le garanzie dei diritti dei lavoratori prof . francesco manica

“LE GARANZIE DEI DIRITTI DEI
LAVORATORI”
PROF. FRANCESCO MANICA
Università Telematica Pegaso
Le garanzie dei diritti dei lavoratori
Indice
B PREMESSA ---------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
1
LA TUTELA DEI CREDITI DA LAVORO ------------------------------------------------------------------------------ 4
2
IL TRASFERIMENTO DI AZIENDA E LE SUE FATTISPECIE -------------------------------------------------- 7
3
RINUNCE, TRANSAZIONI E QUIETANZE LIBERATORIE ----------------------------------------------------- 17
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Le garanzie dei diritti dei lavoratori
Premessa
Varie norme speciali, di carattere imperativo, prevedono molteplici garanzie
per la tutela dei diritti del prestatore di lavoro. Ciò nella considerazione che il
lavoratore, nella sua posizione di contraente più debole, possa essere indotto a non
esercitare propriamente i propri diritti nel timore di ritorsioni da parte del datore.
In generale, per garanzia – giurisdizionale, costituzionale, patrimoniale – deve
intendersi il rafforzamento della tutela di un bene o interesse giuridicamente protetto
e, quindi, di un diritto soggettivo. L’ordinamento circonda i diritti del lavoratore di
una serie di garanzie, alcune di natura sostanziale ed altre di natura strumentale e, più
precisamente, processuale, nelle quali sono da ravvisare delle vere e proprie posizioni
soggettive riconosciute al lavoratore in funzione del rafforzamento sia sostanziale sia
giurisdizionale della tutela dei diritti dello stesso lavoratore.
In realtà, il fenomeno giuridico della garanzia delle posizioni soggettive di
vantaggio è comune ai diversi settori dell’ordinamento: nel diritto del lavoro, al
solito, lo stesso fenomeno presenta caratteristiche peculiari in relazione alla natura
dei diritti soggettivi garantiti e degli interessi tutelati. Così, nel diritto civile le
garanzie del credito, di tipo reale (privilegio ex artt. 2745 ss. c.c.; pegno ex artt. 2784
ss. c.c.; ipoteca ex artt. 2808 ss. c.c.) oppure personale (fideiussione ex artt. 1936 ss.
c.c.) sono rivolte essenzialmente al rafforzamento della pretesa del creditore sul
versante della responsabilità del debitore, pertanto esse mirano a realizzare il
soddisfacimento dell’avente diritto al bene. Nel diritto del lavoro,accanto a queste
garanzie patrimoniali specifiche di tipo satisfattivo, sono altresì presenti le garanzie
rivolte alla tutela del lavoratore quale contraente debole e, più ancora, cittadino
socialmente sottoprotetto, in particolare sotto il profilo della titolarità dei diritti e
quindi dell’effettività del loro godimento.
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1 La tutela dei crediti da lavoro
Si tratta di garanzie strutturalmente e funzionalmente non diverse da quelle
rivolte al rafforzamento della comune responsabilità patrimoniale (art. 2740 c.c.) a
garanzia della generalità dei creditori, rispetto alla cui condizione viene attribuita al
lavoratore una posizione di preferenza o, come si dice, una causa legittima di
prelazione ex art. 2741 c.c., nel soddisfacimento sui beni del datore di lavoro. In
effetti la legge attribuisce al lavoratore una speciale tutela nella forma del privilegio (
art. 2745 c.c.), in considerazione della causa del credito. Si tratta della forma più
antica di garanzia specifica del diritto alla retribuzione. Valenza generale hanno le
causa legittime di prelazione previste a favore del lavoratore a garanzia dei crediti sui
beni del datore di lavoro. L’art. 2751 c.c. riconosce un privilegio generale sui mobili
del debitore per le retribuzioni dovute per effetto della cessazione del rapporto di
lavoro, nonché il credito del lavoratore per i danni conseguenti alla mancata
corresponsione, da parte del datore di lavoro, dei contributi previdenziali ed
assicurativi obbligatori ed il credito per il risarcimento del danno subito per effetto di
un licenziamento inefficacie, nullo o annullabile. Si tratta di un privilegio generale di
secondo grado, in quanto l’art. 2077 comma 2 c.c., nello stabilire l’ordine dei
privilegi, colloca i suddetti crediti immediatamente dopo quelli per spese di giustizia.
L’art. 2776 c.c., relativo alla collocazione sussidiaria dei crediti sugli immobili
in caso di infruttuosa esecuzione sui mobili, dispone poi che, in questo caso, l’ordine
della collocazione sussidiaria sia il seguente:
1.
Crediti relativi al t.f.r. ed all’indennità di mancato preavviso;
2.
Crediti di lavoro e gli altri crediti ex artt. 2751, 2751 bis e 2753
3.
Crediti dello Stato e x art. 2752 comma 3;
c.c.;
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4.
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Crediti chirografari.
