L`Unione Europea dopo gli accordi di Maastricht

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Il secondo dopoguerra e l'ordine bipolare
La questione della Venezia Giulia
Tito era un comunista convinto, ma era animato anche da un marcato nazionalismo slavo e desiderava allargare i confini
della nuova Jugoslavia, puntando ad annettere l'intera Venezia Giulia e quindi a spostare la frontiera con l'Italia al
Tagliamento.
Nel settembre 1943 con il collasso dell'esercito italiano, le truppe di Tito assunsero il controllo dell'Istria. L'occupazione
militare jugoslava fu accompagnata da una lunga serie di rappresaglie e violenze nei confronti degli italiani presenti in
quelle regioni (carabinieri, insegnanti, impiegati, ecc.). Alcune centinaia di persone (forse 700) vennero arrestate e
uccise, e poi gettati nelle foibe (a volte vi erano gettati anche da vivi), che sono profonde cavità carsiche naturali.
L'intervento delle forze tedesche obbligò i partigiani di Tito a ritirarsi dopo circa un mese di occupazione; i nazisti
insediarono il loro comando a Trieste, presso la risiera di San Sabba, che divenne centro di transito per prigionieri
destinati alla deportazione in Austria, Germania e Polonia.
All'inizio del maggio 1945 le forze jugoslave di Tito entrarono a Trieste e riconquistarono l'intera Istria. Le violenze del
1943 si ripeterono su scala maggiore. Probabilmente, 4-5000 furono le vittime, per la maggior parte infoibate, nel
periodo compreso tra l'occupazione jugoslava di Trieste (primo maggio) e l'ingresso delle truppe inglesi nella stessa
Trieste (12 giugno 1945).
Il 10 febbraio 1947, a Parigi, venne firmato il trattato di pace. Dalle regioni assegnate alla Jugoslavia, fuggirono verso
l'Italia oltre 300000 persone. Fu un esodo di dimensioni enormi (solo da Pola, capoluogo dell'Istria, partirono 30000
italiani).
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La Conferenza di Yalta
Il 4 febbraio 1945, Roosevelt, Churchill e Stalin si riunirono a Yalta, in Crimea, per riflettere sul futuro assetto
dell'Europa post-bellica. In questo incontro non venne ancora deciso (come invece spesso si afferma) che l'Europa
sarebbe stata divisa in due grandi sfere di influenza, piuttosto si lasciava ampio spazio all'autodecisione dei popoli.
La nascita dell'ONU
La speranza di Roosevelt era di poter continuare la collaborazione con i sovietici anche dopo la sconfitta di Hitler. A tal
fine promosse la nascita dell'Organizzazione delle Nazioni Unite, con l'obiettivo di conservare la pace e la sicurezza a
livello mondiale. Stalin però era preoccupato che l'ONU potesse trasformarsi in uno strumento di attuazione di una
politica antisovietica da parte dei paesi capitalisti. Pertanto, a Yalta, Stalin ottenne che all'interno del Consiglio di
Sicurezza (organismo direttivo dell'ONU, composto da 5 membri permanenti e 10 variabili), le cinque più importanti
potenze (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina, membri permanenti) godessero del diritto di veto.
L'ONU nacque ufficialmente il 26 giugno 1945, dopo un'apposita conferenza a San Francisco in cui furono fissati i
principi di fondo e lo statuto.
La Conferenza di Potsdam
I tre grandi stati vincitori si incontrarono di nuovo a Potsdam dal 17 luglio al 2 agosto 1945. Il nuovo presidente
americano, Harry Truman, era molto più diffidente nei confronti di Stalin, così nel maggio 1945 interruppe gli aiuti
all'URSS (fino ad allora erogati con la Legge affitti e prestiti).
A Potsdam si diede esecuzione alla decisione già presa a Yalta di dividere la Germania in 4 zone d'occupazione
(americana, britannica, francese, sovietica); inoltre, ogni potenza occupante poteva effettuare prelievi di impianti
industriali o altro, a titolo di riparazione, direttamente nella zona amministrata.
La dottrina Truman
Stalin iniziò la “sovietizzazione” di tutta l'area occupata dall'Armata Rossa (ovvero gran parte dell'Europa orientale). A
tal proposito Churchill disse che una cortina di ferro si era stesa sulle regioni orientali del continente e fece un appello
agli Stati Uniti per bilanciare la crescente potenza sovietica. L'appello fu effettivamente accolto: il 12 aprile 1947, in un
celebre discorso al Congresso il presidente americano fissò la cosiddetta dottrina Truman, in cui si diceva che obiettivo
politico primario degli USA era il “contenimento del comunismo”, in modo da impedire che altre regioni d'Europa o del
mondo finissero sotto controllo sovietico.
Con la costituzione dei due blocchi si cominciò a parlare di guerra fredda. Il termine era stato usato già nel 1945 da
George Orwell che, riflettendo sulla bomba atomica, preconizzava uno scenario in cui le due grandi potenze, non
potendo affrontarsi direttamente, avrebbero finito per dominare e opprimere tutti gli altri. Nel 1947 fu ripreso dal
consigliere presidenziale Bernard Baruch e dal giornalista Walter Lippmann per descrivere l'emergere delle tensioni tra
due alleati della seconda guerra mondiale.
La fase più critica e potenzialmente pericolosa della guerra fredda fu quella compresa fra gli anni cinquanta e settanta.
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Già dai primi anni ottanta i due blocchi avviarono un graduale processo di distensione e disarmo; tuttavia la fine di
questo periodo storico viene convenzionalmente fatta coincidere con la caduta del Muro di Berlino (9 novembre 1989).
Un altro obiettivo statunitense era quello di creare un libero mercato globale, potenzialmente mondiale. Tale obiettivo,
già iniziato nel 1941 con la firma della Carta Atlantica tra USA e GB, fu ribadito con gli accordi monetari di Bretton
Woods del 1944, finalizzati a stabilizzare i cambi delle monete, ancora fluttuanti dopo l'abbandono della parità aurea
negli anni Trenta. Gli accordi prevedevano 1) l'obbligo per ogni paese di adottare una politica monetaria tesa a
stabilizzare il tasso di cambio ad un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale,
consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute; 2) il compito di equilibrare gli squilibri causati dai pagamenti
internazionali, assegnato al Fondo Monetario Internazionale (o FMI). Il piano istituì sia il FMI che la Banca internazionale
per la ricostruzione e lo sviluppo (detta anche Banca mondiale).
