la crisi del diritto comune nella stagione dell

“LA CRISI DEL DIRITTO COMUNE NELLA STAGIONE
DELL’ASSOLUTISMO MONARCHICO”
PROF.SSA MARIA NATALE
Università telematica Pegaso
La crisi del diritto comune nella stagione
dell’assolutismo monarchico
Indice
1
Premessa --------------------------------------------------------------------------------------------------- 3
2
Accentramento assolutistico del potere e statualizzazione del diritto -------------------------- 4
3
La Riforma Protestante e la nascita delle Chiese nazionali -------------------------------------- 8
4
Dall’universale al particolare: dal diritto comune al diritto dello Stato --------------------- 10
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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La crisi del diritto comune nella stagione
dell’assolutismo monarchico
1 Premessa
Cari studenti,
il corso di Storia del diritto medievale e moderno II, che si avvia con questa lezione, si
propone di approfondire alcune tematiche, solo in parte già oggetto di studio nella prima annualità,
fornendovi, degli eventi, una chiave di lettura critica, mai meramente descrittiva, capace di farvi
penetrare ancor di più nell’evoluzione della nostra esperienza giuridica, sin dalle soglie della
modernità. Nella formazione del giurista, lo studio della storia del diritto, non può che essere
finalizzato ad acquisire il senso di una prospettiva in cui l’attualità deve essere colta quale momento
finale di una complessa e secolare evoluzione che condiziona, anche al di là delle apparenze,
l’attualità.
In questo quadro, un’attenzione peculiare sarà rivolta a mostrare come, al di là
dell’immagine squisitamente tecnica della scienza del diritto, fortissimi ed intensissimi siano
sempre stati i collegamenti tra la dimensione giuridica e quella politica, in un quadro complessivo
in cui hanno svolto, e continuano a svolgere, un ruolo centrale i diversi fattori: economici, sociali e
religiosi. Il diritto, insomma, lungi dal vivere in una dimensione separata, è l’espressione di quanto
di più vivo possa nascere da una società e proprio su questo diritto, inteso come realtà in perenne
movimento, sarà necessario puntare la nostra attenzione.
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2 Accentramento assolutistico del potere e
statualizzazione del diritto
Nell’esperienza giuridica europea, il diritto romano, così come elaborato dalla
giurisprudenza medievale costituì un elemento di centrale importanza. Tutti gli ordinamenti politici
europei, difatti, furono accomunati dalla ricezione, seppure a vario titolo e con varietà di vicende, di
una medesima tradizione giurisprudenziale di matrice romanistica. In ciascuno degli ordinamenti
europei, infatti, la presenza del diritto romano diede luce, come normativa comune e sussidiaria, a
quel caratteristico sistema di fonti giuridiche che si qualifica come sistema di diritto comune.
Circa l’organizzazione complessiva del sistema delle fonti, può dirsi che proprio il diritto
comune, come blocco unitario, finì per contrapporsi ad una eterogenea molteplicità di diritti locali e
particolari. Nel quadro giuridico europeo divenne sempre più nitida, dunque, la contrapposizione tra
ius commune, inteso quale sintesi di diritto romano e di diritto canonico, e iura propria, ossia diritti
particolari e locali.
E fu, proprio rispetto a questi diritti particolari, che il diritto comune
rappresentò un primo elemento di sostegno di quella uniformità giuridica nazionale verso cui,
lentamente, gli ordinamenti politici europei tendevano, ma che, ancora, non erano in grado di
realizzare compiutamente.
Tuttavia, fu proprio con il progressivo accentrarsi dello Stato moderno, con il crearsi di
correnti dottrinali volte a giustificare il governo autocratico e monocentrico del Sovrano, che il
concetto di diritto comune cominciò a conoscere il suo declino. Ad entrare in crisi, fu, in particolar
modo, l’idea che l’ordinamento giuridico potesse continuare a configurarsi quale regime pluralistico
di fonti affidato esclusivamente all’attività interpretativa dei giuristi medievali.
