Il secondo dopoguerra e l`ordine bipolare

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Il secondo dopoguerra e l'ordine bipolare
Gli stati nazionali nati dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico
Dalla dissoluzione dell'Impero austro-ungarico avvenuta dopo la fine della prima guerra mondiale nascono
una molteplicità di stati nazionali. Per quanto si fosse cercato di costruire questi stati secondo un principio
di omogeneità linguistico-culturale, tuttavia in essi erano presenti consistenti minoranze. Tra le nuove entità
politiche vi erano:
 L'Austria, ridotta a stato di dimensioni insignificanti. L'Austria desiderava essere annessa alla
Germania, ma, per evitare di rafforzare quest'ultima, gli Alleati glielo proibirono.
 La Cecoslovacchia, nata dall'unione di due gruppi con storie molto diverse: i cechi e gli slovacchi.
 L'Ungheria, era lo stato che aveva subito più di tutti amputazioni territoriali.
 La Jugoslavia, fra tutti gli stati nati nel 1919 era il più fragile e contraddittorio.
Il vero smantellamento del sistema di Versailles iniziò nel 1938: i tedeschi dapprima occuparono la regione
dei Sudeti e successivamente l'intera Cecoslovacchia. Quando la guerra scoppiò tutta l'area mitteleuropea
(Romania, Bulgaria, Ungheria, Austria, Cecoslovacchia) era divenuta un satellite della Germania. Queste
regioni furono liberate dai Russi. Nella seconda metà del 1944, l'Armata Rossa occupò la Romania e la
Bulgaria, nel febbraio i Sovietici conquistarono l'Ungheria, l'Austria e la Cecoslovacchia.
Per quanto riguarda la Jugoslavia, la situazione si presentava molto complessa e carica di tensioni. Essa
nacque dall'unione, al regno di Serbia, del Montenegro, della Croazia, della Slovenia e della BosniaErzegovina. Si trattava di popolazioni molto diverse; croati e sloveni erano cattolici e utilizzavano l'alfabeto
latino, i serbi erano per lo più ortodossi e usavano i caratteri cirillici. In Bosnia-Erzegovina c'era una
consistente minoranza di musulmani. I rapporti tra serbi e croati si deteriorarono in fretta. I serbi, che si
ritenevano i vincitori della guerra (i croati e gli sloveni avevano sostenuto l'Austria-Ungheria), volevano
occupare tutti i posti di potere. La tensione raggiunse livelli elevatissimi e vi furono numerosi assassini
politici.
In questo scenario nel 1941 si inserì l'invasione degli eserciti italiano e tedesco. Il paese venne smembrato
(la Slovenia andò al Reich, mentre la Dalmazia all'Italia) e si creò il nuovo stato indipendente di Croazia,
guidato dal movimento ultranazionalista degli ustascia (ribelli), i quali misero in atto enormi massacri
contro gli ebrei, gli zingari e soprattutto i serbi (si stimano fino a 600000 vittime). Agli ustascia si opposero
i nazionalisti serbi fedeli alla monarchia, ma soprattutto i partigiani comunisti guidati da Tito (nome vero:
Jossip Broz). Nel 1943 Tito ottenne il sostegno militare inglese e, impadronitosi delle armi italiane
abbandonate dopo l'8 settembre, tenne testa ai tedeschi fino all'arrivo dell'Armata Rossa, insieme alla quale
entrò a Belgrado il 20 ottobre 1944.
La questione della Venezia Giulia
Tito era un comunista convinto, ma era animato anche da un marcato nazionalismo slavo e desiderava
allargare i confini della nuova Jugoslavia, puntando ad annettere l'intera Venezia Giulia e quindi a spostare
la frontiera con l'Italia al Tagliamento.
Nel settembre 1943 con il collasso dell'esercito italiano, le truppe di Tito assunsero il controllo dell'Istria.
L'occupazione militare jugoslava fu accompagnata da una lunga serie di rappresaglie e violenze nei confronti
degli italiani presenti in quelle regioni (carabinieri, insegnanti, impiegati, ecc.). Alcune centinaia di persone
(forse 700) vennero arrestate e uccise, e poi gettati nelle foibe (a volte vi erano gettati anche da vivi), che
sono profonde cavità carsiche naturali.
L'intervento delle forze tedesche obbligò i partigiani di Tito a ritirarsi dopo circa un mese di occupazione; i
nazisti insediarono il loro comando a Trieste, presso la risiera di San Sabba, che divenne centro di transito
per prigionieri destinati alla deportazione in Austria, Germania e Polonia.
All'inizio del maggio 1945 le forze jugoslave di Tito entrarono a Trieste e riconquistarono l'intera Istria. Le
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violenze del 1943 si ripeterono su scala maggiore. Probabilmente, 4-5000 furono le vittime, per la maggior
parte infoibate, nel periodo compreso tra l'occupazione jugoslava di Trieste (primo maggio) e l'ingresso
delle truppe inglesi nella stessa Trieste (12 giugno 1945).
Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venne firmato il trattato di pace. Dalle regioni assegnate alla Jugoslavia,
fuggirono verso l'Italia oltre 300000 persone. Fu un esodo di dimensioni enormi (solo da Pola, capoluogo
dell'Istria, partirono 30000 italiani).
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La Conferenza di Yalta
Il 4 febbraio 1945, Roosevelt, Churchill e Stalin si riunirono a Yalta, in Crimea, per riflettere sul futuro
assetto dell'Europa post-bellica. In questo incontro non venne ancora deciso (come invece spesso si
afferma) che l'Europa sarebbe stata divisa in due grandi sfere di influenza, piuttosto si lasciava ampio spazio
all'autodecisione dei popoli.
La nascita dell'ONU
La speranza di Roosevelt era di poter continuare la collaborazione con i sovietici anche dopo la sconfitta di
Hitler. A tal fine promosse la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, con l'obiettivo di conservare
la pace e la sicurezza a livello mondiale. Stalin però era preoccupato che l'ONU potesse trasformarsi in uno
strumento di attuazione di una politica antisovietica da parte dei paesi capitalisti. Pertanto, a Yalta, Stalin
ottenne che all'interno del Consiglio di Sicurezza (organismo direttivo dell'ONU, composto da 5 membri
permanenti e 10 variabili), le cinque più importanti potenze (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina,
membri permanenti) godessero del diritto di veto.
L'ONU nacque ufficialmente il 26 giugno 1945, dopo un'apposita conferenza a San Francisco in cui furono
fissati i principi di fondo e lo statuto.