Su un piano diverso si pone, infine, la c.d. azione diretta di rivalsa prevista
dall’art. 1676 c.c., secondo cui nel contratto di appalto il prestatore di lavoro
dipendente dall’appaltatore può rivalersi, per i propri crediti, nei confronti del
committente e fino alla concorrenza del debito di costui verso l’appaltatore; questa
tutela è stata di recente potenziata con la previsione, derogabile dai contratti
collettivi, di una responsabilità solidale dell’appaltante con l’appaltatore, entro il
limite temporale di un anno dalla cessazione dell’appalto, per la totalità dei crediti
retributivi e previdenziali dovuti dal secondo ai propri dipendenti e agli istituti
previdenziali. Decorso l’anno, resta operante il solo rimedio ex art. 1676 c.c. .
Le norme sui privilegi trovano applicazione anche nell’ipotesi del fallimento e
delle altre procedure concorsuali. Va tuttavia precisato che in caso di esercizio
provvisorio dell’attività di impresa, i crediti maturati dal lavoratore durante tale
periodo, in quanto strettamente collegati alla gestione dell’azienda da parte degli
organi fallimentari, sono considerati crediti della massa ed, in quanto tali, collocati al
primo posto nell’ordine della distribuzione delle somme ricavate dalla liquidazione
dell’attivo (c.d. prededuzione).
Questa tutela, peraltro, si rivela inefficacie allorquando il patrimonio
dell’imprenditore fallita non abbia capienza sufficiente a soddisfare i crediti dei
lavoratori. Per questo motivo ed in relazione alla natura alimentare della retribuzione
e degli altri crediti da lavoro ha emanato la direttiva n. 80/987 del 2 ottobre 1980,
relativa alla tutela dei crediti da lavoro in tutte le ipotesi di insolvenza del datore di
lavoro che comportino l’apertura di una procedura concorsuale, di tipo sia giudiziario
che amministrativo.
L’attuazione di questa direttiva è avvenuta in due tempi.
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In un primo momento, nel 1982 con la legge del 29 maggio n. 297, si è
provveduto all’istituzione di un fondo destinato specificatamente alla garanzia del
trattamento di fine rapporto (art. 2 legge 29.05.1982 n. 297). Solo dopo dieci anni e
dopo una condanna dello stato italiano al pagamento dei danni derivanti ai singoli
dalla mancata attuazione della direttiva, è stata emanata un’ulteriore disciplina
relativa alla garanzia, in generale, di tutti i crediti di lavoro diversi dal t.f.r. (D.lgs
27.01.1992 n. 80 emanato in attuazione della delega contenuta negli articoli 48 e 49
della legge 29.12.1990 n. 428).
Successivamente, il Consiglio della Comunità Europea è intervenuto in materia
con una nuova direttiva, la n. 2002/74 del 23 settembre 2002, con la quale si è
modificata in parte la precedente direttiva del 1980. A tale direttiva è stata data
attuazione con il D.lgs. del 19.08.205 n. 186.
Un ultimo spunto deve essere fornito circa la relativa indisponibilità dei diritti
del prestatore. La retribuzione, per espressa previsione costituzionale, è destinata a
soddisfare le esigenze vitali del lavoratore e della sua famiglia. Per tale motivo il
legislatore ha posto alcuni limiti alla disponibilità dei diritti del prestatore.
In particolare:
 gli assegni familiari sono insequestrabili, impignorabili e
incedibili;
 sono pignorabili i salari, gli stipendi e le indennità soltanto per
crediti alimentari; nella misura di 1/5 per altri crediti;
 i fondi speciali di previdenza e assistenza sono vincolati;
 i crediti previdenziali e assistenziali sono impignorabili.
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2 Il trasferimento di azienda e le sue fattispecie
Un’ ulteriore e particolare forma di garanzia dei crediti e più in generale dei
diritti dei lavoratori è disposta dall’art. 2112 c.c. il quale disciplina gli effetti del
trasferimento dell’azienda sui rapporti di lavoro e in particolare sulle posizioni
soggettive (diritti di credito, conservazione del rapporto) del lavoratore.
La disciplina del trasferimento di azienda annovera tra le sue fonti primarie
numerose direttive comunitarie. Queste ultime tendono ad armonizzare le diverse
normative nazionali in tema di tutela dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento
di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese e stabilimenti.
Il Consiglio dell’Unione Europea ha, infatti, emanato tre direttive succedutesi
nel tempo:
1.
14.02.1977 n. 77/187;
2.
28.06.1998 n. 98/50, la quale ha modificato la prima, al fine di
adeguarne il dettato normativo ai principi elaborati dalla giurisprudenza della
Corte di Giustizia;
3.
12.03.2001 n. 2001/23 con la quale si è proceduto alla
codificazione della precedente disciplina, introducendo soltanto alcune
marginali modifiche.
Passiamo ora ad analizzare come, nel corso del tempo, la nostra nazione abbia
dato attuazione alle citate direttive.
