Spunti di Nutrizione Pediatrica per il corso di Biotecnologie Mediche Dispense del corso di Pediatria, Modulo di Nutrizione, primo anno del corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie Mediche, Università degli studi di Trieste. Alberto Tommasini Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico Burlo Garofolo, Trieste Con la collaborazione di Erica Valencic e Elisa Piscianz IRCCS Burlo Garofolo e Università di Trieste 3° revisione, Marzo 2011 Premessa Dichiarazione di responsabilità e conflitto di interessi. Questo testo è nato come dispensa delle lezioni di Pediatria presso il corso di Biotecnologie Mediche dell’Università di Trieste. In esso sono contenute informazioni di carattere medico ad esclusivo scopo didattico. Nonostante gli sforzi per garantire la correttezza e l’aggiornamento dei materiali, il testo non può essere considerato come fonte di indicazioni per la pratica clinica su di sé o sugli altri. L’autore non risponde di eventuali utilizzi di questo testo al di fuori delle finalità didattiche per cui è stato scritto. L’autore dichiara inoltre di non avere conflitti di interessi che possano aver influenzato quanto scritto. 1 Premessa Che cosa un pediatra può insegnare ai biotecnologi? Il progresso della tecnologia procede da molti anni con un andamento esponenziale che nell’ultimo secolo ha visto crescere enormemente la quantità delle nostre conoscenze e la possibilità di intervenire sui processi che regolano la vita animale. Alcune considerazioni vanno tuttavia fatte. I fenomeni biologici di solito alternano periodi di crescita esponenziale a periodi di crisi, cambiamento e, nuovamente, crescita. Allo stesso modo la conoscenza di un fenomeno biologico può aumentare progressivamente fino ad un certo punto, dopodiché non potrà procedere se non cambiando le metodologie e gli obiettivi della ricerca. L’aumento di conoscenze e possibilità conduce a ricadute difficilmente prevedibili, con conseguenti conflitti tra sentimenti di onnipotenza e frustrazioni di impotenza (chi avrebbe detto un secolo fa che sarebbe stato più facile viaggiare sulla luna che curare un tumore?). Buona parte della ricerca biomedica è finanziata da istituzioni sanitarie o da cittadini (attraverso associazioni senza fine di lucro), alle domande dei quali bisogna saper rispondere senza inganni quando si comunicano i programmi e i risultati della ricerca. Nonostante l’enorme potenza della bio-informatica avremo bisogno ancora per 2 Premessa molto di trovare le cose semplici nella complessità, le regole o anche solo le ipotesi nella mole dei dati. A queste considerazioni si aggiungono altri problemi: come può essere determinata l’attendibilità della letteratura scientifica? E’ infatti osservazione comune che non tutte le esperienze pubblicate sono costantemente riproducibili. Quali possono essere, inoltre, le conseguenze bio-informatiche di una ridotta pubblicazione dei risultati negativi della ricerca? Nonostante gli enormi progressi della medicina, il miglioramento della nostra salute (mortalità infantile diminuita più di 10 volte rispetto a un secolo fa; aspettativa di vita media fortemente aumentata) è probabilmente dovuto più a fattori socio-economici (nutrizione, igiene e lavoro) e ambientali (cultura e ridotta natalità) che alle tecnologie mediche. Tuttavia esistono alcune malattie debellate dall’intervento medico (ad esempio dai vaccini) e altre fortemente modificate dalle (antibiotici, sieri e farmaci) (screening, etc). tecnologie terapeutiche e diagnostico/preventive La strada da fare è ancora molto lunga e può essere percorsa solo finché rimane un intimo contatto tra chi cura e chi fa ricerca biomedica. Per questo il biotecnologo medico deve conoscere i problemi sui quali la ricerca può agire, ma anche il linguaggio per interagire passo passo con il mondo clinico. Inoltre, è bene 3 Premessa ricordare che la cosiddetta medicina molecolare è solo uno dei possibili approcci allo studio biomedico e non necessariamente quello che produce i risultati più utili: se potessimo fotografare tutte le sinapsi di un cervello contemporaneamente e misurare ciascuna molecola che le attraversa, non saremmo in grado di ipotizzare neanche lontanamente a che cosa quel cervello pensava. Un elettroencefalogramma o una tomografia ad emissione di positroni potrebbero dirci probabilmente qualcosa di più. Questo solo per ricordarci che sono le domande cui si vuole rispondere e il piano sperimentale a rendere utile la ricerca. E allora perché un pediatra? Perché tradizionalmente si occupa di alcune patologie trattate nel corso, forse. Però è anche vero che la visione della medicina di un pediatra può offrire anche alcune specificità: essa è affine alla genetica, perché in età pediatrica si manifesta la maggior parte delle condizioni monogeniche. La genetica offre alla pediatria la diagnosi molecolare delle malattie e recentemente anche la terapia genica per alcune di queste. La pediatria, d’altra parte offre alla medicina i cosiddetti “esperimenti della natura”, che vestono i geni di significato e che collegano le molecole alle funzioni. La pediatria inoltre vede l’evoluzione delle funzioni al primo contatto con l’ambiente ed è quindi il primo punto per osservare quanto i cambiamenti di quest’ultimo possano influire sulla salute. Questo è vero, in particolare, per 4 Premessa quell’interfaccia dove avviene la maggior parte del confronto molecolare con l’ambiente, cioè il tubo digerente. Il corso di nutrizione focalizzerà proprio su questi aspetti. Molte “prove”, portate a sostegno dei concetti descritti nel testo, derivano proprio dagli esempi fornitici dall’esperienza clinica e genetica di alcune malattie tipicamente infantili. Il biotecnologo potrà intervenire per migliorare la salute sia sul lato ambientale (evoluzione e sicurezza degli alimenti, cibi ottenuti da organismi geneticamente modificati) che sul lato della medicina. 5 Premessa Il docente Alberto Tommasini è nato nel 1966. Medico Pediatra e ricercatore presso l'IRCCS Burlo Garofolo e docente a contratto presso l’Università di Trieste. Il campo di attività riguarda l’immunologia clinica, dalle immunodeficienze primitive alle malattie autoimmuni e reumatologiche. Uno dei fili conduttori dell’attività clinica e di ricerca ha riguardato lo studio di difetti genetici della regolazione immune caratterizzati da infiammazione e autoimmunità. Più recentemente si è interessato alla manipolazione cellulare in vitro per lo sviluppo di terapie cellulari. 6 A chi sul lavoro e nella vita di ogni giorno ha condiviso le difficoltà e le soddisfazioni di un percorso a metà strada tra la clinica e la ricerca 7 8 9 1. Introduzione 2. Intestino e ambiente 3. Il latte materno 4. Le allergie alimentari 5. La malattia celiaca 6. La malattia di Crohn 7. Abbreviazioni e glossario 8. Bibliografia 10 1. Introduzione 1. Introduzione Le malattie multifattoriali immunomediate: tra genetica e ambiente. Un’elevata percentuale delle malattie multifattoriali può essere ricondotta a errori di funzionamento del sistema immunitario, dovuti a loro volta in quote diverse a fattori genetici ed ambientali1. Alcuni esempi sono elencati nella tabella 1, che riporta anche una stima approssimativa della diffusione di ogni malattia nella popolazione. Come si può vedere, nell’insieme, queste malattie interessano una percentuale rilevante della popolazione. Un aspetto interessante è che molte di queste malattie mostrano una diversa incidenza nel tempo e in diverse aree geografiche. Ciò suggerisce che mutamenti ambientali abbiano avuto un ruolo rilevante nella loro genesi. Questo accade ad esempio per il diabete insulino-dipendente (o diabete mellito di tipo 1, DMT1), la malattia infiammatoria cronica dell’intestino, la malattia celiaca e le allergie. Tuttavia non è stato facile fino ad oggi (se non forse per la celiachia) identificare i cambiamenti ambientali che hanno maggiormente inciso sul rischio di sviluppare queste malattie. 11 1.Introduzione Endocrinopatie autoimmuni Diabete Mellito di tipo 1 (o insulino-dipendente) Tireopatie autoimmuni Iposurrenalismo Ipoparatiroidismo Ipopituitarismo Altre malattie autoimmuni Miastenia gravis Epatite autoimmune Sclerosi Multipla Psoriasi Citopenie autoimmuni Allergie Allergie alimentari Asma Malattie reumatologiche Artrite reumatoide Lupus Eritemaoso Sistemico Altre Malattia infiammatoria cronica dell’intestino Malattia celiaca 1:100 1:1000 1:2000 1:50 1:20 1:100 1:500 1:100 Tabella 1. Prevalenza approssimativa di alcune malattie immunomediate In senso generale, si riconosce che lo stile di vita “occidentalizzato” ha costituito il determinante comune dell’aumento di incidenza di queste patologie. Stile di vita occidentalizzato significa diverse cose: • maggior disponibilità di alimenti, migliore nutrizione; • maggior ricorso ad alimenti già preparati e conservati (frigorifero); 12 1. Introduzione • migliori standard igienici (disponibilità e potabilità • dell’acqua, fogne, riscaldamento degli ambienti, etc.); minor rilevanza di patologie infettive (prevenzione delle infezioni con vaccini; diminuite gastroenteriti e infestazioni da parassiti; tendenza alla scomparsa di patologie come tubercolosi e lebbra); E’ bene sottolineare che la maggior parte dei cambiamenti alimentari e igienici che si sono verificati nei paesi più sviluppati ha avuto conseguenze positive. Per rendersi conto di quanto questo sia vero, è sufficiente osservare la quota di mortalità ancora oggi legata direttamente o indirettamente alla malnutrizione nei paesi più poveri. Secondo alcune analisi, i maggiori determinanti della riduzione della mortalità infantile e dell’aumento dell’aspettativa di vita risiedono nelle migliori condizioni nutrizionali (quantità, qualità e sicurezza microbiologica degli alimenti), igieniche (acqua potabile, minor affollamento domestico, luminosità e riscaldamento degli ambienti) e socio-culturali (scolarizzazione, prevenzione delle gravidanze precoci). Gli interventi medici (vaccinazioni in primo luogo, ma anche disponibilità di antibiotici) hanno un impatto minore. Quindi, per ora, a conti fatti, dovremmo essere contenti di pagare il prezzo di questo benessere con l’aumento di alcune malattie che, tutto sommato sembrano abbastanza 13 1.Introduzione controllabili con le terapie mediche. Eppure è importante capire come i cambiamenti ambientali hanno influenzato la nostra salute, perché negli ultimi due secoli, come vedremo più in dettaglio, l’umanità ha accelerato enormemente il ritmo del cambiamento, per la prima volta influenzando in modo rilevante l’ecosistema in cui vive. Pochi numeri saranno utili a comprendere meglio l’argomento. L’evoluzione biologica dell’uomo si è svolta in circa 3 milioni di anni, caratterizzati da un’alta pressione di selezione. La probabilità di morire prima di poter generare una prole era molto elevata e il saldo demografico veniva mantenuto in parità o in lieve crescita da un elevato rapporto di gravidanze per donna fertile. In tal modo, si ritiene che la variabilità genetica dei figli abbia consentito lentamente, di generazione in generazione, un adattamento ottimale e relativamente stabile all’ambiente. Negli ultimi secoli, invece, la rapidità del cambiamento ambientale (avvenuto nell’arco di poche generazioni) e la diminuita pressione selettiva (legata al miglioramento delle condizioni igienico-alimentari) non hanno potuto produrre un significativo adattamento della specie. Questo significa che, dal punto di vista biologico, l’uomo rispecchia in massima parte un adattamento ad un ambiente diverso da quello che si è creato negli ultimi due secoli. 14 1. Introduzione Fig. 1.1. L’evoluzione dell’uomo e le sue ere alimentari. Tratto da http://www.museum.agropolis.fr/pages/expos/fresque/la_fresque.htm Gli studiosi, infatti, distinguono in questa storia tre ere principali, ciascuna con durata assai diversa. Come si può desumere dalla figura 1.1, l’era più recente ha una durata puntiforme rispetto alle altre ere. Tuttavia in quest’era, si è assistito a cambiamenti alimentari, demografici e sanitari di dimensioni storiche enormi: sono diminuite fino a quasi scomparire alcune malattie infettive, mentre sono comparse e aumentate molte malattie multifattoriali. E’ ragionevole pensare che un ruolo nella patogenesi di queste malattie sia stato giocato dal confronto di un organismo che era adattato ad un ambiente diverso e che non ha avuto il tempo di adattarsi ai nuovi cambiamenti, verificatisi nel giro di poche generazioni. Durante l’era agro-industriale stiamo assistendo ad altre transizioni di portata storica: la transizione demografica e la transizione alimentare. Nella possiamo riconoscere 3 fasi: • transizione demografica un periodo di aumento esponenziale della popolazione, dovuto al mantenimento del pre-esistente elevato tasso di 15 1.Introduzione fertilità cui si aggiunge una progressiva riduzione della • mortalità (per motivi nutrizionali, igienici e medici); un periodo di equilibrio in cui il tasso di fertilità comincia a diminuire ma la riduzione della mortalità prosegue, consentendo un saldo attivo della popolazione; • una terza fase, in cui il tasso di fertilità diminuisce ulteriormente (essenzialmente per motivi socio-culturali) fino a giungere ad una crescita di popolazione intorno allo 0. I paesi più ricchi hanno già compiuto questa transizione, mentre i paesi più poveri sono ancora nella sua fase centrale (e le proiezioni sul compimento di questa presentano diversi punti di incertezza). In una posizione intermedia si pongono i paesi asiatici (fig. 1.2, 1.3, 1.4). Anche la transizione alimentare può essere divisa in diverse fasi. • 1. Il miglioramento delle condizioni nutrizionali ha inciso largamente sulla diminuzione diretta (fame) e indiretta (infezioni) di mortalità. • 2. I cambiamenti si sono consolidati producendo probabili ricadute positive sui figli di donne ben-nutrite (questo ha portato in generale ad un aumento della statura media della popolazione). • 3. Si teorizza il rischio che un eccesso alimentare (obesità) possa interrompere i trend sanitari positivi ed influenzare 16 1. Introduzione forse per la prima volta una diminuzione dell’aspettativa di vita nei paesi più ricchi. Oltre all’aumentata disponibilità di cibo, la transizione alimentare ha visto tuttavia altri importanti cambiamenti. Ad esempio, il contenuto di proteine nel frumento è drasticamente cambiato, con un aumento rilevante della quota rappresentata dal glutine (dal 2 al 20% del contenuto proteico) e questo cambiamento ha reso via via più evidente l’esistenza di soggetti intolleranti al glutine. Non solo, come sarà discusso più avanti (cap. 5), le manifestazioni cliniche della celiachia sono a loro volta cambiate nell’ultimo secolo di pari passo con il cambiamento delle condizioni igieniche. Ancora, la nutrizione dei lattanti con latte vaccino è un fenomeno che ha conosciuto un’ampia diffusione solo negli ultimi due secoli; le modalità di conservazione dei cibi sono completamente cambiate: dalla salatura, affumicatura e salamoia si è passati sempre più all’utilizzo di conservanti o alla conservazione in frigorifero. L’aumento di alcune delle malattie multifattoriali che stiamo osservando potrebbe essere la conseguenza di queste transizioni epocali, che rischiano di essere più rapide rispetto alla nostra capacità di adattamento biologico. Lo studio delle malattie di oggi, quindi, potrebbe aiutarci a vigilare meglio sui cambiamenti che produciamo all’ambiente e a prevederne i possibili effetti dannosi per la salute di domani. 17 1.Introduzione Fig. 1.2. Stime della popolazione e proiezioni dal 2005 al 2050 in diverse 2 aree geografiche . Fig. 1.3. Variazioni del tasso di natalità in diverse aree geografiche. La 18 1. Introduzione 2 crescita 0 si osserva per un tasso leggermente superiore a 2 . 2 Fig.1.4. Aspettativa di vita e proiezioni in diverse aree geografiche . 19 2. Intestino e ambiente 2. Intestino e ambiente La nostra sopravvivenza come quella di ogni essere vivente è resa possibile solo dall’assunzione di sufficienti quantità e qualità di nutrienti. I nutrienti servono al tempo stesso a fornire le molecole essenziali per il funzionamento dell’organismo e le fonti energetiche per il loro utilizzo. L’organismo umano dedica alla funzione nutritiva un apparato molto complesso e raffinato: l’apparato digerente. I primi passaggi (masticazione, omogenizzazione con saliva e poi con succhi gastrici acidi, neutralizzazione del pH acido e digestione da parte di enzimi pancreatici) sono rivolti alla semplificazione dell’alimento e alla progressiva solubilizzazione e digestione delle molecole in esso contenute. Nelle prime porzioni del digiuno sono resi disponibili peptidi, aminoacidi, monosaccaridi, lipidi e altre molecole che vengono assorbite per lo più attraverso meccanismi specifici facilitati da recettori o per diffusione semplice. In condizioni normali, il materiale residuo che passa nell’intestino crasso non dovrebbe contenere più quantità apprezzabili di nutrienti. I batteri in esso contenuti favoriscono la degradazione di macromolecole non utilizzate, come la cellulosa, metabolizzano i residui proteici indigeriti, e sintetizzano vitamine del gruppo B e K. 20 2. Intestino e ambiente In realtà le cose non sono così semplici. Il fatto che la mucosa intestinale sia dedicata all’assorbimento di molecole semplici, fa sì che il suo epitelio sia disponibile al contatto con le sostanze provenienti dall’ambiente con un effetto di barriera molto fragile (sicuramente molto più fragile di quello presente ad esempio sulla pelle). Ci troviamo dunque di fronte al paradosso di un sistema molto vulnerabile che, per necessità di sopravvivenza, deve essere continuamente messo alla prova da sostanze provenienti dall’ambiente esterno: in questa situazione eventuali sostanze tossiche o dannose o batteri patogeni possono facilmente mettere in crisi il sistema, penetrando all’interno del circolo ematico o danneggiando il sistema di approvvigionamento dei nutrienti. Ma questo è un rischio che si deve correre, se si vuole poter sfruttare la più ampia gamma di sostanze nutritive presenti nell’ambiente. A far fronte a questo rischio, per fortuna, si sono sviluppati alcuni fattori di difesa: in primo luogo, il pH acido dello stomaco, oltre a svolgere una funzione digestiva è in grado di neutralizzare (nell’adulto) molti batteri. In secondo luogo, il tubo digerente è disseminato di cellule del sistema immunitario, organizzate in diversi livelli: cellule mucosali, sotto mucosali, noduli linfatici isolati, placche del Peyer, il tutto gravitante sul sistema di linfonodi mesenterici (fig 2.1). Complessivamente, questo sistema costituisce il secondo organo linfoide per dimensioni dopo la milza. Il cosiddetto 21 2. Intestino e ambiente sistema immune associato alle mucose (MALT) comprende il 50% del tessuto linfatico dell’intero organismo e provvede al 70% della produzione anticorpale (in massima parte rappresentata da IgA). Fig 2.1. Sistema immune associato alla mucosa intestinale: follicoli linfatici solitari; aggregati follicolari in placche organizzate (Placche del Peyer). Da Sinelnikov, Atlante di Anatomia Questi dati non sorprendono, ove si ricordi che l’intestino, per i motivi sopra elencati, è un luogo di contatto continuo tra gli antigeni estranei e il sistema immunitario. Il compito del sistema immunitario in realtà non è semplice, perché prevede che la maggior parte del contenuto alimentare venga tollerato (questo è necessario per la nostra nutrizione), ma prevede anche che agenti potenzialmente dannosi vengano identificati e combattuti efficacemente. Alcuni autori suggeriscono che la mucosa intestinale sia una centrale di addestramento sia per 22 2. Intestino e ambiente la tolleranza immune sia per la risposta ai patogeni. Ad esempio, è stato dimostrato che anticorpi di tipo IgA prodotti contro Escherichia coli enterotossigeni a livello intestinale, vengono successivamente ritrovati oltre che nei fluidi intestinali anche nel latte materno e nella saliva. Secondo alcuni studi, in soggetti con gravi malattie, la nutrizione enterale, a differenza di quella parenterale, garantisce il mantenimento di una produzione anticorpale di superficie, anche a vantaggio della mucosa respiratoria, con migliore difesa dalle infezioni respiratorie. Questa difesa sarebbe garantita dalla ricircolazione di linfociti intestinali, attraverso i linfonodi mesenterici nel dotto toracico e quindi nella circolazione sanguigna sistemica (fig. 2.2). Questo avviene a maggior ragione per la risposta di tolleranza ai cibi e non solo. La differenza tra tolleranza e immunità sta probabilmente nel modo con cui vengono riconosciuti gli antigeni dal lume intestinale: antigeni corpuscolati (inglobati dalle M cells e passati attraverso le placche del Peyer) e antigeni riconosciuti in presenza di particolari tossine o di componenti batteriche associate a patogenicità (PAMPs, pathogen associated molecular patterns), tenderanno a produrre una risposta immunitaria di difesa. Gli altri antigeni saranno invece identificati come “cibo” e indurranno una risposta di tolleranza. Possiamo dire che, in assenza di fattori 23 2. Intestino e ambiente patogeni definiti, il programma di funzionamento basilare del sistema immune mucosale dell’intestino è la tolleranza. Fig 2.2. Ricircolo dei linfociti nei diversi siti mucosali. Ora, è bene notare che i due fenomeni devono essere in un equilibrio perfetto. La risposta contro i patogeni, infatti, non ha solo conseguenze positive (eliminazione del patogeno) ma anche negative (infiammazione e danno tessutale): una volta avviata, una reazione a patogeni rischierebbe di estendersi 24 2. Intestino e ambiente facilmente ad altri antigeni estranei presenti nel bolo alimentare. Come fa il sistema a capire che non appartengono al patogeno anch’essi? Non lo può capire, lo deve sapere già. Saperlo già significa che devono esistere linfociti specializzati a riconoscere gli antigeni alimentari come non nocivi, specializzati in altre parole a tollerare questi antigeni, evitando che la reazione immune venga estesa a questi. Deve esistere cioè una memoria della tolleranza. Il fenomeno della tolleranza agli alimenti (e anche della flora batterica saprofita) deve quindi essere, almeno in parte, un fenomeno attivo. L’esistenza di una tolleranza attiva mantenuta da specifiche cellule è sostenuta anche dalle osservazioni che, attraverso la somministrazione orale di antigeni è possibile estendere la tolleranza anche in organi distanti dell’intestino e che, in animali da laboratorio, questa tolleranza può essere trasmessa ad altri animali attraverso l’infusione di linfociti periferici (Linfociti regolatori, vedi scheda). L’importanza di questo equilibrio per la nutrizione, e quindi per la vita, rende conto delle dimensioni importanti del sistema immune intestinale. E’ chiaro, altresì, che una perturbazione di questo equilibrio, per motivi diversi, potrebbe portare a conseguenze molto gravi: si tratta proprio delle malattie di cui ci occupiamo in questo corso. 