ricercato, a
tratti progressivo con qualche rischio di sconfinamento (raro, per fortuna) in territori new age
celticheggiante.
“Guiltness” trasferisce Bob Marley nei prati irlandesi; “Butterfly Hill” è dedicata all’attivista
che visse due anni su un albero per salvare una foresta. Impegno ecologico: “Holywood’
Songs” (con una sola “l”) è sostenuto da Greenpeace, e il tour con cui i musicisti portano dal
vivo il disco si intitola “Albericantati”. I concerti si svolgono ai piedi di piante secolari. Tanta
energia buona dalla Madre Terra si irradia naturalmente verso le tracce, da quelle originali
alle riletture. Oltre a Marley, una “Old Man” di Neil Young attraversata da un violino
ondeggiante e ipnotico, e “The Fairest Of The Seasons” di Jackson Browne, che si avvale
dello speciale apporto al basso di Ares Tavolazzi. Su tutto, ovunque, la chitarra di Di
Martino, mai convenzionale, in cerca di nuovi scenari da aprire. Due chansons in francese
musicano composizioni del filosofo Edmond Jabès. Chiude la scaletta la solennità di “Deus ti
salvet Maria”, dal repertorio di Maria Carta.
(www.myspace.com/ilcompleannodimary)
Gianluca Veltri
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Numero Ottobre '08
Kobayashi
Kobayashi
Corasong
Distribuito per scelta solamente on-line e in occasione dei concerti, l’omonimo esordio sulla
lunga distanza dei milanesi Kobayashi, seguito dell’EP “Infantili e crudeli” risalente a due
anni fa, è una raccolta di tredici episodi fortemente caratterizzati dall’intreccio ritmico di un
basso e di una batteria che per gran parte della durata si impossessano dell’attenzione
dell’ascoltatore, uscendo prepotentemente dalle casse. Completano il quadro chitarre
scheletriche e appena accennate e una voce a tratti un po’ troppo debitrice di modelli noti (gli
Afterhours quando si pigia sul tasto della dissolutezza rock, i Marlene Kuntz quando si cerca
di toccare corde un po’ più cantautorali, ascoltare per credere la comunque convincente
“L’equilibrista”). I due momenti migliori sono in ogni caso costituiti da “Seconda crepa” e
“Crepa 3”, dove l’aggressività della sezione ritmica (due addirittura i bassi in campo) elabora
un tiro hard rock alla Queen Of The Stone Age piuttosto efficace. In altre occasioni il groove
si fa ancora più incalzante, una specie di psichedelia funk costellata di aromi krautrock che
funziona a meraviglia in “Primitivo” e che nella successiva “Tubo” si trasforma in una
ossessione inceppata che fa venire in mente una versione più moderata dei Liars. Bravi
nelle alchimie sonore, un poco meno memorabili come autori di canzoni in senso stretto, i
Kobayashi vanno comunque tenuti d’occhio.
(www.kobayashicrepa.it)
Alessandro Besselva Averame
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Lachaise
Silent Cries For Help
M.P. & Records
Dopo un inizio di millennio, di pieno fervore creativo, il gothic metal sembra attraversare un
inevitabile periodo di stasi, segnato da quella linea di passaggio in cui una “moda” – perché
tale era – diventa culto e quindi, trova consensi soltanto tra i veri appassionati e i nuovi e
convinti adepti. Considerando che ero stanco di inutili plagiari, questo è il solo motivo per cui
mi avvicino al debutto dei veneti Lachaise con una giusta dose di curiosità; infatti scegliere di
proporre un suono, nel momento stesso in cui viene abbandonato dalla massa è sinonimo di
coraggio e consapevolezza di ciò che si ama. Fortunatamente i Lachaise dimostrano di
conoscere pregi e difetti di questo genere e cercano di non apparire sterili prosecutori di ciò
che è stato detto e fatto, si aggrappano ad alcune certezze, come il cantato femminile (a fine
registrazione Anya è stata sostituita da Barbara... mah?!), scavalcando però la febbrile
canonicità lirica, e sanno scrivere anche alcune canzoni che, oltre a mettere in scena gusto
e bellezza, intersecano soluzioni strumentali di indubbio valore. I temi affrontati sono quelli
classici del gothic, dove dolore e tristezza sembrano essere elementi indissolubili
dall’immagine cupa e da sonorità decadenti, ma “Short Life”, “Wasteland”, “Maybe” e spunti
vari che si incrociano durante le undici tracce mettono in mostra più che buone intenzioni e
hanno il merito di congiungere gothic e certa dark wave anni 80, allargando così gli orizzonti
di scrittura. I Lachaise , che prendono il nome dal cimitero parigino di Père Lachaise, dove
riposano molti artisti, edificano un buon punto di partenza, con più di un motivo di interesse.