Per quanto concerne la prima, si deve segnalare il lungo periodo di
inadempimento dell’Italia. L’originaria formulazione dell’art. 2112 c.c. conteneva,
infatti, solo la regolamentazione di alcuni aspetti del trasferimento di azienda. In
particolare ne stabiliva gli effetti in ordine ai rapporti di lavoro, trascurando, al
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contrario, i profili attinenti alla conservazione dell’occupazione ed all’informazione e
consultazione sindacale.
Il completo e definitivo adeguamento della disciplina nazionale alle norma
comunitarie si è avuto con una sequenza di provvedimenti legislativi che,
inizialmente, ha parzialmente modificato l’art. 2112 c.c., salvo poi novellarlo
interamente in più occasioni fino all’attuale formulazione.
Al riguardo segnaliamo:
1.
L’art. 47 della legge 29.12.1990 n. 428. Tale norma, novellando i
primi tre commi dell’art. 2112, aveva disposto una nuova regolamentazione in
materia di trasferimento di azienda, dettando anche una specifica disciplina
per i trasferimenti effettuati in corso di una procedura concorsuale o in
presenza di una crisi aziendale;
2.
Il decreto legislativo 02.02.2001 n. 18 con cui è stato novellato
l’intero art. 2112 c.c., oltre ad essere stati modificati i primi quattro commi
dell’art. 47 della legge n. 448 del 1990;
3.
L’art. 32 del decreto legislativo 10.09.2003 n. 276 che ha
modificato, ancora una volta, l’art. 2112 c.c., intervenendo sulla nozione
giuridica di trasferimento d’azienda, nonché sulla tutela dei crediti dei
lavoratori trasferiti.
Chiariti i punti precedenti, appare opportuno delineare il concetto di
trasferimento d’azienda.
Ai sensi dell’art. 2112 comma 5 c.c. “si intende per trasferimento
d’azienda qualsiasi operazione che, in seguito a cessione contrattuale o a
fusione, comporti il mutamento nella titolarità di una attività economica
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organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che
conserva nel trasferimento la propria identità, a prescindere dalla tipologia
negoziale o dal provvedimento sulla base del quale il trasferimento è attuato, ivi
compreso l’usufrutto o l’affitto di azienda”.
Si tratta di una definizione legislativa assai ampia in grado di comprendere
quasi tutte le ipotesi di mutamento soggettivo della persona dell’imprenditore, a
fronte della persistenza dell’attività economica organizzata in sé considerata.
La seconda parte del 5° comma stabilisce, inoltre, che le norme in materia
di trasferimento d’azienda “si applicano altresì al trasferimento di parte
dell’azienda, intesa come articolazione funzionalmente autonoma di una attività
economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al
momento del suo trasferimento”.
Quest’ultima formulazione si contrappone alla precedente, secondo la
quale l’articolazione funzionalmente autonoma da trasferire doveva preesistere al
trasferimento e conservare in esso la propria identità. La nuova previsione,
infatti, prescindendo da questi ultimi requisiti e consentendo esplicitamente alle
parti di individuare all’atto dell’operazione l’entità autonoma da trasferire, mira
in sostanza a rendere più agevoli le operazioni di esternalizzazione (c.d.
outsourcing) di fasi o parti dell’attività, favorendo la cessione anche di parti
dell’azienda prive di un’autonomia funzionale fino al momento del
trasferimento.
In questa complessa ed articolata definizione un rilievo decisivo assume il
concetto di “attività economica organizzata”, il quale va inteso tenendo conto
dell’evoluzione pluriennale della giurisprudenza della Corte di Giustizia, nonché
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del dettato della direttiva comunitaria, la cui formulazione attuale è ispirata
proprio alle risultanze di tale giurisprudenza.
Al riguardo ve ricordato che la Corte ha ammesso la ricorrenza di un
trasferimento d’azienda anche in casi in cui, in presenza di un affidamento
all’esterno di attività lavorative già svolte in ambito aziendale, vi era stata una
successione di soggetti nello svolgimento di un ‘attività (ad esempio successione
di due operatori economici nello svolgimento di opere o servizi in appalto), ma al
tempo stesso era stato assente o minimale un trasferimento di elementi
patrimoniali materiali e/o immateriali. Al riguardo la Corte ha ritenuto non
necessario, per la configurazione del trasferimento d’impresa, di stabilimento, o
di parti di impresa o di stabilimento, ai sensi della direttiva, anche il
trasferimento di elementi patrimoniali, occorrendo, piuttosto, una valutazione del
complesso delle circostanze di fatto che caratterizzano l’operazione economica.
Di questo orientamento, ha dovuto tener conto il legislatore comunitario, il quale
nel 1998 ha modificato la predente direttiva del 1977, stabilendo che è
considerato trasferimento “quello di una entità economica che conserva la
propria identità, intesa come insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere
un’attività economica, sia essa essenziale o accessoria”; con ciò evidentemente
adottando una definizione in grado di soddisfare l’interpretazione data dalla
Corte nella sua giurisprudenza pluriennale.