Rispetto a questo quadro, dai connotati tipicamente medievali, cominciò a delinearsi un
nuovo orizzonte. Da un canto, infatti, venne a configurarsi il nuovo concetto di diritto, inteso quale
espressione della volontà del Sovrano e, dunque, legge dello Stato sovrano. Dall’altro canto, si
profilò, con connotati progressivamente più definiti, l’immagine dello Stato inteso quale
produttore esclusivo del diritto, con il conseguente e definitivo superamento dell’idea
dell’ordinamento politico, mero conservatore di un eterogeneo e molteplice diritto ad esso
precostituito. Prese così corpo il fenomeno della statualizzazione del diritto, ragion per cui lo Stato
tese progressivamente a porsi quale unica ed esclusiva fonte del diritto.
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Fu, dunque, l’assolutismo monarchico, con la sua intrinseca volontà di sottoporre al
controllo tutto l’ordinamento giuridico positivo ed i meccanismi di gestione del diritto, a cercare di
risolvere il problema dell’unificazione giuridica facendo leva sull’idea della necessità di un
intervento legislativo, diretto ed autoritario, proveniente dall’alto, quale unica ed esclusiva fonte
del diritto. Spettava, infatti, esclusivamente al Sovrano, quale unica fonte del potere politico, e
dunque normativo, fondare il diritto e dare vita all’ordinamento giuridico.
A tal proposito, è necessario, sin da ora, sottolineare che, proprio sulla base di questi
principi, poté maturare il processo di codificazione del diritto: idea che poggia le sue basi sul
fondamentale concetto di sovranità, e che appare tanto più ‘rivoluzionaria’, quanto più si consideri
che essa si accompagna all’idea della necessaria sostituzione, graduale ma totale, di un diritto
unitario per l’intero Stato alla pluralità delle fonti giuridiche esistenti.
Per comprendere come, lentamente, siano state poste le basi del nuovo edificio giuridico, è
necessario richiamare gli aspetti generali della situazione di complicazione giuridica che fu
caratteristica degli ordinamenti europei tra il secolo XV ed il XVIII.
In questo arco temporale, la situazione delle fonti del diritto si presentò caratterizzata nei
seguenti termini. Da un canto, vi era il diritto comune, ossia il diritto elaborato dalla scienza
giuridica medievale sulla base del diritto romano e del diritto canonico; dall’altro canto, vigevano i
cd. iura propria, ossia tanti diritti particolari di matrice locale. Il rapporto tra queste due distinte
sfere giuridiche si era articolato nel corso del tempo in maniera diversa. Nel corso del Medioevo, il
diritto comune aveva rappresentato, infatti, la fonte principale, sicché gli ordinamenti particolari
erano stati applicati esclusivamente in via sussidiaria. La situazione mutò tra il XVI ed il XVIII
secolo, allorquando il rapportò subì una vera e propria inversione di tendenza. Il diritto comune
cominciò ad essere applicato in via sussidiaria (così come precedentemente accadeva per i diritti
particolari), mentre i cd. iura propria assunsero i connotati di diritto generale e principale (così
come, in precedenza, era accaduto per il diritto comune).
Il perché di questa inversione tendenza è spiegabile alla luce della premessa di ordine
politico cui si è fatto cenno. In un ordinamento politico di matrice statuale caratterizzato dal
progressivo accentramento del potere nelle mani del Re, è ovvio che la legislazione, ossia la
normativa generale dello Stato dettata dal Sovrano, doveva avere precedenza assoluta su tutte le
altre fonti concorrenti: essa consisteva, infatti, in una lex superior che, in quanto frutto della volontà
del Sovrano, non poteva tollerare alcuna interferenza da parte di altre fonti del diritto. In questo
contesto, un intervento da parte di quest’ultime, ossia un riferimento alle fonti del diritto comune,
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poteva essere tollerato soltanto nell’ipotesi di lacuna nell’ordinamento giuridico e sempre qualora
ricorresse il contrasto con il nuovo diritto di derivazione statuale.
Naturalmente, le importanti innovazioni che, progressivamente e in misura sempre
crescente, si profilarono a partire dalla fine del XV secolo sul piano giuridico furono il frutto di un
nuovo e più maturo panorama costituzionale ed ordinamentale che determinò una nuova fisionomia
per l’Europa moderna.
