Spunti di Nutrizione rev2011 - Clinica Pediatrica Trieste

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Spunti di Nutrizione
Pediatrica per il corso
di Biotecnologie Mediche
Dispense del corso di Pediatria,
Modulo di Nutrizione,
primo anno del corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie
Mediche, Università degli studi di Trieste.
Alberto Tommasini
Istituto di Ricerca e Cura a Carattere Scientifico
Burlo Garofolo, Trieste
Con la collaborazione di Erica Valencic e Elisa Piscianz
IRCCS Burlo Garofolo e Università di Trieste
3° revisione, Marzo 2011
Premessa
Dichiarazione di responsabilità e
conflitto di interessi.
Questo testo è nato come dispensa delle lezioni di Pediatria
presso il corso di Biotecnologie Mediche dell’Università di
Trieste.
In esso sono contenute informazioni di carattere medico ad
esclusivo scopo didattico. Nonostante gli sforzi per garantire la
correttezza e l’aggiornamento dei materiali, il testo non può
essere considerato come fonte di indicazioni per la pratica
clinica su di sé o sugli altri.
L’autore non risponde di eventuali utilizzi di questo testo al di
fuori delle finalità didattiche per cui è stato scritto. L’autore
dichiara inoltre di non avere conflitti di interessi che possano
aver influenzato quanto scritto.
1
Premessa
Che cosa un pediatra può insegnare ai
biotecnologi?
Il progresso della tecnologia procede da molti anni con un
andamento esponenziale che nell’ultimo secolo ha visto
crescere enormemente la quantità delle nostre conoscenze e
la possibilità di intervenire sui processi che regolano la vita
animale. Alcune considerazioni vanno tuttavia fatte. I
fenomeni biologici di solito alternano periodi di crescita
esponenziale a periodi di crisi, cambiamento e, nuovamente,
crescita. Allo stesso modo la conoscenza di un fenomeno
biologico può aumentare progressivamente fino ad un certo
punto, dopodiché non potrà procedere se non cambiando le
metodologie e gli obiettivi della ricerca. L’aumento di
conoscenze e possibilità conduce a ricadute difficilmente
prevedibili, con conseguenti conflitti tra sentimenti di
onnipotenza e frustrazioni di impotenza (chi avrebbe detto un
secolo fa che sarebbe stato più facile viaggiare sulla luna che
curare un tumore?). Buona parte della ricerca biomedica è
finanziata da istituzioni sanitarie o da cittadini (attraverso
associazioni senza fine di lucro), alle domande dei quali
bisogna saper rispondere senza inganni quando si comunicano
i programmi e i risultati della ricerca. Nonostante l’enorme
potenza della bio-informatica avremo bisogno ancora per
2
Premessa
molto di trovare le cose semplici nella complessità, le regole o
anche solo le ipotesi nella mole dei dati.
A queste considerazioni si aggiungono altri problemi: come
può essere determinata l’attendibilità della letteratura
scientifica? E’ infatti osservazione comune che non tutte le
esperienze pubblicate sono costantemente riproducibili. Quali
possono essere, inoltre, le conseguenze bio-informatiche di
una ridotta pubblicazione dei risultati negativi della ricerca?
Nonostante gli enormi progressi della medicina, il
miglioramento della nostra salute (mortalità infantile
diminuita più di 10 volte rispetto a un secolo fa; aspettativa di
vita media fortemente aumentata) è probabilmente dovuto
più a fattori socio-economici (nutrizione, igiene e lavoro) e
ambientali (cultura e ridotta natalità) che alle tecnologie
mediche. Tuttavia esistono alcune malattie debellate
dall’intervento medico (ad esempio dai vaccini) e altre
fortemente modificate dalle
(antibiotici, sieri e farmaci)
(screening, etc).
tecnologie terapeutiche
e diagnostico/preventive
La strada da fare è ancora molto lunga e può essere percorsa
solo finché rimane un intimo contatto tra chi cura e chi fa
ricerca biomedica.
Per questo il biotecnologo medico deve conoscere i problemi
sui quali la ricerca può agire, ma anche il linguaggio per
interagire passo passo con il mondo clinico. Inoltre, è bene
3
Premessa
ricordare che la cosiddetta medicina molecolare è solo uno dei
possibili approcci allo studio biomedico e non
necessariamente quello che produce i risultati più utili: se
potessimo fotografare tutte le sinapsi di un cervello
contemporaneamente e misurare ciascuna molecola che le
attraversa, non saremmo in grado di ipotizzare neanche
lontanamente a che cosa quel cervello pensava. Un
elettroencefalogramma o una tomografia ad emissione di
positroni potrebbero dirci probabilmente qualcosa di più.
Questo solo per ricordarci che sono le domande cui si vuole
rispondere e il piano sperimentale a rendere utile la ricerca.
E allora perché un pediatra? Perché tradizionalmente si
occupa di alcune patologie trattate nel corso, forse. Però è
anche vero che la visione della medicina di un pediatra può
offrire anche alcune specificità: essa è affine alla genetica,
perché in età pediatrica si manifesta la maggior parte delle
condizioni monogeniche. La genetica offre alla pediatria la
diagnosi molecolare delle malattie e recentemente anche la
terapia genica per alcune di queste. La pediatria, d’altra parte
offre alla medicina i cosiddetti “esperimenti della natura”, che
vestono i geni di significato e che collegano le molecole alle
funzioni.
La pediatria inoltre vede l’evoluzione delle funzioni al primo
contatto con l’ambiente ed è quindi il primo punto per
osservare quanto i cambiamenti di quest’ultimo possano
influire sulla salute. Questo è vero, in particolare, per
4
Premessa
quell’interfaccia dove avviene la maggior parte del confronto
molecolare con l’ambiente, cioè il tubo digerente. Il corso di
nutrizione focalizzerà proprio su questi aspetti. Molte “prove”,
portate a sostegno dei concetti descritti nel testo, derivano
proprio dagli esempi fornitici dall’esperienza clinica e genetica
di alcune malattie tipicamente infantili.
Il biotecnologo potrà intervenire per migliorare la salute sia sul
lato ambientale (evoluzione e sicurezza degli alimenti, cibi
ottenuti da organismi geneticamente modificati) che sul lato
della medicina.
5
Premessa
Il docente
Alberto Tommasini è nato nel 1966. Medico Pediatra e
ricercatore presso l'IRCCS Burlo Garofolo e docente a contratto
presso l’Università di Trieste.
Il campo di attività riguarda l’immunologia clinica, dalle
immunodeficienze primitive alle malattie autoimmuni e
reumatologiche. Uno dei fili conduttori dell’attività clinica e di
ricerca ha riguardato lo studio di difetti genetici della
regolazione immune caratterizzati da infiammazione e
autoimmunità. Più recentemente si è interessato alla
manipolazione cellulare in vitro per lo sviluppo di terapie
cellulari.