Proprio alla luce di questa evoluzione del dato normativo e
giurisprudenziale comunitario si comprende la ragione per cui all’espressione
“attività economica organizzata”, adottata dal legislatore italiano, non solo
possano, ma anzi debbano essere ricondotte anche le ipotesi nelle quali, tenuto
conto delle caratteristiche concrete dell’attività svolta, oggetto del trasferimento
sia un’entità caratterizzata da una presenza estremamente ridotta di elementi
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materiali e/o immateriali, ovvero vi sia addirittura totale assenza di essi (Es. la
successione nell’appalto di un servizio di pulizia dei locali, dove appare ben
concepibile l’assenza di beni materiali ed immateriali da trasferire).
Quanto appena detto spiega le perplessità sollevate dall’art. 29 comma 3
del decreto legislativo n. 276/2003,
in forza del quale “l’acquisizione del
personale già impiegato nell’appalto a
seguito di subentro di un nuovo
appaltatore, in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro, o di
clausola del contratto di appalto, non costituisce trasferimento d’azienda o di
parte d’azienda”. Si tratta di una previsione ambigua che, per non essere in
contrasto con la normativa e la giurisprudenza comunitarie di cui si è detto, deve
essere letta in senso limitativo, nel senso cioè che l’esclusione possa riguardare le
solo ipotesi in cui, sulla base delle concrete circostanze di fatto dell’operazione
economica, il mero trasferimento di personale alle dipendenze del nuovo
appaltatore non possa essere considerato integrante al fattispecie del
trasferimento di una attività economica organizzata.
Le riflessioni che precedono, riguardano entrambe le ipotesi contemplate
dall’art. 2112 comma 5 c.c. e cioè il trasferimento sia dell’intera attività
economica organizzata, sia di un articolazione funzionale di essa.
Va notato, infine, che, nonostante l’ambiguità del dettato normativo, anche
al fine di evitare un contrasto con la direttiva comunitaria, la natura
funzionalmente autonoma dell’articolazione trasferita non possa dipendere dalla
mera volontà delle parti, ma debba costituire una intrinseca caratteristica
dell’entità predetta e che a tal fine acquisisce rilievo giuridico il dato economicoorganizzativo.
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Dalla normativa che abbiamo fino ad esso analizzate emerge, a chiare
lettere, il principio della tutela delle posizioni individuali.
L’aspetto più rilevante di questa tutela è costituito dal principio, risalente
alla formulazione originaria dell’art. 2112 c.c., dell’automatica continuazione dei
rapporti di lavoro con il cessionario e della conservazione dei diritti maturati del
lavoratore. Tale principio, sancito dal comma 1 della disposizione, trova
conferma e rafforzamento da quanto espressamente previsto dal comma 4 della
stessa, secondo il quale il trasferimento non costituisce di per se valido motivo di
licenziamento; anche se per converso va notato che la stessa norma riconosce
tanto al cedente che al cessionario la facoltà di procedere ad eventuali
licenziamenti nel rispetto della disciplina legale e collettiva in materia.
Confrontando questa disciplina con quella dettata in generale dall’art. 2558 c.c.
in materia di successione nei contratti in caso di cessione d’azienda, va anzitutto
osservato che mentre quest’ultimo sancisce il principio secondo cui l’acquirente
dell’azienda subentra nella generalità dei contratti relativi all’esercizio
dell’impresa salvo patto contrario con l’alienante, nell’art. 2112 c.c. la
successione nel contratto di lavoro è un effetto necessario, ancorché sia poi
possibile il recesso giustificato del cedente. Ciò in aderenza con la finalità della
norma, consistente nella tutela dell’interesse del prestatore di lavoro alla
continuità del rapporto, quest’ultima considerata in riferimento non al singolo
datore di lavoro, ma allo svolgimento del rapporto in funzione della medesima
impresa, intesa questa come attività economica organizzata. Se ciò è vero, va
pure fatta un'altra considerazione. Dall’art. 2112 comma 1 c.c. che stabilisce
l’automatico trasferimento dei contratti di lavoro al cessionario, si deduce che, ai
fini dell’effetto traslativo, non è richiesto il consenso del lavoratore e che egli
non ha la facoltà di opporsi al trasferimento del proprio contratto, salvo che non
si dimetta con preavviso ai sensi dell’art. 2118 comma 1 c.c. . Diversamente egli
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potrà utilizzare la previsione dello stesso articolo 2112 c.c. comma 4, in base al
quale ove il lavoratore, nei tre mesi successivi al trasferimento, subisca una
sostanziale modifica delle condizioni di lavoro, “può rassegnare le proprie
dimissioni con gli effetti di cui all’art. 2119, primo comma” (dimissioni per
giusta causa con conseguente diritto all’indennità di mancato preavviso).