Sul piano politico, la condizione in cui versava l’Europa alle soglie dell’età moderna era
estremamente complessa.
Nei territori dell’area austriaca e germanica, sopravvivevano le vestigia del Sacro Romano
Impero che, suddiviso al suo interno, in principati e città libere, era retto da un Imperatore nominato
da sette principi elettori.
Al di là dei confini dell’Impero, le grandi potenze accrescevano in misura sempre più
determinante il loro potere.
A partire dalla seconda metà del XV secolo, superata la guerra dei Cento anni (1337-1453),
la monarchia francese si era dimostrata sempre più impegnata a perseguire un progetto di
unificazione finalizzato, all’esterno, a rafforzare la propria autorità nei confronti delle altre potenze,
ed all’interno, a garantire l’autorità del Sovrano contro le pretese e le aspirazioni del potere feudale.
Anche l’Inghilterra, superata la guerra dei Cento anni e la depressione conseguita ai conflitti
civili durante la Guerra delle Due Rose (1455-1485), aveva cercato una propria stabilità. I Tudors
erano riusciti nell’intento di rafforzare lo Stato garantendo altresì l’espansione marittima,
commerciale ed industriale.
In Spagna il processo di unificazione nazionale aveva preso avvio da un evento di
straordinaria importanza: il matrimonio tra Ferdinando d’Aragona ed Isabella di Castiglia aveva,
infatti, riunito le due Corone. Nella penisola iberica, prendeva corpo una tra le più importanti
potenze europee, intenzionata a realizzare senza mezzi termini un decisivo programma di
unificazione nazionale. Nel 1492 la presa di Granata, ultimo baluardo islamico, segnò la definitiva
cacciata dal suolo spagnolo degli arabi e, dunque, la definitiva affermazione del principio di unità
nazionale.
Ma, il processo di accentramento monarchico e di progressiva unificazione nazionale, in
essere nelle principali potenze europee, si poneva in aperta antitesi con la condizione di estrema
frammentarietà che ancora caratterizzava la penisola italica. Al nord, la Repubblica di Venezia e la
Repubblica di Genova erano caratterizzate da un governo di tipo oligarchico: l’amministrazione ed
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il controllo dello Stato erano affidati ad una ricca e prestigiosa nobiltà cittadina chiamata a ricoprire
ruoli di primissimo ordine nell’amministrazione dello Stato.
Sotto il governo della Corona Spagnola, si trovavano lo Stato di Milano, la Sicilia ed il
regno di Napoli. Il potere dei Savoia si era poi consolidato in Piemonte, dando luogo ad un governo
fortemente accentrato. A Firenze, la famiglia de’ Medici aveva, sin dai tempi di Cosimo I,
stabilizzato il proprio potere determinando altresì un processo di unificazione territoriale che aveva
consentito l’assoggettamento di alcune città comunali della Toscana, tra cui Siena e Lucca, che
erano rimaste così prive della loro secolare autonomia.
Nei territori della Chiesa, infine, il potere si era consolidato nelle mani del Pontefice, che,
anche a scapito degli altri corpi intermedi, aveva avocato a sé ogni potere sovrano.
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3 La Riforma Protestante e la nascita delle Chiese
nazionali
La transizione dal Medioevo all’Età moderna fu, altresì, segnata da un’importante e decisiva
‘rivoluzione’ avvenuta in campo religioso, la cui influenza fu determinante ai fini
dell’emancipazione dell’autorità civile dalla soggezione al potere della Chiesa e, dunque, anche ai
fini della secolarizzazione del diritto.
L’universalismo religioso, retaggio della tradizione medievale, dopo una lunga crisi,
protrattasi per oltre un secolo, cadde, infatti, sotto i colpi della Riforma Protestante. Il fenomeno,
scoppiato nell’area germanica all’inizio del secolo XVI prese avvio dalle tesi di Martin Lutero,
fortemente critiche nei confronti della Chiesa di Roma.