Il Piano Marshall
Gli USA misero in atto un grandioso piano di aiuti per rilanciare la produzione industriale dei paesi europei, noto come
Piano Marshall (dal nome dell'allora Segretario di Stato, George Marshall). In un primo tempo, gli Stati Uniti offrirono
fondi anche a Polonia e Cecoslovacchia, ma Stalin vietò loro di accettarli. Da quel momento gli aiuti vennero garantiti
solo a quei governi che non vedessero la partecipazione dei comunisti: il piano divenne una formidabile arma di
pressione, finalizzata a garantire agli USA l'allineamento di quei paesi (come la Francia e l'Italia) che avevano al proprio
interno dei forti partiti comunisti.
Il Piano Marshall fu approvato dal Congresso nel marzo 1948 e fu sospeso nel 1952, dopo aver erogato
complessivamente aiuti per 13812 milioni di dollari.
Il Cominform e la condanna di Tito
Al Piano Marshall, l'URSS rispose con la fondazione del Cominform (Ufficio d'informazione dei partiti comunisti),
finalizzato a coordinare l'azione politica dei partiti comunisti di tutto il mondo (in modo analogo a quello che era il
Comintern, o Internazionale comunista). Nel gennaio 1949 fu creato anche il Comecon (Comitato di assistenza
economica), che ufficialmente doveva rappresentare uno strumento di cooperazione economica tra le “democrazie
popolari” legate all'URSS, ma che in realtà permetteva a Stalin di utilizzare le risorse dei paesi occupati durante la guerra
per rilanciare l'economia sovietica.
Dal 1949 anche l'URSS ha la bomba atomica.
Il 28 giugno 1948, il Partito comunista jugoslavo venne espulso dal Cominform, perché Tito stava cercando di fare una
politica nazionale indipendente dagli URSS (tale politica si concretizzò negli anni '60 con la fondazione del Movimento
dei Non Allineati). Oltre alla condanna di Tito, Stalin ordinò che fossero eliminati tutti quei dirigenti comunisti che
potevano aspirare all'indipendenza dall'URSS e dar vita a vie nazionali verso il socialismo. In Ungheria, Cecoslovacchia,
Bulgaria e Polonia vennero organizzati grandi processi spettacolari con numerose condanne a morte e ergastoli.
Il blocco di Berlino
Nel marzo 1948 gli Alleati riunificarono la Germania Ovest e diedero vita ad una riforma del sistema monetario. Per
reazione, i russi bloccarono ogni accesso alla città di Berlino, la quale, nel 1945, pur essendo nella zona sovietica, era
stata anch'essa a sua volta divisa in quattro settori. La zona amministrata dalle tre potenze occidentali si trovava
dunque circondata interamente da un territorio controllato dai sovietici (lo scopo era indurre gli Alleati ad abbandonare
la città). Il 26 giugno 1948, iniziò un ponte aereo, il cui compito era quello di rifornire di tutto i 2,5 milioni di berlinesi
residenti nella zona non sovietica. Il ponte aereo ebbe completo successo, tanto che nel maggio 1949, i sovietici
allentarono il blocco.
Il 4 aprile 1949 nacque il Patto Atlantico, cui aderirono, oltre agli USA e il Canada, anche i principali paesi dell'Europa
occidentale (Gran Bretagna, Francia, Olanda, Belgio, Lussemburgo, Danimarca, Italia, Norvegia, Portogallo). A partire dal
1952 il Patto Atlantico venne chiamato NATO (North Atlantic Treaty Organization).
Nel 1955 i paesi dell'Europa orientale si unirono in un'alleanza militare nota con il nome di Patto di Varsavia, sotto il
rigido controllo di Mosca.
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Le democrazie popolari
Il 23 maggio 1949 venne dato vita alla Repubblica Federale Tedesca (RFT o FDR) sul territorio amministrato dagli angloamericani. Come risposta, il 7 ottobre 1949 nacque la Repubblica Democratica Tedesca (RDT o DDR) nelle regioni
amministrate dai sovietici. Quest'ultima, insieme agli altri stati dell'Europa dell'est controllati dai sovietici, veniva detta
“democrazia popolare”, con riferimento al concetto di dittatura del proletariato formulato da Lenin in Stato e
rivoluzione, ma che in realtà significava totale allineamento alle direttive di Mosca.
Dopo la morte di Stalin (5 marzo 1953), il potere in Unione Sovietica passò a Nikita Krusciov.
A partire dal 16 giugno 1953 a Berlino Est la popolazione iniziò a manifestare contro gli aumenti del prezzo del pane e di
altri generi alimentari primari. Le truppe sovietiche d'occupazione riportarono l'ordine con la forza. La versione ufficiale
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parlava di operai sobillati da agenti stranieri; in realtà si trattava del primo segnale del fatto che le democrazie popolari
potevano reggersi solo con l'uso della repressione e con il sostegno dell'esercito russo.
Il XX Congresso del PCUS
Nel 1953, la Jugoslavia e l'Unione Sovietica iniziano un percorso di riconciliazione.
Anche nei confronti dell'Occidente Krusciov era pronto ad una nuova politica e, durante il XX Congresso del Partito
tenutosi nel febbraio 1956, lanciò l'idea della coesistenza pacifica, dettata anche dal fatto che le due superpotenze
disponevano ora di armi, come la bomba H, in grado di provocare un disastro di proporzioni inimmaginabili, in caso di
guerra.
La vera importanza storica del XX Congresso del PCUS stava nel fatto che Krusciov denunciò Stalin come un dittatore
criminale e violento e rivelò, inoltre, che Lenin, nel suo testamento, aveva raccomandato di rimuovere Stalin dalla carica
di segretario, ritenendolo dispotico e pericoloso.
La crisi del 1956 in Polonia
Con la sua clamorosa denuncia, Krusciov intendeva consolidare il proprio potere, mediante la denuncia dei suoi avversari
politici come complici dei crimini di Stalin, ma le conseguenze furono dirompenti ben oltre le sue aspettative.
Il primo paese dell'Europa dell'Est in cui si registrarono gli effetti della destalinizzazione fu la Polonia, in cui nel giugno
1956 migliaia di operai scesero in sciopero. Dopo aver tentato senza successo di bloccare l'elezione di Gomulka (che era
stato rimosso dalla carica nel 1948, nell'ambito delle epurazioni staliniste conseguenti alla rottura con Tito) a segretario
del Partito comunista polacco, Krusciov, nell'ottobre 1956, accettò che la Polonia entrasse in una nuova fase della
propria storia comunista, i cui primi atti furono la riabilitazione di migliaia di innocenti processati in epoca stalinista e la
liberazione di Wyszynski, arcivescovo di Varsavia.