(www.lachaise.it)
Gianni Della Cioppa
Pagina 30
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Lo Squintetto
A me il fastidio mi piace
Sound Factory
Alla genesi dello Squintetto v’è un’idea di libertà totale. L’idea che la musica si possa
scomporre e ricomporre, rubando melodie in ogni angolo di mondo e di tempo,
deformandole e adattandole con ironia e virtuosismo. Nicola Pisani, Checco Pallone, Piero
Gallina, Carlo Cimino e Enzo Naccarato sono fior di musicisti, tra jazz e conservatorio. Come
una fusione tra Quintorigo e Banda Osiris. Nelle pause da altri progetti, specie i concerti con
Cataldo Perri, di cui lo Squintetto è il gruppo stabile (prima ancora di diventare Squintetto), è
nato il divertissement. Ma poi i cinque ci hanno preso gusto. E giunge alla luce un lavoro che
coniuga vertiginosa bravura a un’inventiva pirotecnica, citazionista e dissacrante. Ognuna
delle dieci tracce è una sorta di medley, sulle montagne russe della raffinatezza e dello
sberleffo.
Per fare qualche esempio, “El Choto” ricuce brandelli di “El Choclo”, “Dove sta Zazà”,
“Azzurro”. “Quore mate” è invece un puzzle di “Cuore matto”, “Bella ciao”, “Pinocchio”. “La
Scumparsita” è definita da Cataldo Perri nelle note di copertina il primo esempio assoluto di
“tarantango”. Perché lo Squintetto è calabrese (con l’eccezione del sassofonista pugliese
Nicola Pisani), ma i primi vagiti li accolse Buenos Aires, e l’impasto di tango e tarantella è
nella carta d’identità del gruppo. Poi, aldilà degli stili, c’è la musica, d’ogni genere, quella di
tutti - la classica e la leggera, le colonne sonore e le melodie risapute - che si insinua
dappertutto e che pare un’anguilla, esce, entra, si contorce. “Una rotonda quadrata” mette in
fila Beethoven, i polizieschi anni 70, Tom Jones, Fred Bongusto, la “Carmen”, col tocco
sfottente (ma professionale). Con la nota stonata messa a posta. “Sulgelato” è l’ennesimo
tango declinato in jazz che poi degenera in mazurca, sulle melodie allucinate di “Gelato al
cioccolato” e “Su di noi”. Bravissimi (www.myspace.com/losquintetto).
Gianluca Veltri
Pagina 31
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Numero Ottobre '08
Merçe Vivo
imbarcoimmediatoin7minuti
Nomadism/Audioglobe
Formatisi a Torino nel 2006, i Merçe Vivo sono una rock band atipica. Composto da Lukasz
Mrozinski (testi, voce, chitarra acustica ed elettrica), Eros Giuggia (sax tenore e chitarra
elettrica), Fabio Prettico (batteria) e Giovanni Soldato (basso), il quartetto ha mosso i suoi
primi passi con l’EP “laportasiaprìconmoltorumore”, la partecipazione ad alcune compilation
e parecchi concerti. Esordio sulla lunga distanza, “imbarcoimmediatoin7minuti” mette
finalmente in tavola tutte le carte del progetto, dedito alla “ricerca di contaminazione per
assimilazione”. Co-prodotto con Marco Milanesio (Xiu Xiu, Perturbazione), l’album risulta al
contempo diretto e raffinato. Merito di un cantato che ricorda Paolo Benvegnù o Cristiano
Godano, oltre che dell’impiego di fiati jazzy a stemperare i momenti più aggressivi, ombrosi.