6
A chi sul lavoro e nella vita di ogni giorno
ha condiviso le difficoltà e le soddisfazioni
di un percorso a metà strada tra la clinica e la ricerca
7
8
9
1. Introduzione
2. Intestino e ambiente
3. Il latte materno
4. Le allergie alimentari
5. La malattia celiaca
6. La malattia di Crohn
7. Abbreviazioni e glossario
8. Bibliografia
10
1. Introduzione
1. Introduzione
Le malattie multifattoriali immunomediate: tra genetica e
ambiente.
Un’elevata percentuale delle malattie multifattoriali può
essere ricondotta a errori di funzionamento del sistema
immunitario, dovuti a loro volta in quote diverse a fattori
genetici ed ambientali1.
Alcuni esempi sono elencati nella tabella 1, che riporta anche
una stima approssimativa della diffusione di ogni malattia
nella popolazione. Come si può vedere, nell’insieme, queste
malattie interessano una percentuale rilevante della
popolazione.
Un aspetto interessante è che molte di queste malattie
mostrano una diversa incidenza nel tempo e in diverse aree
geografiche. Ciò suggerisce che mutamenti ambientali abbiano
avuto un ruolo rilevante nella loro genesi.
Questo accade ad esempio per il diabete insulino-dipendente
(o diabete mellito di tipo 1, DMT1), la malattia infiammatoria
cronica dell’intestino, la malattia celiaca e le allergie. Tuttavia
non è stato facile fino ad oggi (se non forse per la celiachia)
identificare i cambiamenti ambientali che hanno
maggiormente inciso sul rischio di sviluppare queste malattie.
11
1.Introduzione
Endocrinopatie autoimmuni
Diabete Mellito di tipo 1
(o insulino-dipendente)
Tireopatie autoimmuni
Iposurrenalismo
Ipoparatiroidismo
Ipopituitarismo
Altre malattie autoimmuni
Miastenia gravis
Epatite autoimmune
Sclerosi Multipla
Psoriasi
Citopenie autoimmuni
Allergie
Allergie alimentari
Asma
Malattie reumatologiche
Artrite reumatoide
Lupus Eritemaoso
Sistemico
Altre
Malattia infiammatoria
cronica dell’intestino
Malattia celiaca
1:100
1:1000
1:2000
1:50
1:20
1:100
1:500
1:100
Tabella 1. Prevalenza approssimativa di alcune malattie immunomediate
In senso generale, si riconosce che lo stile di vita
“occidentalizzato” ha costituito il determinante comune
dell’aumento di incidenza di queste patologie. Stile di vita
occidentalizzato significa diverse cose:
•
maggior disponibilità di alimenti, migliore nutrizione;
•
maggior ricorso ad alimenti già preparati e conservati
(frigorifero);
12
1. Introduzione
•
migliori standard igienici (disponibilità e potabilità
•
dell’acqua, fogne, riscaldamento degli ambienti, etc.);
minor rilevanza di patologie infettive (prevenzione delle
infezioni con vaccini; diminuite gastroenteriti e infestazioni
da parassiti; tendenza alla scomparsa di patologie come
tubercolosi e lebbra);
E’ bene sottolineare che la maggior parte dei cambiamenti
alimentari e igienici che si sono verificati nei paesi più
sviluppati ha avuto conseguenze positive. Per rendersi conto
di quanto questo sia vero, è sufficiente osservare la quota di
mortalità ancora oggi legata direttamente o indirettamente
alla malnutrizione nei paesi più poveri. Secondo alcune analisi,
i maggiori determinanti della riduzione della mortalità
infantile e dell’aumento dell’aspettativa di vita risiedono nelle
migliori condizioni nutrizionali (quantità, qualità e sicurezza
microbiologica degli alimenti), igieniche (acqua potabile,
minor affollamento domestico, luminosità e riscaldamento
degli ambienti) e socio-culturali (scolarizzazione, prevenzione
delle gravidanze precoci). Gli interventi medici (vaccinazioni in
primo luogo, ma anche disponibilità di antibiotici) hanno un
impatto minore.
Quindi, per ora, a conti fatti, dovremmo essere contenti di
pagare il prezzo di questo benessere con l’aumento di alcune
malattie che, tutto sommato sembrano abbastanza
13
1.Introduzione
controllabili con le terapie mediche. Eppure è importante
capire come i cambiamenti ambientali hanno influenzato la
nostra salute, perché negli ultimi due secoli, come vedremo
più in dettaglio, l’umanità ha accelerato enormemente il ritmo
del cambiamento, per la prima volta influenzando in modo
rilevante l’ecosistema in cui vive.
Pochi numeri saranno utili
a
comprendere
meglio
l’argomento.
L’evoluzione biologica dell’uomo si è svolta in circa 3 milioni di
anni, caratterizzati da un’alta pressione di selezione. La
probabilità di morire prima di poter generare una prole era
molto elevata e il saldo demografico veniva mantenuto in
parità o in lieve crescita da un elevato rapporto di gravidanze
per donna fertile. In tal modo, si ritiene che la variabilità
genetica dei figli abbia consentito lentamente, di generazione
in generazione, un adattamento ottimale e relativamente
stabile all’ambiente. Negli ultimi secoli, invece, la rapidità del
cambiamento ambientale (avvenuto nell’arco di poche
generazioni) e la diminuita pressione selettiva (legata al
miglioramento delle condizioni igienico-alimentari) non hanno
potuto produrre un significativo adattamento della specie.
Questo significa che, dal punto di vista biologico, l’uomo
rispecchia in massima parte un adattamento ad un ambiente
diverso da quello che si è creato negli ultimi due secoli.
14
1. Introduzione
Fig. 1.1. L’evoluzione dell’uomo e le sue ere alimentari. Tratto da
http://www.museum.agropolis.fr/pages/expos/fresque/la_fresque.htm
Gli studiosi, infatti, distinguono in questa storia tre ere
principali, ciascuna con durata assai diversa. Come si può
desumere dalla figura 1.1, l’era più recente ha una durata
puntiforme rispetto alle altre ere. Tuttavia in quest’era, si è
assistito a cambiamenti alimentari, demografici e sanitari di
dimensioni storiche enormi: sono diminuite fino a quasi
scomparire alcune malattie infettive, mentre sono comparse e
aumentate molte malattie multifattoriali. E’ ragionevole
pensare che un ruolo nella patogenesi di queste malattie sia
stato giocato dal confronto di un organismo che era adattato
ad un ambiente diverso e che non ha avuto il tempo di
adattarsi ai nuovi cambiamenti, verificatisi nel giro di poche
generazioni.