25 2. Intestino e ambiente Per meglio comprendere questi aspetti, può essere utile richiamare alcune conoscenze generali sulle modalità della risposta immune e di tolleranza. Le cellule del sistema immunitario possono schematicamente essere suddivise in tre gruppi: • Cellule dell’immunità naturale. Sono capaci di fagocitare sostanze estranee e di presentarne frammenti ai linfociti. Sono attivate da strutture molecolari condivise di derivazione batterica (i PAMPs), attraverso il legame con molecole del gruppo dei toll like receptors (TLR). Sono in grado di fagocitare cellule (batteriche o fungine o cellule danneggiate), detriti e altre particelle opsonizzate da molecole del complemento o anticorpi. Producono • • sostanze capaci di modificare la permeabilità vasale e capaci di richiamare altre cellule. Producono enzimi litici e degradativi. Cellule natural killer. Sono dedicate soprattutto a vigilare sulle anomalie delle cellule dell’organismo (per infezioni virali; per trasformazione neoplastica). Producono la lisi delle cellule bersaglio con vari meccanismi. Linfociti T e B. Sono le cellule dell’immunità adattativa. Durante il loro sviluppo, ciascuna cellula va incontro a un processo di ricombinazione genetica del proprio recettore (recettore dei linfociti T o TCR; immunoglobuline per i linfociti B) che è uno dei presupposti essenziali per la loro 26 2. Intestino e ambiente definitiva maturazione. Successivamente, in seguito a fenomeni di selezione centrale (timo per i linfociti T) e periferica (organi linfatici) ciascuna cellula matura potrà dare origine ad un clone più o meno ampio, recante un’unica specificità recettoriale. Per quanto riguarda i linfociti T, il processo di selezione centrale è molto rigoroso, e conduce infatti all’eliminazione di più del 90% delle cellule durante la maturazione nel timo. Attraverso meccanismi solo in parte decifrati, il timo vaglia i recettori dei linfociti T, distinguendo almeno tre tipi di linfociti: quelli inutili o dannosi, che vengono eliminati; quelli potenzialmente utili, che vengono selezionati; quelli reattivi verso il self che, secondo l’ipotesi più accreditata, vengono selezionati con un programma di lavoro che permetterà la loro attivazione a difesa di possibili autoaggressioni (linfociti regolatori o Treg, vedi scheda). Questa breve descrizione risponde all’osservazione fatta già un secolo fa da Paul Erlich che, a fronte dell’esistenza di un’ampia gamma di specificità anticorpali, postulava l’esistenza di un “horror autotoxicus”, cioè di qualche meccanismo che impedisse al sistema immunitario di fare anticorpi anche contro le molecole del proprio organismo. Infatti, all’interno della centrale di addestramento timica ogni recettore può essere confrontato con una gamma (quasi) 27 2. Intestino e ambiente completa di antigeni dell’organismo. Tuttavia, in questa sede non può avvenire il confronto tra il TCR e l’altrettanto ampia varietà di antigeni alimentari che, al pari di quelli self, devono essere tollerati. Questo scenario quindi non spiega come si possa generare la tolleranza verso gli antigeni alimentari. La domanda è quindi se esistano veramente linfociti regolatori della tolleranza verso gli alimenti e se sì come e dove questi si formino? Una risposta ragionevole potrebbe essere che la tolleranza verso gli alimenti nasca primariamente proprio nell’intestino, e non nel timo, come accade invece per la tolleranza verso il self. Questo, in effetti, sembra essere vero, almeno in parte. Nella mucosa intestinale, infatti, vengono generate grandi quantità di altri tipi di linfociti regolatori, che sembrerebbero più specializzati proprio per questa funzione. 28 2. Intestino e ambiente Linfociti regolatori e tolleranza immune: diverse prove diversi linfociti. 1) I linfociti Tregs o natural Tregs o i “linfociti di Sakaguchi”. La prima dimostrazione dell’esistenza di questi linfociti deriva da una ricerca di S. Sakaguchi del 1995 3. Venivano utilizzati topi privi di timo a causa di una variante genetica omozigote (topi nude BALB/c nu/nu) e topi singenici eterozigoti per la caratteristica nu (BALB/c nu/+) provvisti di un normale sistema immune. I topi nude, se non vengono tenuti in ambiente sterile, muoiono rapidamente a causa dell’assenza di un sistema immune. Linfociti ottenuti da linfonodi e milza di topi BALB/c nu/+ sono tuttavia in grado di ricostruire un sistema immune funzionale in questi animali permettendo la sopravvivenza in un ambiente normale. Sakaguchi scoprì che il trasferimento dei linfociti depletati di una piccola popolazione di linfociti CD4 caratterizzata dall’elevata espressione del CD25 (catena alfa del recettore dell’IL-2) causava nei topi riceventi lo sviluppo di malattie autoimmuni multiple. Per un limitato periodo di tempo dopo l’infusione, lo sviluppo di queste malattie poteva essere bloccato dall’aggiunta delle cellule precedentemente sottratte (CD4+CD25+). L’autore concludeva pertanto che quella popolazione dovesse contenere linfociti in grado di mantenere la tolleranza verso il self. Una decina di anni dopo, lo stesso autore dimostrò che quella particolare popolazione di linfociti CD4+CD25+ veniva generata nel timo e svolgeva la sua azione grazie all’espressione del fattore di trascrizione FOXP3 4. Questo studio dimostra che il gene FOXP3 è importante nella formazione di un sottogruppo di linfociti regolatori (CD4+CD25+) in grado, quando stimolati, di bloccare l'attivazione di linfociti presenti nell'ambiente circostante. In particolare, la ricerca prova che FOXP3 è espresso nel timo, soprattutto nei linfociti CD4+CD25+, dove la quantità di espressione è circa 100 volte maggiore che negli altri linfociti. L’espressione forzata di FOXP3 in linfociti T naive per mezzo di un transgene si associa ad una diminuita capacità proliferativa, a una diminuita produzione di citochine e ad una aumentata espressione di alcune molecole di superficie caratteristiche dei linfociti regolatori (GITR, CD104, CTLA4). Le cellule trasdotte in questo modo si mostrano in grado di 29 2. Intestino e ambiente sopprimere in co-cultura la proliferazione di cellule CD4+CD25- in modo proporzionale all'espressione del transgene. Si precisa infine che l'attività soppressiva dipende dallo stimolo del recettore delle cellule regolatrici (è cioè secondaria all'attivazione di queste cellule) e si esplica attraverso il contatto cellulare e non semplicemente dalla produzione di citochine regolatorie (come descritto per altri tipi di cellule regolatorie). A conferma del ruolo regolatorio delle cellule FOXP3+ vengono compiuti anche degli studi in vivo, in cui si dimostra che le cellule transgeniche per FOXP3 sono in grado di curare la malattia causata nei topi irradiati dalla somministrazione dei soli linfociti CD4+CD25-. Nel 2001 (due anni prima di quest’ultimo studio di Sakaguchi), mutazioni del gene FOXP3 erano state descritte come responsabili di una rara sindrome genetica legata al cromosoma X e caratterizzata dalla comparsa precoce di molteplici fenomeni autoimmuni e allergici. Questa malattia, denominata IPEX (Immunodysregulation Polyendocrinopathy Enteropathy X-Linked) rappresenta l’esempio genetico del difetto dei linfociti regolatori, responsabili del mantenimento della tolleranza. Nella nostra esperienza, la cura e lo studio di un bambino con questa malattia hanno costituito un’occasione importante di incontro tra l’esemplarietà di una malattia monogenica per la ricerca di base e le ricadute delle conoscenze a servizio delle necessità cliniche 5-7. 2) Altri linfociti regolatori. Tr1 e tolleranza intestinale. I “linfociti della Roncarolo”. Si tratta di un altro gruppo di linfociti, capaci di sopprimere l’attivazione di linfociti nel microambiente circostante (bystander action) per mezzo di citochine regolatrici, come l’interleuchina 10 e TGFbeta. Questi linfociti non hanno bisogno del contatto diretto con la cellula bersaglio e possono in tal modo favorire una tolleranza di ambiente, non specifica solo per un determinato antigene. Linfociti regolatori di questo tipo sono molto comuni nella mucosa intestinale dove, tra l’altro, l’IL-10 contribuisce a down-regolare l’eccessiva attivazione dei fagociti in continuo contatto con i più vari stimoli ambientali. 30 2. Intestino e ambiente L’apprendimento dell’ambiente. Il primo anno di vita è il periodo in cui avviene il maggiore adattamento del nostro organismo all’ambiente: questo è vero tanto per lo sviluppo del nostro cervello che per quello del nostro sistema immune. In entrambi i casi, l’apprendimento ha un costo energetico e cellulare elevato (perdita di neuroni nel cervello e perdita di linfociti nel timo). In entrambi i casi si imparano le regole per interagire con l’ambiente: il sistema nervoso pone le basi per il linguaggio, per il riconoscimento del sé dall’ambiente esterno (se non ancora per la coscienza dell’”io”); il sistema immune impara la tolleranza e la risposta immune e monta le prime risposte adattative all’ambiente. Il primo anno è, di fatto, il momento privilegiato perché queste interazioni si possano sviluppare correttamente. I primi mesi sono “tutelati” dal rapporto con la madre che, non a caso, vede fondersi il momento alimentare con quello della conoscenza dell’ambiente: la conoscenza tattile, gustativa e olfattiva del seno e del latte; la conoscenza uditiva della voce della madre, il riconoscimento dei suoi occhi; la conoscenza di tracce di alimenti ingeriti dalla madre attraverso il latte; la graduale conoscenza di un mondo microbiologico che si accresce pian piano. E’ logico pensare che la perturbazione di queste condizioni nel primo anno di vita possa avere conseguenze sia sul lato cognitivo sia su quello immunologico. 31 2. Intestino e ambiente La maturazione intestinale nel bambino. dell’immunità Ci sono prove che già in utero avvenga un certo riconoscimento di antigeni alimentari che possono raggiungere il feto attraverso il sangue placentare. Di fatto, linfociti specifici per antigeni alimentari possono essere identificati nel sangue cordonale della maggior parte dei neonati 8-10. In questa fase la risposta immune è però dominata da un complesso programma immunologico che garantisce al tempo stesso la tolleranza reciproca tra madre e feto. Alla nascita si verificano diversi eventi in grado di modificare in varia misura questo equilibrio. • L’intestino del neonato viene rapidamente colonizzato da batteri. Ci sono diverse dimostrazioni che questa colonizzazione contribuisca a modellare l’organizzazione del sistema immune del bambino. I linfociti B produttori di IgA e IgM cominciano a colonizzare la mucosa intestinale dopo una settimana dalla nascita, raggiungendo livelli stabili solo dopo un mese. Questo non avviene in neonati alimentati per nutrizione parenterale totale (fig. 2.3). L’osservazione che bambini nati con taglio cesareo (in condizioni di maggior sterilità), tendono ad avere un’incidenza di allergie maggiore rispetto ai neonati da parto spontaneo potrebbe fornire un altro dato indiretto a 32 2. Intestino e ambiente sostegno dell’importanza della colonizzazione intestinale • precoce nella maturazione del sistema immunitario. Il bambino conosce gli antigeni alimentari attraverso l’intestino. Questi possono essere forniti da formule per lattanti o direttamente dall’allattamento materno. In quest’ultimo caso, il contatto con la cute materna fornisce un’ulteriore fonte di germi per la colonizzazione intestinale. Inoltre, il latte materno, come vedremo nel prossimo capitolo, contiene diverse sostanze e cellule • immunologicamente attive. Gli alimenti contribuiscono a modellare il sistema immune direttamente (per le loro caratteristiche chimiche e antigeniche) e indirettamente (per le loro caratteristiche nutrizionali e per la capacità di influire sulla costituzione della flora batterica intestinale). E’ possibile che diverse modificazioni di questi elementi possano influenzare ampiamente lo sviluppo della tolleranza intestinale, influenzando il rischio di sviluppare malattie allergiche, e forse anche infiammatorie e autoimmuni. 33 2. Intestino e ambiente Fig. 2.3. Ruolo degli alimenti nella maturazione del sistema immune mucosale 34 3. Il latte materno 3. Il latte materno Il latte materno è certo l’alimento naturale per un lattante. Questo non significa necessariamente che sia il migliore possibile. Però è stato fino ad oggi l’alimento che ha permesso la sopravvivenza dei cuccioli umani (e dei mammiferi in generale) ottenendo quindi dalla selezione naturale una sua “certificazione di qualità”. Il senso di questa certificazione è biunivoco, nel senso che è ragionevole pensare che l’evoluzione abbia premiato le coppie nutrice-lattante associate contemporaneamente alla migliore qualità del latte (selezione della madre) e alla miglior capacità di tollerare l’alimento e di utilizzarlo (selezione del bambino). Si potrebbe d’altra parte obiettare che alcune delle condizioni che hanno fatto la “forza” del latte materno oggi sono mutate (almeno nei paesi più ricchi). Ad esempio, il latte materno 35 3. l latte materno costituisce un alimento ragionevolmente puro dal punto di vista microbiologico (non contaminato da patogeni) e anzi microbiologicamente protetto grazie alla presenza di alte concentrazioni di anticorpi solubili. Queste qualità sono particolarmente importanti per il lattante, che non è ancora in grado di difendersi efficacemente dai patogeni assunti per via orale, data la minore acidità dei succhi gastrici e la maggiore permeabilità intestinale. Queste qualità fanno tuttora il successo del latte materno nei paesi più poveri e a minori standard igienico-sanitari. Si calcola, anzi, che il ricorso all’allattamento materno nei paesi più poveri potrebbe prevenire, con vari meccanismi, il 13% di tutte le cause di morte in bambini sotto i 5 anni 11. Oggi però è possibile preparare sostituti del latte materno con prodotti microbiologicamente puri, almeno per quanto riguarda l’alimentazione del mondo più ricco. Tuttavia le differenze tra il latte materno e i suoi sostituti non si esauriscono qui. Alcune evidenze suggeriscono, infatti, che il latte materno abbia un effetto sulla funzione immune del piccolo lattante molto diverso rispetto al latte di formula. • Nel 1996, venne evidenziato che il timo di lattanti allattati al seno aveva dimensioni molto maggiori (fino a doppie) rispetto al timo di bambini allattati con latte di formula 11. La differenza non era dovuta ad una differenza di 36 3. Il latte materno frequenza di infezioni nei due gruppi. Secondo studi più recenti, l’effetto potrebbe essere dovuto alla presenza nel latte di IL-7, una citochina tipica dello sviluppo timico dei linfociti, o in alternativa dal diverso condizionamento della flora batterica intestinale. • Dati epidemiologici collegano l’allattamento al seno con un ridotto rischio di malattie infettive nei primi mesi di vita, in particolare con le gastroenteriti, ma anche infezioni respiratorie. Questa protezione dipende sicuramente in parte dall’effetto diretto delle immunoglobuline contenute nel latte materno. In particolare, il latte contiene grandi quantità di IgA (intorno a 1g/L), immunoglobuline caratterizzate da importanti proprietà, tra cui la resistenza alla proteolisi e la capacità di bloccare antigeni patogeni senza provocare una rilevante reazione infiammatoria. • Tuttavia, molti dati suggeriscono che il latte materno abbia anche un effetto indiretto sulla protezione da agenti infettivi, favorendo una corretta maturazione del sistema immune. L’allattamento al seno sembra associato con un rischio ridotto di sviluppare alcune malattie immunomediate a distanza, tra cui il diabete autoimmune. Questo rischio è, in realtà, difficile da misurare, trattandosi di malattie multifattoriali la cui patogenesi può essere influenzata da diversi cambiamenti ambientali. 37 3. l latte materno • In alcuni neonati prematuri può verificarsi una condizione di stress acuto a carico dell’intestino con conseguente necrosi ipossica dell’organo (enterocolite necrotizzante del prematuro). L’intervento terapeutico in questi bambini prevede tra l’altro una restrizione alimentare e la somministrazione di antibiotici. Nei bambini allattati con latte umano, la rialimentazione precoce è tollerata senza aggravamento della patologia, diversamente da quanto avviene per il latte di formula, la cui introduzione deve quindi essere posticipata. Questa differenza è stata secondo alcuni attribuibile al benefico effetto del fattore di crescita degli epiteli (EGF) contenuto nel latte materno. Le proprietà biologiche che permettono questi risultati non sono ancora del tutto comprese. Va però osservato che molte differenze dipendono dal processo di sterilizzazione del latte formulato. Il trattamento al calore inattiva molte molecole biologicamente attive (citochine, fattori di crescita, anticorpi e ormoni), distrugge le cellule (il latte è ricco di macrofagi e altre cellule) e modifica altre sostanze nutritive. Il latte materno, al contrario, viene consumato come tale poco dopo la sua “preparazione”, mantenendo inalterata l’attività di tutte queste sostanze. In altre parole, possiamo dire che la differenza è inevitabile, se si considera il latte non solo per le sue proprietà nutritive ma 38 3. Il latte materno anche per la presenza di molecole bioattive e di cellule. E’ bene precisare tuttavia che non conosciamo ancora, fino a che punto queste qualità biologiche siano utili al corretto sviluppo del lattante, dato che in condizioni ambientali ideali esistono poche differenze tra i bambini allattati al seno e quelli alimentati con le attuali formule sostitutive. Vediamo di seguito le caratteristiche del latte materno cui usualmente viene attribuita importanza rispetto al latte di formula, anche se per la maggior parte di queste non è facile misurare il reale beneficio a vantaggio del bambino. • Compatibilità immunologica. Come accennato in precedenza, la compatibilità degli antigeni del latte materno con il sistema immune del bambino è stata oggetto di una selezione naturale lunga quanto la genesi stessa dell’uomo. Le molecole del latte di altri mammiferi • forse non sono così diverse, ma non hanno passato questo lungo periodo di “prova di compatibilità”, dato che sono state introdotte massicciamente nell’alimentazione dei lattanti solo negli ultimi due secoli. Immunoprotezione. Diverse componenti presenti nel latte materno possono contribuire ad un effetto protettivo contro i patogeni. In primo luogo vanno considerate le immunoglobuline di classe A (IgA). E’ bene sottolineare che questi anticorpi non costituiscono un’aspecifica difesa verso patogeni: essi portano con sé la memoria 39 3. l latte materno dell’ambiente in cui vive la mamma e in cui si inserisce il lattante. Oltre alle immunoglobuline, il latte contiene alcune proteine ad azione diretta antibatterica: il lisozima, in grado di lisare la parete dei batteri gram+ per mezzo di un’azione digestiva sul proteoglicano; la lattoferrina, in grado di inibire la crescita batterica sottraendo ferro e stimolando la produzione di citochine (la lattoferrina costituisce la prima proteina nel latte umano, con concentrazioni di 1-4 g/L); la lattoaderina, una glicoproteina in grado di legare ed inattivare il rotavirus. Ancora, il latte contiene oligosaccaridi e mucine che possono interferire con l’adesione batterica alle cellule intestinali. Oltre