La Conferenza di Potsdam
I tre grandi stati vincitori si incontrarono di nuovo a Potsdam dal 17 luglio al 2 agosto 1945. Il nuovo
presidente americano, Harry Truman, era molto più diffidente nei confronti di Stalin, così nel maggio 1945
interruppe gli aiuti all'URSS (fino ad allora erogati con la Legge affitti e prestiti).
A Potsdam si diede esecuzione alla decisione già presa a Yalta di dividere la Germania in 4 zone
d'occupazione (americana, britannica, francese, sovietica); inoltre, ogni potenza occupante poteva
effettuare prelievi di impianti industriali o altro, a titolo di riparazione, direttamente nella zona
amministrata.
La dottrina Truman
Stalin iniziò la “sovietizzazione” di tutta l'area occupata dall'Armata Rossa (ovvero gran parte dell'Europa
orientale). A tal proposito Churchill disse che una cortina di ferro si era stesa sulle regioni orientali del
continente e fece un appello agli Stati Uniti per bilanciare la crescente potenza sovietica. L'appello fu
effettivamente accolto: il 12 aprile 1947, in un celebre discorso al Congresso il presidente americano fissò
la cosiddetta dottrina Truman, in cui si diceva che obiettivo politico primario degli USA era il “contenimento
del comunismo”, in modo da impedire che altre regioni d'Europa o del mondo finissero sotto controllo
sovietico.
Un altro obiettivo statunitense era quello di creare un libero mercato globale, potenzialmente mondiale.
Tale obiettivo, già iniziato nel 1941 con la firma della Carta Atlantica tra USA e GB, fu ribadito con gli
accordi monetari di Bretton Woods del 1944, finalizzati a stabilizzare i cambi delle monete, ancora
fluttuanti dopo l'abbandono della parità aurea negli anni Trenta. Gli accordi prevedevano 1) l'obbligo per
ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto
al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre
valute; 2) il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo
Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale per la ricostruzione e
lo sviluppo (detta anche Banca mondiale).
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Il Piano Marshall
Gli USA misero in atto un grandioso piano di aiuti per rilanciare la produzione industriale dei paesi europei,
noto come Piano Marshall (dal nome dell'allora Segretario di Stato, George Marshall). In un primo tempo,
gli Stati Uniti offrirono fondi anche a Polonia e Cecoslovacchia, ma Stalin vietò loro di accettarli. Da quel
momento gli aiuti vennero garantiti solo a quei governi che non vedessero la partecipazione dei
comunisti: il piano divenne una formidabile arma di pressione, finalizzata a garantire agli USA
l'allineamento di quei paesi (come la Francia e l'Italia) che avevano al proprio interno dei forti partiti
comunisti.
Il Piano Marshall fu approvato dal Congresso nel marzo 1948 e fu sospeso nel 1952, dopo aver erogato
complessivamente aiuti per 13812 milioni di dollari.
Il Cominform e la condanna di Tito
Al Piano Marshall, l'URSS rispose con la fondazione del Cominform (Ufficio d'informazione dei partiti
comunisti), finalizzato a coordinare l'azione politica dei partiti comunisti di tutto il mondo (in modo
analogo a quello che era il Comintern, o Internazionale comunista). Nel gennaio 1949 fu creato anche il
Comecon (Comitato di assistenza economica), che ufficialmente doveva rappresentare uno strumento di
cooperazione economica tra le “democrazie popolari” legate all'URSS, ma che in realtà permetteva a Stalin
di utilizzare le risorse dei paesi occupati durante la guerra per rilanciare l'economia sovietica.
Dal 1949 anche l'URSS ha la bomba atomica.
Il 28 giugno 1948, il Partito comunista jugoslavo venne espulso dal Cominform, perché Tito stava cercando
di fare una politica nazionale indipendente dagli URSS (tale politica si concretizzò negli anni '60 con la
fondazione del Movimento dei Non Allineati). Oltre alla condanna di Tito, Stalin ordinò che fossero
eliminati tutti quei dirigenti comunisti che potevano aspirare all'indipendenza dall'URSS e dar vita a vie
nazionali verso il socialismo. In Ungheria, Cecoslovacchia, Bulgaria e Polonia vennero organizzati grandi
processi spettacolari con numerose condanne a morte e ergastoli.
Il blocco di Berlino
Nel marzo 1948 gli Alleati riunificarono la Germania Ovest e diedero vita ad una riforma del sistema
monetario. Per reazione, i russi bloccarono ogni accesso alla città di Berlino, la quale, nel 1945, pur
essendo nella zona sovietica, era stata anch'essa a sua volta divisa in quattro settori. La zona amministrata
dalle tre potenze occidentali si trovava dunque circondata interamente da un territorio controllato dai
sovietici (lo scopo era indurre gli Alleati ad abbandonare la città). Il 26 giugno 1948, iniziò un ponte aereo, il
cui compito era quello di rifornire di tutto i 2,5 milioni di berlinesi residenti nella zona non sovietica. Il
ponte aereo ebbe completo successo, tanto che nel maggio 1949, i sovietici allentarono il blocco.
Il 4 aprile 1949 nacque il Patto Atlantico, cui aderirono, oltre agli USA e il Canada, anche i principali paesi
dell'Europa occidentale (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Italia, Norvegia,
Portogallo). A partire dal 1952 il Patto Atlantico venne chiamato NATO (North Atlantic Treaty Organization).
Nel 1955 i paesi dell'Europa orientale si unirono in un'alleanza militare nota con il nome di Patto di
Varsavia, sotto il rigido controllo di Mosca.
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Le democrazie popolari
Il 23 maggio 1949 venne dato vita alla Repubblica Federale Tedesca (RFT o FDR) sul territorio amministrato
dagli anglo-americani. Come risposta, il 7 ottobre 1949 nacque la Repubblica Democratica Tedesca (RDT o
DDR) nelle regioni amministrate dai sovietici. Quest'ultima, insieme agli altri stati dell'Europa dell'est
controllati dai sovietici, veniva detta “democrazia popolare”, con riferimento al concetto di dittatura del
proletariato formulato da Lenin in Stato e rivoluzione, ma che in realtà significava totale allineamento alle
direttive di Mosca.
Dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), il potere in Unione Sovietica passò a Nikita Krusciov.
A partire dal 16 giugno 1953 a Berlino Est la popolazione iniziò a manifestare contro gli aumenti del prezzo
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del pane e di altri generi alimentari primari. Le truppe sovietiche d'occupazione riportarono l'ordine con la
forza. La versione ufficiale parlava di operai sobillati da agenti stranieri; in realtà si trattava del primo
segnale del fatto che le democrazie popolari potevano reggersi solo con l'uso della repressione e con il
sostegno dell'esercito russo.
