particolarismo giuridico d `antico regime prof .ssa maria

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“PARTICOLARISMO GIURIDICO D’ANTICO REGIME”
PROF.SSA MARIA NATALE
Università Telematica Pegaso
Particolarismo giuridico d’Antico Regime
Indice
1
Il particolarismo giuridico ------------------------------------------------------------------------------- 3
2
Particolarismo oggettivo e soggettivo ------------------------------------------------------------------ 5
3
I Grandi Tribunali----------------------------------------------------------------------------------------- 9
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Particolarismo giuridico d’Antico Regime
1 Il particolarismo giuridico
Il diritto romano, elaborato ed interpretato dalla scienza giuridica medievale, costituì a
diverso titolo e con varietà di vicende, un elemento centrale e certamente dominante nell’esperienza
giuridica degli ordinamenti europei. In ciascuno di questi ordinamenti, la presenza del diritto
romano generò, come normativa comune e sussidiaria, quel caratteristico sistema di fonti giuridiche
che deve essere qualificato quale regime di diritto comune. In ciascuno degli ordinamenti giuridici,
la tradizione giurisprudenziale elaborata sulla base del diritto romano, si contrappose, come blocco
unitario, ad una eterogeneità e molteplicità di diritti locali o particolari; fu utilizzata come ratio
juris per l’interpretazione di quel diritto; oppure fu utilizzata per elaborare gli unitari criteri
dogmatici per una sua consolidazione ed elaborazione a livello nazionale.
Il quadro delle fonti giuridiche fu dunque caratterizzato, anche nella fase di passaggio tra
Medioevo ed Età moderna, da una estrema frammentarietà ed eterogeneità.
Ma, con il progressivo accentrarsi dello Stato moderno, il concetto di un diritto comune, di
un regime pluralistico di fonti e, dunque, di diritti, cominciò ad entrare seriamente in crisi. A quel
tipo di concetto, si avviò a contrapporsene un altro: il concetto di diritto quale legge dello Stato
sovrano, elaborato ad immagine stessa dello Stato da un Sovrano che è produttore dell’intero
ordinamento giuridico e non semplicemente conservatore di un ordinamento giuridico già dato,
qual era quello romano.
Fu, dunque, l’assolutismo, con la sua intrinseca volontà di sottoporre al controllo tutto
l’ordinamento positivo e la gestione del diritto, a cercare di risolvere il problema dell’unificazione
giuridica facendo leva sull’idea di un intervento legislativo diretto ed autoritario, quindi dall’alto,
volto a creare un nuovo diritto. Il Sovrano, in altri termini, doveva imporsi in quegli Stati, come
fonte di ogni potere politico e normativo.
Comprendiamo bene che fu, sulla base di questi principi, che poté maturare il concetto
stesso di codificazione: un’idea che poggia le sue basi proprio sul concetto di sovranità e che
appariva tanto più ‘rivoluzionario’quanto più si accompagnava all’idea della sostituzione, graduale
ma totale, di un diritto unitario per l’intero Stato alla pluralità delle fonti giuridiche esistenti.
Ma, per comprendere come lentamente sia andata maturando quest’idea è necessario
prendere in considerazione gli aspetti generali della situazione di complicazione giuridica che fu
caratteristica degli ordinamenti europei tra il secolo XV ed il XVIII.
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In questo arco temporale, la situazione delle fonti del diritto si presentava caratterizzata in
questi termini: esisteva il diritto comune (che ricordiamo era il diritto elaborato dalla scienza
giuridica medievale sulla base del diritto romano e del diritto canonico) e tanti diritti particolari.
Mentre, però, nel corso del Medioevo, il diritto comune aveva rappresentato la fonte
principale, sicché gli ordinamenti particolari potevano essere applicati solo in via sussidiaria, tra il
XVI ed il XVIII secolo, il rapportò subì una vera e propria inversione di tendenza. Il diritto comune
cominciò cioè ad essere applicato in via sussidiaria, mentre furono i diritti particolari ad essere
applicati con precedenza sul diritto comune.