Alla concisa, delicata “(n)”, si sommano un paio di episodi dall’andatura estesa,
sperimentale: l’imprevedibile “Rimani”, che assicura un’apertura a effetto, e la suggestiva
“Luce”. Le altre sei canzoni in scaletta si contraddistinguono per strutture comunque inusuali:
“Livida” sta tra Diaframma e Quintorigo, “nuvola” è parimenti tesa e sospesa, “Ona” è
incrocio fra new wave e Massimo Volume, “immagina” resta per più della sua metà
strumentale. Un gioco di contrasti ben armonizzati per una proposta bilanciata fra irruenza e
cura sonora, che al primo tentativo riesce subito a centrare il bersaglio di una personale cifra
stilistica. In vista di ulteriori evoluzioni, salire a bordo è esperienza più che soddisfacente.
(www.myspace.com/mercevivo)
Elena Raugei
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Numero Ottobre '08
My Head For A Goldfish
Reflective
Black Nutria/Audioglobe
Esordio tutto sommato positivo per i My Head For A Goldfish, power-trio dedito ad una
musica di matrice statunitense che pesca negli anfratti dell’underground mescolando
influenze indie, math-rock e post-rock. Le otto canzoni di “Reflective” mostrano un grande
amore per quelle scene minori diventate vere e proprie fonti d’ispirazione per una miriade di
band. Qui, nella fattispecie, si avverte l’influenza degli Slint e degli Shellac, dei Codeine e dei
Rodan, US Maple, Jesus Lizard e via procedendo. Sono nomi scomodi ed ingombranti, ma il
disco pare reggere bene sulla distanza dei 32 minuti (lunghezza giusta): non si avverte
quella vaga sensazione di fastidio propria di lavori senza personalità ed è già un pregio
immenso.
Va detto che non si tratta di un lavoro che resterà negli annali. Alla band, però, va dato il
merito di sapere il fatto suo, di suonare bene assieme e di aver creato un buon sussidiario
delle proprie influenze. Citazionismo, non ridicola scopiazzatura. Per qualcuno è già un
motivo sufficiente per essere soddisfatto.
Cosa rende, però, “Reflective” diverso da altri dischi che si limitano a seguire le orme dei
propri idoli? Sicuramente una resa sonora all’altezza. Poi un buon tiro, costante per tutto il
disco e che evita quella sensazione di noia che spesso diventa termine ultimo per la
bocciatura. Ultimo ma non ultimo le canzoni: si fermano giusto in tempo, evitando di cadere
nel ridicolo e nella farsa. Non si ha l’impressione di ascoltare un gruppo cover math-rock. Ma
un gruppo un po’ nostalgico ma con qualcosa da dire. Anche se attraverso un linguaggio
altrui (www.myspace.com/myheadforagoldfish).
Hamilton Santià
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Numero Ottobre '08
Oshinoko Bunker Orchestra
O.B.O.
Anti Dot-Stoutmusic/Audioglobe
Hanno messo a segno uno dei dischi noise-rock più potenti e graffianti del 2008. Si
chiamano Oshinoko Bunker Orchestra, in acronimo OBO. Nascono dalle ceneri dei De
Glaen, attivi nella metà degli anni 90 e giunti a notorietà grazie alla collaborazione con lo
scrittore bolognese Enrico Brizzi. Questo è il secondo album, dopo il debutto (anch’esso
omonimo) datato 2005. Il power-trio fiorentino, formato da Vanni Bartolini (chitarra e voce),
Francesco Fusi (basso e voce), Lorenzo Moretto (batteria), ha affinato ulteriormente la
tecnica strumentale, riuscendo a maturare uno stile personale, nonostante i debiti innegabili
nei confronti della scuola noise-rock di matrice newyorkese (Sonic Youth) e chicagoana
(Shellac, Jesus Lizard), e del post-hardcore di Fugazi e Girls VS Boys. Il suono convulso e
psicotico degli OBO presenta anche forti richiami al “nuovo rumore” americano (Liars,
Oneida) e al punk-funk eclettico dei Primus. A risaltare fra le otto tracce dell’album sono
sicuramente il punk-funk robotico di “Family Day”, il crossover di “The Wild Cheek”, in cui
affiorano echi dei grandi Giddy Motors, le ossessive reiterazioni ritmiche di “OSS Pt. 2” e gli
estenuanti tredici minuti della conclusiva, devastante “Mr. Lansdowne”, vero e proprio atto
d’amore del gruppo per il loro maestro Steve Albini. Il disco, coprodotto dalle etichette
indipendenti fiorentine Anti Dot e Stoutmusic, è stato pubblicato esclusivamente in vinile con
cd all’interno.