Il XX Congresso del PCUS
Nel 1953, la Jugoslavia e l'Unione Sovietica iniziano un percorso di riconciliazione.
Anche nei confronti dell'Occidente Krusciov era pronto ad una nuova politica e, durante il XX Congresso del
Partito tenutosi nel febbraio 1956, lanciò l'idea della coesistenza pacifica, dettata anche dal fatto che le due
superpotenze disponevano ora di armi, come la bomba H, in grado di provocare un disastro di proporzioni
inimmaginabili, in caso di guerra.
La vera importanza storica del XX Congresso del PCUS stava nel fatto che Krusciov denunciò Stalin come un
dittatore criminale e violento e rivelò, inoltre, che Lenin, nel suo testamento, aveva raccomandato di
rimuovere Stalin dalla carica di segretario, ritenendolo dispotico e pericoloso.
La crisi del 1956 in Polonia
Con la sua clamorosa denuncia, Krusciov intendeva consolidare il proprio potere, mediante la denuncia dei
suoi avversari politici come complici dei crimini di Stalin, ma le conseguenze furono dirompenti ben oltre le
sue aspettative.
Il primo paese dell'Europa dell'Est in cui si registrarono gli effetti della destalinizzazione fu la Polonia, in cui
nel giugno 1956 migliaia di operai scesero in sciopero. Dopo aver tentato senza successo di bloccare
l'elezione di Gomulka (che era stato rimosso dalla carica nel 1948, nell'ambito delle epurazioni staliniste
conseguenti alla rottura con Tito) a segretario del Partito comunista polacco, Krusciov, nell'ottobre 1956,
accettò che la Polonia entrasse in una nuova fase della propria storia comunista, i cui primi atti furono la
riabilitazione di migliaia di innocenti processati in epoca stalinista e la liberazione di Wyszynski, arcivescovo
di Varsavia.
La rivolta ungherese del 1956
A differenza dell'ottobre polacco, la rivolta ungherese dell'autunno 1956 ebbe altro esito. Dopo una prima
grande manifestazione, l'URSS prima fece intervenire l'esercito a Budapest, ma poi accettò che Imre Nagy
(dirigente comunista in precedenza condannato per deviazionismo) venisse nominato Presidente del
Consiglio. Nagy, tuttavia, invece di allinearsi alle direttive di Mosca, diede vita ad un governo di coalizione,
comprendente anche elementi non comunisti e soprattutto dichiarò che l'Ungheria usciva dal Patto di
Varsavia. L'estrema speranza dei ribelli era che l'ONU intervenisse a sostegno dell'Ungheria, in caso di
aggressione russa. Ma ciò non avvenne, anche perché in tal caso il rischio di un nuovo conflitto mondiale
sarebbe stato elevato. Così il 4 novembre 1956 i carri armati sovietici attaccarono per la seconda volta
Budapest. Dopo quattro giorni di scontri violentissimi, Nagy fu arrestato, processato a porte chiuse, e
impiccato il 16 giugno 1958.
La Francia di De Gaulle e l'Europa del Mercato Comune
In quegli anni la Francia era impegnata a reprimere la ribellione esplosa in Algeria (sua colonia già
dall'Ottocento). Mentre aumentava nell'opinione pubblica la disponibilità ad un ritiro francese dal paese
nordafricano, i coloni francesi d'Algeria diedero vita a un comitato di salute pubblica pronto a compiere un
colpo di stato in Francia, con l'aiuto dell'esercito. Per salvare la situazione, si fece ricorso alla prestigiosa
figura del generale De Gaulle. Il 1° giugno 1958, De Gaulle divenne Presidente della Repubblica, dopo che
la Costituzione venne modificata in modo che la figura del Presidente potesse esercitare tutte le principali
funzioni di governo. De Gaulle cercò innanzitutto di chiudere la questione dell'Algeria, a cui fu concessa
piena indipendenza nel 1962.
Da quel momento De Gaulle si dedicò al rilancio del prestigio internazionale della Francia, tentando di fare
uscire il suo paese dalla logica bipolare e auspicando la trasformazione dell'Europa occidentale in una terza
forza, guidata dalla Francia, capace di trattare alla pari con URSS e USA.
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Sebbene De Gaulle, perseguendo questa politica di grandezza, avesse gradualmente sganciato la Francia
dalla NATO, tuttavia accettò che il proprio paese entrasse a far parte della Comunità Economica Europea
(CEE), la cui nascita era prevista dal Trattato di Roma, stipulato il 25 marzo 1957. Tale organismo consisteva
nella creazione di un vasto mercato comune europeo, all'interno del quale circolassero liberamente, senza
dazi e limitazioni, materie prime, manufatti industriali e prodotti agricoli. Al trattato avevano aderito seri
paesi (Italia, Germania Federale, Francia, Olanda, Belgio e Lussemburgo) e l'inizio del processo era fissato
per il 1° gennaio 1959.
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La caccia alle streghe negli USA
Negli Stati Uniti la denuncia, da parte del governo e degli organi di stampa, della violazione dei diritti
dell'uomo compiuti dai regimi comunisti era all'ordine del giorno. Tuttavia, negli anni Cinquanta, anche nella
democratica America, non sempre i diritti erano rispettati. Vi fu in particolare, tra il 1950 e il 1954, una
commissione d'inchiesta contro il comunismo, guidata dal senatore Joseph McCarthy, che, sotto la spinta
di una sorta di isteria collettiva e del ricorso alla teoria del complotto, compì una lunga serie di abusi
giudiziari. Nella maggior parte dei casi le accuse, rivolte a persone comuni come a noti personaggi pubblici,
di essere spie al servizio dei russi, erano prive di fondamento, eppure migliaia di persone furono
condannate o videro la propria carriera distrutta. Il caso più noto è quello dei coniugi Julius ed Ethel
Rosenberg, che, nonostante gli abusi e le numerose irregolarità procedurali, vennero giudicati colpevoli di
spionaggio a favore dell'URSS e giustiziati nel 1953.