Durante l’era agro-industriale stiamo assistendo ad altre
transizioni di portata storica: la transizione demografica e la
transizione alimentare. Nella
possiamo riconoscere 3 fasi:
•
transizione
demografica
un periodo di aumento esponenziale della popolazione,
dovuto al mantenimento del pre-esistente elevato tasso di
15
1.Introduzione
fertilità cui si aggiunge una progressiva riduzione della
•
mortalità (per motivi nutrizionali, igienici e medici);
un periodo di equilibrio in cui il tasso di fertilità comincia a
diminuire ma la riduzione della mortalità prosegue,
consentendo un saldo attivo della popolazione;
•
una terza fase, in cui il tasso di fertilità diminuisce
ulteriormente (essenzialmente per motivi socio-culturali)
fino a giungere ad una crescita di popolazione intorno allo
0.
I paesi più ricchi hanno già compiuto questa transizione,
mentre i paesi più poveri sono ancora nella sua fase centrale
(e le proiezioni sul compimento di questa presentano diversi
punti di incertezza). In una posizione intermedia si pongono i
paesi asiatici (fig. 1.2, 1.3, 1.4).
Anche la transizione alimentare può essere divisa in diverse
fasi.
• 1. Il miglioramento delle condizioni nutrizionali ha inciso
largamente sulla diminuzione diretta (fame) e indiretta
(infezioni) di mortalità.
• 2. I cambiamenti si sono consolidati producendo probabili
ricadute positive sui figli di donne ben-nutrite (questo ha
portato in generale ad un aumento della statura media
della popolazione).
•
3. Si teorizza il rischio che un eccesso alimentare (obesità)
possa interrompere i trend sanitari positivi ed influenzare
16
1. Introduzione
forse per la prima volta una diminuzione dell’aspettativa di
vita nei paesi più ricchi.
Oltre all’aumentata disponibilità di cibo, la transizione
alimentare ha visto tuttavia altri importanti cambiamenti. Ad
esempio, il contenuto di proteine nel frumento è
drasticamente cambiato, con un aumento rilevante della
quota rappresentata dal glutine (dal 2 al 20% del contenuto
proteico) e questo cambiamento ha reso via via più evidente
l’esistenza di soggetti intolleranti al glutine. Non solo, come
sarà discusso più avanti (cap. 5), le manifestazioni cliniche
della celiachia sono a loro volta cambiate nell’ultimo secolo di
pari passo con il cambiamento delle condizioni igieniche.
Ancora, la nutrizione dei lattanti con latte vaccino è un
fenomeno che ha conosciuto un’ampia diffusione solo negli
ultimi due secoli; le modalità di conservazione dei cibi sono
completamente cambiate: dalla salatura, affumicatura e
salamoia si è passati sempre più all’utilizzo di conservanti o
alla conservazione in frigorifero.
L’aumento di alcune delle malattie multifattoriali che stiamo
osservando potrebbe essere la conseguenza di queste
transizioni epocali, che rischiano di essere più rapide rispetto
alla nostra capacità di adattamento biologico. Lo studio delle
malattie di oggi, quindi, potrebbe aiutarci a vigilare meglio sui
cambiamenti che produciamo all’ambiente e a prevederne i
possibili effetti dannosi per la salute di domani.
17
1.Introduzione
Fig. 1.2. Stime della
popolazione e proiezioni dal 2005 al 2050 in diverse
2
aree geografiche .
Fig. 1.3. Variazioni del tasso di natalità in diverse aree geografiche. La
18
1. Introduzione
2
crescita 0 si osserva per un tasso leggermente superiore a 2 .
2
Fig.1.4. Aspettativa di vita e proiezioni in diverse aree geografiche .
19
2. Intestino e ambiente
2. Intestino e ambiente
La nostra sopravvivenza come quella di ogni essere vivente è
resa possibile solo dall’assunzione di sufficienti quantità e
qualità di nutrienti. I nutrienti servono al tempo stesso a
fornire le molecole essenziali per il funzionamento
dell’organismo e le fonti energetiche per il loro utilizzo.
L’organismo umano dedica alla funzione nutritiva un apparato
molto complesso e raffinato: l’apparato digerente.
I primi passaggi (masticazione, omogenizzazione con saliva e
poi con succhi gastrici acidi, neutralizzazione del pH acido e
digestione da parte di enzimi pancreatici) sono rivolti alla
semplificazione
dell’alimento
e
alla
progressiva
solubilizzazione e digestione delle molecole in esso contenute.
Nelle prime porzioni del digiuno sono resi disponibili peptidi,
aminoacidi, monosaccaridi, lipidi e altre molecole che vengono
assorbite per lo più attraverso meccanismi specifici facilitati da
recettori o per diffusione semplice. In condizioni normali, il
materiale residuo che passa nell’intestino crasso non
dovrebbe contenere più quantità apprezzabili di nutrienti. I
batteri in esso contenuti favoriscono la degradazione di
macromolecole non utilizzate, come la cellulosa,
metabolizzano i residui proteici indigeriti, e sintetizzano
vitamine del gruppo B e K.
20
2. Intestino e ambiente
In realtà le cose non sono così semplici. Il fatto che la mucosa
intestinale sia dedicata all’assorbimento di molecole semplici,
fa sì che il suo epitelio sia disponibile al contatto con le
sostanze provenienti dall’ambiente con un effetto di barriera
molto fragile (sicuramente molto più fragile di quello presente
ad esempio sulla pelle). Ci troviamo dunque di fronte al
paradosso di un sistema molto vulnerabile che, per necessità
di sopravvivenza, deve essere continuamente messo alla
prova da sostanze provenienti dall’ambiente esterno: in
questa situazione eventuali sostanze tossiche o dannose o
batteri patogeni possono facilmente mettere in crisi il sistema,
penetrando all’interno del circolo ematico o danneggiando il
sistema di approvvigionamento dei nutrienti. Ma questo è un
rischio che si deve correre, se si vuole poter sfruttare la più
ampia gamma di sostanze nutritive presenti nell’ambiente. A
far fronte a questo rischio, per fortuna, si sono sviluppati
alcuni fattori di difesa: in primo luogo, il pH acido dello
stomaco, oltre a svolgere una funzione digestiva è in grado di
neutralizzare (nell’adulto) molti batteri. In secondo luogo, il
tubo digerente è disseminato di cellule del sistema
immunitario, organizzate in diversi livelli: cellule mucosali,
sotto mucosali, noduli linfatici isolati, placche del Peyer, il
tutto gravitante sul sistema di linfonodi mesenterici (fig 2.1).
Complessivamente, questo sistema costituisce il secondo
organo linfoide per dimensioni dopo la milza. Il cosiddetto
21
2. Intestino e ambiente
sistema immune associato alle mucose (MALT) comprende il
50% del tessuto linfatico dell’intero organismo e provvede al
70% della produzione anticorpale (in massima parte
rappresentata da IgA).