a tutte queste molecole, il latte è ricco in cellule (100-1000 cellule/mcL), in particolare macrofagi, che potrebbero svolgere un ruolo nell’intestino del piccolo • lattante, oltre che, ovviamente, nel prevenire l’infezione del latte all’interno della ghiandola mammaria. Effetto antinfiammatorio e maturazione della mucosa. Questi effetti sembrano essere garantiti da una miscela di citochine e fattori di crescita, caratterizzata dalla prevalenza di citochine antinfiammatorie, come il TGFbeta e l’IL-10, e dalla presenza di fattori come l’epidermal growth factor (EGF) ed il fattore di crescita dei monociti e granulociti, GM-CSF. 40 4. Le allergie alimentari 4. Le allergie alimentari La nascita del concetto di allergia. Possiamo far iniziare questa storia verso la fine dell’ ‘800. Edward Jenner aveva posto le basi per le vaccinazioni, Luis Pasteur aveva da poco dimostrato il collegamento tra microrganismi e malattie, Robert Koch aveva evidenziato i criteri necessari per confermare la relazione causa-effetto tra infezione e malattia (postulati di Koch). Nel 1885 Pasteur utilizza per la prima volta il vaccino contro la rabbia e nel 1891 Emil Adolf von Behring a Berlino utilizza per la prima volta il siero anti-difterico in un bambino ammalato di difterite. Le infezioni costituivano a quel tempo la principale causa di malattia e di morte. I progressi della microbiologia e i primi passi dell’immunologia suggerivano la possibilità di un cambiamento, ancor più enfatizzata dal generale spirito positivista della scienza di fine secolo. In questa ambientazione, nel 1896 si assiste al primo decesso in seguito all’utilizzo di un siero anti-difterico, evento che colpisce ancor di più in quanto si trattava di un trattamento preventivo in un bambino sano. Successivamente vengono riportati altri casi di reazione da siero, accompagnati dalla comparsa di febbre, macchie cutanee e insufficienza renale con shock. La patogenesi di questa malattia non venne subito 41 4. Le allergie alimentari compresa finché nel 1903 Arthus dimostrò che iniezioni ripetute di siero in conigli provocano simili reazioni e von Pirquet e Shick sottolinearono il fattore temporale della malattia da siero ed ipotizzarono che la malattia potesse costituire una “collisione tra antigeni e anticorpi”. Si tratta di un’ipotesi che rivoluzionerà l’interpretazione di molte malattie. lentamente Il XIX secolo aveva visto nelle infezioni la causa riconoscibile della maggior parte delle malattie e nel sistema immunitario la difesa da parte dell’organismo. I sintomi delle malattie venivano anch’essi attribuiti all’azione diretta dei microrganismi. Von Pirquet (fig 4.1), invece, partendo dalla similitudine tra i sintomi tipici della malattia da siero e quelli presenti in molte malattie infettive esantematiche, ipotizzò per la prima volta che i sintomi delle malattie infettive potessero derivare non tanto dall’azione del germe ma dalla risposta contro di esso da parte del sistema immunitario. L’ipotesi, per l’epoca poteva sembrare molto azzardata, ma in realtà si appoggiava su un’altra osservazione fondamentale: il rapporto temporale tra la causa ed il sintomo. Il tempo di “incubazione” della malattia da siero era, infatti, simile a quello di alcune malattie esantematiche, come il morbillo (Lo studio di von Pirquet, vedi scheda). 42 4. Le allergie alimentari Fig. 4.1. Clemens von Pirquet, ricordato in un numero del J. Immunology Come vedremo, questi pensieri non hanno costituito solo una speculazione filosofica ma, dimostrando che la risposta immunitaria può essere responsabile di sintomi “inappropriati”, aprirono il grande capitolo dello studio delle malattie immunomediate. Questo filo logico continua oggi nell’osservazione della patomorfosi (cambiamento nel tempo della modalità di esprimersi di una malattia) di alcune malattie infettive: vecchie malattie (ad esempio la tubercolosi) hanno cambiato la loro presentazione nel tempo, a causa di 43 4. Le allergie alimentari cambiamenti dell’ambiente e dell’ospite e non è da escludersi che alcune infezioni si esprimano solo con lo scatenamento di malattie multifattoriali immunomediate. Il paradosso di un sistema immune che può creare malattia diventa ancor più evidente in un’epoca in cui il benessere fa passare in secondo piano la gravità delle infezioni e fa emergere l’apparente contraddizione che von Pirquet indica come allergia (allos ergon = alterata reattività). L’esempio di von Pirquet ci fa comprendere la continuità tra la patologia immune di ieri (soprattutto infettiva) e la patologia immune di oggi (soprattutto dis-reattiva). L’allergia, come intesa oggi, in realtà è un fenomeno immune abbastanza diverso da quello illustrato da von Pirquet. Di fatto, lo studioso estese ben presto il concetto ad una serie di diverse manifestazione dovute a inappropriata risposta immune. Reazioni che in seguito, Gell e Coombs raggrupparono in 4 classi. La malattia da siero corrisponde all’ipersensibilità di tipo III, mediata da immunocomplessi. L’esempio più tipico di malattia da immunocomplessi nell’uomo è oggi quello del Lupus Eritematoso Sistemico. La risposta allergica corrisponde invece a meccanismi diversi, per lo più riconducibili alle reazioni di ipersensibilità di tipo I secondo Gell e Coombs. Ma il concetto di una alterata 44 4. Le allergie alimentari reattività immune, come meccanismo di malattia, resta valido ed è oggi alla base di numerose malattie. Lo studio di von Pirquet Clemens von Pirquet studia teologia a Innsbruck e filosofia a Leuven, poi Medicina a Graz fino a trasferirsi all’Ospedale pediatrico di Vienna verso l’inizio del ‘900, sotto la guida del prof Escherich (padre degli Escherichia coli). In questo vivace ambiente scientifico, von Pirquet affronta il paradosso tra malattia e protezione immune, sostenendo che un agente patogeno causerebbe segni di malattia nell’organismo solo dopo essere “modificato” dalla presenza di anticorpi. Il tempo di incubazione della malattia coinciderebbe con il tempo richiesto per la formazione degli anticorpi. Per l’epoca si trattava di una teoria particolarmente innovativa e un po’ eretica rispetto ai successi del “positivismo” microbiologico. Nel 1903 (all’età di 29 anni), von Pirquet invia una lettera sigillata all’accademia delle Scienze di Vienna contenente quello che oggi verrebbe definito il suo “progetto di ricerca”. In esso era contenuta l’ipotesi di partenza e le modalità con cui l’autore si proponeva di dimostrarla. La busta sarebbe stata aperta 5 anni dopo alla presenza dello stesso von Pirquet. 45 4. Le allergie alimentari L’ipotesi era che sintomi di malattie esantematiche come il morbillo fossero dovuti non direttamente al patogeno ma alla risposta dell’organismo contro di questo. Infatti, la febbre, le lesioni cutanee e il tempo di incubazione potevano ricordare proprio la reazione da siero. Somministrando siero di cavallo a conigli, von Pirquet dimostrò che (vedi immagine): - la formazione di anticorpi circolanti dopo l’infusione di grandi quantità di siero eterologo è ritardata; - il ritardo è simile a quello che si osserva nella comparsa dei sintomi della malattia da siero e nell’incubazione di alcune malattie esantematiche; - una seconda infusione successiva porta a un calo degli anticorpi circolanti e alla comparsa immediata di sintomi; - la reazione è specifica: la seconda infusione deve contenere lo stesso siero; - piccole dosi di siero inducono anticorpi ma non sintomi clinici. A questa alterata reattività dell’organismo, in grado di produrre sintomi, von Pirquet dà il nome di “allergia“ (allos-ergon). Diversi meccanismi per diverse allergie: risposta pronta reaginica; risposta ritardata cellulare. La risposta allergica ricade prevalentemente tra le reazioni di ipersensibilità di tipo I e di tipo IV secondo Gell e Coombs. Le reazioni di tipo I dipendono dalla stimolazione di una risposta linfocitaria dominata dalle citochine IL-4, IL-5 e IL-10 (profilo Th2) in assenza di una sufficiente attivazione di meccanismi contro-regolatori (produzione di IgA o IgG 46 4. Le allergie alimentari neutralizzanti; attivazione di linfociti regolatori specifici). I linfociti Th2 sostengono a loro volta la produzione di immunoglobuline di tipo IgE da parte dei linfociti B (effetto dell’IL-4) e l’attivazione di granulociti eosinofili (effetto dell’IL5). Le IgE specifiche, dette anche reagine, si legano ai recettori Fc sulla membrana dei mastociti, fino al momento in cui incontrano l’allergene. Il riconoscimento dell’allergene, di solito provvisto di epitopi ripetuti, provoca il raggruppamento delle IgE di superficie e la degranulazione dei mastociti, con rilascio di istamina e di altre sostanze bioattive. L’istamina provoca vasodilatazione ed aumento della permeabilità vasale, con conseguente edema dei tessuti, stimolazione delle terminazioni nervose, prurito, rilascio di neuro-peptidi. Queste reazioni si sviluppano in genere nel giro di minuti (eccezionalmente ore) dopo il contatto con l’allergene e sono dette perciò anche reazioni di “ipersensibilità immediata” o “reazioni pronte” o “reaginiche”. Questo tipo di reazione, infine, avrà diverse conseguenze in base all’organo in cui si è verificato l’incontro con l’allergene. Nella pelle, reazioni minori condurranno alla formazione del pomfo, lesione elementare caratterizzata da edema superficiale (dovuto all’aumento di permeabilità vasale), pruriginosa e circondata da un’area più o meno ampia di eritema (dovuto alla vasodilatazione). Reazioni più estese possono condurre a vaste chiazze di orticaria e in caso di 47 4. Le allergie alimentari compromissione più profonda ad angioedema (in questo caso l’edema interessa anche gli strati cutanei profondi e il sottocute). Un allergene che venga inalato entrerà invece a contatto con la mucosa respiratoria, a diversi livelli, a seconda della sua dimensione. Particelle più grandi stimoleranno una risposta immune a livello della mucosa nasale e paranasale provocando edema e secrezione nasale (rinite allergica) e, nei casi più gravi, sinusite e proliferazione della mucosa. A livello bronchiale, l’allergene potrà invece provocare, in soggetti predisposti (broncoiperreattività) bronco costrizione ed edema della mucosa con diminuzione del calibro bronchiale e difficoltà espiratoria (espirazione prolungata con fischi e gemiti, asma). Una complicazione temibile delle reazioni allergiche è l’edema della glottide, che può portare a morte per soffocamento. A livello dell’apparato digerente si potranno avere sintomi come edema delle labbra, prurito, vomito e enterocolite allergica. La persistenza della stimolazione allergica può condurre ad uno stato di infiammazione allergica cronica, caratterizzato da un ruolo maggiore degli eosinofili e dalla persistenza di edema. In alcuni casi, sono sufficienti minime dosi di antigene che raggiungano il circolo per provocare reazioni allergiche 48 4. Le allergie alimentari sistemiche (anafilassi) che possono portare rapidamente a decesso per shock circolatorio. Il trattamento, in questi casi, richiede l’utilizzo di adrenalina, per mantenere il circolo e secondariamente di antistaminici e cortisonici per arginare la risposta allergica. Le reazioni allergiche ritardate avvengono di solito a ore o giorni dall’introduzione dell’allergene e sono dovute a un meccanismo immunologico diverso, classificabile come reazione di tipo IV secondo Gell e Coombs. Sono basate su questo meccanismo alcune allergie come l’enteropatia da proteine del latte vaccino. Il criterio temporale ha particolare importanza nella diagnosi di allergia. In particolare la relazione di causa-effetto tra l’esposizione all’allergene e lo sviluppo dei sintomi sarà in genere evidente per reazioni immediate. Per reazioni più lente e/o in caso di sintomi più sfumati, la relazione di causa-effetto può essere dubbia. In questi casi, elementi aggiuntivi per la diagnosi specifica possono essere ottenuti da test di provocazione cutanea (prick test) o dalla ricerca di anticorpi IgE specifici nel sangue (RAST). Anche l’aumento degli eosinofili nel sangue (o nel muco nasale) dopo stimolo con l’antigene può fornire un utile parametro informativo. Il prick test è una procedura diagnostica che ricerca la presenza nella cute di mastociti sensibilizzati con IgE 49 4. Le allergie alimentari specifiche. Infatti, nelle ipersensibilità immediate, le IgE tendono a distribuirsi sui mastociti in tutte le sedi, indipendentmente dalla localizzazione dei sintomi (respiratori, cutanei, gastroenterici). La cute offre quindi un “laboratorio” facilmente accessibile dove ricercare la presenza anticorpi. di questi In pratica, una goccia di soluzione contenente un’appropriata concentrazione dell’antigene viene applicata sulla cute e con un ago si produce una piccola scarificazione in Fig. 4.2.Esecuzione di un prick test. modo da interrompere la barriera epiteliale e facilitare il contatto dell’antigene con i mastociti cutanei (fig. 4.2). Nel caso che siano presenti IgE specifiche, queste indurranno la degranulazione dei mastociti, e la formazione del pomfo. Le dimensioni e la forma del pomfo e dell’area eritematosa che lo circonda possono fornire un dato semi-quantitativo 50 4. Le allergie alimentari sull’intensità dell’allergia. L’esame è eseguito di solito confrontando diversi allergeni con un controllo positivo (istamina). Questo test, in presenza di una sintomatologia allergica, ha un elevato potere informativo, tuttavia è bene tenere in considerazioni alcuni aspetti. Primo, la positività al prick test non indica necessariamente un’allergia con espressione clinica manifesta: alcuni soggetti possono avere il prick test positivo ma possono tollerare (con vari meccanismi compensatori) l’allergene. In questi soggetti un’esclusione dell’allergene potrebbe avere conseguenze peggiori che una continua esposizione. Il prick test può risultare falsamente negativo in soggetti che assumono farmaci antistaminici e corticosteroidei. Infine, non sempre l’antigene applicato nel prick test rispecchia fedelmente quello in grado di provocare la reazione allergica (che può essere ad esempio un allergene derivato dalla digestione di proteine nell’apparato digerente). Un test equivalente rispetto al prick test è costituito dai RAST. In questo caso, gli anticorpi IgE specifici sono misurati nel siero dei pazienti per mezzo di una metodica radio-immunologica. I vantaggi dei RAST stanno nell’elevato numero di allergeni valutabili contemporaneamente e nella possibilità di ottenere un dato quantitativo indipendente dal trattamento attuale del paziente. Gli svantaggi stanno nel costo, ma anche in 51 4. Le allergie alimentari un’eccessiva identificazione di risposte allergiche clinicamente non rilevanti. Nel caso di allergie con ipersensibilità di tipo ritardato, i test utili per la conferma diagnostica saranno differenti, includendo il dosaggio di anticorpi di tipo IgG (ad esempio nell’enteropatia da intolleranza alle proteine del latte vaccino) o l’applicazione dell’antigene per periodi di 48-72 ore (patch test, nella dermatite da contatto). In ogni caso, una prova della responsabilità di un dato alimento in una reazione allergica potrà derivare da test di scatenamento, in cui si riproduca (con le precauzioni adeguate rispetto al tipo di reazione) la tipica relazione temporale tra applicazione dello stimolo e manifestazione clinica. In caso di sintomi soggettivi o più difficilmente misurabili e oggettivabili, potrà essere utile eseguire test di scatenamento in doppio cieco, cioè somministrando in giorni diversi l’antigene “mascherato” in modo che né il medico né il paziente lo possano riconoscere, fino a completamento della procedura. 52 4. Le allergie alimentari Allergie alimentari: allergia al latte. L’allergia alimentare al latte è una condizione relativamente frequente nei primi anni di vita, interessando il 5% dei bambini. Il sintomo più frequentemente associato all’allergia al latte è costituto dalla dermatite, ma è bene ricordare che meno di un terzo delle dermatiti eczematose dei primi anni di vita dipendono da allergie alimentari. Più raramente, l’allergia al latte può presentarsi anche (o soltanto) con sintomi di tipo anafilattico (cioè sintomi a comparsa acuta e in genere a interessamento multi-organo, mediati da IgE). Questi sono riassunti nella tabella seguente (tab. 4.1). Localizzazione Cavo orale Cute Apparato digerente Apparato respiratorio Apparato circolatorio Altro Segni e sintomi Prurito a labbra, lingua e palato, edema di labbra e lingua, sapore metallico in bocca Eritema, prurito, orticaria, angioedema, rash, piloerezione Nausea, dolore addominale (colica), vomito e diarrea Rinorrea, congestione nasale e starnuti; Prurito e tensione in gola, disfonia, tosse abbaiante prurito nei condotti uditivi esterni; dispnea, tosse profonda. Astenia, sincope, dolore toracico, tachicardia, disaritmia, ipotensione Prurito periorale, eritema congiuntivale e lacrimazione, dolore lombare e contrazioni uterine, sensazione di morte. Tab. 4.1. Segni e sintomi di allergia a seconda della localizzazione 53 4. Le allergie alimentari Nelle forme più gravi, l’anafilassi coinvolge anche l’apparato respiratorio e circolatorio in un quadro che può giungere allo shock e alla morte (tab 4.2). Si tratta di casi rari, ma particolarmente gravi, perché spesso possono essere provocati da esposizione a quantità minime di antigene, tanto da poter essere inavvertite. Tab. 4.2. Gradi di anafilassi, dal prurito allo shock. Le reazioni più blande possono essere controllate con un antistaminico, mentre nei casi più gravi è indispensabile ricorrere all’uso dell’adrenalina, per mantenere la circolazione e il respiro. Purtroppo, le reazioni anafilattiche tendono a ripetersi costringendo chi ne soffre a evitare con estremo rigore il contatto con le sostanze scatenanti. Dato che, come si diceva, 54 4. Le allergie alimentari contatti inavvertiti non sono infrequenti, anche da contatti minimi attraverso la cute o per via inalatoria 12,13, il paziente dovrà anche essere costantemente munito di una dose di adrenalina auto-iniettabile, da utilizzare in caso di necessità (fig. 4.3). 55 4. Le allergie alimentari Va da sé che la vita per questi soggetti cosiddetti “super-allergici” con rischio di anafilassi è pesantemente penalizzata. Impone infatti una difficile dieta di esclusione (tracce occulte di latte possono essere contenute in molti alimenti 14,15) e una difficile vita sociale (feste, ristoranti, comunità) ma nonostante ciò permane comunque il rischio di andare incontro a Fig. 4.3. Manifesto informativo sull’uso di adrenalina auto- manifestazioni gravi, potenzialmente mortali. D’altra parte, la maggior parte dei pazienti tende a risolvere spontaneamente la propria allergia con la crescita e ritornando ad assumere gli alimenti incriminati dopo alcuni anni di dieta. Tuttavia, non sempre questo accade, e c’è una piccola parte di pazienti in cui l’allergia non diminuisce nonostante la dieta 16,17. In realtà ci sono ragionevoli motivi per ritenere che lo sviluppo di una tolleranza specifica sia più difficile in totale assenza dell’antigene. Infatti, come abbiamo già discusso, la tolleranza 56 4. Le allergie alimentari immune non è solo un fenomeno passivo (assenza di linfociti reattivi contro un dato antigene), ma soprattutto un fenomeno attivo (presenza di linfociti specifici per l’antigene e specializzati nel mantenimento della tolleranza). Per questo motivo, ci si è domandati se si potessero sviluppare protocolli per re-indurre la tolleranza attiva in questi soggetti, somministrando l’allergene in un regime controllato e sicuro, in modo da garantire almeno la tolleranza di piccole dosi e di permettere una migliore qualità di vita. Alcune esperienze, in un contesto un po’ diverso, suggerivano che effettivamente l’anafilassi può essere prevenuta con una forzata esposizione a piccole dosi dell’antigene: ad esempio, nell’anafilassi da veleno di imenotteri, esistono procedure di desensibilizzazione basate sull’iniezione sottocutanea ripetuta di piccole dosi dell’allergene. Per le allergie alimentari, invece, sono stati proposti protocolli basati sulla somministrazione sublinguale o orale dell’antigene in causa, a dosi ripetute e incrementali, avviando la procedura in un ambiente ospedaliero protetto, dove eventuali reazioni gravi possono prontamente essere fronteggiate 18,19. Con queste procedure si ottengono, in diversi centri (tra cui quello della Clinica Pediatrica di Trieste), risultati sicuramente incoraggianti. La maggior parte dei bambini trattati riesce a tollerare dosi più o meno alte dell’alimento, di solito ben al di sopra di quelle che possono essere responsabili di assunzioni 57 4. Le allergie alimentari accidentali. In altre parole, se bevi ogni giorno mezzo bicchiere di latte puoi essere sicuro che non avrai una reazione anafilattica bevendone un cucchiaio. Queste procedure di desensibilizzazione sono ancora largamente empiriche, e si basano sul graduale aumento della dose, giocando ai limiti delle dosi tollerate senza sintomi importanti. Sfortunatamente, non sono ancora chiari i meccanismi cellulari e molecolari che permettono il raggiungimento della tolleranza in questi pazienti. Sembra probabile che un ruolo all’inizio della procedura sia svolto dall’“esaurimento” della risposta anticorpale specifica, per continua lieve stimolazione; un altro fenomeno, potrebbe risiedere nell’induzione di anergia nei linfociti specifici continuamente stimolati; ancora, un effetto anti-allergico viene attribuito ad una diversa modalità di risposta anticorpale contro l’antigene con IgG4 bloccanti piuttosto che con IgE; infine, ci si aspetta che la tolleranza definitiva si associ anche allo sviluppo di linfociti regolatori, in grado di mantenere attivamente lo stato di tolleranza. Una migliore conoscenza di come la desensibilizzazione orale possa attivare questi e altri meccanismi potrà forse permettere in futuro di migliorare in termini di tempi ed efficacia i protocolli di desensibilizzazione. 