Le proteste dei neri negli anni Cinquanta
Mentre il maccartismo volgeva al termine, cominciò a prendere campo la protesta dei cittadini neri
americani, per ottenere parità di diritti. Il primo significativo episodio si ebbe a Montgomery, in Alabama,
dove la popolazione nera nel 1956 boicottò i trasporti pubblici, sui quali vigeva una rigida separazione. A
guida della clamorosa iniziativa vi era Martin Luther King, un giovane pastore della Chiesa battista. King
rifiutava la violenza come strumento di lotta, in quanto sosteneva che l'uso della violenza non avrebbe mai
potuto generare una pacifica convivenza, ma solo altro odio. La protesta di Montgomery si concluse con
successo, in quanto nel novembre 1956 la Corte suprema dichiarò incostituzionali le leggi segregazioniste
dello stato dell'Alabama. Già nel 1954 la Corte suprema aveva condannato la prassi della separazione
scolastica (si noti che nel 1896 invece la Corte suprema aveva sancito la legittimità della pratica di erogare
servizi uguali ma separati). A questo nuovo orientamento della Corte suprema si opposero fortemente gli
stati del Sud. L'episodio più grave si ebbe a Little Rock, in Arkansas, dove nel 1957 gli studenti neri che
volevano entrare in una scuola tradizionalmente frequentata da bianchi, dovettero essere scortati
dall'esercito. Vi fu un aspro conflitto fra potere centrale (garante del dettato costituzionale) e potere
periferico (portavoce dei sentimenti razzisti della popolazione bianca).
La Nazione dell'Islam
Negli anni Cinquanta vi fu un imponente esodo di neri dal Sud, dove ormai scarseggiava il lavoro nei campi,
verso il Nord industrializzato. I nuovi arrivati si accalcavano in zone squallide e degradate, dove proliferava
delinquenza e prostituzione. Fu in questo contesto che crebbe Malcom X, un giovane delinquente, che in
carcere entrò in contatto con i seguaci di Elijah Muhammad, fondatore di un movimento chiamato la
Nazione dell'Islam (noto anche con il nome di Black Muslims), di cui Malcom X divenne uno dei leader. Il
movimento professava la natura diabolica dell'uomo bianco, da cui quindi bisognava prendere le distanze,
rifiutandone il mondo e i valori. I seguaci dei Musulmani Neri erano soliti sostituire il proprio cognome con
una X, in memoria dell'ignota tribù africana di provenienza.
Il nazionalismo nero considerava il mondo bianco irrimediabilmente permeato di razzismo e incapace di
redenzione, pertanto l'integrazione con esso era impossibile.
La lotta per l'integrazione
Mentre la Nazione dell'Islam diffondeva questa nuova dottrina soprattutto fra i neri delle grandi città,
Martin Luther King continuava la sua lotta nonviolenta contro il potere razzista bianco degli stati del Sud. In
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seguito a violenze subite durante una pubblica dimostrazione organizzata da King nel 1963 a Birmingham in
Alabama, le principali associazioni antirazziste organizzarono una grande marcia su Washington, che ebbe
luogo il 28 agosto del 1963.
Nel 1964 a Martin Luther King venne conferito il premio Nobel per la pace.
Nel marzo 1965 si ebbe a Selma (in Alabama) un'altra clamorosa esplosione di violenza razzista: i
dimostranti neri che marciavano pacificamente furono bastonati dalla polizia, che arrestò moltissime
persone, fra cui lo stesso King.
In risposta a queste violenze, il presidente Johnson presentò al Congresso il Voting Rights Bill, con cui si
eliminavano i test di cultura generale necessari per poter votare.
Sul piano dei diritti si può dire che la battaglia dei neri per l'integrazione era vinta, sebbene il razzismo
fosse tutt'altro che spento: l'assassinio di Martin Luther King il 4 aprile 1968 ne fu la tragica prova.
Il 21 febbraio 1965, in circostanze poco chiare, anche Malcom X era stato assassinato. La situazione
divenne esplosiva nei ghetti neri, dove si fece strada un nuovo movimento radicale, chiamato Black Power.
A tutt'oggi la questione razziale negli USA rimane un problema aperto.
La vittoria della rivoluzione cubana
Il 4 ottobre 1957, i sovietici riuscirono a mettere in orbita il primo satellite artificiale, denominato Sputnik,
mostrando di possedere vettori missilistici capaci di raggiungere qualsiasi regione del territorio americano.
Due anni dopo, nell'isola di Cuba, ad appena 90 km dalle coste della Florida, risultò vittoriosa una
rivoluzione di matrice comunista. Cuba, era sotto stretto controllo politico e militare di Washington. Le
grandi compagnie statunitensi facevano affari controllando interamente l'economia dell'isola, basata
soprattutto sulla coltura della canna da zucchero; mentre la popolazione viveva nelle campagne in
condizioni di estrema miseria. Nel 1956, un gruppo di intellettuali, tra cui Fidel Castro e Ernesto Guevara,
detto Che, diedero vita ad una guerriglia contro il governo del dittatore Fulgencio Batista. Nel 1959 la
rivoluzione si concluse vittoriosamente e i ribelli diedero vita a un regime di tipo socialista. Le banche, le
industrie, le imprese e gran parte delle terre, vennero nazionalizzate e Fidel Castro divenne arbitro
assoluto della vita politica.
Nel 1961, i servizi segreti statunitensi (la CIA) finanziarono e organizzarono una spedizione militare di
fuoriusciti cubani decisi a rovesciare il governo di Castro. Il 17 aprile, in una località detta Baia dei Porci,
sulla costa meridionale dell'isola, fu tentato uno sbarco che però si risolse in un fallimento totale, in quanto
la popolazione cubana, che gli esuli pensavano si sarebbe unita a loro, appoggiò il nuovo regime (anche
perché questo aveva nel frattempo attuato una riforma agraria finalizzata a redistribuire la proprietà delle
terre e si era distinto per una massiccia lotta all'analfabetismo).
Vista l'impossibilità di rovesciare il regime rivoluzionario per via militare, il governo di Washington ricorse
all'embargo economico, cioè al blocco di ogni relazione commerciale fra USA e Cuba. L'Unione Sovietica,
allora, si fece avanti presso il governo castrista come nuovo partner commerciale, offrendo petrolio in
cambio di zucchero.
Il Muro di Berlino
Nel 1961, si ebbe una seconda crisi berlinese (dopo quella del 1953), causata questa volta dalla continua
fuga di tedeschi della Repubblica Democratica verso la Germania occidentale. In genere la fuga aveva
come prima tappa Berlino Ovest, nacque così l'idea di porre, fra Berlino Est e Berlino Ovest,
un'insuperabile barriera, il cosiddetto Muro di Berlino, che divenne il simbolo fisico della divisione politica
dell'Europa. L'operazione venne messa in atto all'una di notte del 13 agosto 1961, bloccando tutti i passaggi
con del filo spinato, poi con il tempo, prese corpo un complesso murario sofisticato, lungo 166 km e dotato
di 285 torri di controllo. L'obiettivo del Muro non era quello di impedire l'ingresso ad un nemico, ma la fuga
ai cittadini di uno stato e di una città, per cui il Muro era più simile al recinto di una prigione che ad un
sistema difensivo.