(www.oboism.com)
Gabriele Barone
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Numero Ottobre '08
Pino Barillà
Canto
BGMA
Espressione di un crocevia virtuoso, tra la canzone d’autore più seria e la resistenza civile, il
musicista di Gioia Tauro Pino Barillà realizza un lavoro di summa dopo un’attività
pluridecennale. Splendida l’iniziale title track “Canto”, avvolgente come una traversata
evocativa, nonché la sua gemella “L’ultimo canto”, approdo da “un mare in tempesta” dalla
parte opposta del disco, ugualmente struggente. I due episodi migliori del lavoro.
“Se fosse vera la notte” ricorda certe composizioni più morbide dell’ultimo Lolli, al quale
Barillà è unito dal trait d’union d’uno stuolo di musicisti in comune: Alessandro Luvarà,
Andrea Ferrario, Marcello Surace, Pasquale Morgante.
I numi del cantautore reggino paiono essere Endrigo, Ciampi e Lauzi: a quest’ultimo lo
avvicinano moltissimo timbri e vezzi vocali. Quanto al compianto autore di “Teresa” –
sussistessero dubbi – v’è la traccia numero 8: un’energica “Via Broletto N. 34”, una delle
cover-tributo dell’album. Le altre sono “Io e te, Maria” (Ciampi, appunto), e “La libertà” di
Giorgio Gaber, realizzata in versione swingante insieme a un giocoso coro di bambini. È
questo, gaberiano, il lato politico di Barillà: quello di “E adesso ammazzateci tutti”, una
canzone di lotta a viso aperto contro la paura (“Piangono i giovani ma non sono piegati, loro
son stanchi di chi ruba la speranza”). Su altri registri “Ora”, una sonata dolente e incuneata
su se stessa, tratta da una lirica di Vincenzo Fusco, per pianoforte, violoncello e chitarra.
(www.pinobarilla.it)
Gianluca Veltri
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Numero Ottobre '08
Sant’Antonio Stuntmen
Into The Aorta
Black Nutria/Audioglobe
Il mondo dei Sant’Antonio Stuntmen gira attorno ad un paio di certezze granitiche: gli
strumenti più pestano e meglio è; l’originalità non è importante. Sono due fondamenti che ci
trovano d’accordo, ma spesso non basta per mettere assieme abbastanza canzoni per un
disco decente. Intendiamoci, i nove capitoli di “Into The Aorta” fanno capire che le influenze
dello stoner (Queens Of The Stone Age più che Kyuss) e del post-core (i Fugazi su tutti)
hanno aiutato più di ogni altro la band di Padova e ascoltare il ritmo martellante della
batteria, così come il clangore lancinante delle chitarre e la retta matematicità del basso. Ma
ci fermiamo qui. OK, si tratta di qualcosa di piacevole, di positivo, ma non c’è niente che
suggerisca un passo oltre il semplice esercizio di stile. In alcuni episodi (“Sommergible” e
“Caene”) la band dimostra anche una discreta ispirazione, ma il resto sembra vagare
nell’assoluta sufficienza.
L’impressione generale, ascoltando questo “Into The Aorta”, è di essere davanti ad una
band che si diverte e vuole alzare il volume per far divertire il pubblico. Intento mobilissimo,
va detto, ma siamo sicuri che basti? Siamo circondati una quantità di musicale tale che per
farsi riconoscere e ricordare ci vuole ben più che un semplice compitino vagamente
divertente. Altrimenti lo scaffale alto della collezione di dischi può rassegnarsi ad accogliere
nuovi inquilini.