58 4. Le allergie alimentari Atopia e stile di vita “occidentale”: l’ipotesi igienica. L’atopia è una condizione di predisposizione allo sviluppo di risposte allergiche espresse variamente (eczema, rinite ed asma), in risposta a comuni ed innocui antigeni ambientali. Una parte dei fattori predisponenti è stata identificata: • • nella maggior attitudine dell’atopico a produrre IgE; in una risposta esagerata da parte di mastociti ed eosinofili; nell’ipereattività bronchiale (nel caso dell’asma); • nell’aumento di permeabilità cutanea (nel caso della dermatite atopica). Si tratta per lo più di caratteri geneticamente determinati (per i quali sono stati identificati i rispettivi loci) abbastanza comuni nella popolazione generale. Esistono poi fattori ambientali da lungo tempo accertati come il fumo di sigaretta e l’aumento del particellato atmosferico, che condizionano l’espressione della malattia nel soggetto predisposto. Negli ultimi 20 anni però si è assistito ad un sorprendente aumento dell’incidenza e della severità delle malattie atopiche nei paesi ad alto tenore socio-economico, difficilmente spiegabile sulla base della genetica e dei sopramenzionati fattori ambientali. Uno studio condotto dopo l’unificazione tedesca ha paragonato la prevalenza di alcune manifestazioni allergiche 59 4. Le allergie alimentari tra bambini in età scolare della ex-Germania Est (Lipsia) e della Germania Ovest (Monaco). L’incidenza di atopia era lievemente minore nei bambini di Lipsia, nonostante questi fossero esposti a livelli di inquinamento atmosferico sensibilmente maggiori 20. Da qui nasceva l’idea che esistesse qualche elemento dello “stile di vita occidentale” capace di influenzare lo sviluppo di atopia in modo più determinante rispetto all’inquinamento ambientale, come ad esempio un incremento nell’esposizione all’acaro della polvere in ambienti domestici più riscaldati. L’idea è sostenuta anche da altri lavori che hanno riscontrato un aumento dell’incidenza di atopia in seguito alla migrazione in paesi più ricchi di soggetti provenienti da un paese con basso standard socioeconomico 21,22. Non è chiaro però quale elemento della “occidentalizzazione” sia il responsabile di questo fenomeno. Alla fine degli anni ‘80 è stato suggerito che quest’andamento potesse dipendere dalle migliorate condizioni igieniche con disimpegno del sistema immune sul fronte delle infezioni e suo riversamento su una risposta allergica contro allergeni. Infatti, alcune evidenze suggerivano che le infezioni acquisite durante l’infanzia potessero prevenire lo sviluppo della febbre da fieno 23. Studi successivi hanno riscontrato una relazione variabile tra specifiche infezioni contratte durante l’infanzia e lo sviluppo di atopia 24-26. A conferma dell’ipotesi “infettiva” si 60 4. Le allergie alimentari poteva leggere il dato che nelle famiglie più numerose l’atopia è meno frequente ed in particolare lo è di meno nei fratelli successivi, verosimilmente perché esposti precocemente a infezioni trasmesse dai fratelli maggiori 27. Nello stesso periodo apparve evidente da studi di immunologia che la risposta contro le infezioni è mediata da meccanismi diversi ed antagonisti rispetto alla risposta allergica. I linfociti Thelper che organizzano la risposta immune nei due casi sono schematicamente distinguibili in base al profilo di citochine prodotte in Th1 (risposta alle infezioni) e Th2 (allergia). In base a questo presupposto teorico è possibile leggere la relazione inversa tra incidenza delle malattie allergiche e miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie, ammettendo che la diminuita esposizione a malattie infettive alteri l’equilibrio delle citochine nell’organismo, con una maggior disponibilità a fare risposte di tipo Th2 e quindi a sviluppare allergia. In realtà dal punto di vista immunologico le cose non sembrano essere così semplici poiché le scelte che l’organismo può compiere di fronte ad una molecola estranea non prevedono solo la possibilità esclusiva di una risposta Th1 o Th2, ma anche l’opportunità di imparare a tollerare del tutto la nuova molecola con una modalità di risposta diversa o non rispondendovi affatto. 61 4. Le allergie alimentari Di fatto i dati riguardanti la relazione tra infezioni ed atopia sono ancora controversi. La positività ai prick test per una batteria di allergeni inalanti è risultata dimezzata in adolescenti che avevano avuto il morbillo in età infantile rispetto a quelli che erano stati vaccinati e non avevano contratto la malattia 25. In questo studio, condotto in Guinea Bissau, un potenziale fattore confondente potrebbe essere costituito da un elevato livello di infestazione parassitaria. Infatti la risposta allergica utilizza gli stessi meccanismi che l’evoluzione ha selezionato per combattere i parassiti ed è stata osservata una relazione inversa tra infestazioni parassitarie ed atopia, tanto da suggerire che quest’ultima si possa sviluppare solo laddove il sistema eosinofili-IgE resta privo del suo obiettivo naturale. Poiché il micobatterio della tubercolosi (MBT) è un potente induttore di risposta tipo Th1, si è pensato che la diminuzione dell’incidenza della tubercolosi potesse essere il fattore infettivologico responsabile dell’aumento dell’atopia. Un recente studio anglo-nipponico ha valutato retrospettivamente la prevalenza di sintomi e di segni ematochimici di atopia in soggetti che erano stati vaccinati per la tubercolosi con un protocollo che prevedeva la ripetizione della dose nel caso che a controlli successivi non fosse mantenuta la positività alla cutireazione tubercolinica 28 . Nei soggetti che rispondevano meglio al vaccino si registrava una 62 4. Le allergie alimentari minor prevalenza di segni clinici e laboratoristici di atopia. Una possibile interpretazione di questo dato è che i responder siano i meno predisposti a sviluppare atopia non per effetto del vaccino ma per caratteristiche geneticamente determinate del proprio sistema immune. E’ difficile tuttavia utilizzare lo stato di risposta al MBT come indicatore di una condizione genetica di responsività immune, poiché che nell’arco di vent’anni la reattività tubercolinica della popolazione giapponese diminuì dal 95% al 58%. Gli autori suggeriscono che in realtà le risposte più durature al vaccino siano mantenute dalla circolazione di MBT nella popolazione e che sia questo il vero fattore protettivo nei confronti dell’atopia. Un altro dato interessante che emerge da questo lavoro è l’aumento di incidenza di atopia in soggetti che si sono negativizzati alla tubercolina. Un altro lavoro svolto in Svezia, tuttavia, non ha riscontrato alcun effetto prottetivo della vaccinazione precoce con BCG sullo sviluppo di allergie in soggetti con familiarità per atopia 29 . D’altra parte è noto che il BCG è dotato di un’efficacia estremamenrte più scarsa rispetto all’esposizione naturale all’MBT, che in Svezia è pressocché assente. Uno studio italiano su allievi militari ha dimostrato una relazione inversa tra la prevalenza di una pregressa epatite A e la presenza di asma e rinite. La stessa correlazione era evidente con i parametri di laboratorio (positività di una 63 4. Le allergie alimentari batteria di prick test per inalanti, livelli sierici di IgE specifiche contro i comuni allergeni inalanti). Inoltre veniva confermata in questo lavoro una relazione inversa tra atopia e numero di fratelli. Non è chiaro però il ruolo della pregressa infezione da epatite A, che potrebbe essere semplicemente la spia di condizioni igienico-ambientali, o di abitudini alimentari diverse 26 . Se le infezioni hanno un ruolo nell’atopia è giusto pensare che questo sia giocato anche dalle vaccinazioni. Tradizionalmente però, le vaccinazioni sono state mirate a ottenere prevalentemente una risposta di tipo anticorpale specifica (come ad esempio quella bloccante le tossine tetanica e difterica) che non riproduce quella secondaria all’infezione naturale. Di fatto una differenza nell’attivazione di linfociti Th1 e Th2 è stata rilevata di recente con l’uso di diversi vaccini (per esempio si è evidenziato che il vaccino antipertosse acellulare dà una risposta sia Th1 che Th2, diversamente dal vaccino cellulare che induce solo una risposta Th1) 30. In molti casi la risposta anticorpale al vaccino viene potenziata per mezzo di adiuvanti, il più usato dei quali è senza dubbio l’idrossido di alluminio. L’aggiunta di idrossido di alluminio a un vaccino antipertossico cellulare condiziona non solo una maggior risposta di tipo IgG, ma anche IgE 31. 64 4. Le allergie alimentari In conclusione i dati epidemiologici permettono di sostenere che lo stile di vita occidentale si associa a una maggiore incidenza di atopia, ma è tuttora incerto quali aspetti dell’occidentalizzazione siano responsabili del fenomeno in questione. Le evidenze a favore di un ruolo delle infezioni, sebbene teoricamente sostenute dall’ipotesi della polarizzazione immunologica tra Th1 e Th2, necessitano di ulteriori studi che sappiano discriminare quali infezioni abbiano un ruolo maggiore ed in che epoca della vita. In realtà il problema è ulteriormente confuso dalla eccessiva semplificazione che si fa parlando di una polarizzazione tra Th1 e Th2, trascurando altre modalità di risposta che conducano ad una tolleranza vera e propria e non al semplice shift della risposta. E’ verosimile che anche questo processo sia influenzato da fattori igienico-ambientali, in particolare per quanto riguarda la colonizzazione delle mucose da parte di diversi microrganismi saprofiti e quindi le abitudini alimentari. Studi in questo senso potrebbero condurre a nuovi tipi di immunoterapia dell’atopia. 65 5. La malattia celiaca 5. La malattia celiaca La malattia celiaca viene descritta per la prima volta come un’entità nosologica definita verso la fine dell’800 da Samuel Gee, a Londra 32. Gee indicò la malattia con il nome di “malattia celiaca”, nome già utilizzato dal medico greco Aretaeus di Cappadocia nel secondo secolo a.C. per indicare una malattia caratterizzata da disturbi intestinali (koiliakos, in greco) con diarrea untuosa, pallore e calo ponderale. E’ da notare che questo medico operava proprio nell’Est della Turchia, in prossimità delle regioni del Medioriente dove si erano maggiormente sviluppati la coltivazione ed il consumo di frumento. Forse, la descrizione di Aretaeus di Cappadocia ci racconta di uno dei primi incontri tra l’uomo e questo nuovo alimento, dopo più di un milione di anni di evoluzione in sua assenza. Dopo questa descrizione, non si è parlato più di malattia celiaca per duemila anni: è possibile che una certa selezione negativa si sia sviluppata dopo i primi contatti e che la malattia sia divenuta quindi più rara e meno evidente. Successivamente, si è tornati a parlare di malattia celiaca nel XIX secolo, forse in concomitanza con un sensibile aumento di concentrazione di glutine nel frumento. Infatti, l’agricoltura, dapprima con la selezione di specie più vantaggiose (ad esempio quelle in cui i semi rimanevano più a lungo sulla spiga e consentivano quindi una mietitura più proficua) e 66 5. La malattia celiaca successivamente favorendo gli incroci tra piante con determinate caratteristiche (ad esempio la capacità di lievitazione della farina, in gran parte dipendente dalla sua collosità, a sua volta determinata dal contenuto in glutine) ha gradualmente portato a varietà di frumento molto più ricche in glutine (dal 2 al 30% del contenuto proteico del cereale). Era della nascita della malattia celiaca. Samuel Gee descrisse la malattia come una “indigestione cronica” che si può verificare in persone di qualsiasi età, ma che interessa specialmente i bambini tra 1 e 5 anni di età. L’aspetto caratteristico riguarda le feci, che appaiono in grandi quantità, sformate ma non liquide, con aspetto chiaro, consistenza simile a lievito e schiumosa (a suggerire la presenza di fenomeni fermentativi), particolarmente maleodoranti (suggerendo fenomeni putrefattivi). Il paziente appariva cachettico, di debole muscolatura, pallido e gonfio. La malattia spesso conduceva a decesso e, anche in caso di guarigione, tendeva a ricadere. Ciò che ha reso più innovativa la descrizione di Gee, fu la sua conclusione, secondo cui l’unico trattamento possibile doveva consistere nella dieta. Tuttavia, le sue osservazioni riguardo a un maggior effetto lesivo di riso 67 5. La malattia celiaca e mais rispetto a farina di frumento si sarebbero poi rivelate erronee. Il fatto che la malattia possa essere diventata più frequente che nei secoli precedenti non è induce inizialmente a ricercare una correlazione con specifici cambiamenti ambientali. L’identificazione dell’agente scatenante il morbo celiaco richiese circa mezzo secolo. Per quanto la comparsa della malattia dopo lo svezzamento potesse suggerire la responsabilità delle farine, dapprima questa venne attribuita alla loro composizione in amidi. Ancora nel 1921 la malattia veniva connotata come una intolleranza ai carboidrati, mentre i grassi erano tollerati molto meglio. Nel 1949 Sydney Haas proponeva una dieta a base di banane, e altri frutti, alimenti particolarmente graditi ai bambini celiaci. La buona capacità di tollerare questi alimenti permise di “riabilitare” i carboidrati. Contemporaneamente, in Olanda, la transitoria sostituzione delle farine di frumento e segale con quelle di riso e patate, più facilmente disponibili durante la carestia successiva alla guerra, permise di richiamare l’attenzione sull’intolleranza a specifiche farine. Fu solo nel 1952 che Anderson dimostrò la responsabilità del glutine di frumento e non dei carboidrati, nella intolleranza del celiaco 33. Nell’anno successivo, l’esame del contenuto di grassi nelle feci venne utilizzato per valutare l’effetto di diverse farine nell’alimentazione del soggetto 68 5. La malattia celiaca celiaco, permettendo di confermare il ruolo del frumento, dell’orzo, della segale e dell’avena 34. La storia della celiachia, tuttavia, non finisce con l’identificazione del glutine come sua causa scatenante. L’espressione stessa della malattia sembra assumere diverse facce nel tempo, ogni volta associate a nuove scoperte e nuove conoscenze. Non è perciò solo un esercizio teorico quello di individuare nella storia di questa malattia delle vere e proprie ere storiche che segnano in parallelismo i mutamenti del rapporto tra uomo e ambiente, ma anche tra conoscenze mediche e malattie (tab. 5.1). 69 5. La malattia celiaca Era Preceliaca Nascita della m. celiaca E. del glutine Anni 1888 1888 1952 1952 1965 E. degli 1965 AGA - E. degli 1973 EMA - E. della 1997 tTG o era moleco alre E. “omica” Clinica Diagnosi Biologia Non conosciuta. Minore assunzione di glutine nella dieta umana. Prevalenza di cause infettive. Sindrome Clinica Prime ricerche intestinale (fattore chimiche (celiaca) tempo) Sindrome Frazioni intestinale. tossiche del Crisi celiaca. glutine Forme atipiche: AGA + Inizio studi anemia 3 Biopsie. immunologici. HLA “infezione da glutine” Malattia EMA + Primi manifesta / 3 biospie screening AGA silente / latente poi EMA. Autoimmunità. Ruolo dell’HLA. Linfociti CD3+ intraepiteliali. L’ampio spettro tTG + Screening su del rischio glutine 1 biopsia goccia di - associato sangue. Anticorpi anti peptidi deaminati di gliadina. 2011 - tTG, altro? 70 Anti-tTG nella mucosa. Librerie fagiche. 5. La malattia celiaca Tab. 5.1 L’era del glutine. Possiamo far iniziare verso metà del secolo scorso l’Era del glutine. L’aspetto clinico della malattia è sempre incentrato sulla ”indigestione cronica” e sulla compromissione della funzione intestinale. In alcuni casi può svilupparsi una forma grave, la cosiddetta “crisi celiaca”, condizione caratterizzata Fig. 5.1 Alcuni esempi di cibi privi di glutine. da un circolo vizioso di amplificazione del danno in seguito a infezioni gastroenteriche, e che poteva condurre a shock e morte. La terapia della malattia si base su una dieta permanente con esclusione dei cibi contenti glutine: frumento, orzo, segale ed in un primo tempo avena. Il celiaco può invece assumere liberamente altri cereali (riso, mais) e tuberi (patate), carni, pesci, frutta, verdure, legumi (vedi fig. 5.1, da www.farmacialoreto.it). Questi alimenti alternativi non hanno 71 5. La malattia celiaca tuttavia permesso per molti anni di produrre validi sostituti della pasta e del pane, rendendo alquanto difficile l’esecuzione della dieta, soprattutto nelle regioni a dieta mediterranea. Appartiene a questo periodo la descrizione del tipico danno della mucosa intestinale dipendente dall’assunzione di glutine nel celiaco. Campioni bioptici vengono ottenuti dapprima in seguito ad interventi chirurgici e successivamente per mezzo di una capsula automatica collegata ad un sondino e provvista di un meccanismo di prelievo per suzione (capsula di CrosbyKugler) 35. Questi esami permettono di evidenziare l’appiattimento dei villi intestinali e l’infiltrazione di linfociti nella mucosa (Fig. 5.2). Questo tipo di lesione conduce ad una notevole perdita della superficie di assorbimento degli alimenti: si dice infatti, a titolo d’esempio, che la superficie che occuperebbe un tutte le sue villosità, campo da tennis. Per una disponibilità di intestino umano, se venissero svolte sarebbe all’incirca pari a quella di un un organismo evolutosi in presenza di cibo molto variabile, la capacità di assorbire quanto più possibile le sostanze alimentari ingerite è infatti un imperativo. Alla presenza di un apporto dietetico limitato, però, la perdita di superficie di assorbimento comporta un grave difetto di nutrizione. Diversamente, con un’alimentazione più ricca del necessario, com’è quella disponibile oggi in molti paesi, la riduzione della superficie di 72 5. La malattia celiaca assorbimento può essere in parte compensata dalla quantità del cibo. Questo, forse, è uno dei motivi che condurrà nelle ere successive ad altrettanti cambiamenti nell’espressione della malattia celiaca. La disponibilità di tecniche semplificate per il prelievo e l’analisi istologica della mucosa duodenale permette di confermare la diagnosi di celiachia dimostrando le caratteristiche alterazioni al momento della diagnosi e la loro guarigione in una seconda biopsia eseguita dopo un congruo periodo di dieta di esclusione. Non solo, l’esecuzione di una terza biopsia dopo un tentativo di reintroduzione del glutine poteva evidenziare la ricomparsa delle alterazioni tipiche, permettendo al tempo stesso di rinforzare la certezza della diagnosi e anche la convinzione che l’intolleranza costituisse in questi soggetti una condizione permanente, da trattare con dieta senza glutine per tutta la vita. Villo intestinale normale Villi tozzi e appiattiti nella mucosa Fig 5.2. Aspetto morfologico della mucosa nel soggetto normale e nel celiaco. 73 5. La malattia celiaca di un soggetto celiaco L’era degli AGA (Patogenesi: la celiachia come malattia dell’immunità; AGA nella diagnosi: non solo sintomi intestinali). A seguito dell’identificazione della responsabilità del glutine nella patogenesi della celiachia, anticorpi diretti contro questa proteina vennero identificati nel siero dei soggetti celiaci (AGA = anti glutine). Di conseguenza, anche l’idea della celiachia come una “indigestione cronica” venne progressivamente sostituita dall’interpretazione della malattia come “infezione cronica” da glutine. Infatti, l‘assunzione di glutine nel soggetto celiaco comportava una risposta immunitaria simile a quella messa in atto contro agenti infettivi, con la differenza che in questo caso l’ “infezione” non può essere debellata, dato che l’agente che ne è alla base viene continuamente assunto con gli alimenti. E’ chiaro che non si tratta di infezione nel senso stretto del termine, tuttavia l’immagine ben sintetizza la natura della risposta immune patologica del celiaco. Qui può essere utile ricordare quanto abbiamo già detto per gli studi di von Pirquet sull’allergia per comprendere come il sistema immunitario, più che l’agente scatenante in sé, potesse essere il vero responsabile della malattia. Non deve quindi stupire se, negli stessi anni, si scopre che la maggior componente genetica di rischio di celiachia risiede in determinati 74 5. La malattia celiaca polimorfismi degli antigeni di istocompatibilità, che possono condizionare il modo in cui il soggetto riconosce la proteina estranea. Se da un lato la presenza degli AGA aveva indotto a interpretare la patogenesi della celiachia in chiave immunologica, dall’altro la possibilità di dosare questi anticorpi aveva fornito un nuovo strumento per la diagnosi della malattia. L’era degli AGA è quindi anche l’era in cui si consolida il ruolo della sierologia nella diagnosi della malattia: ciò permetterà di espandere le conoscenze cliniche sulla malattia, includendo casi con sintomi intestinali più sfumati e con altre patologie associate, come ad esempio l’anemia da carenza di ferro e la bassa statura isolata. Non solo, grazie alla diagnosi sierologica, ci si è accorti che la malattia era in realtà molto più frequente di quanto si pensasse inizialmente e che potesse presentarsi in alcuni casi addirittura senza alcun sintomo rilevante. Anche in questi casi, per i quali venne coniata l’espressione di “celiachia silente”, la biopsia intestinale mostrava tipiche alterazioni che recedevano successivamente a dieta senza glutine. In questo periodo viene anche compresa la relazione tra malattia celiaca e dermatite erpetiforme. Quest’ultima è una manifestazione cutanea di celiachia, che può verificarsi anche in assenza di un’enteropatia manifesta 36-38 o in presenza di una celiachia latente. 