Di fronte a questo intervento gli americani furono colti di sorpresa e tutto quello che fecero fu di
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rassicurare i cittadini di Berlino Ovest che non sarebbero stati abbandonati qualora ci fossero stati tentativi
dei sovietici di annettere l'intera città. Nel giugno 1963 Kennedy si recò in visita ufficiale a Berlino Ovest,
dove pronunciò il celebre discorso che si concluse con la storica frase “Ich bin ein Berliner”.
La crisi dei missili a Cuba
Nel 1962, per rispondere all'installazione di missili americani in Turchia, alle frontiere con l'URSS, i sovietici
iniziarono a Cuba la costruzione di una serie di postazioni missilistiche, capaci di minacciare direttamente
il vicino territorio statunitense. Tali installazioni vennero scoperte dagli americani nel corso delle
ricognizioni aeree compiute tra il 15 e il 18 ottobre 1962. Kennedy, a differenza di quanto sperava Krusciov,
non accettò senza reagire il fatto compiuto e ordinò un blocco navale al largo di Cuba, dichiarando che
qualunque imbarcazione diretta all'isola sarebbe stata fermata e perfino affondata se avesse rifiutato di
arrestarsi.
I sovietici si resero conto che uno scontro armato con gli USA non era mai stato così prossimo ad esplodere
e che c'era la possibilità di una sua degenerazione in conflitto nucleare. Krusciov, dapprima ordinò alle navi
russe dirette a Cuba di diminuire la velocità o di invertire la propria rotta, e poi offrì agli USA di ritirare i
missili da Cuba in cambio dell'equivalente ritiro dei missili americani in Turchia e della solenne
dichiarazione che gli Stati Uniti non avrebbero più tentato di invadere l'isola caraibica e di rovesciare il
governo di Castro.
Questa prova di forza indebolì Krusciov, il quale, nel 1964, dopo esser stato accusato di aver condotto una
politica estera troppo avventata, venne obbligato a dimettersi. Il suo posto fu preso da Leonid Breznev, che
avrebbe guidato l'URSS fino al 1982 (anno sua morte).
Kennedy, venne assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963.
La protesta studentesca negli Stati Uniti
Nei decenni seguenti il 1945, si registrò negli USA una diffusione capillare dell'istruzione e un continuo
aumento del numero degli studenti universitari. A partire dagli anni Sessanta, gli studenti universitari
divennero un soggetto sociale di peso rilevante e diedero vita ad un vasto fenomeno di protesta che,
iniziato negli USA, si diffuse nei principali paesi europei. Epicentro della protesta fu l'università di Berkeley,
dove, nel 1964, molti studenti diedero vita a occupazioni e contestazioni, contro le modalità di gestione
dell'università. Negli anni successivi molti studenti parteciparono attivamente anche alle campagne per i
diritti della minoranza nera. In seguito, il principale bersaglio della contestazione divenne la guerra del
Vietnam, nella quale gli Stati Uniti si trovarono coinvolti a partire dall'inizio degli anni Sessanta (in un
primo tempo solo come fornitori di aiuti militari, ma gradualmente come combattenti a fianco del governo
sudvietnamita contro la guerriglia alimentata dal regime comunista costituitosi nella parte settentrionale
del paese). Il conflitto generò fra i giovani un crescente malessere, che raggiunse il suo apice nell'ottobre del
1967, quando più di 50000 giovani marciarono verso il Pentagono (quartier generale delle forze armate
statunitensi).
Il sessantotto in Europa
Nei principali paesi europei, la protesta studentesca esplose nel 1968 e si scagliava principalmente contro
la società capitalistica che riduceva l'uomo alla pura dimensione economica e subordinava l'individuo alle
esigenze della produzione e del profitto.
Le proteste più importanti si ebbero a Parigi, nel maggio del 1968, quando agli studenti che contestavano le
rigide regole universitarie si unirono anche gli operai e i cittadini, mobilitati dai sindacati e dai partiti di
sinistra. Uno degli obiettivi dei contestatori era ottenere le dimissioni di De Gaulle, il quale, invece, sciolse
il Parlamento e convocò nuove elezioni, nelle quali ottenne una grande vittoria, spiegabile con il fatto che
probabilmente l'elettorato francese si era spaventato dai disordini di maggio. Tuttavia, l'anno successivo, ad
una successiva consultazione per un referendum, De Gaulle subì una grave sconfitta, che lo costrinse a
rassegnare le dimissioni, nell'aprile 1969.
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La primavera di Praga
Mentre i giovani dell'Occidente chiedevano più spazio per la creatività individuale (la fantasia al potere),
l'Europa orientale era alle prese con il problema della libertà e dei diritti umani in termini più concreti.
Nella Cecoslovacchia stalinista non si era ancora verificato un movimento di protesta come in Polonia e
Ungheria, in quanto l'economia lì godeva di una relativa prosperità. Ma la situazione iniziò a degenerare a
partire dal 1962, quando alcuni generi alimentari cominciarono a sparire dal mercato e soprattutto quando
la popolazione della Slovacchia diede i primi segnali di malcontento nei confronti della politica accentratrice
del governo di Praga. Questi primi segnali di crisi spinsero i sovietici a porre come capo del Partito
comunista lo slovacco Aleksander Dubček, il quale, resosi conto che il Partito comunista non godeva più da
tempo della fiducia della gente, si propose di rinnovare radicalmente la funzione del Partito, dando la
possibilità alla gente di rivolgere critiche e ascoltando le richieste della base. Dubček in sostanza
proponeva un socialismo dal volto umano, che sapeva farsi interprete delle aspirazioni concrete della
popolazione.
Breznev dapprima fece pressioni su Dubček affinché ripristinasse la censura e ponesse un freno al dibattito
politico che, nel corso della prima metà del 1968 (di qui l'espressione primavera di Praga), si era
liberamente manifestato all'interno della Cecoslovacchia. Il 20 agosto 1968, vista la determinazione di
Dubček, Breznev si decise di soffocare l'esperimento del socialismo dal volto umano con un intervento
militare delle truppe del Patto di Varsavia analogo a quello ungherese del 1956, mostrando definitivamente
che era impossibile riformare un partito comunista di modello leninista.