La rivolta ungherese del 1956
A differenza dell'ottobre polacco, la rivolta ungherese dell'autunno 1956 ebbe altro esito. Dopo una prima grande
manifestazione, l'URSS prima fece intervenire l'esercito a Budapest, ma poi accettò che Imre Nagy (dirigente comunista
in precedenza condannato per deviazionismo) venisse nominato Presidente del Consiglio. Nagy, tuttavia, invece di
allinearsi alle direttive di Mosca, diede vita ad un governo di coalizione, comprendente anche elementi non comunisti e
soprattutto dichiarò che l'Ungheria usciva dal Patto di Varsavia. L'estrema speranza dei ribelli era che l'ONU
intervenisse a sostegno dell'Ungheria, in caso di aggressione russa. Ma ciò non avvenne, anche perché in tal caso il
rischio di un nuovo conflitto mondiale sarebbe stato elevato. Così il 4 novembre 1956 i carri armati sovietici attaccarono
per la seconda volta Budapest. Dopo quattro giorni di scontri violentissimi, Nagy fu arrestato, processato a porte chiuse,
e impiccato il 16 giugno 1958.
La Francia di De Gaulle e l'Europa del Mercato Comune
In quegli anni la Francia era impegnata a reprimere la ribellione esplosa in Algeria (sua colonia già dall'Ottocento).
Mentre aumentava nell'opinione pubblica la disponibilità ad un ritiro francese dal paese nordafricano, i coloni francesi
d'Algeria diedero vita a un comitato di salute pubblica pronto a compiere un colpo di stato in Francia, con l'aiuto
dell'esercito. Per salvare la situazione, si fece ricorso alla prestigiosa figura del generale De Gaulle. Il 1° giugno 1958, De
Gaulle divenne Presidente della Repubblica, dopo che la Costituzione venne modificata in modo che la figura del
Presidente potesse esercitare tutte le principali funzioni di governo. De Gaulle cercò innanzitutto di chiudere la
questione dell'Algeria, a cui fu concessa piena indipendenza nel 1962.
Da quel momento De Gaulle si dedicò al rilancio del prestigio internazionale della Francia, tentando di fare uscire il suo
paese dalla logica bipolare e auspicando la trasformazione dell'Europa occidentale in una terza forza, guidata dalla
Francia, capace di trattare alla pari con URSS e USA.
Sebbene De Gaulle, perseguendo questa politica di grandezza, avesse gradualmente sganciato la Francia dalla NATO,
tuttavia accettò che il proprio paese entrasse a far parte della Comunità Economica Europea (CEE), la cui nascita era
prevista dal Trattato di Roma, stipulato il 25 marzo 1957. Tale organismo consisteva nella creazione di un vasto mercato
comune europeo, all'interno del quale circolassero liberamente, senza dazi e limitazioni, materie prime, manufatti
industriali e prodotti agricoli. Al trattato avevano aderito seri paesi (Italia, Germania Federale, Francia, Olanda, Belgio e
Lussemburgo) e l'inizio del processo era fissato per il 1° gennaio 1959.
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La caccia alle streghe negli USA
Negli Stati Uniti la denuncia, da parte del governo e degli organi di stampa, della violazione dei diritti dell'uomo compiuti
dai regimi comunisti era all'ordine del giorno. Tuttavia, negli anni Cinquanta, anche nella democratica America, non
sempre i diritti erano rispettati. Vi fu in particolare, tra il 1950 e il 1954, una commissione d'inchiesta contro il
comunismo, guidata dal senatore Joseph McCarthy, che, sotto la spinta di una sorta di isteria collettiva e del ricorso alla
teoria del complotto, compì una lunga serie di abusi giudiziari. Nella maggior parte dei casi le accuse, rivolte a persone
comuni come a noti personaggi pubblici, di essere spie al servizio dei russi, erano prive di fondamento, eppure migliaia
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di persone furono condannate o videro la propria carriera distrutta. Il caso più noto è quello dei coniugi Julius ed Ethel
Rosenberg, che, nonostante gli abusi e le numerose irregolarità procedurali, vennero giudicati colpevoli di spionaggio a
favore dell'URSS e giustiziati nel 1953.
Le proteste dei neri negli anni Cinquanta
Mentre il maccartismo volgeva al termine, cominciò a prendere campo la protesta dei cittadini neri americani, per
ottenere parità di diritti. Il primo significativo episodio si ebbe a Montgomery, in Alabama, dove la popolazione nera nel
1956 boicottò i trasporti pubblici, sui quali vigeva una rigida separazione. A guida della clamorosa iniziativa vi era Martin
Luther King, un giovane pastore della Chiesa battista. King rifiutava la violenza come strumento di lotta, in quanto
sosteneva che l'uso della violenza non avrebbe mai potuto generare una pacifica convivenza, ma solo altro odio. La
protesta di Montgomery si concluse con successo, in quanto nel novembre 1956 la Corte suprema dichiarò
incostituzionali le leggi segregazioniste dello stato dell'Alabama. Già nel 1954 la Corte suprema aveva condannato la
prassi della separazione scolastica (si noti che nel 1896 invece la Corte suprema aveva sancito la legittimità della pratica
di erogare servizi uguali ma separati). A questo nuovo orientamento della Corte suprema si opposero fortemente gli stati
del Sud. L'episodio più grave si ebbe a Little Rock, in Arkansas, dove nel 1957 gli studenti neri che volevano entrare in
una scuola tradizionalmente frequentata da bianchi, dovettero essere scortati dall'esercito. Vi fu un aspro conflitto fra
potere centrale (garante del dettato costituzionale) e potere periferico (portavoce dei sentimenti razzisti della
popolazione bianca).
La Nazione dell'Islam
Negli anni Cinquanta vi fu un imponente esodo di neri dal Sud, dove ormai scarseggiava il lavoro nei campi, verso il Nord
industrializzato. I nuovi arrivati si accalcavano in zone squallide e degradate, dove proliferava delinquenza e
prostituzione. Fu in questo contesto che crebbe Malcom X, un giovane delinquente, che in carcere entrò in contatto con
i seguaci di Elijah Muhammad, fondatore di un movimento chiamato la Nazione dell'Islam (noto anche con il nome di
Black Muslims), di cui Malcom X divenne uno dei leader. Il movimento professava la natura diabolica dell'uomo bianco,
da cui quindi bisognava prendere le distanze, rifiutandone il mondo e i valori. I seguaci dei Musulmani Neri erano soliti
sostituire il proprio cognome con una X, in memoria dell'ignota tribù africana di provenienza.