75 5. La malattia celiaca La coscienza del problema aumenta progressivamente, fino alla costituzione della Celiac Society nel 1968 (11 anni più tardi nascerà l’Associazione Italiana Celiachia). L’era degli EMA (La celiachia come modello unico di disregolazione autoimmune). L’idea di un’associazione tra malattia celiaca e reazioni autoimmuni nasce dall’osservazione della relazione tra questa malattia e il diabete di tipo 1. Alla fine degli anni ’60 si erano messe a punto delle metodiche di immunofluorescenza per identificare anticorpi correlati ad una particolare nefrite sperimentale, gli anticorpi anti-reticolina (visualizzabili con una colorazione su sezioni di rene di ratto). Nel 1971 vengono identificati, nel siero di soggetti celiaci, anticorpi antireticolina, ai quali non si dà però subito un significato definito 39 . Due anni più tardi, viene dimostrato che questi anticorpi sono presenti solo quando il soggetto mangia liberamente, mentre spariscono con la dieta senza glutine 40. L’osservazione viene interpretata all’inizio come conseguenza di una crossreazione tra reticolina e glutine, ipotesi che tuttavia non verrà confermata. In ogni caso, si comincia a studiare la sensibilità e specificità di questo nuovo test come possibile ausilio per la diagnosi di malattia celiaca. L’introduzione successiva 76 5. La malattia celiaca dell’esofago di scimmia (e più recentemente del cordone ombelicale umano) come substrato ha permesso di migliorare molto la qualità del test 41 che si mostrerà addirittura più specifico della determinazione degli AGA. La reazione di fluorescenza avveniva in questi casi verso il tessuto connettivo di sostegno del muscolo liscio e gli anticorpi venivano perciò denominati anti-endomisio o EMA o AEA (Fig. 5.3). Anche se non si sapeva spiegare la loro stretta correlazione con l’assunzione di glutine e con la celiachia, gli EMA diventarono sempre più un test fondamentale per la diagnosi della malattia. Questo fu tanto vero, che la presenza di EMA positivi permetterà in seguito di identificare casi di “celiachia latente”, in assenza di un chiaro danno della mucosa intestinale all’indagine bioptica 42. L’analisi delle biopsie con anticorpi anti CD3 marcati permette comunque di identificare anche in questi casi un infiltrato infiammatorio nell’epitelio intestinale con aumento di un particolar gruppo di linfociti, provvisti di recettore gamma/delta 43-45. Fig. 5.3 Disegno di fluorescenza antiendomisio. 77 5. La malattia celiaca Schematicamente, l’era degli EMA è caratterizzata sul piano clinico dalla definizione dell’associazione tra celiachia e autoimmunità. Questa associazione viene dapprima attribuita alla condivisione di un comune substrato genetico di suscettibilità dato da specifici polimorfismi del sistema HLA. Successivamente, però, alcune osservazioni suggeriranno una relazione più complessa. La specifica associazione degli EMA con la malattia celiaca e la loro dipendenza dall’assunzione di glutine suggeriscono che questa proteina sia in grado di scatenare fenomeni autoimmuni in soggetti predisposti. Inoltre il fatto che gli EMA potessero essere presenti in assenza di evidenti lesioni intestinali e di altre manifestazioni cliniche rinforzava l’importanza di reazioni autoimmuni nella malattia. Uno studio pionieristico italiano (vedi Ventura et al., scheda di seguito) ha messo in luce la relazione tra rischio di autoimmunità e tempo di esposizione al glutine nei soggetti celiaci, suggerendo l’idea di un ruolo preventivo della dieta sullo sviluppo delle malattie autoimmuni associate. Se questo è vero, l’azione preventiva può essere influenzata dalla capacità di individuare precocemente i soggetti celiaci. A questo proposito, è bene osservare che il rischio di sviluppare malattie glutine-correlate potrebbe essere in buona parte indipendente dall’espressione clinica della malattia. Anzi, il 78 5. La malattia celiaca lavoro coordinato da Ventura suggerisce che proprio i soggetti con sintomi clinici meno evidenti possano avere un rischio maggiore di sviluppare malattie, in quanto la loro celiachia rimane più a lungo non diagnosticata. Queste considerazioni sono particolarmente importanti, ove si consideri che per molti anni si è consigliato di ritardare l’introduzione del glutine nell’alimentazione dei lattanti con la speranza di prevenire lo sviluppo della malattia celiaca: la posticipazione del glutine dopo l’anno di età, infatti, si associa a sintomi più sfumati e tollerabili. Tuttavia, chi ha assunto il glutine nei primi mesi di vita non ha solo una reazione più grave ed evidente, con i tipici sintomi gastrointestinali, ma ha anche una maggior probabilità di ricevere una diagnosi tempestiva e un trattamento preventivo efficace. Viceversa, chi assume il glutine più tardivamente ha maggior probabilità di essere identificato come celiaco in età più avanzata, sulla base di sintomi più sfumati e meno tipici. Questo è quanto è accaduto in due città non molto lontane l’una dall’altra, Gotheborg in Svezia e Tampere in Finlandia (vedi Ascher et al, scheda), a testimoniare ancora l’importante ruolo dell’ambiente nel condizionare i tempi e i modi con cui l’intolleranza al glutine può esprimersi in una popolazione. Le differenze ambientali potevano essere responsabili anche della convinzione che la celiachia fosse molto più rara negli 79 5. La malattia celiaca stati Uniti d’America che nell’Europa. Anche in questo caso, l’era degli EMA ha permesso di effettuare screening di popolazione in Europa come negli Stati Uniti, che hanno mostrato una prevalenza simile della malattia nei diversi paesi 46. Dal punto di vista sociale, gli screening danno maggiore visibilità al problema della celiachia. Vengono perciò costituite associazioni a tutela dei pazienti e dei loro diritti e, più gradualmente, si giunge ad una Fig. 5.4 Logo utilizzato coscienza sociale della celiachia: viene per certificare prodotti elaborato un logo per la certificazione privi di glutine. degli alimenti senza glutine (Fig. 5.4); vengono garantiti pasti senza glutine nelle mense (e anche in alcuni ristoranti); vengono prodotti prontuari e ricettari per l’alimentazione senza glutine. 80 5. La malattia celiaca Ventura A, Magazzù G, Greco L. Duration of exposure to gluten and risk for autoimmune disorders in patients with celiac disease. SIGEP Study Group for Autoimmune Disorders in Celiac Disease. Gastroenterology. 1999 Aug;117(2):297-303 47 Sono stati studiati 909 pazienti con malattia celiaca consecutivamente riferiti in un periodo di 6 mesi presso i 10 centri partecipanti al progetto. L’età al momento dello studio era compresa tra 10 e 25 anni. Sono stati inoltre selezionati 1268 controlli sani tra studenti universitari (età media 21 anni). Infine, sono stati analizzati 163 pazienti con malattia di Crohn come controllo malato. I celiaci sono stati suddivisi in tre gruppi sulla base dell’età in cui avevano ricevuto la diagnosi. Dato che tutti i pazienti hanno effettuato una dieta senza glutine dopo la diagnosi, e dato che l’età attuale era simile per tutto il gruppo, la precocità della diagnosi correlava con un’esposizione più breve al glutine, mentre i soggetti con diagnosi più tardiva erano anche quelli più a lungo esposti alla dieta contenente la proteina. Il grafico mostra che i soggetti esposti più a lungo al glutine hanno un maggior rischio di sviluppare malattie autoimmuni. Questi dati suggeriscono che una diagnosi precoce ed una dieta senza glutine possano prevenire almeno in parte il rischio di sviluppare malattie autoimmuni in soggetti celiaci. 81 5. La malattia celiaca H Ascher, K Holm, B Kristiansson, M Maki Different features of coeliac disease in two neighbouring countries. Archives of Disease in Childhood 1993; 69: 375-380 48 E' probabile che le modalità di introduzione del glutine nella dieta (precocità, quantità) influenzino il tipo di presentazione clinica e, di conseguenza, la riconoscibilità della malattia. Di fatto, in Svezia (Gothenburg), dove il consumo di glutine da parte dei lattanti inizia presto ed è discretamente elevato già dal quarto-quinto mese di vita, l'incidenza della malattia celiaca è molto elevata e quasi tutti i casi vengono diagnosticati per la comparsa del classico quadro gastroenterologico. In Finlandia (Tampere), dove la somministrazione di glutine ai lattanti è più cauta, la prevalenza della malattia celiaca diagnosticata su base clinica è significativamente inferiore, l'età media alla diagnosi è significativamente più avanzata e prevalgono i casi con presentazione atipica. 82 5. La malattia celiaca Gli screening eseguiti mostrano però che la prevalenza reale della malattia è la stessa nei due paesi 49,50. E' ragionevole quindi pensare che la precoce e relativamente elevata assunzione di glutine con la dieta dai primi mesi favorisca un modo più clamoroso e classico, e quindi riconoscibile, di presentazione clinica della malattia celiaca nei soggetti predisposti. Il ritardo o la cautela nell'introduzione dell'alimento potrebbero essere causa dell'aumento di forme paucisintomatiche o atipiche. Non va dimenticato tuttavia che larga parte della morbidità associata alla celiachia (osteopenia, anemia sideropenica, patologia neurologica, manifestazioni autoimmuni, linfoma etc.) non è necessariamente correlata al grado dell'enteropatia ma dipende piuttosto dal protrarsi dell'assunzione di glutine. Sembra quindi ragionevole che la miglior strategia preventiva sia quella di non ritardare l'introduzione del glutine nella dieta e di rendere, così, precocemente manifesta e riconoscibile la malattia nella sua forma più classica (enteropatica). 83 5. La malattia celiaca L’era degli EMA si chiude con un immagine che può ben sintetizzare molti dei concetti fin qui l’iceberg espressi: della celiachia 51 (Fig 5.5). Questi possono essere riassunti nei seguenti punti. Fig. 5.5 L’iceberg della celiachia • La variabilità dell’espression e clinica della malattia • Il ruolo degli anticorpi nella diagnosi e negli screening e le relative conseguenze sulla definizione di quadri clinicamente “silenti” o istopatologicamente “latenti” • L’idea di una condizione ancora vaga e da definire di intolleranza al glutine geneticamente determinata, correlata alla presenza degli HLA tipici. Samuel Gee fu il primo a descrivere la punta emersa di questo iceberg, ma fu proprio grazie agli anticorpi che si riuscì a svelare gradualmente la complessità della parte 84 5. La malattia celiaca immersa. L’idea più importante che si celava sotto il pelo dell’acqua era quella che una quota più o meno ampia della popolazione potesse essere esposta ad un rischio di sviluppare un’ampia varietà di patologie correlate all’assunzione del glutine. L’iceberg conteneva in sé il germe di una visione continua della celiachia con infiniti livelli intermedi, dalla malattia ad espressione intestinale conclamata fino a casi in cui solo sofisticati esami immunologici avrebbero provato la presenza di un’alterata sensibilità al glutine (vedi era molecolare). 85 5. La malattia celiaca L’era della transglutaminasi tessutale (il bersaglio molecolare degli anticorpi anti-endomisio). Negli anni novanta molti ricercatori erano convinti che l’individuazione dell’antigene endomisiale contro cui era rivolta la risposta autoimmune del celiaco avrebbe permesso di svelare gli aspetti ancora incogniti della patogenesi della malattia. Molte cose in realtà erano già state dimostrate: si conosceva la sequenza dei peptidi di gliadina (frazione proteica alcol-solubile del glutine) con maggior affinità per l’HLA DQ2 o DQ8; si erano isolati da biopsie intestinali cloni di linfociti CD4 in grado di riconoscere questi peptidi su cellule presentanti l’antigene provviste di HLA DQ2 e DQ8 52; si era dimostrato che questi linfociti producono grandi quantità di interferone gamma, che sono almeno in parte responsabili del danno mucosale (l’effetto viene bloccato da anticorpi antiinterferon gamma) 53. Insomma, si sapeva che per essere celiaci era necessario avere un determinato HLA di rischio e si capivano anche le basi immunologiche e molecolari di questa predisposizione. Tuttavia solo una parte dei soggetti con questo profilo genetico sviluppava la celiachia. Inoltre, la malattia si associava alla presenza di anticorpi anti-endomisio ancora più specificamente che agli anticorpi anti-glutine e sembrava ragionevole ritenere che questa fosse la 86 5. La malattia celiaca caratteristica che meglio differenziava quell’un per cento di celiaci da tutti gli altri soggetti con DQ2 e DQ8. Di conseguenza, era logico prevedere che l’identificazione del vero bersaglio molecolare di questi anticorpi avrebbe permesso di spiegare anche che cosa differenzia il celiaco dagli altri soggetti con gli stessi HLA o, in altre parole, che cosa fa si che alcuni soggetti con quel determinato HLA riescano a tollerare il glutine ed altri no. Molti tentativi di isolare l’antigene bersaglio degli anticorpi anti-endomisio erano basati su western-blot o cromatografia d’affinità tra siero di soggetti celiaci e estratti proteici ottenuti da tessuti contenenti endomisio (esofago di scimmia, cordone ombelicale umano). Solo nel 1997, un gruppo tedesco riuscì a identificare l’antigene per mezzo di una classica metodica biochimica: l’immunoprecipitazione 54. In pratica, si trattava di trovare le condizioni ideali perché l’incontro tra il Fig. 5.6 Diagramma di una reazione di immunoprecipitazione 87 siero e l’antigene in fase solubile portasse alla formazione di complessi macromolecolari insolubili che potevano essere poi 5. La malattia celiaca separati per mezzo di ultracentrifugazione. Quando sufficienti quantità di anticorpo sono mischiate con un antigene solubile macromolecolare (contenente quindi più siti di legame), si possono formare aggregati visibili di antigene cross-legato con anticorpo (Fig. 5.6 da: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/bookshelf/br .fcgi?book=imm&part=A2395&rendertype=figure&id=A2414). Sfruttando questo principio, Dieterich e collaboratori identificarono il bersaglio della risposta autoimmune tipico della celiachia in un enzima denominato transglutaminasi tessutale (tTG o TG2). La transglutaminasi tessutale è un enzima di grande importanza in almeno due distinti processi biologici: la stabilizzazione dei tessuti connettivi e l’apoptosi cellulare. I fibroblasti rilasciano l’enzima nella matrice extracellulare dove questo resta adeso a proteine di matrice come la fibronectina. Nelle fasi di costruzione o di riparazione del tessuto connettivo, l’enzima stabilisce legami covalenti tra gruppi glutamminici e lisine di proteine adiacenti, in particolare di fibre collagene, in modo da “cucire” la trama e l’ordito del tessuto (fig. 5.7). Fig. 5.7 Legame tra lisina e glutammina catalizzato dalla transglutaminasi tessutale. 88 5. La malattia celiaca All’nterno delle cellule, invece, l’enzima viene indotto e attivato durante l’apoptosi cellulare. In questo caso, l’azione di cucitura permette di condensare tutto il contenuto macromolecolare della cellula in aggregati compatti e insolubili (corpi apoptotici) che possono essere facilmente rimossi dal sistema fagocitario senza che avvenga la dispersione di antigeni immunogeni nel sistema. Lo svolgimento corretto di questo processo fa sì che la morte cellulare sia accompagnata solo da minimi fatti infiammatori e senza lo sviluppo di reazioni immuni verso antigeni “criptici“ (cioè quelli normalmente nascosti al sistema immune). Ogni tessuto danneggiato presenta di conseguenza un’aumentata attività della transglutaminasi tessutale, e questo vale ovviamente anche per la mucosa del soggetto celiaco. Non solo, la mucosa danneggiata del celiaco presenta anche un’alterata permeabilità epiteliale alle macromolecole, e può permettere quindi il passaggio di grandi quantità di peptidi di gliadina, che vengono a contatto con il tessuto danneggiato e con il sistema immune. Per capire come tutto questo possa condurre infine alla produzione di anticorpi antitransglutaminasi, può essere opportuno considerare un fenomeno denominato “antigen spreading”, già noto in altre malattie come il Lupus eritematoso Sistemico. Questo fenomeno consiste nella produzione di anticorpi con diverse specificità in seguito al riconoscimento di un unico 89 5. La malattia celiaca antigene da parte dei linfociti Thelper. Infatti, è noto che i linfociti T riconoscono l’antigene sotto forma di brevi peptidi presentati in un’apposita tasca delle molecole HLA di classe II. E’ noto anche che i linfociti B possono funzionare da cellule presentanti l’antigene: a differenza delle cellule dendritiche, che possono fagocitare qualsiasi antigene, i linfociti B presenteranno solo peptidi derivati da antigeni riconosciuti per mezzo dei loro anticorpi di superficie. Questo, tuttavia, non significa necessariamente che i linfociti B presentino ai linfociti T peptidi derivati dalla stessa proteina che riconoscono con i propri anticorpi. Infatti, gli anticorpi possono legare anche complessi formati da più molecole riunite con legami d’affinità o con legami covalenti: in questi casi l’anticorpo può riconoscere una data molecola, mentre ai linfociti T può essere presentato un peptide derivante da un’altra proteina presente nel complesso macromolecolare. Un esempio “storico” di questo meccanismo riguarda la produzione degli anticorpi anti-DNA nel Lupus Eritematoso Sistemico: è chiaro, in questo caso, che i linfociti B non possono presentare ai linfociti T frammenti di DNA ma solo peptidi che il linfocito B porta al suo interno perché complessati al DNA (cioè peptidi derivati da proteine istoniche). Una cosa simile sembrerebbe accadere nella malattia celiaca. In questo caso, gliadina e transglutaminasi formerebbero un 90 5. La malattia celiaca complesso macromolecolare che può essere riconosciuto sia da anticorpi anti-glutine (AGA) che da anticorpi antitransglutaminasi (TGA). Entrambi i linfociti B, produttori di AGA o TGA, potranno presentare ai linfociti T gli stessi peptidi derivati dalla gliadina. Dell’esistenza di questi linfociti T nella mucosa del celiaco abbiamo già parlato. Questo meccanismo renderebbe conto del fatto che sia la produzione di AGA che quella di TGA appaiono similmente dipendenti dall’assunzione di glutine (Fig. 5.8). Fig. 5.8 Possibile ruolo del glutine nella produzione di autoanticorpi antitransglutaminasi 91 5. La malattia celiaca Innanzitutto, se è vero che gliadina e transglutaminasi possono trovarsi in complessi macromolecolari, qual è il senso di questa interazione? Primo, la gliadina ha una struttura tale da essere un buon substrato per la transglutaminasi. L’azione della tTG sulla gliadina può essere varia: la gliadina può essere legata covalentemente ad altre proteine; la gliadina può essere deaminata su residui glutamminici. La prima possibilità, che può teoricamente creare gravi problemi per la formazione di neoantigeni, non è stata estesamente indagata. La seconda possibilità, invece, è stata verificata, ed anzi è stato dimostrato che i peptidi di gliadina così trattati dalla tTG aumentano la loro affinità per l’HLA DQ2 e la loro tossicità per il celiaco 55,56. Secondariamente, la risposta anticorpale contro i peptidi deaminati di gliadina (DGP)57 è stata utilizzata recentemente per mettere a punto nuovi test diagnostici, che presentano migliore sensibilità e specificità rispetto ai vecchi anticorpi anti-glutine (AGA) 58. Questo insieme di dati può permetterci di costruire un modello patogenetico della reazione immunopatologia tipica della mucosa del soggetto celiaco (Fig. 5.9). 