Il perché di questa inversione tendenza non può che essere chiaro alla luce della premessa
che abbiamo fatto. Tutta la legislazione, come normativa generale dello Stato, dunque, come lex
superior, ebbe, infatti, la precedenza assoluta su tutte le altre fonti concorrenti. Un’interferenza di
quest’ultime, ossia un riferimento alle fonti del diritto comune, sarebbe potuta essere tollerata solo
in caso di lacuna e sempre che non vi fosse contrasto con il nuovo diritto di derivazione statuale.
Se al nostro occhio l’idea di un diritto generale dello Stato può apparire scontata e, a dir
poco, ovvia così certamente non era per gli uomini d’Antico Regime, abituati ad un diritto
frammentato ed eterogeneo, anzi abituati a più diritti frammentati ed eterogenei.
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2 Particolarismo oggettivo e soggettivo
L’analisi della storiografia ha posto in luce che la moltiplicazione del diritto nell’Antico
Regime si produceva ad una duplicità di livelli: 1) su base oggettiva e 2) su base soggettiva.
La prima forma di moltiplicazione (oggettiva) si sviluppava su base locale e territoriale,
determinando una regolamentazione giuridica che si diversificava da città a città. Il gruppo delle
fonti di carattere locale (Statuti, consuetudini…), che complessivamente si indica con il nome di ius
proprium, mutava da contesto a contesto.
Per fare qualche esempio potremmo dire che nelle città trovavano applicazione delle
disposizioni di ordine fiscale e militare diverse da quelle vigenti nelle campagne o nei territori
sottoposti al feudo. Ma quella stessa regolamentazione mutava altresì da città a città. Era frequente
che in due comuni contigui, una stessa fattispecie potesse essere disciplinata in modo totalmente
disomogeneo, in base a principi e criteri totalmente differenti. Nelle singole comunità urbane
esisteva, pertanto, una molteplicità di diritti positivi, i quali variavano da luogo a luogo anche in
considerazione della maggiore o minore assimilazione del diritto romano.
Può essere interessante a questo punto citare il caso di Napoli, che per tutta l’età moderna,
oltre ad essere un’importante capitale europea, fu un centro affollatissimo, ad altissima densità
abitativa, meta di continue migrazioni compiute dalla provincia in direzione centripeta. L’interesse
che accompagnava il flusso migratorio riguardava aspetti sociali ed economici, ma soprattutto la
prospettiva di migliorare il proprio status giuridico, mediante l’acquisizione di una serie di privilegi.
Gli abitanti della capitale erano esenti dalle ‘contribuzioni dirette’ ordinarie, che all’epoca
ricomprendevano anche una serie cospicua di donativi che dovevano essere versati dal Regno alla
Corona spagnola. Vivere in città piuttosto che nelle campagne era dunque vantaggioso sotto diversi
profili, condizionati e vincolati dal diritto.
Infatti, accanto alle esenzioni fiscali, i cittadini napoletani godevano poi del privilegio di
foro, sia attivo che passivo. Il che vale a dire che in tutte le controversie che li riguardavano, sia in
veste di attori che di convenuti, ad essere competente erano i tribunali della Capitale: un privilegio
notevolissimo se pensiamo per un istante quale spesa dovesse implicare in quel periodo spostarsi in
un luogo diverso, pagare un avvocato o un procuratore per il giudizio; senza poi pensare che in un
quadro totalmente lacunoso in materia di garanzie avere la possibilità di scegliere il giudice
competente voleva significare riuscire ad accaparrarsi talvolta anche l’esito del giudizio.
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Ma, il problema del particolarismo cd. oggettivo, poneva altresì una serie di problemi
nell’articolato rapporto, non solo tra ius commune e ius proprium, ma anche all’interno dello stesso
ius proprium. Infatti, nell’ambito del ius proprium vi era una serie articolata di diritti, che variava
per estensione e completezza, a seconda dei casi: consuetudini, Statuti, norme corporative
rappresentavano monadi di un variegato panorama giuridico.
Ma, la moltiplicazione giuridica oggettiva era fondata, oltre che sulla pluralità di diritti
locali, anche sulla coesistenza di diverse giurisdizioni, la cui prassi risultava tutt’altro che
omogenea. La presenza su di uno stesso territorio di una pluralità di corti di giustizia (feudali, regie,
ordinarie, speciali, privilegiate) frammentava ulteriormente il diritto, e, in modo ancora più grave,
perché parcellizzava il diritto nel suo momento applicativo a svantaggio di ogni prospettiva di
unificazione dell’ordinamento giuridico.