Fig 2.1. Sistema immune associato alla mucosa intestinale: follicoli linfatici
solitari; aggregati follicolari in placche organizzate (Placche del Peyer). Da
Sinelnikov, Atlante di Anatomia
Questi dati non sorprendono, ove si ricordi che l’intestino, per
i motivi sopra elencati, è un luogo di contatto continuo tra gli
antigeni estranei e il sistema immunitario. Il compito del
sistema immunitario in realtà non è semplice, perché prevede
che la maggior parte del contenuto alimentare venga tollerato
(questo è necessario per la nostra nutrizione), ma prevede
anche che agenti potenzialmente dannosi vengano identificati
e combattuti efficacemente. Alcuni autori suggeriscono che la
mucosa intestinale sia una centrale di addestramento sia per
22
2. Intestino e ambiente
la tolleranza immune sia per la risposta ai patogeni. Ad
esempio, è stato dimostrato che anticorpi di tipo IgA prodotti
contro Escherichia coli enterotossigeni a livello intestinale,
vengono successivamente ritrovati oltre che nei fluidi
intestinali anche nel latte materno e nella saliva. Secondo
alcuni studi, in soggetti con gravi malattie, la nutrizione
enterale, a differenza di quella parenterale, garantisce il
mantenimento di una produzione anticorpale di superficie,
anche a vantaggio della mucosa respiratoria, con migliore
difesa dalle infezioni respiratorie. Questa difesa sarebbe
garantita dalla ricircolazione di linfociti intestinali, attraverso i
linfonodi mesenterici nel dotto toracico e quindi nella
circolazione sanguigna sistemica (fig. 2.2).
Questo avviene a maggior ragione per la risposta di tolleranza
ai cibi e non solo. La differenza tra tolleranza e immunità sta
probabilmente nel modo con cui vengono riconosciuti gli
antigeni dal lume intestinale: antigeni corpuscolati (inglobati
dalle M cells e passati attraverso le placche del Peyer) e
antigeni riconosciuti in presenza di particolari tossine o di
componenti batteriche associate a patogenicità (PAMPs,
pathogen associated molecular patterns), tenderanno a
produrre una risposta immunitaria di difesa. Gli altri antigeni
saranno invece identificati come “cibo” e indurranno una
risposta di tolleranza. Possiamo dire che, in assenza di fattori
23
2. Intestino e ambiente
patogeni definiti, il programma di funzionamento basilare del
sistema immune mucosale dell’intestino è la tolleranza.
Fig 2.2. Ricircolo dei linfociti nei diversi siti mucosali.
Ora, è bene notare che i due fenomeni devono essere in un
equilibrio perfetto. La risposta contro i patogeni, infatti, non
ha solo conseguenze positive (eliminazione del patogeno) ma
anche negative (infiammazione e danno tessutale): una volta
avviata, una reazione a patogeni rischierebbe di estendersi
24
2. Intestino e ambiente
facilmente ad altri antigeni estranei presenti nel bolo
alimentare. Come fa il sistema a capire che non appartengono
al patogeno anch’essi? Non lo può capire, lo deve sapere già.
Saperlo già significa che devono esistere linfociti specializzati a
riconoscere gli antigeni alimentari come non nocivi,
specializzati in altre parole a tollerare questi antigeni, evitando
che la reazione immune venga estesa a questi. Deve esistere
cioè una memoria della tolleranza. Il fenomeno della
tolleranza agli alimenti (e anche della flora batterica saprofita)
deve quindi essere, almeno in parte, un fenomeno attivo.
L’esistenza di una tolleranza attiva mantenuta da specifiche
cellule è sostenuta anche dalle osservazioni che, attraverso la
somministrazione orale di antigeni è possibile estendere la
tolleranza anche in organi distanti dell’intestino e che, in
animali da laboratorio, questa tolleranza può essere trasmessa
ad altri animali attraverso l’infusione di linfociti periferici
(Linfociti regolatori, vedi scheda). L’importanza di questo
equilibrio per la nutrizione, e quindi per la vita, rende conto
delle dimensioni importanti del sistema immune intestinale. E’
chiaro, altresì, che una perturbazione di questo equilibrio, per
motivi diversi, potrebbe portare a conseguenze molto gravi: si
tratta proprio delle malattie di cui ci occupiamo in questo
corso.
25
2. Intestino e ambiente
Per meglio comprendere questi aspetti, può essere utile
richiamare alcune conoscenze generali sulle modalità della
risposta immune e di tolleranza.
Le cellule del sistema immunitario possono schematicamente
essere suddivise in tre gruppi:
•
Cellule dell’immunità naturale. Sono capaci di fagocitare
sostanze estranee e di presentarne frammenti ai linfociti.
Sono attivate da strutture molecolari condivise di
derivazione batterica (i PAMPs), attraverso il legame con
molecole del gruppo dei toll like receptors (TLR). Sono in
grado di fagocitare cellule (batteriche o fungine o cellule
danneggiate), detriti e altre particelle opsonizzate da
molecole del complemento o anticorpi. Producono
•
•
sostanze capaci di modificare la permeabilità vasale e
capaci di richiamare altre cellule. Producono enzimi litici e
degradativi.
Cellule natural killer. Sono dedicate soprattutto a vigilare
sulle anomalie delle cellule dell’organismo (per infezioni
virali; per trasformazione neoplastica). Producono la lisi
delle cellule bersaglio con vari meccanismi.
Linfociti T e B. Sono le cellule dell’immunità adattativa.
Durante il loro sviluppo, ciascuna cellula va incontro a un
processo di ricombinazione genetica del proprio recettore
(recettore dei linfociti T o TCR; immunoglobuline per i
linfociti B) che è uno dei presupposti essenziali per la loro
26
2. Intestino e ambiente
definitiva maturazione. Successivamente, in seguito a
fenomeni di selezione centrale (timo per i linfociti T) e
periferica (organi linfatici) ciascuna cellula matura potrà
dare origine ad un clone più o meno ampio, recante
un’unica specificità recettoriale. Per quanto riguarda i
linfociti T, il processo di selezione centrale è molto
rigoroso, e conduce infatti all’eliminazione di più del 90%
delle cellule durante la maturazione nel timo. Attraverso
meccanismi solo in parte decifrati, il timo vaglia i recettori
dei linfociti T, distinguendo almeno tre tipi di linfociti:
quelli inutili o dannosi, che vengono eliminati; quelli
potenzialmente utili, che vengono selezionati; quelli
reattivi verso il self che, secondo l’ipotesi più accreditata,
vengono selezionati con un programma di lavoro che
permetterà la loro attivazione a difesa di possibili
autoaggressioni (linfociti regolatori o Treg, vedi scheda).
Questa breve descrizione risponde all’osservazione fatta già
un secolo fa da Paul Erlich che, a fronte dell’esistenza di
un’ampia gamma di specificità anticorpali, postulava
l’esistenza di un “horror autotoxicus”, cioè di qualche
meccanismo che impedisse al sistema immunitario di fare
anticorpi anche contro le molecole del proprio organismo.