92 5. La malattia celiaca Fig. 5.9 Un qualsiasi insulto della parete determina un aumento della permeabilità epiteliale con ingresso di peptidi tossici di gliadina e contemporaneamente un’attivazione tessutale di transglutaminasi. L’azione della tTG sulla gliadina aumenta la reattività di questa per l’HLA DQ2 e l’attivazione dei linfociti CD4 specifici, avviando un circolo vizioso, con mantenimento del danno tessutale, ulteriore ingresso di gliadina e ulteriore attivazione di tTG. Si riproduce così, ad un livello maggiore di conoscenza, il modello già visto in precedenza dell’infezione cronica da glutine. Questo modello può spiegare come mai i sintomi gastroenterici della celiachia possono essere slatentizzati e aggravati in seguito a infezioni. Tuttavia, ancora una volta, il modello non ci spiega la differenza tra il soggetto 93 5. La malattia celiaca geneticamente predisposto e il celiaco vero e proprio. Un ipotesi recente valorizza il ruolo di una sovra-produzione di IL-15 nella mucosa dei soggetti con malattia celiaca. Questa anomalia può essere scatenata da particolari infezioni intestinali e può a sua volta influenzare l’omeostasi intestinali, favorendo lo sviluppo di una risposta immune agli antigeni e ostacolando il fisiologico programma di tolleranza. Una volta rotta la tolleranza alla gliadina, il sistema potrebbe amplificarsi grazie alle particolari interazioni tra glutine transglutaminasi e HLA, fino ad auto mantenersi anche al di fuori di cause infettive59-62. Altri autori hanno a suggerito che un altro meccanismo in gioco nella patogenesi della celiachia potrebbe risiedere in una risposta attivatoria dell’immunità naturale in seguito al contatto con la gliadina, che potrebbe avere tra l’altro anche delle proprietà simili a quelle di alcuni pattern patogeni batterici e virali (PAMPs). Tuttavia, i dati disponibili non permettono ancora una chiara interpretazione in tal senso. L’era della tTG non ha avuto solo importanti ripercussioni sulle conoscenze patogenetiche, ma anche su quelle cliniche. La standardizzazione di test ELISA basati su transglutaminasi umana ricombinante ha permesso infatti un notevole miglioramento della diagnostica della celiachia, consentendo la realizzazione di nuovi e più sensibili screening di 94 5. La malattia celiaca popolazione. Uno di questi è stato condotto nelle scuole elementari di Trieste, per mezzo dell’analisi di poche gocce di sangue ottenuto per puntura di polpastrello 63. Questa iniziativa ha consentito di misurare la Fig 5.10 La tossicità del frumento contenuto in una pizza sull’epitelio del celiaco, in un disegno dei bambini delle scuole elementari prevalenza della celiachia al di sopra dell’ 1% e di contribuire ad una disseminazione nella società delle conoscenze sull’argomento (nella figura 5.10, un disegno dei bambini che hanno partecipato allo screening). La forza degli anticorpi anti-transglutaminasi ha consentito inoltre di poter confermare la diagnosi di celiachia con l’esecuzione di una sola biopsia senza necessità di ripetere l’indagine a dieta e dopo scatenamento. Anzi, in casi con sintomatologia riferibile a celiachia e anticorpi positivi, la negativizzazione di questi e la regressione della sintomatologia possono, secondo alcuni, essere sufficienti a confermare la diagnosi anche senza biopsia. 95 5. La malattia celiaca L’era delle “omiche”: indagando la base dell’iceberg e cercando nuove terapie. Al pari di quanto avviene per molti test diagnostici quantitativi, la definizione della celiachia sulla base della positività degli anticorpi anti-transglutaminasi rappresenta un’approssimazione matematico-statistica più che una certezza biologica. Infatti, i valori patologici di anticorpi sono definiti sulla base della media di una popolazione sana più due volte la deviazione standard della distribuzione. Il valore concettuale di quest’approssimazione può cambiare a seconda di come si voglia vedere la malattia celiaca: se si tratta di una malattia “tutto o niente”, il significato degli anticorpi anti tTG è quello di un’approssimazione probabilistica; se si tratta di una condizione continua, con diversi livelli di malattia, l’approssimazione riguarda la “quantità” di celiachia. Il modello dell’iceberg della celiachia suggerisce che quest’ultimo tipo di interpretazione possa descrivere meglio la realtà. Nella base immersa si nasconderebbero quindi diversi livelli di intolleranza al glutine, il cui significato deve essere ancora valutato. Per essere chiari, è bene dire che dal punto di vista clinico vale la pena, per ora, di accettare un compromesso, e di fermarsi a considerare come celiachia solo quella più facilmente identificabile sulla base dei sintomi clinici, dei livelli sierici di 96 5. La malattia celiaca anticorpi, delle lesioni bioptiche. Dal punto di vista della ricerca, invece, può essere interessante capire se, al di là di questi casi, esista uno spettro più ampio di intolleranza al glutine e se questo possa comportare o meno il rischio di sviluppare altre malattie associate. Per indagare quest’aspetto, sono stati proposti diversi approcci, i principali dei quali consistono nella ricerca diretta degli anticorpi anti-transglutaminasi nella mucosa intestinale con metodiche di immunofluorescenza e nella caratterizzazione degli anticorpi prodotti nella mucosa con la tecnologia delle libraries fagiche. Ulteriori dati sono attesi dall’applicazione di studi genomici e proteomici ad alta resa (high throughput). Partendo dal modello dell’iceberg della celiachia, è ragionevole domandarsi se possano esistere livelli “intermedi” di intolleranza al glutine, che sfuggano agli attuali criteri diagnostici della malattia. E’ possibile, infatti, definire un gruppo di soggetti con elevato rischio teorico di essere celiaci (parenti di celiaci o diabetici con HLA DQ2 e/o DQ8) che risultano negativi alle indagini sierologiche per celiaca e all’esame morfologico della biopsia Ebbene, in alcuni di questi soggetti è possibile anticorpi anti-transglutaminasi, deposti nella la malattia intestinale. identificare mucosa a contatto con il proprio bersaglio (vedi Koskinen et al, scheda). Inoltre, anche con la metodica delle librerie fagiche (vedi 97 5. La malattia celiaca Marzari et al, scheda) è stato possibile dimostrare che alcuni soggetti con queste caratteristiche producono nella mucosa anticorpi anti-transglutaminasi, indotti dall’esposizione al glutine. Quest’ultima tecnologia ha permesso inoltre di dimostrare che questi anticorpi sono prodotti proprio dai linfociti situati nella mucosa e non da linfociti del sangue periferico 64. Infine, sempre applicando questa metodica è stato possibile caratterizzare dalla mucosa di soggetti la produzione di altri autoanticorpi (ad esempio contro il pancreas o contro strutture del cervello), anch’essi con comportamento glutine-dipendente. Se questo è vero, sembra ragionevole pensare che una dieta senza glutine possa contribuire alla prevenzione del rischio di autoimmunità anche in questo gruppo, come già abbiamo visto per i soggetti con celiachia più tipica. La diagnosi di questi soggetti con “intolleranza intermedia”, quindi, potrebbe permettere di prevenire una quota supplementare di malattie autoimmuni indotte dal glutine. Va detto comunque, che è probabile che anche nei soggetti celiaci il glutine non sia l’unico fattore ambientale in causa nello scatenamento di reazioni autoimmuni. D’altra parte, è possibile che l’esposizione al glutine agisca amplificando il rischio che altri fattori ambientali provochino una risposta autoimmune. La spiegazione più semplice per questa ipotesi è che il particolare tipo di infiammazione indotta dal glutine 98 5. La malattia celiaca nella mucosa interferisca con il normale funzionamento dei meccanismi di tolleranza nella mucosa stessa: un antigene estraneo simile ad antigeni endogeni (mimetismo molecolare) potrebbe rischiare di indurre una risposta autoimmune piuttosto che una risposta di tolleranza. Un’altra spiegazione potrebbe risiedere più specificamente nei rapporti tra glutine, transglutaminasi tessutale e risposta autoimmune contro questo enzima. In realtà, non c’è alcuna dimostrazione consistente che la risposta antitransglutaminasi in sé abbia un ruolo preponderante nelle malattie autoimmuni associate alla celiachia, tanto che alcuni considerano tuttora questi anticorpi soprattutto come un epifenomeno della malattia, specifico e utilissimo per la diagnosi, ma forse non fondamentale nella patogenesi delle manifestazioni della malattia. Sicuramente non indispensabile allo sviluppo dell’enteropatia (che come abbiamo visto dipende soprattutto dalla produzione di Interferon gamma da parte di linfociti T CD4 specifici per il glutine). Tuttavia, esistono alcune condizioni autoimmuni associate alla celiachia dove il ruolo patogenetico di questi anticorpi è definitivamente dimostrato o altamente probabile. In primo luogo, la dermatite erpetiforme, manifestazione cutanea autoimmune che sembrerebbe dipendere dalla produzione di anticorpi contro la transglutaminasi epidermica (leggermente diversa rispetto a quella tessutale). E’ possibile anche che, al 99 5. La malattia celiaca pari degli anticorpi anti-transglutaminasi, altri autoanticorpi siano prodotti nella mucosa per un meccanismo di “antigen spreading” cioè in seguito al riconoscimento di diversi antigeni in complesso con peptidi di gliadina: come già discusso per gli anticorpi anti-transglutaminasi, la gliadina potrebbe fornire i peptidi riconosciuti da linfociti T anti-gliadina che a loro volta fornirebbero l’aiuto per la produzione di diversi autoanticorpi. Come al solito, è possibile che nella realtà siano coinvolti diversi di questi meccanismi. Di fatto, la sola produzione di autoanticorpi potrebbe spiegare alcune condizioni autoimmuni (atassia, dermatite) ma più difficilmente altre come il diabete e la tiroidite autoimmune, in cui è ampiamente riconosciuto un ruolo patogenetico prevalente dell’immunità cellulare. Tutto questo, quando ancora alcuni autori discutono se la celiachia debba o meno essere considerata essa stessa una malattia auto-immune. L’autore di queste dispense ritiene di no, anche se questa discussione non può avere che risvolti scolastici. Pensare alla celiachia come una malattia autoimmune mi sembra confondente, perché non si chiarisce quale sia il nucleo che noi vogliamo considerare malattia. In altre parole, se l’intolleranza al glutine è autoimmune, tutti i malati devono avere aspetti clinici della malattia a patogenesi autoimmune, e non semplicemente fenomeni autoimmuni come la presenza di autoanticorpi. 100 5. La malattia celiaca Per esercizio, ricordiamo che la definizione di una malattia come autoimmune prevede il soddisfacimento di alcuni criteri abbastanza simile ai postulati di Koch per le malattie infettive. Lasciamo al lettore il giudizio su quanto la celiachia possa soddisfare questi criteri. • • • Deve essere identificata una risposta adattativa autoimmune anticorpale e/o cellulare in tutti i soggetti affetti dalla malattia. La risposta autoimmune deve essere responsabile di un danno caratterizzante della malattia. Il trasferimento delle cellule e/o anticorpi autoreattivi deve essere in grado di riprodurre in un altro soggetto la stessa malattia (cosa non facile da dimostrare, in assenza di modelli animali della malattia). In ogni caso, la definizione della celiachia come autoimmune o meno non cambia sostanzialmente il suo ruolo nell’aumentare il rischio di sviluppare autoimmunità. Anzi, questo ruolo apparirebbe più chiaro e netto proprio se si ammettesse che la malattia non è in se autoimmune. 101 5. La malattia celiaca Koskinen O, Collin P, Korponay-Szabo Ilma, Salmi T, Iltanen S, Haimila K, Partanen J, Mäki M, Kaukinen K. Gluten-dependent Small Bowel Mucosal Transglutaminase 2-specific IgA Deposits in Overt and Mild Enteropathy Coeliac Disease J Pediatr Gastroenterol Nutr 2008;47:436-442. 65 Vengono riportate immagini di immunofluorescenza (riquadri grandi) e corrispondenti immagini morfologiche dei villi intestinali (rettangoli piccoli), alla prima valutazione (A e B), dopo due anni di dieta contenente glutine (D e E) e dopo una dieta priva di glutine (E e F). A e B mostrano un quadro di celiachia “latente”: I villi sono normali (B) mentre si osservano dei depositi di IgA che co-localizzano con la transglutaminasi tessutale (A). Non si evince dall’immagine in bianco e nero, ma le frecce indicano il colore arancione derivante dalla fusione della fluorescenza gialla dovuta alla presenza di IgA e rossa dovuta alla presenza di transglutaminasi. D: due anni dopo la mucosa mostra segni di atrofia, sono sempre presenti anticorpi nella mucosa, ma non nel siero. Viene avviata la dieta senza glutine. F e E: a dieta senza glutine, la mucosa guarisce e scompaiono i depositi di anticorpi IgA anti-transglutaminasi. 102 5. La malattia celiaca Marzari R, Sblattero D, Florian F, et al. Molecular dissection of the tissue transglutaminase autoantibody response in celiac disease. J Immunol. 2001 Mar 15;166(6):4170-6. 66 Per prima cosa è utile ricordare che ciascun linfocito B mucosale presenterà nel proprio genoma dei riarrangiamenti che permettono la produzione di anticorpi funzionali con un elevato grado di diversità. Utilizzando dei primers che fiancheggiano le regioni variabili delle immunoglobuline, è possibile collezionare sotto forma di DNA copia (cDNA) tutto il patrimonio di diversità anticorpali codificate nell’intestino. Per eseguire l’analisi di questa enorme biblioteca, può essere sfruttata la tecnologia delle libraries fagiche. In pratica, questa tecnologia permette di associare a ciascuna sequenza di DNA codificante per una catena anticorpale la corrispondente proteina: per far ciò, il DNA viene trasferito all’interno di fagi in modo tale che la catena anticorpale venga espressa sul capside. In questo modo il fago fornisce un potente strumento di analisi e selezione: esso accoppia una proteina (esposta sulla superficie del fago ed utilizzabile per processi di selezione su base di affinità) al relativo DNA. Una volta identificata una catena anticorpale di interesse, questo sistema permette di amplificare ulteriormente il fago e di valutare agevolmente le caratteristiche molecolari dell’anticorpo, cioè con quali moduli di DNA questo è stato assemblato durante la ricombinazione genetica. Il limite di questa tecnologia è che non permette di effettuare l’accoppiamento giusto tra catene leggere e pesanti e quindi non riproduce con certezza l’anticorpo esattamente come è in vivo. D’altra parte, è noto che la catena pesante contribuisce per la maggior parte alla specificità antigenica, e quindi si ritiene che l’approssimazione delle librerie fagiche sia più che soddisfacente. Questo tipo di analisi ha permesso di caratterizzare la risposta autoanticorpale del soggetto celiaco, identificare le regione 103 5. La malattia celiaca variabili più comunemente utilizzate negli anticorpi antitransglutaminasi, mappare la specificità per diversi epitopi dell’antigene e identificare la sede di produzione della risposta autoimmune. Insieme ai risultati dell’immunofluorescenza in situ, questa metodica ha permesso di dimostrare che gli anticorpi anti tTG vengono prodotti e depositati nella mucosa, non solo nella celiachia, ma anche in alcuni soggetti con diabete senza una celiachia manifesta 67. La metodica è stata adattata per un uso routinario mirato a identificare se esista uno spettro di sensibilità al glutine più ampio della celiachia tipica 68. Di seguito riportiamo anche un piccolo approfondimento sulle relazioni tra malattia celiaca e diabete di tipo 1. 104 5. La malattia celiaca Il diabete visto dall’intestino. Il diabete insulino-dipendente (DMT1) è una malattia multifattoriale legata a fattori ereditari multigenici ed elementi ambientali. Il peso dei fattori ambientali sembra essere preponderante (la concordanza della malattia in gemelli monozigoti è intorno al 30%), ma un substrato genetico “permissivo” è indispensabile al realizzarsi della malattia. In particolare, l’associazione con particolari HLA offre un interessante collegamento tra la genetica e l’ambiente. La possibilità di identificare soggetti ad alto rischio di sviluppare il diabete insulino-dipendente (diabete di tipo 1) porta in sé la frustrazione derivante dall’assenza di un’efficace strategia preventiva della malattia. La presenza di anticorpi diretti contro il pancreas e l’analisi dell’HLA consentono di predire con elevata affidabilità lo sviluppo del diabete in età pediatrica (fratelli o figli di diabetici), quando il rischio di sviluppare la malattia è ancora elevato e i tempi per la prevenzione sono più lunghi. In familiari di 1° grado di diabeteci, il valore predittivo degli autoanticorpi contro il pancreas varia dal 5 al 70% (in caso di positività multiple). E può essere rinforzato dalla concordanza degli HLA di rischio. E’ chiaro che la determinazione di questo rischio ha senso, ed è eticamente accettabile, solo in presenza di efficaci strategie preventive o nell’ambito di studi sperimentali di prevenzione. D’altra parte, la presenza di una risposta autoanticorpale persistente contro il pancreas indica forse qualcosa di più di una condizione di rischio, qualcosa che è forse già l’inizio della malattia, lo specchio dell’insulite, cioè dell’attivazione di linfociti autoreattivi che infiltrano le insule pancreatiche, conducendo lentamente ad una distruzione delle beta-cellule fino alla comparsa del diabete manifesto. Un intervento a questo punto avrebbe già il significato di una prevenzione secondaria. Tra le strategie preventive, è stata valutata anche la 105 5. La malattia celiaca somministrazione orale di insulina, allo scopo di indurre attraverso il sistema immune dell’intestino una risposta di tolleranza all’ormone e al tempo stesso alle cellule pancreatiche. Per quanto questa strategia non abbia portato finora ad apprezzabili risultati clinici, essa contiene un’idea originale: quella che l’intestino possa avere un ruolo nella genesi, e d’inverso nella prevenzione, del diabete autoimmune. Gli studi epidemiologici hanno mostrato che l’incidenza del diabete negli anni può variare molto più di quanto vari il patrimonio genetico della stessa popolazione, suggerendo che sia possibile identificare i fattori ambientali attivi nella genesi della malattia. Un recente studio collaborativo europeo ha mostrato inoltre che l’aumento di incidenza del diabete mellito è maggiore nei bambini più piccoli (+ 6.3% negli ultimi 15 anni), con una tendenza all’anticipazione dell’età di insorgenza. Tra i possibili fattori ambientali in causa, appaiono di particolare importanza l’alimentazione e le infezioni, in particolare quelle a carico del tratto gastro-intestinale. Entrambi questi fattori si confrontano con l’organismo a livello della mucosa dell’intestino e il mediatore del confronto tra la genetica e l’ambiente è quindi il sistema immune della mucosa intestinale. L’ipotesi che stiamo valutando, e cioè che il diabete nasca dall’intestino, appare coerente con questi dati. Di fatto, come vedremo, l’osservazione che nei soggetti diabetici siano identificabili sottili alterazioni del sistema immune intestinale, è coerente con una visione più allargata della patogenesi del diabete e di altre malattie autoimmuni d’organo. Glutine, latte vaccino e infezione da enterovirus sono tre fattori ambientali per i quali è stato ipotizzato un ruolo nella patogenesi del DMT1. La prima caratteristica che questi hanno in comune è quella di entrare in contatto con l’organismo a livello della mucosa intestinale. I due alimenti hanno poi una seconda caratteristica in comune, quella cioè di aver fatto parte nei secoli recenti di un importante cambiamento delle abitudini dietetiche (almeno per 106 5. La malattia celiaca quanto riguarda le quantità), che non ha avuto né il tempo né le condizioni (almeno nei paesi ad elevato sviluppo socio-sanitario) di indurre un adattamento della specie in termini di selezione naturale. E’ possibile che il cambiamento dietetico spieghi, almeno in parte, la variabile incidenza di diabete nel tempo che si è osservata in più paesi. L’evidenza di un ruolo patogenetico del glutine, almeno in una percentuale di diabetici (intorno al 5-10%), nasce dall’osservazione che i celiaci non diagnosticati, esposti a lungo alla dieta contenente glutine, hanno un rischio elevato di sviluppare il diabete (fino al 25% dopo 30 anni di dieta contenente glutine). Questo rischio si riduce fortemente nei soggetti celiaci diagnosticati precocemente, e quindi a dieta, indicando che un’alimentazione senza glutine potrebbe essere in grado di prevenire in essi lo sviluppo di diabete. Coerente con questi dati è l’osservazione che gli anticorpi antipancreas, quando presenti in soggetti celiaci, tendono a scomparire a dieta senza glutine. Per concludere, in soggetti con il substrato genetico della celiachia (HLA ed altro non noto), il glutine potrebbe favorire una risposta autoimmune anti-pancreas ed infine il diabete conclamato. L’associazione con la celiachia sembra spiegare solo una parte minore dei casi di DMT1 (meno del 10 %), ma è possibile che anche in soggetti non tipicamente celiaci il glutine abbia un ruolo nel favorire l’insorgere del diabete. Questa ipotesi, finora mai valutata, è attualmente oggetto di studio con le nuove tecniche dell’era molecolare della celiachia. 