Ciò premesso, è da segnalare che se l’applicazione della tutela prevista
dall’art. 2112 c.c. è di regola vantaggiosa per i lavoratori quando il trasferimento
riguardi l’azienda o l’impresa nel suo complesso, lo stesso non può dirsi quando
oggetto
del
trasferimento
sia
una
articolazione
funzionale
autonoma
dell’impresa. La cessione potrebbe esporre, infatti, i lavoratori ceduti ad un
peggioramento delle loro condizioni di lavoro, a cominciare dal rischio del posto:
si pensi, ad esempio all’applicazione finale di un contratto collettivo meno
favorevole, o anche alla perdita della tutela reale in caso di licenziamento
individuale, o addirittura al possibile determinarsi di una perdita del posto di
lavoro per via della minore solidità dell’entità trasferita.
Nell’ambito delle operazioni di trasferimento di azienda, un’ulteriore
principio posto a tutela del lavoratore è quello sancito dall’art. 2112 comma 2
c.c. . Si tratta del principio di solidarietà tra cedente e cessionario per i crediti
vantati dal lavoratore al momento del trasferimento. Tale principio si applica
indipendentemente dalla conoscenza o conoscibilità dei crediti da parte del
cessionario. È consentita, tuttavia, la liberazione del cedente mediante le
procedure conciliative di cui agli artt. 410 ss. c.p.c. .
In aggiunta a questa disposizione relativa ai crediti pregressi, va segnalata
l’ulteriore garanzia in favore del lavoratore ceduto nei casi in cui, a seguito del
trasferimento di un ramo di azienda, tra cedente e cessionario sia concluso un
contratto di appalto, con utilizzazione dell’entità trasferita: in questa ipotesi, per
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esplicito, ancorché superfluo, richiamo del legislatore (art. 2112 ultimo comma),
si applica la regola fissata dall’art. 29 comma 2 del decreto legislativo n. 276 del
2003, della responsabilità solidale dell’appaltante con l’appaltatore per quanto
riguarda i trattamenti retributivi e contributivi previdenziali dovuti dal secondo ai
propri dipendenti, entro il limite di un anno dalla cessazione dell’appalto.
Diversa da queste garanzie dei crediti dei lavoratori trasferiti, è la garanzia
della conservazione dei trattamenti economici e normativi previsti da contratti
collettivi nazionali, aziendali e territoriali goduti al momento del trasferimento.
Ciò fino alla scadenza del contratto, salvo che lo stesso sia sostituito da altro
contratto collettivo del medesimo livello applicabile all’impresa del cessionario.
Quanto al profilo della tutela collettiva dei lavoratori, che si estrinseca nel
vincolo della consultazione sindacale, l’art. 47 della legge n. 428 del 29.12.1990
prevede che, qualora il trasferimento riguardi una azienda – o parte di essa – in
cui sono occupati più di quindici lavoratori, tanto il cedente quanto il cessionario
ne diano preventiva comunicazione alle r.s.u. ovvero alle r.s.a. istituite presso le
rispettive unità produttive interessate dal trasferimento, nonché ai sindacati di
categoria che hanno stipulato il contratto collettivo in esse applicato; in
mancanza delle predette rappresentanze, la comunicazione va effettuata dal
cedente e dal cessionario, anche per il tramite dell’associazione sindacale alla
quale
aderiscono
o
conferiscono
mandato,
ai
sindacati
di
categoria
comparativamente più rappresentativi. Tale comunicazione deve avvenire in
forma scritta almeno venticinque giorni prima della data del perfezionamento
dell’atto da cui deriva il trasferimento o della data in cui sia stata raggiunta
un’intesa vincolante per le parti.
Con la comunicazione devono essere trasmesse informazioni relative alla
data effettiva o proposta del trasferimento, ai motivi del trasferimento, alle
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conseguenze giuridiche, economiche e sociali per i lavoratori, nonché agli
eventuali provvedimenti previsti per questi ultimi. Qualora, poi, entro sette giorni
dalla predetta comunicazione, le rappresentanze sindacali o i sindacati di
categoria ne facciano richiesta, il cedente e il cessionario, entro sette giorni dal
ricevimento della richiesta stessa, sono tenuti ad avviare un esame congiunto
della situazione che, in mancanza di accordo, si intende esaurito dopo dieci
giorni dal suo inizio. La violazione degli obblighi di informazione e
consultazione è espressamente considerata condotta antisindacale ai sensi
dell’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori.
Infine è previsto che gli obblighi di informazione e di esame congiunto
devono essere assolti anche nel caso in cui la decisione relativa al trasferimento
sia stata assunta da altra impresa controllante, e che la mancata trasmissione da
parte
di
quest’ultima
delle
informazioni
necessarie
non
giustifica
l’inadempimento dei predetti obblighi.