La corrosiva critica luterana si appuntò, in primo luogo, sulla cd. vendita delle indulgenze:
prassi largamente diffusa in ambito ecclesiastico. Com’è noto, infatti, l’indulgenza comporta la
remissione dei peccati a chi, pentendosi, compia opere particolarmente meritorie. Nel Medioevo si
era largamente diffusa la prassi che i Pontefici concedessero indiscriminatamente l’indulgenza a
fronte del mero pagamento di cospicui donativi. Secondo Martin Lutero, quell’ignobile e
scandaloso mercato del perdono praticato dal clero era il segno evidente della crisi dei valori
cristiani che investiva le gerarchie ecclesiastiche e che richiedeva un deciso intervento.
Secondo Lutero, gli infiniti meriti scaturiti dal sacrificio di Cristo avevano aperto la strada
alla salvezza degli uomini, indipendentemente da qualsiasi intercessione e mediazione del clero. La
salvezza degli uomini dipendeva esclusivamente dalla loro fede e dalla loro capacità di aderire al
messaggio contenuto nelle Sacre Scritture. Soltanto queste ultime dovevano essere considerate
come l’unica fonte di Verità, senza che fosse necessaria per la loro interpretazione la funzione
mediatrice del clero. A ciascun fedele era concesso di poter attingere ai testi sacri di prima mano,
senza dover ricorrere all’interpretazione delle gerarchie ecclesiastiche.
Per la sua critica nei confronti delle tradizionali gerarchie ecclesiastiche, il pensiero di
Lutero riscosse notevole successo. Ad emergere era, infatti, un nuovo modello di Chiesa, basato su
una struttura ‘democratica’ e non verticistica, più vicina alle esigenze del popolo di Dio e più aperta
nei confronti di quest’ultimo. Il mito della Chiesa universale, fortemente alimentato durante i secoli
del Medioevo, crollava sotto i colpi della Riforma. Ed il quadro europeo, sino a quel momento
dominato dalla visione universalistica di matrice medievale, si trovava a dover fronteggiare una
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straordinaria spinta centrifuga, capace di agire con effetti dirompenti sul fondamentale piano
spirituale e religioso.
Fu, dunque, per effetto di questa complessa dinamica che si formarono le cd. Chiese
nazionali. Esse consentirono alle monarchie di radicarsi maggiormente sul territorio, fornendo il
cemento spirituale e culturale per la formazione dell’unità nazionale.
In questo quadro, nel 1438, in Francia, la Prammatica Sanzione di Bourges, emanata da
Carlo VII, sancì l’autonomia della Chiesa francese dalla Chiesa di Roma. Il cd. Gallicanesimo,
determinò, di fatto, l’emancipazione del Regno di Francia dal Papato. Rompendo una tradizione
millenaria, il Re di Francia sottrasse al Papato ed avocò definitivamente a sé la nomina diretta dei
Vescovi del proprio Regno. Il vincolo che continuava ad unire la Chiesa francese a quella romana
riguardava esclusivamente le questioni spirituali.
In Inghilterra, invece, effetti ancor più rilevanti ebbe il cd. Atto di supremazia, che nel 1534
determinò un vero e proprio scisma della Chiesa d’Inghilterra dalla Sede Apostolica Romana e la
definitiva nascita della Chiesa Anglicana. Del tutto separata da quella di Roma, la nuova Chiesa
faceva capo direttamente al Re e, per lui ad un vicario generale, l’Arcivescovo di Canterbury. Il
Sovrano avocava a sé ogni potere in materia spirituale: era in suo potere il reprimere, l’emendare, il
condannare, l’esaminare ogni sorta di abuso, errore o eresia fosse stata commessa in Inghilterra. Pur
restando invariati alcuni elementi tipici del credo cattolico, alcune sensibili innovazioni
riguardarono altresì la dottrina. L’abolizione del culto dei Santi e della Vergine Maria intervenne a
differenziare, anche sotto il profilo religioso e spirituale la nuova Chiesa.
L’esperienza francese e quella inglese rappresentano, pur con le sensibili differenze che le
caratterizzano, modelli di riferimento d’indiscutibile rilevanza. Esse assumono, infatti, valore
esemplificativo della transizione dalla visione universalistica religiosa di stampo medievale alla
diversa, e non meno complessa, dimensione statuale caratterizzata dalla centralità dell’esperienza
monarchica ed assolutistica: svolta epocale nel mondo, ed ancor più, nell’universo giuridico.