107 Cambiamenti nella epidemiologia e nella clinica della malattia celiaca nelle successive ere della malattia. La sequenza scritta in bianco riassume le diverse ere della celiachia. Le immagini sull’orizzonte della figura indicano i cambiamenti della prevalenza di malattia in coincidenza con l’applicazione di diversi strumenti e strategie di diagnosi. La riga in basso, in nero, riassume l’evoluzione della clinica della malattia, dovuta sia a cambiamenti ambientali che al miglioramento delle strategie diagnostiche. L’ultima colonna propone due possibili scenari per il futuro, a seconda che la diagnostica biotecnologia permetta di leggere l’intolleranza al glutine come una singola malattie o come una costellazione di diversi livelli di ipersensibilità. 5. La malattia celiaca 108 6. La malattia di Crohn 6. La malattia di Crohn Fig. 6.1 Pubblicazioni sulla malattia di Crohn negli anni su due delle maggiori riviste mediche internazionali. Nel grafico in figura 6.1 viene riportato il numero di pubblicazioni sulla malattia di Crohn sulle due principali riviste mediche internazionali: l’americano “New England Journal of Medicine” ed il britannico “The Lancet”. L’interesse verso questa malattia non è stato sempre uguale per le due riviste. Si possono inoltre notare alcuni picchi che rispecchiano verosimilmente altrettanti periodi di avanzamanto delle conoscenze. Il primo picco, alla fine degli anni ’60 si associa a molte diverse novità, dall’introduzione di terapie mediche di fondo alla caratterizzazzione di manifestazioni associate alla malattia; il secondo picco, di più ampia durata per il giornale britannico, rispecchia un ulteriore aumento delle conoscenze, favorito anche dall’introduzione della colonscopia con fibre ottiche; agli inizi degli anni ’90 si 109 5. La malattia celiaca prende atto di cambiamenti epidemiologici e alla fine dello stesso decennio si assiste all’avvio della “rivoluzione biologica”, con l’introduzione in terapia degli anticorpi anti TNF-alfa; l’inizio del 2000, infine, è caratterizzato dall’identificazione di uno dei geni maggiormente associati al rischio di malattia, NOD2. 110 6. La malattia di Crohn Era Anni Clinica B. Crohn Chirurgia 1932 E. medica del cortisone e dell’azatiopr ina 1951 1967 E. della dieta e dell’ambient e 1970 Ileo terminale: infiammazione cronica: ulcere, fistole e stenosi 69 ; Complicanze nutrizionali della 70 chirurgia Anche carcinoma, eritema nodoso, amiloidosi, febbre, ritardo di crescita, spondilite anchilosante, pioderma gangrenoso 71 Anemia Aumento di incidenza e progresso socio77 ; igienico aumento della MC pediatrica E. biologica 1997 Diagnosi e terapia Chirurgica Biologia Granuloma. infiammazione ma non tumore né infezione Effetto del 72 cortisone ; rischi del 73 cortisone ; Sigmoidosco 74 pia . 6mercaptopu 75 76 . rina Ileostomia 78 79,80 . Dieta . Doppio 81 contrasto ; 82 Talidomide Leucociti nel 83 sangue e nel 84 muco rettale . 85 Permeabilità , 86 Infezione ; difetto immune 87,88 89 ; ASCA Modelli murini 90,91 Infliximab E. genetica 2001 E. del sistema immune naturale E. delle interazioni 2002 92 GM-CSF come possible 95-97 terapia NOD2 come 93,94 gene rischio Difetto del 98,99 fagocita . Difetto di switch 100 off 101 2009 Tab. 6.1 Le ere della malattia di Crohn. 111 5. La malattia celiaca La nascita di una nuova malattia: Crohn, 1932 All’inizio degli anni ‘30, un gruppo di chirurghi del Mount Sinai Hospital di New York, osservò una serie di pazienti con una malattia infiammatoria cronica dell’intestino a patogenesi ignota (né infettiva, né tumorale). Nel 1932, Crohn Fig. 6.2 Burrill B. Crohn (fig. 6.2), Ginzburg e Oppenheimer descrissero questa condizione sul Journal of American Medical Association (JAMA) come una nuova entità nosologica, che avrebbe successivamente preso il nome di Malattia di Crohn 69. Fig 6.3 La prima descrizione dell’Ileite Regionale, in seguito denominata malattia di Crohn. 112 6. La malattia di Crohn La descrizione con cui iniziava l’articolo (fig. 6.3) costituisce tuttora un’ottima sintesi delle caratteristiche della malattia: “noi proponiamo di descrivere, nei suoi dettagli patologici e clinici, una malattia dell’ileo terminale, che colpisce soprattutto i giovani adulti e che è caratterizzata da un’infiammazione subacuta o cronica necrotizzante e cicatrizzante. L’ulcerazione della mucosa si accompagna a una sproporzionata reazione del tessuto connettivo della restante parete della zona di intestino coinvolta, un processo che conduce frequentemente a stenosi del lume intestinale associata alla formazione di fistole multiple”. Può essere utile discutere alcuni aspetti di questa descrizione ai fini della nostra trattazione: - La frase iniziale - noi proponiamo di descrive una malattia – tradisce già che si sta parlando di una malattia precedentemente sconosciuta, il che può suggerire che - cambiamenti ambientali abbiano avuto un ruolo nella sua comparsa; Malattia dell’ileo terminale: oggi sappiamo che l’ileo terminale è la localizzazione più caratteristica della malattia, ma che altre porzioni dell’apparato digerente possono essere ugualmente interessate, lasciando di solito ampie porzioni del tutto sane (si parla di “lesioni a salto” o skip lesions); - Colpisce soprattutto i giovani adulti: questo resta vero, ma negli ultimi decenni sono diventati sempre di più i casi ad 113 5. La malattia celiaca esordio più precoce, in età pediatrica, suggerendo ancora un ruolo di cambiamenti dell’ambiente nel modificare l’espressione della malattia; - Infiammazione subacuta o cronica necrotizzante e cicatrizzante, … sproporzionata reazione della parete … stenosi e fistole: i sintomi della malattia dipendono dall’infiammazione in sé (febbre, astenia, calo ponderale), ma in modo ancora più caratteristico dagli aspetti distruttivi a pieno spessore di parete dell’infiammazione (ascessi, fistole, stenosi, masse addominali, occlusione). Meno importante è invece il sintomo dovuto all’infiammazione superficiale della mucosa (diarrea con - muco e sangue) rispetto a quanto si poteva osservare in altre malattie come la colite ulcerativa. Più avanti, si descrive il carattere granulomatoso (vedi scheda) dell’infiammazione, non riconducibile a cause note (in primis la tubercolosi e le cause infettive). L’infiammazione granulomatosa. L’infiammazione granulomatosa è un tipo particolare di risposta infiammatoria cronica, caratterizzata da raccolte focali di macrofagi, cellule epitelioidi e cellule giganti multinucleate. Questa modalità viene messa in atto in presenza di una relativa incapacità da parte dei fagociti di rimuovere in modo efficiente un agente patogeno, a causa di caratteristiche intrinseche del patogeno o a causa di un difetto dei meccanismi di distruzione di 114 6. La malattia di Crohn questo da parte della cellula. In tali casi, le citochine e chemochine rilasciate nella sede del danno richiameranno linfociti, che a loro volta produrranno citochine in grado di potenziare e modulare l’attività dei fagociti. Il risultato è il granuloma che può evolvere in vari modi, in base alla persistenza o meno dei fattori che ne hanno indotto la formazione. Gli esempi più classici di reazione granulomatosa si trovano nella tubercolosi (resistenza del micobatterio alla distruzione da parte dei fagociti), nel corpo estraneo (indigeribilità) e in un particolare difetto dei fagociti, la malattia granulomatosa cronica (per un difetto della capacità ossidativa dei fagociti). Detto questo, appare comprensibile come in questa prima era della malattia di Crohn la malattia avesse soprattutto connotati “chirurgici”. Gli unici farmaci utilizzati, su base empirica, erano i sulfamidici, che si erano da poco rivelati preziosi nel trattamento di malattie infettive. Tra questi farmaci, la salazopirina sembrava essere dotato di una certa efficacia, ma è incerto se questa fosse dovuta più alle qualità antibatteriche o a quelle anti-infiammatorie (contenuto di salicilato). Nel 1950 cominciano a evidenziarsi le prime complicazioni a distanza della gestione esclusivamente chirurgica della malattia: dopo aver resecato la parte di intestino malata, la malattia tende a ricadere e a richiedere nuovi interventi, fino a portare a una rilevante diminuzione della superficie di assorbimento con conseguenti problemi nutrizionali 70. 115 5. La malattia celiaca Dal cortisone all’azatioprina: la prima era farmacologica All’inizio degli anni ‘50 l’uso del cortisone entra con prepotenza nell’armamentario terapeutico delle malattie infiammatorie, inclusa la malattia di Crohn 72. L’efficacia del farmaco è subito evidente e sembra permettere in molti casi di evitare o posticipare il ricorso alla terapia chirurgica, tanto che si parlerà di una vera e propria “era degli steroidi” 102. Solo più tardi, si cominceranno a rendere evidenti anche i rischi di un trattamento steroideo prolungato (vedi scheda) 73. Infatti, l’esperienza insegnerà ben presto che la malattia tende a ricadere alla sospensione del trattamento che viene quindi mantenuto a tempo indefinito. Non solo, in alcuni pazienti si sviluppava una certa tolleranza nei confronti del farmaco, che costringeva ad aumentarne le dosi. Oggi sappiamo che il trattamento steroideo nella malattia di Crohn si limita a bloccare le manifestazioni correlate all’infiammazione, senza influire positivamente sulla storia naturale della malattia. Negli anni successivi si cercherà di aggiungere al cortisone altri farmaci immunosoppressori, a cominciare dalla 6mercaptopurina, fino alle mostarde azotate 75 76,103. L’era del cortisone rappresenta quindi il momento in cui la scoperta di farmaci con effetto anti-infiammatorio e immunosoppressivo permette l’attuazione delle prime terapie mediche dotate di 116 6. La malattia di Crohn una certa efficacia sui sintomi infiammatori della malattia. I trattamenti medici proposti in precedenza, infatti, non avevano basi razionali altrettanto solide e spesso rispondevano a pensieri logici arbitrari e a volte bizzarri (per una trattazione storica vedi Kirsner, The Lancet 1998 104). In questo periodo, vengono descritti i primi casi familiari e pediatrici della malattia, si introducono esami non-chirurgici per una migliore diagnosi (biopsia rettale, sigmoidoscopia) e vengono descritte altre condizioni morbose che si associano o che complicano spesso la malattia di Crohn: carcinoma del colon, eritema nodoso, amiloidosi, febbre, ritardo di crescita, anemia, spondilite anchilosante, pioderma gangrenoso. 117 5. La malattia celiaca Cortisone: collaterali meccanismi di azione ed effetti Dal 1949, quando Hench e coll. dimostrano l’efficacia antinfiammatoria dei corticosteroidi o dell’ACTH nell’artrite reumatoide, i cortisonici diventano il prototipo dei farmaci antinfiammatori (tanto che altre categorie di farmaci verranno poi indicate come “farmaci antinfiammatori non steroidei” o ancora, come farmaci “risparmiatori di cortisone”). La potenza degli steroidi, giudicata in base alla capacità di mantenere la sopravvivenza nel soggetto adrenalectomizzato, correla con l’effetto di ritenzione di sodio (effetto mineralcorticoide). Attraverso il legame ad un altro tipo di recettore i cortisonici possono mediare anche un effetto più complesso sul metabolismo, con aumento della glicemia, diminuzione dell’uso del glucosio ed accumulo di glicogeno epatico (effetto glucocorticoide). La potenza glucocorticoide correla con l’azione antinfiammatoria del farmaco. I cortisonici sono molecole liposolubili, in grado di attraversare facilmente le membrane e raggiungere il proprio recettore nel citoplasma della cellula. In seguito al legame con il cortisone, il recettore media una serie di effetti di regolazione della sintesi proteica, direttamente o indirettamente per mezzo del legame ad altri fattori di trascrizione (vedi immagine). Gli effetti immunologici dipendono da molteplici meccanismi: da un lato la repressione della produzione di citochine come l’IL-1, il TNF-alfa, l’IL-6 e la diminuita produzione di prostaglandine, leucotrieni e di enzimi litici; dall’altro un effetto immunosoppressore più complesso sulle cellule dell’immunità naturale e sui linfociti. 118 6. La malattia di Crohn L’effetto dei glucocorticoidi è molto potente, grazie anche al largo spettro di azione su più sostanze e funzioni cellulari. Purtroppo, però, l’utilizzo di questi farmaci nelle malattie infiammatorie croniche comporta una serie di problemi: primo, il farmaco ha un effetto sintomatico e non sembra cambiare la storia naturale della malattia (anzi, forse potrebbe aggravarne alcuni aspetti); oltre agli effetti sul sistema immunitario i cortisonici hanno marcati effetti sul metabolismo cellulare, tanto più importanti quanto più la somministrazione viene protratta. Non solo, l”assuefazione” dell’organismo ad elevati livelli di cortisone comporta la perdita di un’efficace risposta ormonale da stress (a causa della cosiddetta soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene). I principali effetti indesiderati di terapie di lunga durata a base di corticosteroidi sono di seguito riassunti: - Cardiovascolari: ipertensione - Cute: ecchimosi, petecchie, strie rubre, acne - Endocrino-metabolici: soppressione asse ipotalamo-ipofisisurrene, irsutismo, aspetto cushingoide, impotenza, irregolarità mestruali, ritardo e arresto della crescita nei bambini, diabete, catabolismo proteico, disturbi elettrolitici ritenzione di sodio e acqua, ipokaliemia, ipocalcemia, calciuria. - Gastrointestinali: ulcera peptica, emorragia gastrica 119 5. La malattia celiaca - Immunitari: aumentata suscettibilità alle infezioni, ritardata guarigione di ferite Neuropsichici: iperattività psico-motoria, euforia, insonnia, sindrome depressivo-maniacale, psicosi Oftalmici: cataratta, glaucoma, cheratiti Osteomuscolari: osteoporosi, necrosi asettica della testa del femore e dell’omero, miopatia Ambiente e immunità: dalla dieta ad una nuova epidemiologia Il ruolo di cambiamenti ambientali nella patogenesi della malattia di Crohn diviene sempre più evidente: gli studi epidemiologici mostrano un aumento della prevalenza della malattia nel tempo 77; la transitoria esclusione di anse intestinali dal transito alimentare, eseguita per finalità chirurgiche, permetteva in esse la guarigione del processo infiammatorio 78; la nutrizione con dieta elementare o semielementare (cioè a base di molecole non complesse) permetteva non solo di affrontare il difetto nutrizionale tipico della malattia, ma anche la risoluzione del processo infiammatorio 79,80 (vedi scheda). Queste e altre osservazioni erano coerenti con un ruolo chiave dell’ambiente (ed in particolare di quell’ambiente che entra a contatto con l’intestino attraverso l’alimentazione) nella malattia di Crohn. Tuttavia, non era chiaro quali elementi di quest’ambiente 120 6. La malattia di Crohn fossero i veri responsabili della malattia. Si osservava che l’aumento dell’incidenza della malattia nei diversi paesi rispecchiava il progresso socio-igienico-economico, tanto che si cominciò a parlare di malattie correlate alla “occidentalizzazione” dello stile di vita 105,106. Non solo, la malattia, inizialmente descritta come più frequente nella popolazione ebraica, risultava meno frequente in Israele che negli Stati Uniti 107. Nonostante questo, non fu possibile identificare singoli fattori ambientali sicuramente associati con la malattia. Dall’altra parte, cominciava a prendere piede l’ipotesi che la malattia potesse derivare da una risposta immune anomala a qualche mutamento ambientale non ben identificato. Infatti, la conta dei globuli bianchi nel sangue e nel muco fecale diventano al tempo stesso una prova del coinvolgimento generale del sistema immunitario nella malattia e strumenti per la diagnosi ed il monitoraggio di questa 83,84. Ancora una volta, però, non è facile comprendere in che cosa consista questa anomala risposta all’ambiente: si ipotizza che la malattia nasca dalla risposta ad agenti infettivi trasmissibili che tuttavia non vengono mai identificati in modo convincente 86 ; si ipotizza un difetto della tolleranza immune contro i comuni saprofiti, che sarebbe coerente con l’identificazione di un’alterata reattività cellulare e anticorpale contro alcuni commensali 87,89; infine, si ipotizza che una patologica risposta 121 5. La malattia celiaca individuale a determinati fattori ambientali possa derivare da una condizione di difetto immunitario 88,108. A ciò si aggiungeva l’evidenza di un’alterata permeabilità intestinale, che, oltre a provocare malassorbimento e difetto nutrizionale, poteva svolgere un ruolo patogenetico anche favorendo il confronto tra componenti ambientali e immunità mucosale. La misura della permeabilità intestinale diventò di fatto un ulteriore indicatore biologico dell’attività di malattia, precedendo nel tempo l’aumento dei leucociti e degli indici di flogosi e la ricaduta clinicamente manifesta 85. Contemporaneamente, lo studio di loci associati alla malattia in famiglie con più casi affetti, promette di fornire una chiave interpretativa, forse in grado di trovare una sintesi tra queste diverse teorie. 122 6. La malattia di Crohn Dieta elementare nella malattia di Crohn 79,80 La figura mostra gli effetti della sola dieta elementare su diversi parametri indicatori sia dello stato nutrizionale che dello stato infiammatorio. Come si vede, la dieta ha di per sé oltre all’effetto nutrizionale anche un effetto anti-infiammatorio. Il meccanismo con cui si ottiene questo effetto non è ancora del tutto noto, ma è probabile che passi attraverso modificazioni della composizione e del metabolismo della flora batterica intestinale. 123 5. La malattia celiaca I farmaci biologici: la seconda era farmacologica La seconda era farmacologica potrebbe essere anche chiamata “biotecnologica”. L’idea è quella di ottenere lo stesso potere anti-infiammatorio del cortisone, senza i pesanti effetti indesiderati di questo farmaco. Di seguito sono riassunte le basi di quest’approccio terapeutico. Sebbene il sistema immune sia in grado di riconoscere una moltitudine di patogeni ed organizzare nei loro confronti risposte di volta in volta diverse, le fasi iniziali della difesa primaria verso gli antigeni sono condivise. La modalità di risposta può tuttavia essere modulata dalle caratteristiche del patogeno, dando luogo alla produzione di diversi profili di citochine. Quando prodotte in grande quantità, queste citochine mediano effetti sistemici come la reazione febbrile (azione sull’ipotalamo di IL-1 e TNF-α) e la sintesi delle proteine della fase acuta (azione sul fegato di IL-1, TNF-α e IL6). A queste azioni si associa un programma di risparmio energetico da parte dell’organismo, finalizzato a concentrare tutte le forze sul fronte della difesa immune. In quest’ottica si devono leggere la sonnolenza provocata dall’IL-1 e dal TNF-α e l’inibizione della crescita mediata dall’IL-6. Tra le citochine prodotte nelle malattie infiammatorie croniche, quella che ha sicuramente il maggior potenziale 124 6. La malattia di Crohn lesivo è il TNF-α (vedi scheda), anche in ragione della sua capacità di amplificare la produzione di citochine proflogogene, a loro volta dotate di notevole tossicità. Ad esempio la secrezione protratta di IL-1 conduce a riassorbimento osseo, mentre la secrezione cronica di IL-6, attraverso una l’accrescimento. diminuzione dell’IGF-I, ostacola Le citochine vengono prodotte per brevi periodi di tempo da cellule attivate del sistema immune. La loro sintesi avviene ex novo ed è regolata a partire da segnali di membrana trasdotti attraverso una cascata di eventi, che culminano con l’attivazione di particolari fattori di trascrizione tra cui l’NF-kB, in grado di regolare la sintesi delle citochine pro-flogogene e degli enzimi implicati nel metabolismo delle prostaglandine e dei tromboxani. E’ bene dire che uno degli antagonisti più potenti dell’azione dell’NF-kB è proprio il cortisone, ma come abbiamo visto questo farmaco ha anche altri importanti effetti indesiderati. Dato il suo ruolo centrale del TNF-α nell’amplificazione della risposta infiammatoria, si è pensato di controllare specificamente gli aspetti più gravi dell’infiammazione per mezzo dell’inibizione di questa citochina. Per la sua selettività, questo intervento non è teoricamente gravato dagli effetti collaterali propri di farmaci come il cortisone, anche se esiste il 125 5. La malattia celiaca rischio che una soppressione prolungata dell’attività del TNF-α possa associarsi ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni. Le strategie finora studiate al fine di inibire il TNF-α comprendono l’infusione endovenosa di anticorpi monoclonali contro questa citochina 92, l’uso del recettore solubile per il TNF-α coniugato con il frammento Fc di immunoglobuline di classe IgG e la somministrazione di farmaci che diminuiscono l’emivita dell’RNA messaggero del TNF-α (la talidomide sembrerebbe agire in parte con questo meccanismo). Sulla base dei trials effettuati, l’inibizione del TNF-α si è rivelata essere una terapia fondamentale nelle fasi critiche delle malattie infiammatorie croniche (M. di Crohn, Artrite Reumatoide), ottenendo un’azione antinfiammatoria molto marcata, a spese di effetti collaterali contenuti. Effetti del TNF-α α Basse concentrazioni induce molecole di adesione endoteliali, attiva leucociti infiammatori ad uccidere i microbi stimola la produzione di citochine pro-flogogene (IL-1, IL-6, TNF), potenzia la difesa contro infezioni virali Concentrazioni sistemiche (ad esempio nella sepsi) azione pirogena ipotalamica, risposta fase acuta, attivazione del sistema di coagulazione inibisce la replicazione midollare, inappetenza Quantità massicce (ad esempio nello shock settico) depressione della contrattilià miocardica, diminuito tono della muscolatura vasale coagulazione disseminata, ipoglicemia 126 6. La malattia di Crohn Gli anticorpi anti-TNF sono oggi entrati a far parte dell’armamentario terapeutico della malattia di Crohn, grazie alla loro elevata potenza e alla loro relativa selettività. E’ bene tuttavia non concedersi troppo alla facile equivalenza tra selettività e sicurezza: per quanto meglio tollerate dei cortisonici, le nuove terapie biologiche non sono scevre da effetti collaterali. La loro elevata potenza e la lunga durata d’azione possono produrre una potente soppressione di alcuni meccanismi di risposta antimicrobica con elevato rischio di sviluppare infezioni gravi da alcuni patogeni, come ad esempio il micobatterio tubercolare. Inoltre, anche questi farmaci sembrano al pari del cortisone, avere un effetto prevalentemente sintomatico, senza influenzare in modo chiaro l’evoluzione della malattia. In conclusione, questi farmaci rappresentano un indubbio passo avanti nella terapia della malattia di Crohn, ma solo una maggiore conoscenza patogenetica della malattia potrà permettere di trovare il giusto ruolo di questi farmaci, all’interno di terapie sequenziali o combinate che uniscano il trattamento del sintomo infiammatorio e le cause immuni ed ambientali che ne sono alla base. A questo proposito vengono messi a punto numerosi modelli murini della malattia, ma come si vedrà in seguito, pochi di questi si riveleranno in grado di dare informazioni utili a comprendere meglio la malattia umana. 