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Lo sviluppo economico degli anni Cinquanta e Sessanta
Gli anni fra il 1950 e il 1970 furono un periodo di cambiamenti sociali e di sviluppo economico senza
precedenti. Insieme agli Stati Uniti, i due stati che registrarono i successi più clamorosi furono il Giappone e
la Germania Federale, la cui rinascita economica è stata favorita proprio dagli aiuti americani, erogati con
l'intento di farne dei partner politici ed evitare il rischio di un loro avvicinamento all'URSS.
Stati Uniti, Germania Federale e Giappone, all'inizio degli anni Settanta, erano in testa alla classifica dei
paesi esportatori, ma la loro vertiginosa crescita produttiva si inseriva comunque in un più vasto e globale
scenario di sviluppo economico, legato alle grandi trasformazioni che si erano prodotte dopo la seconda
guerra mondiale. Dopo il 1945, infatti, in America e in Europa, si registrò un vertiginoso calo della
popolazione occupata nelle campagne e, contemporaneamente, una grande espansione industriale, che
godette dell'introduzione della meccanizzazione del lavoro, sicché la manodopera eccedente nelle
campagne fu assorbita con facilità nei grandi centri urbani.
Società dei consumi e Welfare State
Il grande sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta si spiega innanzitutto con il basso costo del petrolio (un
barile di greggio costava meno di due dollari).
Il modello di sviluppo imitò quello degli Stati Uniti negli anni Venti: l'obiettivo della produzione industriale
era quello di fornire ad un numero sempre crescente di cittadini beni di consumo che, in tempi passati,
erano stati a disposizione solo di un gruppo ristretto di privilegiati. Fu soprattutto l'automobile il simbolo
della nuova situazione economica e sociale. Tuttavia, tale strategia economica, basata sull'incremento
costante della quantità di beni di consumo immessi sul mercato, poteva reggere solo se i potenziali
consumatori erano messi in grado di acquistare i prodotti stessi, ovvero se fosse loro garantito in maniera
continuativa un elevato potere d'acquisto.
Ma poiché una simile scelta di tenere gli stipendi alti, se da un lato permetteva alle persone di acquistare i
beni e i servizi prodotti dall'industria, dall'altro rischiava di comprimere i profitti degli imprenditori e quindi
di frenare gli investimenti. Per questa ragione il potere d'acquisto dei salari venne sostenuto anche da
parte delle autorità pubbliche, attraverso l'aumento dell'erogazione di servizi sociali (pensioni, assistenza
sanitaria, istruzione gratuita). Con la nascita del Welfare State (Stato del benessere o Stato assistenziale),
una quota importante del salario, che in passato le famiglie dovevano accantonare per far fronte alle
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disgrazie improvvise, alle malattie o alla vecchiaia, divenne improvvisamente disponibile per i consumi.
Il capitalismo post-bellico applicò i correttivi al sistema introdotti dal New Deal roosveltiano e teorizzati
dall'economista inglese John Maynard Keynes, attraverso una presenza dello stato nella vita economica e
sociale: tutti i governi occidentali accettarono di garantire la piena occupazione e lo sviluppo industriale al
prezzo di un crescente deficit di bilancio.
I problemi esplosero a partire dagli anni Settanta e negli Ottanta: poiché i deficit finanziari rischiarono di
uscire dal controllo, per evitare la bancarotta i governi dovettero intervenire, limitando il Welfare State.
Il nuovo scenario economico degli anni Settanta
Alla fine degli anni Sessanta iniziarono i primi segnali di crisi: negli USA l'attività produttiva cominciò a
rallentare e la disoccupazione a crescere. Per favorire l'esportazione, nel 1971 il presidente Nixon decise di
svalutare il dollaro, abbandonando il rapporto fisso fra moneta e oro stabilito dagli accordi di Bretton
Woods del 1944.
A seguito della guerra del Kippur (tra Israele da un lato e Egitto e Siria dall'altro, iniziata il 6 ottobre 1973), i
paesi arabi dapprima bloccarono ogni fornitura di petrolio a tutti gli stati che avevano sostenuto Israele e
poi, quando le vendite ripresero, aumentarono notevolmente il prezzo del greggio, portandolo a 11,65
dollari al barile (attualmente oscilla intorno ai 100 dollari). Oltre al prezzo aumentato, c'è da sottolineare il
peso che il consumo di energia prodotta dalla combustione di petrolio aveva assunto nella vita economica
dei paesi industrializzati.
Il risultato della rivoluzione dei prezzi petroliferi del 1973 fu l'immediato arresto del grande sviluppo
produttivo, a cominciare dall'industria dell'automobile. Ciò determino, di conseguenza, nei paesi
industrializzati, un aumento generalizzato della disoccupazione e un aumento vertiginosa dell'inflazione.
Le strategie per fronteggiare la crisi
Per affrontare la nuova situazione economica, si cercò di ridurre i costi di produzione, attraverso
innovazioni tecnologiche capaci di sostituire l'intervento umano. L'automazione dei processi produttivi
pose fine alla tradizionale equazione tra espansione economica e aumento dell'occupazione: la tecnologia
sempre più sofisticata introdotta nelle fabbriche provocò il licenziamento di un gran numero di lavoratori
scarsamente qualificati (negli USA colpì soprattutto la manodopera nera).
In Inghilterra e negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Settanta si diffuse una politica economica neoliberista. Reagendo all'orientamento keynesiano tale impostazione affermava che lo stato doveva
gradualmente ritirarsi dalla scena economica e sociale, cioè diminuire drasticamente la quantità di servizi
offerti (in modo da ridurre l'indebitamento dello stato), attenuare la tassazione e incentivare la libera
iniziativa. Il primo a impostare la politica di un grande stato secondo questo orientamento neo-liberista fu il
primo ministro britannico Margaret Thatcher (alla guida del paese dal 1979 al 1990), e successivamente da
Ronald Reagan (presidente USA dal 1981 al 1989). Reagan ridusse le imposte del 25% in tre anni,
attendendosi un grande rilancio dell'economia, in quanto era fiducioso che gli imprenditori avrebbero
reinvestito in attività produttive tutto ciò che risparmiavano. In realtà, ciò non si verificò, in quanto gli
imprenditori preferirono capitalizzare i risparmi e indirizzarli verso i consumi di lusso. Paradossalmente,
inizialmente la strategia neo-liberista aggravò il deficit della spesa pubblica, che raddoppiò dal 1981 al
1982: da un lato le spese statali per i pubblici servizi erano state fortemente ridimensionate, dall'altro le
condizioni del bilancio dello stato non erano mai state così critiche. Inoltre, poiché Reagan perseguì anche
l'obiettivo della superiorità militare americana, sul bilancio federale pesò notevolmente il raddoppio (in
quattro anni) delle spese per gli armamenti.