Il nazionalismo nero considerava il mondo bianco irrimediabilmente permeato di razzismo e incapace di redenzione,
pertanto l'integrazione con esso era impossibile.
La lotta per l'integrazione
Mentre la Nazione dell'Islam diffondeva questa nuova dottrina soprattutto fra i neri delle grandi città, Martin Luther King
continuava la sua lotta nonviolenta contro il potere razzista bianco degli stati del Sud. In seguito a violenze subite
durante una pubblica dimostrazione organizzata da King nel 1963 a Birmingham in Alabama, le principali associazioni
antirazziste organizzarono una grande marcia su Washington, che ebbe luogo il 28 agosto del 1963.
Nel 1964 a Martin Luther King venne conferito il premio Nobel per la pace.
Nel marzo 1965 si ebbe a Selma (in Alabama) un'altra clamorosa esplosione di violenza razzista: i dimostranti neri che
marciavano pacificamente furono bastonati dalla polizia, che arrestò moltissime persone, fra cui lo stesso King.
In risposta a queste violenze, il presidente Johnson presentò al Congresso il Voting Rights Bill, con cui si eliminavano i
test di cultura generale necessari per poter votare.
Sul piano dei diritti si può dire che la battaglia dei neri per l'integrazione era vinta, sebbene il razzismo fosse tutt'altro
che spento: l'assassinio di Martin Luther King il 4 aprile 1968 ne fu la tragica prova.
Il 21 febbraio 1965, in circostanze poco chiare, anche Malcom X era stato assassinato. La situazione divenne esplosiva
nei ghetti neri, dove si fece strada un nuovo movimento radicale, chiamato Black Power. A tutt'oggi la questione razziale
negli USA rimane un problema aperto.
La vittoria della rivoluzione cubana
Il 4 ottobre 1957, i sovietici riuscirono a mettere in orbita il primo satellite artificiale, denominato Sputnik, mostrando
di possedere vettori missilistici capaci di raggiungere qualsiasi regione del territorio americano.
Due anni dopo, nell'isola di Cuba, ad appena 90 km dalle coste della Florida, risultò vittoriosa una rivoluzione di matrice
comunista. Cuba, era sotto stretto controllo politico e militare di Washington. Le grandi compagnie statunitensi facevano
affari controllando interamente l'economia dell'isola, basata soprattutto sulla coltura della canna da zucchero; mentre la
popolazione viveva nelle campagne in condizioni di estrema miseria. Nel 1956, un gruppo di intellettuali, tra cui Fidel
Castro e Ernesto Guevara, detto Che, diedero vita ad una guerriglia contro il governo del dittatore Fulgencio Batista.
Nel 1959 la rivoluzione si concluse vittoriosamente e i ribelli diedero vita a un regime di tipo socialista. Le banche, le
industrie, le imprese e gran parte delle terre, vennero nazionalizzate e Fidel Castro divenne arbitro assoluto della vita
politica.
Nel 1961, i servizi segreti statunitensi (la CIA) finanziarono e organizzarono una spedizione militare di fuoriusciti cubani
decisi a rovesciare il governo di Castro. Il 17 aprile, in una località detta Baia dei Porci, sulla costa meridionale dell'isola,
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fu tentato uno sbarco che però si risolse in un fallimento totale, in quanto la popolazione cubana, che gli esuli
pensavano si sarebbe unita a loro, appoggiò il nuovo regime (anche perché questo aveva nel frattempo attuato una
riforma agraria finalizzata a redistribuire la proprietà delle terre e si era distinto per una massiccia lotta
all'analfabetismo).
Vista l'impossibilità di rovesciare il regime rivoluzionario per via militare, il governo di Washington ricorse all'embargo
economico, cioè al blocco di ogni relazione commerciale fra USA e Cuba. L'Unione Sovietica, allora, si fece avanti presso
il governo castrista come nuovo partner commerciale, offrendo petrolio in cambio di zucchero.
Il Muro di Berlino
Nel 1961, si ebbe una seconda crisi berlinese (dopo quella del 1953), causata questa volta dalla continua fuga di
tedeschi della Repubblica Democratica verso la Germania occidentale. In genere la fuga aveva come prima tappa
Berlino Ovest, nacque così l'idea di porre, fra Berlino Est e Berlino Ovest, un'insuperabile barriera, il cosiddetto Muro di
Berlino, che divenne il simbolo fisico della divisione politica dell'Europa. L'operazione venne messa in atto all'una di
notte del 13 agosto 1961, bloccando tutti i passaggi con del filo spinato, poi con il tempo, prese corpo un complesso
murario sofisticato, lungo 166 km e dotato di 285 torri di controllo. L'obiettivo del Muro non era quello di impedire
l'ingresso ad un nemico, ma la fuga ai cittadini di uno stato e di una città, per cui il Muro era più simile al recinto di una
prigione che ad un sistema difensivo.
Di fronte a questo intervento gli americani furono colti di sorpresa e tutto quello che fecero fu di rassicurare i cittadini
di Berlino Ovest che non sarebbero stati abbandonati qualora ci fossero stati tentativi dei sovietici di annettere l'intera
città. Nel giugno 1963 Kennedy si recò in visita ufficiale a Berlino Ovest, dove pronunciò il celebre discorso che si
concluse con la storica frase “Ich bin ein Berliner”.
La crisi dei missili a Cuba
Nel 1962, per rispondere all'installazione di missili americani in Turchia, alle frontiere con l'URSS, i sovietici iniziarono a
Cuba la costruzione di una serie di postazioni missilistiche, capaci di minacciare direttamente il vicino territorio
statunitense. Tali installazioni vennero scoperte dagli americani nel corso delle ricognizioni aeree compiute tra il 15 e il
18 ottobre 1962. Kennedy, a differenza di quanto sperava Krusciov, non accettò senza reagire il fatto compiuto e ordinò
un blocco navale al largo di Cuba, dichiarando che qualunque imbarcazione diretta all'isola sarebbe stata fermata e
perfino affondata se avesse rifiutato di arrestarsi.
I sovietici si resero conto che uno scontro armato con gli USA non era mai stato così prossimo ad esplodere e che c'era la
possibilità di una sua degenerazione in conflitto nucleare. Krusciov, dapprima ordinò alle navi russe dirette a Cuba di
diminuire la velocità o di invertire la propria rotta, e poi offrì agli USA di ritirare i missili da Cuba in cambio
dell'equivalente ritiro dei missili americani in Turchia e della solenne dichiarazione che gli Stati Uniti non avrebbero
più tentato di invadere l'isola caraibica e di rovesciare il governo di Castro.