127 5. La malattia celiaca Nella tabella 6.2, i modelli murini di malattia infiammatoria dell’intestino sono suddivisi in quattro gruppi, a seconda di quale sia stato il difetto indotto. Va detto che nella maggioranza dei casi quello che si ottiene è un’infiammazione intestinale aspecifica che non riproduce necessariamente la malattia di Crohn né la retto-colite ulcerativa umane. Il primo gruppo, comprende alcuni ceppi murini che sviluppano spontaneamente infiammazione. Gli altri tre gruppi comprendono i modelli indotti: per mezzo di agenti lesivi per la mucosa; per mezzo dell’induzione di svariati difetti immunologici; per trasferimento di particolari sottogruppi di linfociti in topi con immunodeficienza. Anche se non riproducono esattamente la malattia di Crohn, questi esempi possono testimoniare la facilità con cui vari disturbi dell’immunità si ripercuotono sull’omeostasi intestinale. D’altra parte, è nozione comune che molte immunodeficienze primitive possano associarsi a vari livelli di infiammazione intestinale. E’ opportuno sottolineare come questi modelli siano per lo più basati sulla convinzione che il difetto immune alla base della malattia riguardasse i linfociti della risposta adattativa, mentre come vedremo, l’identificazione di geni coinvolti nella malattia umana ha recentemente spostato l’attenzione su difetti a carico dei fagociti e dell’immunità naturale. 128 6. La malattia di Crohn 109 Tab. 6.2 Modelli animali di malattia infiammatoria dell’intestino . L’era genetica e della nuova patogenesi. Il nuovo millennio si apre con l’identificazione del principale gene associato al rischio di malattia di Crohn (NOD2) 93,94 promettendo finalmente una migliore comprensione della patogenesi della malattia. NOD2 (Nucleotide Oligodimerization Domain 2) è una proteina citoplasmatica, espressa in particolar modo nelle cellule del sistema fagocitario e infiammatoria. coinvolta nel 129 controllo della reazione 5. La malattia celiaca Fig. 6.4 Struttura del gene NOD2 e varianti associate a m. di Crohn NOD2 appartiene ad una famiglia molto vasta di proteine coinvolte nel riconoscimento di componenti batteriche (PAMPs, Pathogen Associated Molecular Patterns) e nella regolazione della risposta infiammatoria (attivazione di NK-kB e Caspasi-1) oltre che nella regolazione di varie modalità di maturazione e morte dei fagociti (apoptosi, piroptosi). Questo sistema è anche descritto come un insieme di piattaforme molecolari (o inflammasomi) che garantisce una fine regolazione degli eventi suddetti, per mezzo di un continuo riassestamento di interazioni, omo- ed etero-dimerizzazioni, che permettono di trasdurre il segnale producendo la dimerizzazione e l’attivazione di molecole. Tale meccanismo di trasduzione viene anche detto “trasduzione per contiguità o per prossimità”, ed è comune alla maggior parte delle molecole degli inflammasomi. Nell’ultimo ventennio, una grande mole di dati sul funzionamento di questi sistemi è 130 6. La malattia di Crohn derivata dallo studio di alcune malattie monogeniche umane: le cosiddette sindromi autoinfiammatorie. Si tratta di condizioni dovute a difetti genetici a carico di alcune di queste proteine (pirina, nella febbre mediterranea familiare; CIAS1/NALP3 nelle criopirinopatie) e caratterizzate dalla ricorrenza di gravi sintomi infiammatori fin dai primi anni, o addirittura giorni di vita. L’identificazione di NOD2 come principale gene associato a rischio di malattia di Crohn ha quindi indotto a seguire l’analogia tra NOD2 e le altre proteine degli inflammasomi, ritenendo che anche la malattia di Crohn potesse in qualche misura rientrare tra le sindromi autoinfiammatorie, dovute ad un eccesso di attivazione e/o ad un difetto del feedback infiammatorio. Tuttavia, già i primi lavori mostravano un apparente paradosso, che smorzava un po’ l’illusione di svelare la patogenesi della malattia di Crohn. Le varianti di NOD2 associate a malattia di Crohn, erano state trasdotte in cellule di rene insieme ad un sistema reporter dell’attività di NF-kB: sorprendentemente, lo stimolo con vari PAMPs (tra cui il muramil dipeptide o MDP) produceva una risposta di attivazione di NF-kB minore e non maggiore rispetto al NOD2 wild type. In altre parole, in un sistema cellulare semplificato, il risultato delle varianti associate a malattia sembrava quello di diminuire piuttosto che aumentare l’attivazione infiammatoria. 131 5. La malattia celiaca Il meccanismo con cui le varianti di NOD2 conducono ad un aumentato rischio di sviluppare la malattia di Crohn deve quindi dipendere da equilibri più complessi, per cui è difficile considerare la malattia di Crohn come una “semplice” malattia autoinfiammatoria. A completare questo difficile puzzle si aggiunge la caratterizzazione di un’altra malattia legata a mutazione del gene NOD2: la sindrome di Blau, una malattia granulomatosa con artrite granulomatosa, iridociclite e granulomi cutanei. In questo caso, le mutazioni (diverse da quelle associate con m. di Crohn) portano ad una “gain of function” della proteina e la malattia può essere più chiaramente inclusa nel gruppo delle malattie autoinfiammatorie. Il difetto dell’immunità naturale: dai fagociti all’immunità degli epiteli Abbiamo arbitrariamente dedicato quest’era al ruolo dell’immunità naturalei nella malattia, anche se questa scelta potrebbe non essere pienamente condivisa dalla comunità scientifica. Sta di fatto che numerose evidenze hanno coerentemente suggerito che un difetto non ben identificato dell’immunità naturale potesse variamente contribuire alla patogenesi della malattia di Crohn. In altre parole, nonostante il probabile ruolo di diversi geni e diversi fattori ambientali, 132 6. La malattia di Crohn potrebbe essere possibile identificare nella malattia alcuni aspetti funzionali condivisi dalla maggior parte dei casi. A ben pensare, a suggerire questa idea, stava già da tempo la specificità della lesione istologica granulomatosa con tendenza alla formazione di fistole e all’elevata produzione di TNF-α. Nell’ultimo decennio, diversi ordini di evidenze hanno permesso di formulare nuove ipotesi riguardo alla patogenesi dell’infiammazione tipica della malattia. • Alcuni dei principali geni di rischio della malattia (a cominciare da NOD2) hanno un ruolo nella risposta immune naturale dell’epitelio e/o nella corretta funzione dei fagociti (vedi di seguito). • • • Tentativi terapeutici basati sullo stimolo dei fagociti per mezzo del fattore di crescita dei granulociti e dei monociti (GM-CSF) hanno portato a qualche miglioramento in alcuni gruppi di pazienti con malattia di Crohn 95-97. Alcuni difetti congeniti dei fagociti (classificati come immunodeficienze primitive) possono esprimersi con un’infiammazione intestinale in buona parte sovrapponibile a quella tipica della malattia di Crohn (vedi scheda). E’ stato dimostrato che monociti ottenuti da soggetti con malattia di Crohn hanno un difetto (e non un eccesso) nella produzione di alcune citochine (tra cui l’IL-8) e hanno 133 5. La malattia celiaca un relativo difetto a rimuovere batteri non patogeni • aggiunti in elevata carica 98,99. Topi knock out per NOD2 sviluppano un’infiammazione granulomatosa dopo colonizzazione con H.hepaticus. Il trapianto di cellule staminali non è sufficiente a proteggere dall’infiammazione, suggerendo che l’espressione del difetto nell’epitelio intestinale sia sufficiente a predisporre alla malattia. Al contrario, l’espressione forzata di α-defensina nelle cellule • dell’epitelio intestinale è in grado di prevenire lo sviluppo della malattia infiammatoria110. Tra i difetti immuni associati ad infiammazione similCrohn, è particolarmente interessante citare la displasia ectodermica anidrotica con immunodeficienza, dovuta al difetto del gene IKK-gamma, codificante la proteina NEMO. Anche in questo caso, come per NOD2, il difetto interessa l’attivazione di NF-KB ed è espresso sia nel sistema immune che nell’epitelio. I pazienti affetti da questa malattia possono sviluppare una colite infiammatoria. Questo rischio non diminuisce in seguito a trapianto di cellule staminali ematopoietiche, sottolineando anche in questo caso il ruolo patogenetico del difetto epiteliale111. 134 6. La malattia di Crohn Immunodeficienze Crohn-like associate a infiammazione La presenza di infiammazione intestinale con le caratteristiche della malattia di Crohn è descritta da molti anni in alcune immunodeficienze primitive. Nella malattia granulomatosa cronica (CGD) l’infiammazione intestinale può presentarsi anche in assenza di sintomi infettivi 112-118 . Le caratteristiche dell’infiammazione intestinale nella CGD sono di fatto indistinguibili rispetto a quelle della malattia di Crohn 112. Una malattia di Crohn si può sviluppare anche in soggetti con vari disturbi dei neutrofili, tra cui la glicogenosi di tipo 1b adesione dei autoimmune 119 , la neutropenia ciclica neutrofili 122,123 121 , la 120 neutropenia , il difetto di cronica e . Alcuni di questi pazienti hanno mostrato una buona risposta al trattamento con GM-CSF 124-127, che come abbiamo visto è un trattamento che ha dato qualche beneficio anche in pazienti con malattia di Crohn senza un evidente difetto dei fagociti 95-97,128 . Una colite infiammatoria simile alla malattia di Crohn può essere presente anche in soggetti con sindrome di Wiskott Aldrich, possibilmente correlata ad un difetto di produzione di IL-10 129. Prese nell’insieme, queste evidenze suggeriscono che la malattia di Crohn possa svilupparsi sul substrato di una più o meno grave immunodeficienza dell’immunità naturale di parete e/o dei fagociti. Quanto più grave è il difetto, tanto più 135 5. La malattia celiaca la malattia avrà un esordio precoce e si assocerà ad un elevato rischio infettivo. Tanto più sottile è il difetto, tanto più invece saranno necessari altri fattori genetici e/o ambientali e la malattia tenderà di conseguenza ad avere un esordio più tardivo. Questa idea è rappresentata nella fig. 5.6. Diverse anomalie genetiche conducono a conseguenze funzionali simili, con sviluppo d’infiammazione cronica granulomatosa 130 . Fig. 5.6 L’universo dei difetti dell’immunità naturale nella patogenesi della m. di Crohn. Quanto più vicina è l’orbita al granuloma, tanto maggiore sarà il ruolo della genetica e la precocità di esordio. La maggior parte dei casi di malattia di Crohn è associata ad anomalie periferiche di quest’universo. Tuttavia, i casi più precoci e a maggior componente genetica possono offrire un prototipo semplificato per comprendere la patogenesi della malattia. 136 6. La malattia di Crohn Se questo è vero, è possibile provare a rileggere il meccanismo di funzionamento di diversi farmaci nella malattia (tab. 6.3) e pensare a nuovi trattamenti che prendano in considerazione sia la necessità di bloccare l’infiammazione che quella di compensare un possibile difetto immune sottostante o una difesa di parete. Tab. 6.3 L’azione di diversi farmaci riletta sulla base delle ipotesi patogenetiche. L’era delle interazioni: ambiente, mucosa e immunità. Questa è l’era attuale. Le informazioni di cui disponiamo ci permettono di tentare una lettura funzionale complessiva partendo dai dati genetici e ambientali disponibili. Nella maggior parte dei casi, è verosimile che la malattia si sviluppi solo in presenza di diverse condizioni: un cambiamento della flora batterica intestinale; una 137 5. La malattia celiaca diminuzione della capacità di barriera fisica e immunologica della parete intestinale (teoria del “leaky gut” 131); un’anomalia del funzionamento dei sistema fagocitico, con relativa incapacità di eliminare elevate cariche batteriche. E’ ragionevole pensare che difetti più gravi di una di queste componenti possano condurre a sviluppare la malattia anche in assenza di altri fattori, come accadrebbe ad esempio in forme ad esordio precoce legate a gravi difetti dei fagociti. Una teoria che cerca di mettere insieme tutti questi fattori è stata recentemente proposta da Segal e collaboratori 101. La malattia si svilupperebbe quando tre diverse condizioni si verificano, ciascuna variamente influenzata da fattori genetici e ambientali: aumentata carica batterica; difettosa risposta da parte dell’immunità naturale con insufficiente clearance batterica; attivazione del sistema adattativo con tentativo di compenso e mantenimento di una risposta cronica granulomatosa (fig. 6.6). 138 6. La malattia di Crohn Fig 6.6 Un’ipotesi patogenetica a tre stadi per la malattia di Crohn, da Segal et al. 101 139 8. Bibliografia 7. Abbreviazioni e glossario ACTH: Adreno Cortico Tropic Hormone. Ormone adrenocorticotropo. Prodotto dall’ipofisi, stimola la produzione di ormoni steroidei nella corticale del surrene. AGA: anticorpi anti glutine Allergeni: antigeni coinvolti in risposte allergiche. Angioedema: improvviso passaggio di liquidi nell’interstizio (sottocute, sottomucose) per rilascio di sostanze attive sulla permeabilità vasale. A livello della glottide, può provocare difficoltà respiratoria, asfissia e morte. Apoptosi: morte cellulare programmata con basso rilascio di antigeni e molecole infiammatorie nell’ambiente. Utilizzata per rimuovere cellule danneggiate o cellule che hanno compiuto la propria funzione. Autofagia: meccanismo utilizzato per la rimozione di proteine degradate, organelli danneggiati e/o componenti estranei dal citoplasma. In pratica, si forma una membrana in grado di avvolgere una data porzione del citoplasma, formando una vescicola più o meno grande, che successivamente si fonderà con un lisosoma per permetterne la degradazione del contenuto. BCG: Bacillo di Calmette Guérin. Preparato ottenuto da un ceppo attenuato di Micobatterio tubercolare. DGP: deamidated gliadin peptide. Anticorpi contro peptidi di gliadina deaminati dall’azione della transglutaminasi tessutale. Il test ELISA per la misura di questi anticorpi ha mostrato risultati migliori rispetto al test allestito con la gliadina in forma nativa. DMT1: diabete mellito di tipo 1. E’ il diabete autoimmune, tipico dell’età giovanile e non correlato al sovrappeso. EGF: epidermal growth factor. Fattore di crescita dell’epidermide. 140 7. Abbreviazioni e glossario EMA: anticorpi anti-endomisio. GM-CSF: Granulocyte Monocyte Colony Stimulating Factor. Fattore di crescita dei granulociti e monociti HLA: human leukocyte antigens. Antigeni del sistema di istocompatibilità presenti sui globuli bianchi umani. IBD: malattia infiammatoria cronica dell’intestino Ig: Immunoglobulina Istamina: sostanza contenuta nelle granulazione dei mastociti e rilasciata in seguito all’attivazione di queste cellule (di solito per legame di un allergene alle IgE specifiche adese sulla membrana). L’istamina aumenta la permeabilità vasale e stimola la sensazione del prurito. E’ responsabile delle caratteristiche lesioni del pomfo e dell’orticaria. Inflammasoma: piattaforma molecolare che comprende diverse proteine caratterizzate da tipici domini funzionali. In seguito ad attivazione da parte di un ligando (in genere un PAMP), queste proteine innescano una catena di omo- e oligo-dimerizzazioni, inducendo prossimità tra domini funzionali (ad esempio CARD o PYD) in grado di attivare diversi meccanismi effettori (caspasi e/o fattori di trascrizione). IGF-1: Insulin –like Growth Factor 1. Anche chiamato Somatomedina C. Ormone indotto dall’ormone della crescita, di cui media parte dell’attività di stimolo alla crescita cellulare. IPEX: Immunodisregolazione, Poliendocrinopatia, Enteropatia legata al cromosoma X. E’ un difetto congenito dei meccanismi della tolleranza immune. In questa malattia, le cellule T regolatorie non svolgono correttamente la loro funzione a causa di mutazioni nel gene Foxp3. LPS: lipopolisaccaride batterico. E’ un complesso macromolecolare in grado di stimolare le cellule dell’immunità naturale attraverso i toll like receptors. 141 8. Bibliografia MALT: sistema immune associato alle mucose. Comprende linfociti intra-mucosali, noduli linfatici solitari e formazioni organizzate come le placche del Peyer, le tonsille e le adenoidi. MBT: micobatterio tubercolare MDP: muramil di-peptide. Componente della parete batterica in grado di stimolare toll-like receptors umani. Appartiene al gruppo dei cosiddetti PAMPs. NF-kB: Fattore Nucleare kB. E’ un fattore di trascrizione fondamentale in numerose funzioni leucocitarie tra cui la proliferazione e la produzione di citochine infiammatorie. NOD2: Nucleotide-binding oligodimerization domain 2. E’ una proteina (nota anche come CARD15) le cui mutazioni costituiscono il più comune fattore genetico di rischio per la malattia di Crohn nella popolazione caucasica. PAMPs: profili molecolari associati ai patogeni. Si tratta di marcatori generici del mondo procariotico, condivisi tra più microrganismi, e riconosciuti dal sistema dell’immunità naturale per mezzo dei toll like receptors. PIDs: immunodeficienze primitive. Difetti congeniti (geneticamente determinati) del funzionamento di una o più componenti del sistema immune. Possono accompagnarsi ad un’anomala suscettibilità a infezioni gravi, malattie autoimmuni e infiammatorie, tumori. Piroptosi: morte cellulare programmata, senza contrazione citoplasmatica e con rilascio di varie molecole pro-infiammatorie. Questo meccanismo potrebbe essere attivato quando la cellula non può andare in apoptosi in modo sicuro ad esempio per incapacità di distruggere microrganismi fagocitati, e occorre garantire un potenziamento della risposta immune. 142 7. Abbreviazioni e glossario Placche del Peyer: aggregati linfoidi mucosali strutturati, comunicanti con il lume intestinale per mezzo di cellule specializzate (M cells). Pomfo: lesione elementare cutanea, caratterizzata da rilievo cutaneo rotondeggiante e liscio, dovuto a trasudazione di liquido nel derma per effetto dell’istamina sulla permeabilità vasale. Nei casi più gravi, è circondato da un alone eritematoso (dovuto a maggior afflusso di sangue) e può assumere forma irregolare con estroflessioni (pseudopodi). RAST: radio-allergo sorbent test. Test radioimmunologico per la misura delle IgE specifiche contro allergeni. Reagine: IgE specifiche contro allergeni e in grado di scatenare risposte allergiche immediate con degranulazione di mastociti e rilascio di istamina. TCR: recettore dei linfociti T. TGA: anticorpi anti-transglutaminasi. TLR: toll like receptors. Recettori di membrana o citoplasmatici in grado di attivarsi in seguito al legame con alcuni componenti molecolari condivisi tra diversi microbi (o PAMPs). Treg: linfociti T regolatori. Caratterizzati dall’espressione dell’antigene CD4 insieme ad elevati livelli di CD25 e FOXP3 (ma bassi livelli di CD127), sono i principali responsabili del mantenimento della tolleranza immune periferica. tTG: transglutaminasi tessutale. E’ il più specifico auto antigene della celiachia. 143 8. Bibliografia 8. Bibliografia 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 Xavier, R.J. and Rioux, J.D. (2008) Genome-wide association studies: a new window into immune-mediated diseases. Nature reviews 8 (8), 631-643 Bongaarts, J. (2009) Human population growth and the demographic transition. Philosophical transactions of the Royal Society of London 364 (1532), 2985-2990 Sakaguchi, S. et al. (1995) Immunologic self-tolerance maintained by activated T cells expressing IL-2 receptor alpha-chains (CD25). Breakdown of a single mechanism of self-tolerance causes various autoimmune diseases. J Immunol 155 (3), 1151-1164 Hori, S. et al. 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