A partire dalla fine del 1982, si assistette ad una forte ripresa dell'economia americana. Tuttavia, poiché il
deficit del bilancio pubblico restava altissimo, le spese sociali vennero ulteriormente compresse: il tenore
di vita del lavoratore americano medio si abbassò, mentre crebbero a dismisura sia il numero di coloro che
erano privi di qualsiasi tutela relativa alle malattie e alla vecchiaia, sia la percentuale dei veri e propri
poveri. Dal 1979 al 1986, si persero 7 milioni di posti di lavoro.
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Il lento declino della potenza sovietica
L'URSS iniziò a spendere somme gigantesche nella costruzione di armamenti nucleari. Nonostante ciò il
divario tecnologico tra le due superpotenze aumentò. Infatti, il 21 luglio 1969 non furono i russi, ma gli
americani i primi astronauti che sbarcarono sulla Luna: persino nel campo dei voli spaziali , che aveva visto
i sovietici come precursori, gli Stati Uniti si erano ormai lasciati indietro il tradizionale avversario. La
disparità tecnologica si aggravò intorno alla metà degli anni Ottanta.
Inoltre, nel dicembre 1979, l'URSS intervenne militarmente nel vicino Afghanistan, ove un regime militare
filosovietico incontrava crescenti difficoltà a mantenersi al potere. La guerra assorbì numerose risorse
economiche e umane e un diffuso malumore fra la popolazione russa. L'URSS non riuscì mai a controllare
davvero l'intero paese e, infine, fu costretta a ritirarsi nel febbraio 1989.
Solidarnosc in Polonia
Segni di malessere non tardarono a manifestarsi anche nei paesi satellite dell'URSS, soprattutto in Polonia,
dove, a seguito degli scioperi degli operai nei cantieri navali di Danzica, nel 1980 il governo fu costretto a
permettere la nascita di un sindacato libero, che prese il nome di Solidarnosc (= solidarietà), guidato da
Lech Walesa.
Anche se nel 1981 Solidarnosc fu momentaneamente sciolto dal Governo militare guidato da Jaruzelski,
tuttavia, come vedremo, in seguito esso sarà riabilitato e avrà un ruolo decisivo nella vita politica del paese.
La perestrojka di Michail Gorbacev
Nel novembre 1982 morì Breznev, che con la sua politica aveva portato l'URSS al vertice della sua potenza
militare, ma anche ad una situazione di stagnazione economica. Solo nel 1985 il Partito osò percorrere una
strada diversa eleggendo segretario Michail Gorbacev, il quale, nato nel 1931, a differenza dei suoi
predecessori, non aveva collaborato con il regime stalinista. Gorbacev credeva nel socialismo, ma voleva
coniugarlo con la democrazia e con il rispetto dei diritti dell'uomo e del cittadino. Gorbacev, a partire dal
febbraio 1986 lanciò un grande programma di ristrutturazione (perestrojka) del sistema sovietico, basato
sulla trasparenza (glasnost) e sulla libertà di discussione e di critica.
Nell'aprile 1986, esplose un reattore della centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina: la nube radioattiva
sprigionata dall'esplosione dapprima provocò immensi danni nelle regioni circostanti, e poi investì diversi
paesi europei. L'episodio mostrò il disordine e l'inefficienza che regnavano persino nel settore dell'industria
atomica e la necessità di procedere in fretta a drastiche riforme anche nei campi che si credevano più
avanzati e moderni. Per far ciò si dovevano trovare risorse e Gorbacev pensò di intervenire prima di tutto
sul settore militare. Con questo obiettivo, intraprese con il presidente americano Reagan una serie di
trattative per ridurre il numero dei missili e delle testate nucleari, perseguì una politica di riconciliazione
con la Cina e pose fine alla presenza russa in Afghanistan.
La crisi del socialismo nei paesi dell'Europa orientale
Le popolazioni dell'Europa orientale si resero conto che nella nuova situazione che si era venuta a
determinare, nel caso di un'azione politica e sociale da parte dell'opposizione, l'URSS non sarebbe più
intervenuta a sostegno delle dittature socialiste dei vari paesi. Così, nel corso del 1989, la situazione
precipitò in tutti i principali stati del socialismo reale.
In Polonia, Jaruzelski concordò con Solidarnosc (ricostituitosi dopo lo smantellamento del 1981) lo
svolgimento di elezioni cui potevano partecipare anche candidati non comunisti: tenutesi nel giugno 1989,
queste prime libere consultazioni furono un trionfo per Solidarnosc (a capo del governo venne eletto il
cattolico Tadeus Mazowieski, collaboratore di Walesa).
In Ungheria, oltre alla riabilitazione di Imre Nagy e degli altri leader della rivolta del 1956, il 28 maggio 1989
le autorità decisero di disattivare nel territorio ungherese la “cortina di ferro” e quindi eliminare i limiti al
libero transito degli individui attraverso le proprie frontiere.
In dicembre, i regimi comunisti furono rovesciati anche in Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania (a parte la
Romania, dove il dittatore Ceausescu venne ucciso da una rivolta popolare, in tutti questi altri paesi il
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cambiamento avvenne senza spargimenti di sangue).
I nuovi governi avviarono un rapido smantellamento dell'economia pianificata e diretta dallo stato,
adottando un liberismo radicale. Il risultato, tuttavia, non fu quello previsto, poiché l'economia di questi
paesi era del tutto impreparata ad affrontare di colpo le dure leggi del mercato internazionale. Nel giro di
pochi anni il prodotto interno lordo scese e soprattutto aumentò vertiginosamente la disoccupazione.
La riunificazione della Germania
Dal settembre 1989, attraverso l'Ungheria i tedeschi dell'Est cominciarono di nuovo ad emigrare in massa
verso la Germania Occidentale. Il 9 novembre 1989, le autorità comuniste tedesche presero atto
dell'impossibilità di fermare l'esodo con la forza e emanarono una nuova normativa che in pratica
significava la completa liberalizzazione della circolazione fra le due Germania. Non appena la notizia si
diffuse, la popolazione di Berlino Est si precipitò in massa contro il Muro, che venne demolito in più punti,
cancellando il simbolo più esplicito e odioso della separazione dell'Europa in due schieramenti ideologici e
militari contrapposti.
A questo punto, il cancelliere della Germania Federale Helmut Kohl, si batté per la riunificazione della
Germania, che venne ufficialmente raggiunta il 3 ottobre 1990. Anche per la Germania Orientale un simile
repentino passaggio all'economia di mercato si rivelò decisamente traumatico: moltissime aziende
dovettero chiudere o vennero assorbite da imprese dell'Ovest, mentre la disoccupazione toccò la punta del
17,5%. Il governo centrale dovette intervenire con sovvenzioni ingenti e continue. Solo un'economia forte
come quella tedesca poteva permettersi un onere simile.