Concludendo, si deve ancora segnalare che l’art. 47 della legge n. 428 ha
dettato anche una speciale disciplina rivolta ad agevolare il trasferimento
d’azienda quando lo stesso si ricolleghi ad una situazione di crisi economica
dell’imprenditore cedente. Si tratta dei casi in cui l’impresa sia sottoposta ad una
procedura concorsuale nel corso della quale non sia stata disposta (o sia cessata)
la continuazione dell’attività, ovvero per la quale sia stato accertato lo stato di
crisi aziendale (Vedi art. 2 della Legge 12.08.1977 n. 675). In tali situazioni,
qualora attraverso la procedura di consultazione sindacale sia stato raggiunto un
accordo che assicuri la conservazione anche parziale dell’occupazione, ai
lavoratori non licenziati non è applicabile l’art. 2112 c.c., a condizione che
l’accordo stesso contenga condizioni di miglior favore. Tale accordo può inoltre
prevedere che il personale eccedentario rimanga alle dipendenze dell’alienante;
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ed al riguardo, in favore di questi lavoratori, i quali sono evidentemente destinati
a subire un licenziamento per causa economica (Si tratta di un licenziamento
individuale per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell’art. 3 della 15.07.1966
n. 604, ovvero di un licenziamento collettivo per riduzione di personale ai sensi
dell’art. 24 della legge 23 luglio 1991 n. 223), viene assicurato il diritto di
precedenza nelle assunzioni che l’acquirente dell’azienda effettui entro un anno
dalla data del trasferimento, dichiarandosi anche per essi inoperanti le garanzie
previste dall’art. 2112 c.c .
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Le garanzie dei diritti dei lavoratori
3 Rinunce, transazioni e quietanze liberatorie
Nel concludere l'esame dei principali istituti volti essenzialmente a tutelare il
prestatore nella sua posizione di contraente debole, è necessario trattare degli atti di
disposizione dei diritti dei lavoratori. La compressione o, addirittura, la soppressione
della facoltà di disposizione, attraverso la comminatoria dell’invalidità dell’atto
negoziale di disposizione, può essere resa necessaria dall’esigenza di tutelare o un
interesse pubblico in ipotesi contrastante con l’interesse del titolare del diritto
soggettivo, oppure un interesse privato del titolare stesso, la cui volontà può palesarsi
inidonea alla valutazione o insufficiente alla realizzazione dell’interesse medesimo.
In quest’ultimo caso è evidente che il limite alla disponibilità del diritto da parte del
titolare verrà imposto all’autonomia negoziale alla scopo di rafforzare la tutela
dell’interesse garantito.
La seconda ipotesi indicata (interesse privato del titolare) ricorre nel rapporto
di lavoro: considerata la tipica situazione di debolezza del lavoratore, conseguente
alla minorazione del suo potere contrattuale, i suoi atti di disposizione dei diritti
riconosciutigli dall’ordinamento possono rappresentare un fenomeno di reazione,
tendente all’elusione dei limiti imposti all’autonomia negoziale ed alla violazione
delle corrispondenti norme imperative (vedi art. 1344 c.c. in tema di nullità del
negozio in frode alla legge). Di qui la specifica disciplina dettata dall’art. 2113 c.c.
sull’invalidità delle rinunzie e transazioni del lavoratore, quale risultante dopo la
novella introdotta dall’art. 6 della legge 11.08.1973 n. 533, di riforma del processo
del lavoro.
L'art. 2113, co. I, c.c., nel testo modificato dall'art. 6, L. 11 agosto 1973, n.
533, dispone che "Le rinunce e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del
prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti
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o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 del codice di procedura
civile, non sono valide". L’equiparazione tra lavoro autonomo e lavoro subordinato
non è dunque, agli effetti di questa disciplina, né totale né assoluta, restando esclusi
dalla tutela ivi disposta i lavoratori autonomi titolari di un impresa, nonché tutti i
rapporti d’opera a carattere discontinuo. La disposizione prevede, quindi, che
l’invalidità sia fatta valere dal lavoratore mediante impugnazione, la quale può essere
effettuata con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore, idoneo a
renderne nota la volontà, e che essa deve essere proposta a pena di decadenza entro
sei mesi dalla data di cessazione del rapporto di lavoro ove la rinuncia o la
transazione siano avvenute nel corso del rapporto medesimo, ovvero entro sei mesi
dalla data della rinuncia o della transazione, qualora esse siano intervenute
successivamente alla cessazione di quest’ultimo (art. 2113 commi 2 e 3). Deve essere
adeguatamente sottolineato che l’impugnazione ex art. 2113 c.c. deve avere, a pena di
inefficacia, forma scritta. La sua funzione, infatti, è quella di comunicare al datore di
lavoro la volontà del prestatore di provare il negozio di rinunzia o transazione della
sua efficacia: si tratta dunque di una dichiarazione unilaterale recettizia di volontà.