Il funzionamento simultaneo di piccoli e grandi tribunali locali tendeva a mantenere vigenti i
vari diritti privilegiati ed a perpetuarne la validità. Contro tale variegato e complicato sistema, che
lasciava ampio spazio alle autonomie locali ed all’arbitrio dei magistrati, la voluntas principis mirò
ad agire in direzione semplificatrice attraverso la creazione ed il rafforzamento di grandi corti di
giustizia centrali, direttamente controllate dal potere sovrano e dallo stesso strettamente dipendenti.
Ma il particolarismo agiva, oltre che a livello oggettivo, anche al diverso livello soggettivo.
Accanto alla moltiplicazione territoriale delle norme, si assisteva anche alla continua
moltiplicazione personale dei diritti. In altri termini, la disciplina giuridica applicabile ad una
determinata fattispecie variava da soggetto a soggetto.
Influiva sulla disciplina giuridica utilizzabile lo status del soggetto e la sua appartenenza ad
un determinato ordine, il suo riferimento ad un determinato corpo. Per ogni individuo o gruppo di
individui, l’ordinamento prevedeva sanzioni, regole privatistiche, pene diverse.
Se ai nostri occhi una simile situazione può apparire paradossale, essa era assolutamente
coerente con l’organizzazione della società strutturata per classi, o meglio per ceti e status. Dall’età
medievale si era affermata appieno la concezione secondo cui gli uomini erano tutti uguali davanti a
Dio anche se imperfetti. L’imperfezione umana rappresentava il fondamento, l’elemento
giustificativo, delle divisioni e delle gerarchie sociali. La radice di queste ultime era data da una
convenzione non scritta che suddivideva ed assegnava ad ogni individuo dei compiti precisi con i
relativi diritti.
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Lo schema di massima prevedeva tre categorie sociali entro le quali trovavano spazio coloro
che pregavano (i religiosi), quelli che combattevano (i nobili), e quelli che lavoravano perché non
godevano né dello status di nobili né di religiosi.
Ma nell’età moderna l’ordine sociale si articolò ulteriormente e diede vita a nuove, diverse
ed articolate differenziazioni.
Il variare del diritto da persona a persona, da ceto a ceto, si manifestò particolarmente sotto
questi due profili. Sotto il profilo sostanziale e sotto il profilo giurisdizionale.
Sotto il profilo sostanziale, attraverso il funzionamento di talune tra le fonti principali (per
esempio, legislazione generale statuale, diritto comune, statuti comunali), una certa situazione
giuridica riceveva una disciplina che potremmo chiamare ‘ordinaria’. Ma detta disciplina era
virtualmente diretta ad un destinatario privo di ulteriori specificazioni. In realtà essa tollerava una
serie più o meno cospicua di deroghe fissate da altre fonti e previste a vantaggio o svantaggio di
altre categorie di persone, individuate per lo più attraverso il riferimento allo status di appartenenza.
Le fonti di maggiore incidenza, quanto alla sottrazione all’ordinamento comune di sfere personali
privilegiate, erano in particolare il diritto canonico, il diritto feudale e gli Statuti delle corporazioni
di arti e di mestieri.
Ma anche all’interno della stessa legislazione sovrana potevano trovare spazio deroghe,
immunità e privilegi. Il diritto insomma si moltiplicava attraverso più varianti e modifiche
normative articolate secondo il criterio d’eccezione.
E ciò era ancor più rilevante in campo penale laddove le pene variavano sensibilmente
giacché lo status sociale del reo assumeva un ruolo determinante nella quantificazione della pena.
In altri termini, anziché esservi una norma penale diretta ad un destinatario unico ed indifferenziato,
esisteva una pluralità di norme con altrettante pene, anche qualitativamente diverse, atte a reprimere
il medesimo reato a seconda della caratterizzazione sociale, religiosa e professionale del colpevole.
Sotto il diverso profilo giurisdizionale, il particolarismo agiva nel senso di dare vita ad una
pluralità di giurisdizioni, ciascuna delle quali era competente a decidere un certo caso
esclusivamente in relazione allo status personale delle parti.