Questa prova di forza indebolì Krusciov, il quale, nel 1964, dopo esser stato accusato di aver condotto una politica estera
troppo avventata, venne obbligato a dimettersi. Il suo posto fu preso da Leonid Breznev, che avrebbe guidato l'URSS
fino al 1982 (anno sua morte).
Kennedy, venne assassinato a Dallas, in Texas, il 22 novembre 1963.
La protesta studentesca negli Stati Uniti
Nei decenni seguenti il 1945, si registrò negli USA una diffusione capillare dell'istruzione e un continuo aumento del
numero degli studenti universitari. A partire dagli anni Sessanta, gli studenti universitari divennero un soggetto sociale
di peso rilevante e diedero vita ad un vasto fenomeno di protesta che, iniziato negli USA, si diffuse nei principali paesi
europei. Epicentro della protesta fu l'università di Berkeley, dove, nel 1964, molti studenti diedero vita a occupazioni e
contestazioni, contro le modalità di gestione dell'università. Negli anni successivi molti studenti parteciparono
attivamente anche alle campagne per i diritti della minoranza nera. In seguito, il principale bersaglio della contestazione
divenne la guerra del Vietnam, nella quale gli Stati Uniti si trovarono coinvolti a partire dall'inizio degli anni Sessanta
(in un primo tempo solo come fornitori di aiuti militari, ma gradualmente come combattenti a fianco del governo
sudvietnamita contro la guerriglia alimentata dal regime comunista costituitosi nella parte settentrionale del paese). Il
conflitto generò fra i giovani un crescente malessere, che raggiunse il suo apice nell'ottobre del 1967, quando più di
50000 giovani marciarono verso il Pentagono (quartier generale delle forze armate statunitensi).
Il sessantotto in Europa
Nei principali paesi europei, la protesta studentesca esplose nel 1968 e si scagliava principalmente contro la società
capitalistica che riduceva l'uomo alla pura dimensione economica e subordinava l'individuo alle esigenze della
produzione e del profitto.
Le proteste più importanti si ebbero a Parigi, nel maggio del 1968, quando agli studenti che contestavano le rigide
regole universitarie si unirono anche gli operai e i cittadini, mobilitati dai sindacati e dai partiti di sinistra. Uno degli
obiettivi dei contestatori era ottenere le dimissioni di De Gaulle, il quale, invece, sciolse il Parlamento e convocò nuove
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elezioni, nelle quali ottenne una grande vittoria, spiegabile con il fatto che probabilmente l'elettorato francese si era
spaventato dai disordini di maggio. Tuttavia, l'anno successivo, ad una successiva consultazione per un referendum, De
Gaulle subì una grave sconfitta, che lo costrinse a rassegnare le dimissioni, nell'aprile 1969.
La primavera di Praga
Mentre i giovani dell'Occidente chiedevano più spazio per la creatività individuale (la fantasia al potere), l'Europa
orientale era alle prese con il problema della libertà e dei diritti umani in termini più concreti.
Nella Cecoslovacchia stalinista non si era ancora verificato un movimento di protesta come in Polonia e Ungheria, in
quanto l'economia lì godeva di una relativa prosperità. Ma la situazione iniziò a degenerare a partire dal 1962, quando
alcuni generi alimentari cominciarono a sparire dal mercato e soprattutto quando la popolazione della Slovacchia diede i
primi segnali di malcontento nei confronti della politica accentratrice del governo di Praga. Questi primi segnali di crisi
spinsero i sovietici a porre come capo del Partito comunista lo slovacco Aleksander Dubček, il quale, resosi conto che il
Partito comunista non godeva più da tempo della fiducia della gente, si propose di rinnovare radicalmente la funzione
del Partito, dando la possibilità alla gente di rivolgere critiche e ascoltando le richieste della base. Dubček in sostanza
proponeva un socialismo dal volto umano, che sapeva farsi interprete delle aspirazioni concrete della popolazione.
Breznev dapprima fece pressioni su Dubček affinché ripristinasse la censura e ponesse un freno al dibattito politico che,
nel corso della prima metà del 1968 (di qui l'espressione primavera di Praga), si era liberamente manifestato all'interno
della Cecoslovacchia. Il 20 agosto 1968, vista la determinazione di Dubček, Breznev si decise di soffocare l'esperimento
del socialismo dal volto umano con un intervento militare delle truppe del Patto di Varsavia analogo a quello ungherese
del 1956, mostrando definitivamente che era impossibile riformare un partito comunista di modello leninista.
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Lo sviluppo economico degli anni Cinquanta e Sessanta
Gli anni fra il 1950 e il 1970 furono un periodo di cambiamenti sociali e di sviluppo economico senza precedenti.
Insieme agli Stati Uniti, i due stati che registrarono i successi più clamorosi furono il Giappone e la Germania Federale, la
cui rinascita economica è stata favorita proprio dagli aiuti americani, erogati con l'intento di farne dei partner politici ed
evitare il rischio di un loro avvicinamento all'URSS.
Stati Uniti, Germania Federale e Giappone, all'inizio degli anni Settanta, erano in testa alla classifica dei paesi
esportatori, ma la loro vertiginosa crescita produttiva si inseriva comunque in un più vasto e globale scenario di sviluppo
economico, legato alle grandi trasformazioni che si erano prodotte dopo la seconda guerra mondiale. Dopo il 1945,
infatti, in America e in Europa, si registrò un vertiginoso calo della popolazione occupata nelle campagne e,
contemporaneamente, una grande espansione industriale, che godette dell'introduzione della meccanizzazione del
lavoro, sicché la manodopera eccedente nelle campagne fu assorbita con facilità nei grandi centri urbani.
Società dei consumi e Welfare State
Il grande sviluppo degli anni Cinquanta e Sessanta si spiega innanzitutto con il basso costo del petrolio (un barile di
greggio costava meno di due dollari).
Il modello di sviluppo imitò quello degli Stati Uniti negli anni Venti: l'obiettivo della produzione industriale era quello di
fornire ad un numero sempre crescente di cittadini beni di consumo che, in tempi passati, erano stati a disposizione
solo di un gruppo ristretto di privilegiati. Fu soprattutto l'automobile il simbolo della nuova situazione economica e
sociale. Tuttavia, tale strategia economica, basata sull'incremento costante della quantità di beni di consumo immessi
sul mercato, poteva reggere solo se i potenziali consumatori erano messi in grado di acquistare i prodotti stessi, ovvero
se fosse loro garantito in maniera continuativa un elevato potere d'acquisto.