Infatti, all’interno della centrale di addestramento timica ogni
recettore può essere confrontato con una gamma (quasi)
27
2. Intestino e ambiente
completa di antigeni dell’organismo. Tuttavia, in questa sede
non può avvenire il confronto tra il TCR e l’altrettanto ampia
varietà di antigeni alimentari che, al pari di quelli self, devono
essere tollerati. Questo scenario quindi non spiega come si
possa generare la tolleranza verso gli antigeni alimentari. La
domanda è quindi se esistano veramente linfociti regolatori
della tolleranza verso gli alimenti e se sì come e dove questi si
formino?
Una risposta ragionevole potrebbe essere che la tolleranza
verso gli alimenti nasca primariamente proprio nell’intestino,
e non nel timo, come accade invece per la tolleranza verso il
self. Questo, in effetti, sembra essere vero, almeno in parte.
Nella mucosa intestinale, infatti, vengono generate grandi
quantità di altri tipi di linfociti regolatori, che sembrerebbero
più specializzati proprio per questa funzione.
28
2. Intestino e ambiente
Linfociti regolatori e tolleranza immune: diverse prove
diversi linfociti.
1) I linfociti Tregs o natural Tregs o i “linfociti di Sakaguchi”.
La prima dimostrazione dell’esistenza di questi linfociti deriva da
una ricerca di S. Sakaguchi del 1995 3. Venivano utilizzati topi privi
di timo a causa di una variante genetica omozigote (topi nude
BALB/c nu/nu) e topi singenici eterozigoti per la caratteristica nu
(BALB/c nu/+) provvisti di un normale sistema immune. I topi nude,
se non vengono tenuti in ambiente sterile, muoiono rapidamente a
causa dell’assenza di un sistema immune. Linfociti ottenuti da
linfonodi e milza di topi BALB/c nu/+ sono tuttavia in grado di
ricostruire un sistema immune funzionale in questi animali
permettendo la sopravvivenza in un ambiente normale. Sakaguchi
scoprì che il trasferimento dei linfociti depletati di una piccola
popolazione di linfociti CD4 caratterizzata dall’elevata espressione
del CD25 (catena alfa del recettore dell’IL-2) causava nei topi
riceventi lo sviluppo di malattie autoimmuni multiple. Per un
limitato periodo di tempo dopo l’infusione, lo sviluppo di queste
malattie poteva essere bloccato dall’aggiunta delle cellule
precedentemente sottratte (CD4+CD25+). L’autore concludeva
pertanto che quella popolazione dovesse contenere linfociti in
grado di mantenere la tolleranza verso il self.
Una decina di anni dopo, lo stesso autore dimostrò che quella
particolare popolazione di linfociti CD4+CD25+ veniva generata nel
timo e svolgeva la sua azione grazie all’espressione del fattore di
trascrizione FOXP3 4.
Questo studio dimostra che il gene FOXP3 è importante nella
formazione di un sottogruppo di linfociti regolatori (CD4+CD25+) in
grado, quando stimolati, di bloccare l'attivazione di linfociti
presenti nell'ambiente circostante. In particolare, la ricerca prova
che FOXP3 è espresso nel timo, soprattutto nei linfociti
CD4+CD25+, dove la quantità di espressione è circa 100 volte
maggiore che negli altri linfociti. L’espressione forzata di FOXP3 in
linfociti T naive per mezzo di un transgene si associa ad una
diminuita capacità proliferativa, a una diminuita produzione di
citochine e ad una aumentata espressione di alcune molecole di
superficie caratteristiche dei linfociti regolatori (GITR, CD104, CTLA4). Le cellule trasdotte in questo modo si mostrano in grado di
29
2. Intestino e ambiente
sopprimere in co-cultura la proliferazione di cellule CD4+CD25- in
modo proporzionale all'espressione del transgene. Si precisa infine
che l'attività soppressiva dipende dallo stimolo del recettore delle
cellule regolatrici (è cioè secondaria all'attivazione di queste
cellule) e si esplica attraverso il contatto cellulare e non
semplicemente dalla produzione di citochine regolatorie (come
descritto per altri tipi di cellule regolatorie). A conferma del ruolo
regolatorio delle cellule FOXP3+ vengono compiuti anche degli
studi in vivo, in cui si dimostra che le cellule transgeniche per
FOXP3 sono in grado di curare la malattia causata nei topi irradiati
dalla somministrazione dei soli linfociti CD4+CD25-.
Nel 2001 (due anni prima di quest’ultimo studio di Sakaguchi),
mutazioni del gene FOXP3 erano state descritte come responsabili
di una rara sindrome genetica legata al cromosoma X e
caratterizzata dalla comparsa precoce di molteplici fenomeni
autoimmuni e allergici. Questa malattia, denominata IPEX
(Immunodysregulation Polyendocrinopathy Enteropathy X-Linked)
rappresenta l’esempio genetico del difetto dei linfociti regolatori,
responsabili del mantenimento della tolleranza.
Nella nostra esperienza, la cura e lo studio di un bambino con
questa malattia hanno costituito un’occasione importante di
incontro tra l’esemplarietà di una malattia monogenica per la
ricerca di base e le ricadute delle conoscenze a servizio delle
necessità cliniche 5-7.
2) Altri linfociti regolatori. Tr1 e tolleranza intestinale. I “linfociti
della Roncarolo”.
Si tratta di un altro gruppo di linfociti, capaci di sopprimere
l’attivazione di linfociti nel microambiente circostante (bystander
action) per mezzo di citochine regolatrici, come l’interleuchina 10 e
TGFbeta. Questi linfociti non hanno bisogno del contatto diretto
con la cellula bersaglio e possono in tal modo favorire una
tolleranza di ambiente, non specifica solo per un determinato
antigene. Linfociti regolatori di questo tipo sono molto comuni
nella mucosa intestinale dove, tra l’altro, l’IL-10 contribuisce a
down-regolare l’eccessiva attivazione dei fagociti in continuo
contatto con i più vari stimoli ambientali.
30
2. Intestino e ambiente
L’apprendimento dell’ambiente.
Il primo anno di vita è il periodo in cui avviene il maggiore
adattamento del nostro organismo all’ambiente: questo è
vero tanto per lo sviluppo del nostro cervello che per quello
del nostro sistema immune. In entrambi i casi,
l’apprendimento ha un costo energetico e cellulare elevato
(perdita di neuroni nel cervello e perdita di linfociti nel timo).
In entrambi i casi si imparano le regole per interagire con
l’ambiente: il sistema nervoso pone le basi per il linguaggio,
per il riconoscimento del sé dall’ambiente esterno (se non
ancora per la coscienza dell’”io”); il sistema immune impara la
tolleranza e la risposta immune e monta le prime risposte
adattative all’ambiente. Il primo anno è, di fatto, il momento
privilegiato perché queste interazioni si possano sviluppare
correttamente. I primi mesi sono “tutelati” dal rapporto con la
madre che, non a caso, vede fondersi il momento alimentare
con quello della conoscenza dell’ambiente: la conoscenza
tattile, gustativa e olfattiva del seno e del latte; la conoscenza
uditiva della voce della madre, il riconoscimento dei suoi
occhi; la conoscenza di tracce di alimenti ingeriti dalla madre
attraverso il latte; la graduale conoscenza di un mondo
microbiologico che si accresce pian piano. E’ logico pensare
che la perturbazione di queste condizioni nel primo anno di
vita possa avere conseguenze sia sul lato cognitivo sia su
quello immunologico.