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4 Dall’universale al particolare: dal diritto comune
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Il nuovo orizzonte politico e religioso dischiusosi agli albori dell’età moderna produsse
rilevanti conseguenze sul piano giuridico. L’affermazione di uno Stato moderno, fondamentalmente
laico ed accentrato, implicava una gestione politica autocratica ed esclusiva. In altri termini, nella
nuova dimensione politica moderna, lo Stato era chiamato ad essere il produttore esclusivo ed
autoritario del diritto. La lex, frutto della volontà sovrana, era chiamata a diventare l’unica ed
indiscutibile fonte del diritto. All’infuori dell’ambito legislativo, qualsiasi altra fonte del diritto, per
poter dirsi giuridicamente rilevante, avrebbe richiesto un formale atto di ricezione da parte del
Sovrano. L’ordinamento giuridico dell’età moderna, lungi dal continuare a porsi come autentica
riserva di norme da conservare ed interpretare ad opera di giuristi e sapienti, si imponeva quale
frutto della volontà assoluta di un sovrano capace, nei confini del proprio Regno, di legiferare, ossia
di produrre norme giuridiche cogenti per i propri sudditi.
E proprio per realizzare i propri scopi, il sovrano assoluto, detentore di ogni potere,
ritenne necessario organizzare una direzione centralizzata degli affari pubblici, creando una rete di
suoi fidi e diretti collaboratori strutturati secondo una schema gerarchico. La costituzione di questi
apparati pre-burocratici, in grado di governare e di operare in nome del Re, fu momento essenziale
per il potenziamento delle strutture monarchiche.
Allo stesso modo, anche il potere professionale e corporativo dei giuristi, fino a quel
momento, del tutto autonomo ed indipendente dall’autorità monarchica, risultò, nel processo di
riorganizzazione complessiva dello Stato, assorbito nella nuova dimensione statuale. L’attività
libera ed, almeno formalmente, autonoma dal potere, svolta dai giuristi medievali fu oggetto di una
profonda e radicale trasformazione. Confluito nell’apparato pubblico e sottoposto alle dipendenze
ed al controllo del Sovrano, il potere dei giuristi fu istituzionalizzato finendo per operare, per lo più,
all’interno di organismi facenti capo all’organizzazione statuale.
In questo quadro, una rilevanza centrale assunsero i cd. Grandi Tribunali, ossia i tribunali
centrali, le grandi corti di giustizia. All’interno di essi, sedevano magistrati che erano tecnici del
diritto, capaci di svolgere funzioni giurisdizionali di primissima importanza, e dotati del potere di
amministrare la giustizia in nome del Sovrano.
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In virtù della preparazione tecnico-legale, acquisita con gli studi giuridici, essi avocavano a
sé il potere di rinvenire ed interpretare le norme da applicare ai casi concreti e di emettere sentenze
che, frutto di una interpretazione ufficiale, divenivano espressione di una giustizia super partes, in
grado di soddisfare tanto gli interessi privati, quanto quelli di carattere pubblico.
E’ da sottolineare che i cd. Grandi Tribunali, oltre a svolgere funzioni propriamente
giudiziarie, svolgevano anche funzioni amministrative e di governo. A quelle stesse magistrature, in
quanto articolazioni dipendenti direttamente dal potere sovrano, erano demandati importanti
compiti in materia fiscale e di polizia. Il che concorre a far emergere in modo netto come si trattasse
di strutture politiche strettamente collegate e, per alcuni versi, dipendenti dal Sovrano.
In Europa, il Parlamento di Parigi fu uno dei più eminenti tribunali: l’emblema del forte
potere detenuto dai ‘legali’ nelle monarchie continentali d’antico regime. Custode, difensore ed
interprete delle ‘lois fondamentales’ della monarchia francese, estendeva le sue competenze ben
oltre il piano strettamente giudiziario. Il Parlamento di Parigi, infatti, non solo operava quale
tribunale ordinario, ma vantava la pretesa di rappresentare l’intero popolo, e quindi di intervenire in
tutti gli affari pubblici francesi.
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