L’abate e giurista Ludovico Antonio Muratori nel pieno del Settecento, nell’osservare la
situazione giuridica a lui contemporanea, era costretto a costatare quale elemento di «ferita e
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discredito dell’umana giustizia» che «qui si da[vano] vari tribunali, dai quali dipend[evano]
alcune gerarchie di persone»1.
E si badi che i danni più gravi provenivano molto probabilmente proprio dal versante, per
così dire, giurisdizionale, del particolarismo giuridico. Molto spesso infatti esso si risolveva in una
sostanziale immunità per gli appartenenti ai ceti privilegiati che potevano sottrarsi, invocando,
questo o quel privilegio, ad una giurisdizione piuttosto che ad un’altra. Il risultato non poteva che
essere di generale e complessiva confusione oltre che di totale incertezza del diritto.
Un argine a questi problemi ed un tentativo di semplificazione a livello giurisdizionale si era
avviato peraltro a realizzarsi già nel XV secolo, allorquando in diversi paesi europei i Sovrani
avevano creato e posto sotto il loro controllo i cd. Grandi tribunali.
1
La testimonianza di Muratori trova piena conferma nell’ambiente napoletano nella voce di Giuseppe Maria Galanti,
che nella sua opera Testamento forense, pone in luce come il problema principale legato all’instaurazione di un
qualsiasi giudizio sia l’individuazione del tribunale competente a conoscere la causa: una miriade di corti giudiziarie si
contendono il giudizio ed impediscono di fatto di conoscere il giudice che certamente ed inequivocabilmente dovrà dirsi
competente a giudicare.
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3 I Grandi Tribunali
I Grandi Tribunali furono certamente l’espressione più evidente del tentativo di realizzare un
riassetto verticistico e centralizzato delle istituzioni e, più in generale, del potere. Un tentativo che
rinnovò completamente l’organizzazione delle precedenti corti medievali.
E’ bene osservare che il tentativo di riorganizzazione poté avere esiti solo parziali perché le
corti medievali, già operative, continuarono a funzionare ed a rappresentare un elemento di
frammentazione del diritto, ancor più dannoso e pericoloso perché attivo sul piano operativo.
Nonostante questo indubbio limite, i Grandi Tribunali rappresentarono certamente
un’innovazione forte ed importante sin da subito ed incisero profondamente anche sulla funzione
del giurista nel senso di una sua progressiva ‘pubblicizzazione’. Infatti, era ovvio che alla creazione
di tribunali centrali dello Stato, al cui interno sedevano professionisti del diritto, corrispondesse una
progressiva diminuzione di importanza e di prestigio del giurista privato, la cui opinione era
destinata a restare soltanto privata, ed una invece crescita di prestigio del magistrato incaricato di
fare giustizia in nome del Sovrano.
Uno dei più potenti Grandi Tribunali d’Europa fu certamente quello francese: il Parlamento
di Parigi. Esso si pose sin dalla sua creazione quale sommo custode, interprete e difensore delle
leggi fondamentali dello Stato.
Sulla base di questo presupposto, è facile comprendere come esso riuscì ad operare non
soltanto quale tribunale ordinario ma, con la pretesa di rappresentare l’unico potere e l’unica
autorità capace di rappresentare gli interessi comuni, quelli dell’intera collettività. Il Parlamento di
Parigi si arrogava, per questa via, la capacità d’intervenire, in ogni materia, normativa, legislativa,
finanziaria ed amministrativa, in sostanza ogni spazio della politica era rigorosamente occupato da
quella magistratura.
Grazie a questa capacità di penetrazione, appare chiaro ed evidente che l’attività dei giuristi
francesi fu fondamentale per l’affermazione dell’assolutismo monarchico. E si può dire che la
funzione di questi giudici divenne a tal punto rilevante che lo stesso potere del Sovrano, per quanto
assoluto, doveva – per essere legittimato – passare attraverso quella sorta di filtro che il Parlamento
di Parigi rappresentava.
Qualche esempio pratico può aiutarci a cogliere il senso di questa affermazione. Prima di
tutto, la maggior parte degli editti e dei provvedimenti regi era sottoposta alla registrazione del
Parlamento. In questo modo, la stessa volontà regia era sottoposta al controllo degli organi tecnici,
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che – attraverso la registrazione – esprimevano il loro consenso, la loro approvazione formale ma
anche sostanziale, all’operato del Re.