Ma poiché una simile scelta di tenere gli stipendi alti, se da un lato permetteva alle persone di acquistare i beni e i
servizi prodotti dall'industria, dall'altro rischiava di comprimere i profitti degli imprenditori e quindi di frenare gli
investimenti. Per questa ragione il potere d'acquisto dei salari venne sostenuto anche da parte delle autorità
pubbliche, attraverso l'aumento dell'erogazione di servizi sociali (pensioni, assistenza sanitaria, istruzione gratuita). Con
la nascita del Welfare State (Stato del benessere o Stato assistenziale), una quota importante del salario, che in passato
le famiglie dovevano accantonare per far fronte alle disgrazie improvvise, alle malattie o alla vecchiaia, divenne
improvvisamente disponibile per i consumi.
Il capitalismo post-bellico applicò i correttivi al sistema introdotti dal New Deal roosveltiano e teorizzati
dall'economista inglese John Maynard Keynes, attraverso una presenza dello stato nella vita economica e sociale: tutti i
governi occidentali accettarono di garantire la piena occupazione e lo sviluppo industriale al prezzo di un crescente
deficit di bilancio.
I problemi esplosero a partire dagli anni Settanta e negli Ottanta: poiché i deficit finanziari rischiarono di uscire dal
controllo, per evitare la bancarotta i governi dovettero intervenire, limitando il Welfare State.
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Il nuovo scenario economico degli anni Settanta
Alla fine degli anni Sessanta iniziarono i primi segnali di crisi: negli USA l'attività produttiva cominciò a rallentare e la
disoccupazione a crescere. Per favorire l'esportazione, nel 1971 il presidente Nixon decise di svalutare il dollaro,
abbandonando il rapporto fisso fra moneta e oro stabilito dagli accordi di Bretton Woods del 1944.
A seguito della guerra del Kippur (tra Israele da un lato e Egitto e Siria dall'altro, iniziata il 6 ottobre 1973), i paesi arabi
dapprima bloccarono ogni fornitura di petrolio a tutti gli stati che avevano sostenuto Israele e poi, quando le vendite
ripresero, aumentarono notevolmente il prezzo del greggio, portandolo a 11,65 dollari al barile (attualmente oscilla
intorno ai 100 dollari). Oltre al prezzo aumentato, c'è da sottolineare il peso che il consumo di energia prodotta dalla
combustione di petrolio aveva assunto nella vita economica dei paesi industrializzati.
Il risultato della rivoluzione dei prezzi petroliferi del 1973 fu l'immediato arresto del grande sviluppo produttivo, a
cominciare dall'industria dell'automobile. Ciò determino, di conseguenza, nei paesi industrializzati, un aumento
generalizzato della disoccupazione e un aumento vertiginosa dell'inflazione.
Le strategie per fronteggiare la crisi
Per affrontare la nuova situazione economica, si cercò di ridurre i costi di produzione, attraverso innovazioni
tecnologiche capaci di sostituire l'intervento umano. L'automazione dei processi produttivi pose fine alla tradizionale
equazione tra espansione economica e aumento dell'occupazione: la tecnologia sempre più sofisticata introdotta nelle
fabbriche provocò il licenziamento di un gran numero di lavoratori scarsamente qualificati (negli USA colpì soprattutto
la manodopera nera).
In Inghilterra e negli Stati Uniti, verso la fine degli anni Settanta si diffuse una politica economica neo-liberista.
Reagendo all'orientamento keynesiano tale impostazione affermava che lo stato doveva gradualmente ritirarsi dalla
scena economica e sociale, cioè diminuire drasticamente la quantità di servizi offerti (in modo da ridurre
l'indebitamento dello stato), attenuare la tassazione e incentivare la libera iniziativa. Il primo a impostare la politica di
un grande stato secondo questo orientamento neo-liberista fu il primo ministro britannico Margaret Thatcher (alla guida
del paese dal 1979 al 1990), e successivamente da Ronald Reagan (presidente USA dal 1981 al 1989). Reagan ridusse le
imposte del 25% in tre anni, attendendosi un grande rilancio dell'economia, in quanto era fiducioso che gli imprenditori
avrebbero reinvestito in attività produttive tutto ciò che risparmiavano. In realtà, ciò non si verificò, in quanto gli
imprenditori preferirono capitalizzare i risparmi e indirizzarli verso i consumi di lusso. Paradossalmente, inizialmente la
strategia neo-liberista aggravò il deficit della spesa pubblica, che raddoppiò dal 1981 al 1982: da un lato le spese statali
per i pubblici servizi erano state fortemente ridimensionate, dall'altro le condizioni del bilancio dello stato non erano
mai state così critiche. Inoltre, poiché Reagan perseguì anche l'obiettivo della superiorità militare americana, sul
bilancio federale pesò notevolmente il raddoppio (in quattro anni) delle spese per gli armamenti.
A partire dalla fine del 1982, si assistette ad una forte ripresa dell'economia americana. Tuttavia, poiché il deficit del
bilancio pubblico restava altissimo, le spese sociali vennero ulteriormente compresse: il tenore di vita del lavoratore
americano medio si abbassò, mentre crebbero a dismisura sia il numero di coloro che erano privi di qualsiasi tutela
relativa alle malattie e alla vecchiaia, sia la percentuale dei veri e propri poveri. Dal 1979 al 1986, si persero 7 milioni di
posti di lavoro.
Il lento declino della potenza sovietica
L'URSS iniziò a spendere somme gigantesche nella costruzione di armamenti nucleari. Nonostante ciò il divario
tecnologico tra le due superpotenze aumentò. Infatti, il 21 luglio 1969 non furono i russi, ma gli americani i primi
astronauti che sbarcarono sulla Luna: persino nel campo dei voli spaziali , che aveva visto i sovietici come precursori, gli
Stati Uniti si erano ormai lasciati indietro il tradizionale avversario. La disparità tecnologica si aggravò intorno alla metà
degli anni Ottanta.
Inoltre, nel dicembre 1979, l'URSS intervenne militarmente nel vicino Afghanistan, ove un regime militare filosovietico
incontrava crescenti difficoltà a mantenersi al potere. La guerra assorbì numerose risorse economiche e umane e un
diffuso malumore fra la popolazione russa. L'URSS non riuscì mai a controllare davvero l'intero paese e, infine, fu
costretta a ritirarsi nel febbraio 1989.