31
2. Intestino e ambiente
La
maturazione
intestinale nel bambino.
dell’immunità
Ci sono prove che già in utero avvenga un certo
riconoscimento di antigeni alimentari che possono
raggiungere il feto attraverso il sangue placentare. Di fatto,
linfociti specifici per antigeni alimentari possono essere
identificati nel sangue cordonale della maggior parte dei
neonati 8-10. In questa fase la risposta immune è però
dominata da un complesso programma immunologico che
garantisce al tempo stesso la tolleranza reciproca tra madre e
feto. Alla nascita si verificano diversi eventi in grado di
modificare in varia misura questo equilibrio.
•
L’intestino del neonato viene rapidamente colonizzato da
batteri. Ci sono diverse dimostrazioni che questa
colonizzazione contribuisca a modellare l’organizzazione
del sistema immune del bambino. I linfociti B produttori di
IgA e IgM cominciano a colonizzare la mucosa intestinale
dopo una settimana dalla nascita, raggiungendo livelli
stabili solo dopo un mese. Questo non avviene in neonati
alimentati per nutrizione parenterale totale (fig. 2.3).
L’osservazione che bambini nati con taglio cesareo (in
condizioni di maggior sterilità), tendono ad avere
un’incidenza di allergie maggiore rispetto ai neonati da
parto spontaneo potrebbe fornire un altro dato indiretto a
32
2. Intestino e ambiente
sostegno dell’importanza della colonizzazione intestinale
•
precoce nella maturazione del sistema immunitario.
Il bambino conosce gli antigeni alimentari attraverso
l’intestino. Questi possono essere forniti da formule per
lattanti o direttamente dall’allattamento materno. In
quest’ultimo caso, il contatto con la cute materna fornisce
un’ulteriore fonte di germi per la colonizzazione
intestinale. Inoltre, il latte materno, come vedremo nel
prossimo capitolo, contiene diverse sostanze e cellule
•
immunologicamente attive.
Gli alimenti contribuiscono a modellare il sistema immune
direttamente (per le loro caratteristiche chimiche e
antigeniche) e indirettamente (per le loro caratteristiche
nutrizionali e per la capacità di influire sulla costituzione
della flora batterica intestinale).
E’ possibile che diverse modificazioni di questi elementi
possano influenzare ampiamente lo sviluppo della tolleranza
intestinale, influenzando il rischio di sviluppare malattie
allergiche, e forse anche infiammatorie e autoimmuni.
33
2. Intestino e ambiente
Fig. 2.3. Ruolo degli alimenti nella maturazione del sistema immune
mucosale
34
3. Il latte materno
3. Il latte materno
Il latte materno è certo l’alimento naturale per un lattante.
Questo non significa necessariamente che sia il migliore
possibile. Però è stato fino ad oggi l’alimento che ha permesso
la sopravvivenza dei cuccioli umani (e dei mammiferi in
generale) ottenendo quindi dalla selezione naturale una sua
“certificazione di qualità”. Il senso di questa certificazione è
biunivoco, nel senso che è ragionevole pensare che
l’evoluzione abbia premiato le coppie nutrice-lattante
associate contemporaneamente alla migliore qualità del latte
(selezione della madre) e alla miglior capacità di tollerare
l’alimento e di utilizzarlo (selezione del bambino).
Si potrebbe d’altra parte obiettare che alcune delle condizioni
che hanno fatto la “forza” del latte materno oggi sono mutate
(almeno nei paesi più ricchi). Ad esempio, il latte materno
35
3. l latte materno
costituisce un alimento ragionevolmente puro dal punto di
vista microbiologico (non contaminato da patogeni) e anzi
microbiologicamente protetto grazie alla presenza di alte
concentrazioni di anticorpi solubili. Queste qualità sono
particolarmente importanti per il lattante, che non è ancora in
grado di difendersi efficacemente dai patogeni assunti per via
orale, data la minore acidità dei succhi gastrici e la maggiore
permeabilità intestinale. Queste qualità fanno tuttora il
successo del latte materno nei paesi più poveri e a minori
standard igienico-sanitari. Si calcola, anzi, che il ricorso
all’allattamento materno nei paesi più poveri potrebbe
prevenire, con vari meccanismi, il 13% di tutte le cause di
morte in bambini sotto i 5 anni 11.
Oggi però è possibile preparare sostituti del latte materno con
prodotti microbiologicamente puri, almeno per quanto
riguarda l’alimentazione del mondo più ricco. Tuttavia le
differenze tra il latte materno e i suoi sostituti non si
esauriscono qui.
Alcune evidenze suggeriscono, infatti, che il latte materno
abbia un effetto sulla funzione immune del piccolo lattante
molto diverso rispetto al latte di formula.
• Nel 1996, venne evidenziato che il timo di lattanti allattati
al seno aveva dimensioni molto maggiori (fino a doppie)
rispetto al timo di bambini allattati con latte di formula 11.
La differenza non era dovuta ad una differenza di
36
3. Il latte materno
frequenza di infezioni nei due gruppi. Secondo studi più
recenti, l’effetto potrebbe essere dovuto alla presenza nel
latte di IL-7, una citochina tipica dello sviluppo timico dei
linfociti, o in alternativa dal diverso condizionamento della
flora batterica intestinale.
•
Dati epidemiologici collegano l’allattamento al seno con un
ridotto rischio di malattie infettive nei primi mesi di vita, in
particolare con le gastroenteriti, ma anche infezioni
respiratorie. Questa protezione dipende sicuramente in
parte dall’effetto diretto delle immunoglobuline contenute
nel latte materno. In particolare, il latte contiene grandi
quantità di IgA (intorno a 1g/L), immunoglobuline
caratterizzate da importanti proprietà, tra cui la resistenza
alla proteolisi e la capacità di bloccare antigeni patogeni
senza provocare una rilevante reazione infiammatoria.
•
Tuttavia, molti dati suggeriscono che il latte materno abbia
anche un effetto indiretto sulla protezione da agenti
infettivi, favorendo una corretta maturazione del sistema
immune.
L’allattamento al seno sembra associato con un rischio
ridotto di sviluppare alcune malattie immunomediate a
distanza, tra cui il diabete autoimmune. Questo rischio è,
in realtà, difficile da misurare, trattandosi di malattie
multifattoriali la cui patogenesi può essere influenzata da
diversi cambiamenti ambientali.