(www.myspace.com/santantoniostuntmen)
Hamilton Santià
Pagina 36
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Numero Ottobre '08
Sense Of Akasha
People Do Not Know Who Rules
Riff
Progetto ambizioso, quello dei Sense Of Akasha da Brunico, collettivo formato nel 2002
capace di dare alle stampe un disco ostico ma non privo di momenti di ottima ispirazione.
Certo, quando ti trovi davanti a un lavoro di sessantaquattro minuti cominci l’ascolto un po’
scoraggiato e certi timori si dimostrano fondati. Però non si comincia male. Dopo un piccolo
spoken si parte con una bordata di electro-shoegaze che, firmata dagli M83, diventerebbe
un pezzo di successo. E la prima metà di “People Do Not Know Who Rules” dimostra
un’ottima forma: molti generi mischiati, dal post-rock all’elettronica passando per Brian Eno,
lo shoegaze e il funk mutante della New York anni 80 di James Chance.
Date queste premesse, uno si aspetta un disco di grande spessore, nonostante la durata.
Ma i timori, a volte, si dimostrano fondati. Perché nella seconda metà si cala terribilmente.
C’è dispersione, sembra di girare attorno al centro del discorso e l’attenzione cala
drasticamente. Crescono i rimpianti. “People Do Not Know Who Rules” ha tutte le carte
giuste per essere un grande disco, ma è “frenato” dalla sacrosanta ambizione dei suoi
artefici. Avessero scremato un po’, soprattutto verso la fine della scaletta, i Sense Of Akasha
avrebbero partorito un disco degno di essere ricordato. Così, invece, abbiamo solo una
crisalide potenzialmente molto buona.
(www.myspace.com/senseofakasha)
Hamilton Santià
Pagina 37
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Numero Ottobre '08
The Record’s
Money’s On Fire
autoprodotto
Dotati di un senso dell’umorismo che già si nota sul booklet di questo loro album d’esordio,
dove campeggia la scritta “This album is dedicated to those who ignore us”, i bresciani The
Record’s hanno dedicato le loro giovani energie a sviluppare un divertente rock Sixties dalle
vaghe parentele new wave (il primo Costello, certi vezzi che riportano ai Jam, ovviamente
fatte le necessarie proporzioni). Una specie di duplice operazione filologica, il garage-rock e i
suoi primi esegeti in differita che diventano entrambi materia d’analisi e scaltra copia – in
senso buono, quando si dice rubare il mestiere – producendo un disco frizzante e ben fatto.
Senza troppe pretese, certo, ma divertente e scorrevole quanto occorre. La produzione
artistica di Giovanni Ferrario, del resto, è più che una garanzia: il chitarrista si diverte a
lavorare sulle sfumature e sui suoni di chitarra, a fornire alla band una atmosfera d’epoca
piuttosto credibile. Tanto che “A Little Content” sembra provenire da qualche sconosciuta
band britannica del 1966, venata di r’n’b com’è, con un piano incalzante e ritornelli liberatori,
mentre un altro esempio assai credibile di scrittura è “Girl Of My Wet Dreams”, robusta,
immediata e con impeto mod da manuale, con un ottimo lavoro sui cori. Un apocrifo che non
farà certo gridare al miracolo – grida che si sentono echeggiare sempre meno del resto – ma
che è stato realizzato con competenza e passione, magari con un occhio al trend musicale
attuale, ma anche con misurata sobrietà.
(www.myspace.com/therecordsrocks)
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Numero Ottobre '08
Thousand Millions
Here And Back AgainWynona/Self
Arrivati all’esordio ufficiale dopo la solita gavetta fatta di concerti e demo, i Thousand
Millions sfornano un prodotto assolutamente all’altezza di molte più blasonate produzioni
estere, tanto per la qualità della scrittura quanto per quella di suoni e arrangiamenti.