Solidarnosc in Polonia
Segni di malessere non tardarono a manifestarsi anche nei paesi satellite dell'URSS, soprattutto in Polonia, dove, a
seguito degli scioperi degli operai nei cantieri navali di Danzica, nel 1980 il governo fu costretto a permettere la nascita
di un sindacato libero, che prese il nome di Solidarnosc (= solidarietà), guidato da Lech Walesa.
Anche se nel 1981 Solidarnosc fu momentaneamente sciolto dal Governo militare guidato da Jaruzelski, tuttavia, come
vedremo, in seguito esso sarà riabilitato e avrà un ruolo decisivo nella vita politica del paese.
La perestrojka di Michail Gorbacev
Nel novembre 1982 morì Breznev, che con la sua politica aveva portato l'URSS al vertice della sua potenza militare, ma
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anche ad una situazione di stagnazione economica. Solo nel 1985 il Partito osò percorrere una strada diversa
eleggendo segretario Michail Gorbacev, il quale, nato nel 1931, a differenza dei suoi predecessori, non aveva
collaborato con il regime stalinista. Gorbacev credeva nel socialismo, ma voleva coniugarlo con la democrazia e con il
rispetto dei diritti dell'uomo e del cittadino. Gorbacev, a partire dal febbraio 1986 lanciò un grande programma di
ristrutturazione (perestrojka) del sistema sovietico, basato sulla trasparenza (glasnost) e sulla libertà di discussione e di
critica.
Nell'aprile 1986, esplose un reattore della centrale nucleare di Cernobyl in Ucraina: la nube radioattiva sprigionata
dall'esplosione dapprima provocò immensi danni nelle regioni circostanti, e poi investì diversi paesi europei. L'episodio
mostrò il disordine e l'inefficienza che regnavano persino nel settore dell'industria atomica e la necessità di procedere in
fretta a drastiche riforme anche nei campi che si credevano più avanzati e moderni. Per far ciò si dovevano trovare
risorse e Gorbacev pensò di intervenire prima di tutto sul settore militare. Con questo obiettivo, intraprese con il
presidente americano Reagan una serie di trattative per ridurre il numero dei missili e delle testate nucleari, perseguì
una politica di riconciliazione con la Cina e pose fine alla presenza russa in Afghanistan.
La crisi del socialismo nei paesi dell'Europa orientale
Le popolazioni dell'Europa orientale si resero conto che nella nuova situazione che si era venuta a determinare, nel
caso di un'azione politica e sociale da parte dell'opposizione, l'URSS non sarebbe più intervenuta a sostegno delle
dittature socialiste dei vari paesi. Così, nel corso del 1989, la situazione precipitò in tutti i principali stati del socialismo
reale.
In Polonia, Jaruzelski concordò con Solidarnosc (ricostituitosi dopo lo smantellamento del 1981) lo svolgimento di
elezioni cui potevano partecipare anche candidati non comunisti: tenutesi nel giugno 1989, queste prime libere
consultazioni furono un trionfo per Solidarnosc (a capo del governo venne eletto il cattolico Tadeus Mazowieski,
collaboratore di Walesa).
In Ungheria, oltre alla riabilitazione di Imre Nagy e degli altri leader della rivolta del 1956, il 28 maggio 1989 le autorità
decisero di disattivare nel territorio ungherese la “cortina di ferro” e quindi eliminare i limiti al libero transito degli
individui attraverso le proprie frontiere.
In dicembre, i regimi comunisti furono rovesciati anche in Cecoslovacchia, Bulgaria e Romania (a parte la Romania,
dove il dittatore Ceausescu venne ucciso da una rivolta popolare, in tutti questi altri paesi il cambiamento avvenne
senza spargimenti di sangue).
I nuovi governi avviarono un rapido smantellamento dell'economia pianificata e diretta dallo stato, adottando un
liberismo radicale. Il risultato, tuttavia, non fu quello previsto, poiché l'economia di questi paesi era del tutto
impreparata ad affrontare di colpo le dure leggi del mercato internazionale. Nel giro di pochi anni il prodotto interno
lordo scese e soprattutto aumentò vertiginosamente la disoccupazione.
La riunificazione della Germania
Dal settembre 1989, attraverso l'Ungheria i tedeschi dell'Est cominciarono di nuovo ad emigrare in massa verso la
Germania Occidentale. Il 9 novembre 1989, le autorità comuniste tedesche presero atto dell'impossibilità di fermare
l'esodo con la forza e emanarono una nuova normativa che in pratica significava la completa liberalizzazione della
circolazione fra le due Germania. Non appena la notizia si diffuse, la popolazione di Berlino Est si precipitò in massa
contro il Muro, che venne demolito in più punti, cancellando il simbolo più esplicito e odioso della separazione
dell'Europa in due schieramenti ideologici e militari contrapposti.
A questo punto, il cancelliere della Germania Federale Helmut Kohl, si batté per la riunificazione della Germania, che
venne ufficialmente raggiunta il 3 ottobre 1990. Anche per la Germania Orientale un simile repentino passaggio
all'economia di mercato si rivelò decisamente traumatico: moltissime aziende dovettero chiudere o vennero assorbite
da imprese dell'Ovest, mentre la disoccupazione toccò la punta del 17,5%. Il governo centrale dovette intervenire con
sovvenzioni ingenti e continue. Solo un'economia forte come quella tedesca poteva permettersi un onere simile.
La radicalizzazione dello scontro politico in URSS
Nel 1989, alle elezioni per il Congresso del popolo (un nuovo organismo destinato a sostituire il Soviet supremo e a cui
poterono per la prima volta partecipare anche candidati che non si riconoscevano nel partito o che addirittura l'avevano
osteggiato, come Andrej Sacharov, che insieme a Aleksandr Solzenicyn era stato uno dei più attivi oppositori della
dittatura comunista) venne eletto Gorbacev, il quale però si trovò schiacciato fra due schieramenti nemici, da un lato la
componente più conservatrice e tradizionalista del PCUS, che guardava con sospetto alla perestrojka, dall'altra coloro
che propugnavano il totale abbandono del socialismo e l'adozione immediata dell'economia di mercato, guidati
dall'emergente figura di Boris Eltsin.
Eltsin sostenne anche i movimenti separatisti (le repubbliche baltiche – Lettonia, Estonia, Lituania – e la Georgia avevano
avviato un processo di secessione), ritenendo che la Russia dovesse liberarsi dalle altre repubbliche dell'Impero (ormai
divenute solo un peso economico) e dovesse adottare il modello capitalistico e liberista.