37
3. l latte materno
•
In alcuni neonati prematuri può verificarsi una condizione
di stress acuto a carico dell’intestino con conseguente
necrosi ipossica dell’organo (enterocolite necrotizzante del
prematuro). L’intervento terapeutico in questi bambini
prevede tra l’altro una restrizione alimentare e la
somministrazione di antibiotici. Nei bambini allattati con
latte umano, la rialimentazione precoce è tollerata senza
aggravamento della patologia, diversamente da quanto
avviene per il latte di formula, la cui introduzione deve
quindi essere posticipata. Questa differenza è stata
secondo alcuni attribuibile al benefico effetto del fattore di
crescita degli epiteli (EGF) contenuto nel latte materno.
Le proprietà biologiche che permettono questi risultati non
sono ancora del tutto comprese. Va però osservato che molte
differenze dipendono dal processo di sterilizzazione del latte
formulato. Il trattamento al calore inattiva molte molecole
biologicamente attive (citochine, fattori di crescita, anticorpi e
ormoni), distrugge le cellule (il latte è ricco di macrofagi e altre
cellule) e modifica altre sostanze nutritive. Il latte materno, al
contrario, viene consumato come tale poco dopo la sua
“preparazione”, mantenendo inalterata l’attività di tutte
queste sostanze.
In altre parole, possiamo dire che la differenza è inevitabile, se
si considera il latte non solo per le sue proprietà nutritive ma
38
3. Il latte materno
anche per la presenza di molecole bioattive e di cellule. E’
bene precisare tuttavia che non conosciamo ancora, fino a che
punto queste qualità biologiche siano utili al corretto sviluppo
del lattante, dato che in condizioni ambientali ideali esistono
poche differenze tra i bambini allattati al seno e quelli
alimentati con le attuali formule sostitutive.
Vediamo di seguito le caratteristiche del latte materno cui
usualmente viene attribuita importanza rispetto al latte di
formula, anche se per la maggior parte di queste non è facile
misurare il reale beneficio a vantaggio del bambino.
• Compatibilità immunologica. Come accennato
in
precedenza, la compatibilità degli antigeni del latte
materno con il sistema immune del bambino è stata
oggetto di una selezione naturale lunga quanto la genesi
stessa dell’uomo. Le molecole del latte di altri mammiferi
•
forse non sono così diverse, ma non hanno passato questo
lungo periodo di “prova di compatibilità”, dato che sono
state introdotte massicciamente nell’alimentazione dei
lattanti solo negli ultimi due secoli.
Immunoprotezione. Diverse componenti presenti nel latte
materno possono contribuire ad un effetto protettivo
contro i patogeni. In primo luogo vanno considerate le
immunoglobuline di classe A (IgA). E’ bene sottolineare
che questi anticorpi non costituiscono un’aspecifica difesa
verso patogeni: essi portano con sé la memoria
39
3. l latte materno
dell’ambiente in cui vive la mamma e in cui si inserisce il
lattante. Oltre alle immunoglobuline, il latte contiene
alcune proteine ad azione diretta antibatterica: il lisozima,
in grado di lisare la parete dei batteri gram+ per mezzo di
un’azione digestiva sul proteoglicano; la lattoferrina, in
grado di inibire la crescita batterica sottraendo ferro e
stimolando la produzione di citochine (la lattoferrina
costituisce la prima proteina nel latte umano, con
concentrazioni di 1-4 g/L); la lattoaderina, una
glicoproteina in grado di legare ed inattivare il rotavirus.
Ancora, il latte contiene oligosaccaridi e mucine che
possono interferire con l’adesione batterica alle cellule
intestinali. Oltre a tutte queste molecole, il latte è ricco in
cellule (100-1000 cellule/mcL), in particolare macrofagi,
che potrebbero svolgere un ruolo nell’intestino del piccolo
•
lattante, oltre che, ovviamente, nel prevenire l’infezione
del latte all’interno della ghiandola mammaria.
Effetto antinfiammatorio e maturazione della mucosa.
Questi effetti sembrano essere garantiti da una miscela di
citochine e fattori di crescita, caratterizzata dalla
prevalenza di citochine antinfiammatorie, come il TGFbeta e l’IL-10, e dalla presenza di fattori come l’epidermal
growth factor (EGF) ed il fattore di crescita dei monociti e
granulociti, GM-CSF.
40
4. Le allergie alimentari
4. Le allergie alimentari
La nascita del concetto di allergia.
Possiamo far iniziare questa storia verso la fine dell’ ‘800.
Edward Jenner aveva posto le basi per le vaccinazioni, Luis
Pasteur aveva da poco dimostrato il collegamento tra
microrganismi e malattie, Robert Koch aveva evidenziato i
criteri necessari per confermare la relazione causa-effetto tra
infezione e malattia (postulati di Koch). Nel 1885 Pasteur
utilizza per la prima volta il vaccino contro la rabbia e nel 1891
Emil Adolf von Behring a Berlino utilizza per la prima volta il
siero anti-difterico in un bambino ammalato di difterite. Le
infezioni costituivano a quel tempo la principale causa di
malattia e di morte. I progressi della microbiologia e i primi
passi dell’immunologia suggerivano la possibilità di un
cambiamento, ancor più enfatizzata dal generale spirito
positivista della scienza di fine secolo.
In questa ambientazione, nel 1896 si assiste al primo decesso
in seguito all’utilizzo di un siero anti-difterico, evento che
colpisce ancor di più in quanto si trattava di un trattamento
preventivo in un bambino sano. Successivamente vengono
riportati altri casi di reazione da siero, accompagnati dalla
comparsa di febbre, macchie cutanee e insufficienza renale
con shock. La patogenesi di questa malattia non venne subito
41
4. Le allergie alimentari
compresa finché nel 1903 Arthus dimostrò che iniezioni
ripetute di siero in conigli provocano simili reazioni e von
Pirquet e Shick sottolinearono il fattore temporale della
malattia da siero ed ipotizzarono che la malattia potesse
costituire una “collisione tra antigeni e anticorpi”.
Si tratta di un’ipotesi che rivoluzionerà
l’interpretazione di molte malattie.
lentamente
Il XIX secolo aveva visto nelle infezioni la causa riconoscibile
della maggior parte delle malattie e nel sistema immunitario la
difesa da parte dell’organismo. I sintomi delle malattie
venivano anch’essi attribuiti all’azione diretta dei
microrganismi.
Von Pirquet (fig 4.1), invece, partendo dalla similitudine tra i
sintomi tipici della malattia da siero e quelli presenti in molte
malattie infettive esantematiche, ipotizzò per la prima volta
che i sintomi delle malattie infettive potessero derivare non
tanto dall’azione del germe ma dalla risposta contro di esso da
parte del sistema immunitario.
L’ipotesi, per l’epoca poteva sembrare molto azzardata, ma in
realtà si appoggiava su un’altra osservazione fondamentale: il
rapporto temporale tra la causa ed il sintomo. Il tempo di
“incubazione” della malattia da siero era, infatti, simile a
quello di alcune malattie esantematiche, come il morbillo (Lo
studio di von Pirquet, vedi scheda).