La radicalizzazione dello scontro politico in URSS
Nel 1989, alle elezioni per il Congresso del popolo (un nuovo organismo destinato a sostituire il Soviet
supremo e a cui poterono per la prima volta partecipare anche candidati che non si riconoscevano nel
partito o che addirittura l'avevano osteggiato, come Andrej Sacharov, che insieme a Aleksandr Solzenicyn
era stato uno dei più attivi oppositori della dittatura comunista) venne eletto Gorbacev, il quale però si
trovò schiacciato fra due schieramenti nemici, da un lato la componente più conservatrice e
tradizionalista del PCUS, che guardava con sospetto alla perestrojka, dall'altra coloro che propugnavano il
totale abbandono del socialismo e l'adozione immediata dell'economia di mercato, guidati dall'emergente
figura di Boris Eltsin.
Eltsin sostenne anche i movimenti separatisti (le repubbliche baltiche – Lettonia, Estonia, Lituania – e la
Georgia avevano avviato un processo di secessione), ritenendo che la Russia dovesse liberarsi dalle altre
repubbliche dell'Impero (ormai divenute solo un peso economico) e dovesse adottare il modello
capitalistico e liberista.
La disgregazione dell'URSS
Nel giugno 1991 Eltsin vinse le elezioni per la carica di Presidente della repubblica russa (Gorbacev
rimaneva invece il capo dell'URSS, con il risultato che il presidente della Russia e quello dell'URSS
praticavano politiche contrastanti).
Nell'agosto 1991 ci fu un tentativo di colpo di stato comunista: i ribelli, con l'obiettivo di riportare l'ordine
comunista nel paese, arrestarono Gorbacev e si preparavano a fare altrettanto con Eltsin, ma la popolazione
scesa in piazza a loro difesa e così i congiurati, per evitare un massacro fra la popolazione moscovita,
desistettero (gli alti esponenti coinvolti nel complotto furono arrestati e Gorbacev venne liberato).
Nell'autunno 1991, il PCUS e il Parlamento vennero sciolti. L'8 dicembre 1991 i capi di Russia, Ucraina, e
Bielorussia s'incontrarono per firmare l'accordo che dichiarava dissolta l'Unione Sovietica e la sostituiva
con la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI) e Gorbacev diede le dimissioni il 25 dicembre, mentre sul
Cremlino la bandiera rossa fu sostituita dal tricolore russo (bianco, rosso e azzurro).
Anche in Russia il repentino passaggio al libero mercato ha provocato un vero e proprio dissesto
economico e una gravissima disoccupazione.
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La disgregazione della Jugoslavia
Mentre la Cecoslovacchia si divise pacificamente in due stati, la repubblica ceca e la repubblica slovacca, in
Jugoslavia il rinascere dei nazionalismi portò a conseguenze assai drammatiche.
Dopo la morte di Tito (1980) ripresero vigore in Serbia le ambizioni egemoniche. Intanto, il 25 giugno 1991,
Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. In Croazia si
trovavano moltissimi serbi, che essendo fatti oggetto di discriminazione, si organizzarono in formazioni
armate (sostenute dall'esercito della Repubblica di Serbia) per ottenere a loro volta l'indipendenza dalla
Croazia. Da entrambe le parti si fece un feroce e sistematico ricorso alla pulizia etnica.
Nel 1992, il conflitto si estese anche alla Bosnia-Erzegovina, dove erano presenti anche numerosi
musulmani. Intorno a Sarajevo e nel resto della Bosnia infuriò una lotta brutale fra serbi, da un lato,
musulmani e croati dall'altro.
L'intervento delle Nazioni Unite non sortì nessun effetto moderatore. Un compromesso capace di porre
fine (temporaneamente) alla guerra di Bosnia fu raggiunto solo dopo tre anni di violenze, nel dicembre
1995 e suggellato a a Dyton, negli Stati Uniti.
Il bilancio della guerra nella ex Jugoslavia fu terribile: esso fu il più sanguinoso conflitto europeo del
Novecento escluse le guerre mondiali.
La guerra in Kosovo
Nel 1998, il presidente serbo Slobodan Milosevic decise di procedere a una pulizia etnica in Kosovo,
regione della Serbia, abitata da molti cittadini di origine albanese, considerati dai nazionalisti serbi come
semplici usurpatori. Per tutto il 1998, gli albanesi furono oggetto di violenze (che causarono la distruzioni di
centinaia di villaggi e produssero migliaia di profughi).
Nel 1999, l'esercito serbo intensificò le violenze e ciò spinse gli Stati Uniti e i paesi della NATO ad
intervenire con bombardamenti su Belgrado e altre città serbe. Quando i bombardamenti si fecero più
intensi, Milosevic accettò di interrompere le violenze e di ritirare le truppe serbe dal Kosovo, che venne
presidiato dalla NATO.
Nell'autunno 2000, Milosevic fu costretto ad abbandonare il potere, dopo aver perso le elezioni.
L'Unione Europea dopo gli accordi di Maastricht
Il 7 febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht si riunirono i ministri degli stati membri della
Comunità Europea, che nel frattempo si era allargata a 12 paesi (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna,
Irlanda, Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Grecia, Spagna, Portogallo). A Maastricht venne
ufficialmente firmato il trattato che istituiva l'Unione Europea, un organismo finalizzato ad affrontare in
modo comune questioni di fondamentale importanza, come lo sviluppo tecnologico, la tutela dell'ambiente,
la sanità, ecc. Ma le prospettive più concrete di una reale integrazione ci furono in campo economico, con la
decisione di istituire una nuova moneta unica europea (l'Euro), destinata a sostituire le diverse valute
nazionali.
Per garantire forza e sicurezza alla nuova moneta, era necessario che i paesi rispettassero rigidi parametri
economici. L'Italia, al momento della decisione non rientrava nei parametri (per es. aveva un rapporto
deficit/pil troppo elevato), ma, malgrado ciò, il governo presieduto da Romano Prodi, con interventi
finanziari drastici, riuscì a raggiungere l'ambizioso obiettivo dell'ingresso nell'unione monetaria, allorché
essa venne varata all'inizio del 1999 (dal 1/1/1999 l'euro divenne la moneta ufficiale nei mercati finanziari,
ma la circolazione monetaria ebbe effettivamente inizio il 1/1/2002).
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