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La disgregazione dell'URSS
Nel giugno 1991 Eltsin vinse le elezioni per la carica di Presidente della repubblica russa (Gorbacev rimaneva invece il
capo dell'URSS, con il risultato che il presidente della Russia e quello dell'URSS praticavano politiche contrastanti).
Nell'agosto 1991 ci fu un tentativo di colpo di stato comunista: i ribelli, con l'obiettivo di riportare l'ordine comunista nel
paese, arrestarono Gorbacev e si preparavano a fare altrettanto con Eltsin, ma la popolazione scesa in piazza a loro difesa
e così i congiurati, per evitare un massacro fra la popolazione moscovita, desistettero (gli alti esponenti coinvolti nel
complotto furono arrestati e Gorbacev venne liberato).
Nell'autunno 1991, il PCUS e il Parlamento vennero sciolti. L'8 dicembre 1991 i capi di Russia, Ucraina, e Bielorussia
s'incontrarono per firmare l'accordo che dichiarava dissolta l'Unione Sovietica e la sostituiva con la Comunità degli Stati
Indipendenti (CSI) e Gorbacev diede le dimissioni il 25 dicembre, mentre sul Cremlino la bandiera rossa fu sostituita dal
tricolore russo (bianco, rosso e azzurro).
Anche in Russia il repentino passaggio al libero mercato ha provocato un vero e proprio dissesto economico e una
gravissima disoccupazione.
La disgregazione della Jugoslavia
Mentre la Cecoslovacchia si divise pacificamente in due stati, la repubblica ceca e la repubblica slovacca, in Jugoslavia il
rinascere dei nazionalismi portò a conseguenze assai drammatiche.
Dopo la morte di Tito (1980) ripresero vigore in Serbia le ambizioni egemoniche. Intanto, il 25 giugno 1991, Slovenia e
Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. In Croazia si trovavano moltissimi serbi, che
essendo fatti oggetto di discriminazione, si organizzarono in formazioni armate (sostenute dall'esercito della
Repubblica di Serbia) per ottenere a loro volta l'indipendenza dalla Croazia. Da entrambe le parti si fece un feroce e
sistematico ricorso alla pulizia etnica.
Nel 1992, il conflitto si estese anche alla Bosnia-Erzegovina, dove erano presenti anche numerosi musulmani. Intorno a
Sarajevo e nel resto della Bosnia infuriò una lotta brutale fra serbi, da un lato, musulmani e croati dall'altro.
L'intervento delle Nazioni Unite non sortì nessun effetto moderatore. Un compromesso capace di porre fine
(temporaneamente) alla guerra di Bosnia fu raggiunto solo dopo tre anni di violenze, nel dicembre 1995 e suggellato a a
Dyton, negli Stati Uniti.
Il bilancio della guerra nella ex Jugoslavia fu terribile: esso fu il più sanguinoso conflitto europeo del Novecento escluse
le guerre mondiali.
La guerra in Kosovo
Nel 1998, il presidente serbo Slobodan Milosevic decise di procedere a una pulizia etnica in Kosovo, regione della
Serbia, abitata da molti cittadini di origine albanese, considerati dai nazionalisti serbi come semplici usurpatori. Per
tutto il 1998, gli albanesi furono oggetto di violenze (che causarono la distruzioni di centinaia di villaggi e produssero
migliaia di profughi).
Nel 1999, l'esercito serbo intensificò le violenze e ciò spinse gli Stati Uniti e i paesi della NATO ad intervenire con
bombardamenti su Belgrado e altre città serbe. Quando i bombardamenti si fecero più intensi, Milosevic accettò di
interrompere le violenze e di ritirare le truppe serbe dal Kosovo, che venne presidiato dalla NATO.
Nell'autunno 2000, Milosevic fu costretto ad abbandonare il potere, dopo aver perso le elezioni.
L'Unione Europea dopo gli accordi di Maastricht
Negli anni '50 e '60 in tutti i paesi dell'Europa occidentale si verificò una crescita economica sostenuta. Rapida fu
soprattutto la ripresa della Germania favorita anche da una notevole stabilità politica. Il definitivo ridimensionamento
politico dell'Europa, conseguenza del conflitto mondiale, favorì la spinta all'integrazione economica dei vari Stati.
L'ideale di un'Europa unita nel segno della pace, della democrazia e della cooperazione economica fu fatto proprio,
nell'immediato dopoguerra, da autorevoli uomini politici di diversi paesi, come De Gasperi, Adenauer, Schuman.
Dapprima fu istituita la Comunità europea del carbone e dell'acciaio (Ceca) e poi, nel 1957, con il Trattato di Roma, la
Comunità economica europea (Cee), che aveva lo scopo di creare un Mercato comune europeo, mediante
l'abbassamento delle tariffe doganali, la libera circolazione della forza-lavoro e dei capitali, il coordinamento delle
politiche industriali e agricole e il sostegno alle aree depresse e ai settori in crisi.
Dopo il Trattato di Roma, il cammino verso l'integrazione politica dell'Europa si arrestò. Solo nella seconda metà degli
anni '70 si ebbero due novità importanti: l'elezione a suffragio diretto del Parlamento europeo e l'istituzione della Sme,
un sistema di cambi fissi fra le monete dei paesi membri.
Il 7 febbraio 1992, nella città olandese di Maastricht si riunirono i ministri degli stati membri della Comunità Europea,
che nel frattempo si era allargata a 12 paesi (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna, Irlanda, Danimarca, Belgio,
Olanda, Lussemburgo, Grecia, Spagna, Portogallo). A Maastricht venne ufficialmente firmato il trattato che istituiva
l'Unione Europea, un organismo finalizzato ad affrontare in modo comune questioni di fondamentale importanza, come
lo sviluppo tecnologico, la tutela dell'ambiente, la sanità, ecc. Ma le prospettive più concrete di una reale integrazione ci
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furono in campo economico, con la decisione di istituire una nuova moneta unica europea (l'Euro), destinata a sostituire
le diverse valute nazionali.
Per garantire forza e sicurezza alla nuova moneta, era necessario che i paesi rispettassero rigidi parametri economici.
L'Italia, al momento della decisione non rientrava nei parametri (per es. aveva un rapporto deficit/pil troppo elevato),
ma, malgrado ciò, il governo presieduto da Romano Prodi, con interventi finanziari drastici, riuscì a raggiungere
l'ambizioso obiettivo dell'ingresso nell'unione monetaria, allorché essa venne varata all'inizio del 1999 (dal 1/1/1999
l'euro divenne la moneta ufficiale nei mercati finanziari, ma la circolazione monetaria ebbe effettivamente inizio il
1/1/2002).
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