Una simile impostazione non significa che non sia necessario l’esercizio dell’azione
in giudizio. L’invalidità deve, pur sempre, essere dichiarata dal giudice con sentenza
di accertamento costitutivo. Poiché l’impugnazione deve essere proposta entro sei
mesi, si deve ritenere che l’atto di impugnazione stragiudiziale configuri una speciale
condizione di ammissibilità dell’azione di annullamento, il cui termine di
prescrizione quinquennale decorrerà, pertanto, dalla data dell’impugnazione
stragiudiziale. Effetto dell’impugnazione è la contestazione della validità del negozio
di rinunzia o transazione e, dunque, l’instaurazione nei confronti del datore della
controversia finalizzata all’accertamento dell’invalidità del negozio dispositivo, ed al
soddisfacimento delle pretese derivanti dai diritti che sono stati oggetto della
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disposizione. Passiamo ora ad analizzare le cause dell’invalidità del negozio
dispositivo. Al riguardo dobbiamo soffermarci su due principali aspetti:
1. La causa è da ravvisare nella violazione di una norma inderogabile
di legge o di contratto collettivo posta a tutela degli interessi dei
lavoratori;
2. L’annullabilità non riguarda ogni negozio di disposizione ma solo
la rinunzia e la transazione.
Quanto al primo punto va ricordata che le norme inderogabili assolvono ad una
funzione minimale di tutela dell’interesse collettivo, perciò quest’ultimo deve
ritenersi rilevante soltanto indirettamente, quale presupposto dell’impugnazione a
tutela dell’interesse individuale del singolo. In ogni caso, però, soltanto la lesione
dell’interesse del lavoratore, protetto mediante la norma inderogabile, costituisce il
fatto rilevante ai fini dell’invalidità e, precisamente, all’annullabilità della rinunzia e
della transazione.
Insomma, sia pure su un piano diverso rispetto alla nullità dei patti ed atti
contrari ed alle conseguente sostituzione legale automatica, l’invalidità disposta
dall’art. 2113 c.c. è pur sempre da riportare al principio dell’inderogabilità del
regolamento contrattuale collettivo. Per mezzo dell’effetto dell’annullabilità, infatti,
all’autonomia negoziale del prestatore di lavoro viene imposto un limite, finalizzato
al rafforzamento della tutela dell’interesse incorporato nel diritto soggettivo di cui è
titolare il lavoratore stesso, rappresentato dal minimo inderogabile di trattamento
economico e normativo. Di conseguenza si ha una limitazione non totale ma soltanto,
e precisamente entro i limiti, imposti dalla disciplina inderogabile e dal contratto
collettivo, della facoltà di disposizione dei diritti soggettivi attribuiti alla titolarità del
lavoratore. In tal senso la norma dell’art. 2113 c.c., funge da garanzia di livelli
minimi imposti a pena di nullità dalle norme imperative.
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La portata dell’impugnazione non va intesa, quindi, nel senso di una
diminuzione o restringimento della capacità di agire del singolo lavoratore. Non si
tratta di una sottrazione della disponibilità dei diritti al loro titolare, ma dell’esercizio
della facoltà di disporre dei propri diritti, nel rispetto di determinati limiti o requisiti,
imposti a garanzia dell’interesse del singolo prestatore alla conservazione del
trattamento minimo imposto al datore dalle norme della legge e dei contratti
collettivi. L’invalidità delle rinunzie e delle transazioni si prospetta, così, come un
limite imposto all’autonomia negoziale in funzione dell’effettivo soddisfacimento di
interessi la cui realizzazione può essere impedita dalla posizione di debolezza
contrattuale a sua volta riflesso del più ampio stato di sottoprotezione sociale nel
quale il lavoratore si trova tanto nel corso del rapporto quanto successivamente
all’estinzione dello stesso.
Va evidenziato, inoltre, che, ai sensi dell’art. 2113 comma 4 c.c., sono valide, e
perciò non impugnabili, le rinunzie e le transazioni intervenute in sede di
conciliazione delle controversie individuali. In tale sede, che può essere sia giudiziale
sia amministrativa o sindacale, la disposizione dei diritti avviene con l’assistenza
dell’organo conciliatore.
Sul punto, pertanto, si può concludere affermando che la ratio della limitazione
disposta dall’art. 2113 c.c. è da ravvisare nella situazione di inferiorità del prestatore
nella sua qualità di contraente debole, anche ai fini dell’autocomposizione individuale
della lite nelle controversie individuali di lavoro. l’inderogabilità del regolamento
contrattuale imposto dalle norme della legge e dei contratti collettivi trova così
riscontro nella limitata disponibilità dei corrispondenti diritti soggettivi per effetto
della drastica compressione di una particolare funzione dell’autonomia negoziale dei
privati e nella conseguente esclusione della validità delle rinunzie e delle transazioni
ai fini dell’autocomposizione stragiudiziale delle controversie individuali del lavoro.