Quel diritto, chiamato ‘diritto d’interinazione’, non si esauriva in un controllo meramente
formale ma in una potente arma politica. Qualora, infatti, i supremi magistrati avessero avuto delle
rimostranze o delle osservazioni critiche da opporre, era in loro potere di farle e se il Sovrano,
sollecitato dal Parlamento, avesse dimostrato ostilità ad accogliere i suggerimenti, il Parlamento –
lungi dall’attenersi passivamente a tale voluntas principis - avrebbe potuto reagire rimettendo il
provvedimento nuovamente allo studio del Sovrano. E di fronte all’ostilità di questi, era in potere
del Parlamento procedere ad una registrazione con clausole restrittive che di fatto avrebbero
esaurito e limitato fortemente la portata e l’efficacia delle leggi.
Anzi era proprio per evitare che il Parlamento eccedesse nell’utilizzo dei suoi poteri che il
Sovrano era garantito da un ulteriore strumento: il cosiddetto lit de justice. Di fronte ad un
atteggiamento troppo autarchico dei magistrati, il Sovrano poteva convocare il Parlamento, ed in
quella sede dichiarare che la propria volontà era assolutamente superiore a quella dei suoi ministri.
In quel caso, i poteri di giustizia erano formalmente riassunti nelle mani del Re, sicché il
Parlamento, spogliato dei poteri delegatigli dal Re, perdeva integralmente le sue funzioni e non
poteva che procedere alla registrazione.
Tuttavia, è d’obbligo apportare un chiarimento: è ovvio che, essendo il Parlamento l’organo
giurisdizionale supremo, chiamato ad applicare le disposizioni regie, qualora il provvedimento
registrato fosse stato sostanzialmente sgradito ai suoi membri, questi certamente non ne avrebbero
fatto applicazione, esautorando sul piano concreto e dei fatti il potere del Re.
L’esempio del Parlamento di Parigi si presenta così utile per almeno due motivi. In primo
luogo, aiuta a comprendere di quale forza innovatrice furono dotati i Grandi Tribunali nell’Antico
Regime. In secondo luogo, ci offre una straordinaria testimonianza di quel rapporto dialettico tra
potere sovrano, per così dire legislativo, e potere giudiziario, che, nel corso della storia
dell’esperienza giuridica ha assunto in diversi momenti i caratteri di un vero e proprio braccio di
ferro.
Nell’ambito della scienza giuridica, l’importanza crescente dei grandi tribunali portò ad una
progressiva ed inesorabile diminuzione di importanza dei consilia e ad una crescita di interesse nei
confronti delle raccolte di decisiones. Le nuove compilazioni di decisiones, infatti, avevano un
duplice pregio: prospettare una ricca casistica cui il giurista poteva attingere e rendere possibile
l’individuazione degli orientamenti giurisprudenziali delle corti. In altri termini, il riferimento alle
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decisiones delle grandi corti di giustizia rendeva prevedibile con buona approssimazione quello che
poteva essere l’atteggiamento del collegio con riguardo al caso d’interesse.
E non va taciuto che l’autorevolezza generalmente assunta dai supremi organi
centrali, che furono anche dotati di rilevantissimi poteri discrezionali ed equitativi, favorì il formarsi
all’interno degli Stati di una potente casta di magistrati di elevata preparazione tecnica e di notevole
influenza politica determinando una crescita di importanza
ed una decisiva prevalenza della
giurisprudenza giudicante.
Per questa via, da un lato si consolidarono i cd. usus fori che concorsero ad accentuare
sempre più il complessivo fenomeno di prammatizzazione del diritto; dall’altro, così come già
precedentemente era andato declinando nella prassi l’astro del doctor universitario, allo stesso
modo, con la creazione dei grandi tribunali, cominciò ad entrare in crisi la figura ed il ruolo del
giurista consulente, passato in secondo piano rispetto al magistrato2.
2
Utile è a tal proposito ricordare la notazione del Gorla per il quale, con la creazione dei Grandi Tribunali «le grandi
teste» cominciano ad essere «attratte presso la Curia del Principe ed il realtivo Foro». I grandi magistrati diventano i
«giureconsulti dello Stato».
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