Registrato tra Bologna e Lecce e masterizzato a New York, “Here And Back Again” si
colloca all’ideale confine tra indie-rock statunitense anni 80/90 (post-Pixies e post-Pavement,
per intenderci, ma per esempio in “Do You “Full Bloom”?” si sentono anche gli Strokes) e
istanze emo, specie per quanto riguarda certe linee vocali. Ritmiche saltellanti, chitarre
storte, improvvise esplosioni e un cantato che mai si allontana troppo dalla melodia, finendo
anzi spesso per sposarla in pieno: ecco gli ingredienti di un lavoro che è una colorata
esplosione di creatività e gioia di vivere, anche nei momenti in cui la tensione diventa
palpabile. Al suo interno si balla (magari solo con la fantasia, magari per davvero), ci si
scatena, si canta a squarciagola sui ritornelli, ci si diverte seguendo le inaspettate traiettorie
delle occasionali tastiere e, soprattutto nel finale, ci si lascia trasportare da un power-pop
che più che i Big Star ricorda i Fountains Of Wayne meno dozzinali o, meglio ancora, i
Weezer. Non un album di quelli che cambiano la vita, d’accordo, ma minuto dopo minuto è
bello vedere come, lentamente, si finisce per rimanerne piacevolmente invischiati. Fuor di
dubbio un buon inizio.
(www.myspace.com/thousandmillions)
Aurelio Pasini
Pagina 39
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Numero Ottobre '08
Underfloor
Vertigine
Suburban Sky
Avevano esordito quattro anni fa, con un album autoprodotto questi fiorentini Underfloor, e
oggi li troviamo alle prese con un nuovo lavoro, supportati da un’etichetta; come a dire che
almeno un obiettivo minimo è stato centrato. Un risultato raggiunto con merito, infatti non
sono mancati i responsi positivi sia per il debutto, che per le apparizioni dal vivo, dove la
band esprime al meglio le proprie potenzialità, con un rock avvolgente e dal taglio
lucidamente melodico, ma che non poggia su concetti espressivi usurati, preferendo un
approccio leggero, che porta il suono a gravitare in altezza e non di stomaco. La scelta del
cantato in italiano, va vista come un’urgenza di chiarezza, piuttosto che come un limite e la
voce di Matteo Urro (anche essenziale e incisivo chitarrista), pare acquistare forza da questa
opzione, dipanandosi sicura tra i meandri delle liriche, affrontate sempre con sicurezza e
direi saggezza, vista l’andatura melodica serena. Ma le canzoni degli Underfloor sono un
gioco di squadra, niente sarebbe uguale, senza i tratteggi cromatici della sezione ritmica del
bassista Guido Melis e del batterista Lorenzo Desiati. Tra i solchi di “La mia necessità”,
“Ancora un inverno”, “Bianco” e “Non ho più parole” si incuneano spesso ospiti, con deliziano
con flauti, archi, pianoforte, che conferiscono profondità e saggezza al suono, una sorta di
rock post (e non post-rock), che incalza sul fronte dell’energia e della scrittura e a cui non
mancano elementi vagamente lisergici, che dimostrano come sia ancora possibile staccarsi
dalla banalità del rock, pur scrivendo semplici canzoni. È gratificante non trovare un termine
di paragone chiaro per gli Underfloor, un trio allargato che vale la pena scoprire, perché
capace di celare gradite sorprese (www.underfloor.it).
Gianni Della Cioppa
Pagina 40
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Numero Ottobre '08
Ancher
Veronesi, appena ventenni, gli Ancher dichiarano di essere influenzati “dal rock sperimentale
(e post), dalla bossa nova e dal pop”: e anche se, raccontano nella nota che accompagna il
loro debutto, il CD-R “Grembiule” (Afide Sonoro), registrato ormai un paio d’anni fa,
ritengono di essersi evoluti rispetto alle session immortalate sul supporto, possiamo dire che,
pur con le inevitabili ingenuità e i problemi logistici di organizzazione della materia sonora, le
sei canzoni in scaletta, solo in un caso arricchite della voce (“Betulla”, dove il cantato pigro e
indolente ma non privo di espressività si affianca al flicorno), indicano un buon talento nel
mescolare i suddetti ingredienti, immergendo certi intrecci di chitarre post-rock in una
soluzione più morbida e duttile. Un approccio che li fa sembrare, nell’introduttiva “Casca la
resina”, una specie di versione addomesticata e un po’ naïf dei Rosolina Mar. Manca
ancora un ancoraggio solido, ma ci siamo vicini.
(www.myspace.com/anchermusic)
Alessandro Besselva Averame
Pagina 41
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