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A questo proposito, anzi, va sottolineato che della previsione della validità
delle rinunzie e transazioni cui il lavoratore sia addivenuto in sede di conciliazione
sindacale prevista dall’art. 2113 comma 4 c.c., non si può pervenire a riconoscere al
sindacato un potere collettivo di disposizione dei diritti del singolo lavoratore già
entrati a far parte del patrimonio di quest’ultimo. Pertanto le transazioni collettive,
concluse dal sindacato nell’interesse di più lavoratori ma in assenza di uno specifico,
necessitano dell’adesione individuale nella forma della ratifica ex art. 1389 c.c. o in
forma equivalente (Vedi Cass. 12.02.2000 n. 1576).
Terminato questo discorso di portata generale, dobbiamo ora procedere
all’analisi specifica degli strumenti dispositivi riconosciuti al lavoratore.
I negozi giuridici con cui può realizzarsi la disposizione dei diritti dei
lavoratori ai quali si riferisce l'art. 2113, co. I, c.c., sono dunque:
 la rinuncia, negozio unilaterale recettizio, che tende alla
dismissione con efficacia abdicativa o traslativa, di un diritto
soggettivo da parte del titolare e che nell'ambito del rapporto di
lavoro assume la natura di remissione del debito, poiché ha ad
oggetto diritti patrimoniali;
 la transazione, che, ai sensi dell'art. 1965, c.c., è il contratto con il
quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad
una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra
loro: essa viene assimilata, nell'art. 2113, c.c., alla rinuncia perché
di questa può costituire un mascheramento e perché il
corrispettivo offerto dal datore nel caso di transazione può non
essere commisurato al sacrificio del lavoratore, stante la posizione
di debolezza contrattuale di quest'ultimo.
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Circa la delineata distinzione va fatta una precisazione:
l’assimilazione della rinunzia alla transazione non trova giustificazione soltanto
nella eventualità che la seconda sia un mascheramento della prima (simulazione
relativa ex art. 1414 comma 2 c.c.). Si deve ritenere piuttosto che i confini tra volontà
abdicativa e volontà transattiva si presentino notevolmente sfumati nelle controversie
individuali di lavoro, in cui la transazione, ancor più della rinunzia, si configura come
un negozio socialmente tipico di composizione della lite, caratterizzato dalla forte
riduzione del tradizionale elemento della “res dubbia” (cioè una situazione di
incertezza sull’esistenza di un diritto soggettivo). Tale situazione, che è generalmente
causa della lite, nelle controversie di lavoro viene spesso sopravanzata dallo
squilibrio di forza contrattuale tra le parti: per cui la disposizione dei diritti
controversi del lavoratore si presenta inficiata dalla precedente inerzia del titolare,
anziché giustificata dall’incertezza soggettiva dello stesso. Si intende, allora, come lo
stesso scambio delle reciproche concessioni nella transazione si presenti soverchiato
dallo stato di sottoposizione sociale del lavoratore. Insomma, si può concludere che
nelle controversie individuali di lavoro all’inderogabilità del regolamento contrattuale
del rapporto si contrappone non tanto l’incertezza quanto l’inerzia del titolare del
diritto. Quanto detto contribuisce a delineare, già sul piano della realtà effettuale, la
figura del prestatore di lavoro come litigante debole, che corrisponde, appunto, alla
previsione dell’art. 2113 c.c. . la conseguenza, che si riflette poi sul piano
dell’invalidità del negozio, è nella tendenza a fare della transazione un vero
strumento di composizione della lite in vista della realizzazione delle pretese
creditorie anziché dell’accertamento dei diritti del prestatore di lavoro.
Dalle rinunce e dalle transazioni bisogna tenere distinte le c.d. quietanze a
saldo o quietanze liberatorie, con le quali il prestatore dichiara di aver ricevuto una
certa somma attestando di essere soddisfatto di ogni spettanza e di non avere nulla a
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pretendere. In un primo momento, la giurisprudenza era incline a ravvisare nella
quietanza a saldo l'animus rinunciandi; oggi è giunta all'opposta conclusione che la
quietanza è una mera dichiarazione di scienza che non contiene alcuna volontà di
rinuncia ad ogni altro eventuale credito del prestatore nei confronti del datore. La
rilevanza di tale atto come rinuncia può, dunque, aversi solo nei casi in cui precisi
elementi testuali e circostanze di fatto denotino la sussistenza dell'animus
rinunciandi. L'impugnazione delle rinunce e transazioni di cui all'art. 2113, co. 1, c.c.,
con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del
lavoratore, deve essere proposta, a pena di decadenza, entro sei mesi dalla cessazione
del rapporto o dalla data della rinuncia o della transazione, se queste sono intervenute
dopo la cessazione medesima. L'invalidità prevista dall'art. 2113, c.c., è della specie
dell'annullabilità, come si desume dalla previsione di un regime di impugnazione - il
diritto di impugnazione ex art. 2113 è un diritto potestativo concesso solo al
prestatore, intrasmissibile agli eredi - e dalla fissazione di un termine di decadenza. Il
mancato esercizio del potere di impugnazione sana le rinunce e le transazioni
altrimenti invalide.
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