42
4. Le allergie alimentari
Fig. 4.1. Clemens von Pirquet, ricordato in un numero del J. Immunology
Come vedremo, questi pensieri non hanno costituito solo una
speculazione filosofica ma, dimostrando che la risposta
immunitaria può essere responsabile di sintomi
“inappropriati”, aprirono il grande capitolo dello studio delle
malattie immunomediate. Questo filo logico continua oggi
nell’osservazione della patomorfosi (cambiamento nel tempo
della modalità di esprimersi di una malattia) di alcune malattie
infettive: vecchie malattie (ad esempio la tubercolosi) hanno
cambiato la loro presentazione nel tempo, a causa di
43
4. Le allergie alimentari
cambiamenti dell’ambiente e dell’ospite e non è da escludersi
che alcune infezioni si esprimano solo con lo scatenamento di
malattie multifattoriali immunomediate. Il paradosso di un
sistema immune che può creare malattia diventa ancor più
evidente in un’epoca in cui il benessere fa passare in secondo
piano la gravità delle infezioni e fa emergere l’apparente
contraddizione che von Pirquet indica come allergia (allos
ergon = alterata reattività). L’esempio di von Pirquet ci fa
comprendere la continuità tra la patologia immune di ieri
(soprattutto infettiva) e la patologia immune di oggi
(soprattutto dis-reattiva).
L’allergia, come intesa oggi, in realtà è un fenomeno immune
abbastanza diverso da quello illustrato da von Pirquet. Di
fatto, lo studioso estese ben presto il concetto ad una serie di
diverse manifestazione dovute a inappropriata risposta
immune. Reazioni che in seguito, Gell e Coombs
raggrupparono in 4 classi.
La malattia da siero corrisponde all’ipersensibilità di tipo III,
mediata da immunocomplessi. L’esempio più tipico di malattia
da immunocomplessi nell’uomo è oggi quello del Lupus
Eritematoso Sistemico.
La risposta allergica corrisponde invece a meccanismi diversi,
per lo più riconducibili alle reazioni di ipersensibilità di tipo I
secondo Gell e Coombs. Ma il concetto di una alterata
44
4. Le allergie alimentari
reattività immune, come meccanismo di malattia, resta valido
ed è oggi alla base di numerose malattie.
Lo studio di von Pirquet
Clemens von Pirquet studia teologia a Innsbruck e filosofia a
Leuven, poi Medicina a Graz fino a trasferirsi all’Ospedale
pediatrico di Vienna verso l’inizio del ‘900, sotto la guida del prof
Escherich (padre degli Escherichia coli). In questo vivace ambiente
scientifico, von Pirquet affronta il paradosso tra malattia e
protezione immune, sostenendo che un agente patogeno
causerebbe segni di malattia nell’organismo solo dopo essere
“modificato” dalla presenza di anticorpi. Il tempo di incubazione
della malattia coinciderebbe con il tempo richiesto per la
formazione degli anticorpi. Per l’epoca si trattava di una teoria
particolarmente innovativa e un po’ eretica rispetto ai successi del
“positivismo” microbiologico.
Nel 1903 (all’età di 29 anni), von Pirquet invia una lettera sigillata
all’accademia delle Scienze di Vienna contenente quello che oggi
verrebbe definito il suo “progetto di ricerca”. In esso era contenuta
l’ipotesi di partenza e le modalità con cui l’autore si proponeva di
dimostrarla. La busta sarebbe stata aperta 5 anni dopo alla
presenza dello stesso von Pirquet.
45
4. Le allergie alimentari
L’ipotesi era che sintomi di malattie esantematiche come il
morbillo fossero dovuti non direttamente al patogeno ma alla
risposta dell’organismo contro di questo. Infatti, la febbre, le
lesioni cutanee e il tempo di incubazione potevano ricordare
proprio la reazione da siero.
Somministrando siero di cavallo a conigli, von Pirquet dimostrò che
(vedi immagine):
- la formazione di anticorpi circolanti dopo l’infusione di grandi
quantità di siero eterologo è ritardata;
- il ritardo è simile a quello che si osserva nella comparsa dei
sintomi della malattia da siero e nell’incubazione di alcune
malattie esantematiche;
- una seconda infusione successiva porta a un calo degli
anticorpi circolanti e alla comparsa immediata di sintomi;
- la reazione è specifica: la seconda infusione deve contenere lo
stesso siero;
- piccole dosi di siero inducono anticorpi ma non sintomi clinici.
A questa alterata reattività dell’organismo, in grado di produrre
sintomi, von Pirquet dà il nome di “allergia“ (allos-ergon).
Diversi meccanismi per diverse allergie:
risposta pronta reaginica; risposta
ritardata cellulare.
La risposta allergica ricade prevalentemente tra le reazioni di
ipersensibilità di tipo I e di tipo IV secondo Gell e Coombs.
Le reazioni di tipo I dipendono dalla stimolazione di una
risposta linfocitaria dominata dalle citochine IL-4, IL-5 e IL-10
(profilo Th2) in assenza di una sufficiente attivazione di
meccanismi contro-regolatori (produzione di IgA o IgG
46
4. Le allergie alimentari
neutralizzanti; attivazione di linfociti regolatori specifici). I
linfociti Th2 sostengono a loro volta la produzione di
immunoglobuline di tipo IgE da parte dei linfociti B (effetto
dell’IL-4) e l’attivazione di granulociti eosinofili (effetto dell’IL5). Le IgE specifiche, dette anche reagine, si legano ai recettori
Fc sulla membrana dei mastociti, fino al momento in cui
incontrano l’allergene. Il riconoscimento dell’allergene, di
solito provvisto di epitopi ripetuti, provoca il raggruppamento
delle IgE di superficie e la degranulazione dei mastociti, con
rilascio di istamina e di altre sostanze bioattive. L’istamina
provoca vasodilatazione ed aumento della permeabilità
vasale, con conseguente edema dei tessuti, stimolazione delle
terminazioni nervose, prurito, rilascio di neuro-peptidi. Queste
reazioni si sviluppano in genere nel giro di minuti
(eccezionalmente ore) dopo il contatto con l’allergene e sono
dette perciò anche reazioni di “ipersensibilità immediata” o
“reazioni pronte” o “reaginiche”. Questo tipo di reazione,
infine, avrà diverse conseguenze in base all’organo in cui si è
verificato l’incontro con l’allergene.
Nella pelle, reazioni minori condurranno alla formazione del
pomfo, lesione elementare caratterizzata da edema
superficiale (dovuto all’aumento di permeabilità vasale),
pruriginosa e circondata da un’area più o meno ampia di
eritema (dovuto alla vasodilatazione). Reazioni più estese
possono condurre a vaste chiazze di orticaria e in caso di
47
4. Le allergie alimentari
compromissione più profonda ad angioedema (in questo caso
l’edema interessa anche gli strati cutanei profondi e il
sottocute).
Un allergene che venga inalato entrerà invece a contatto con
la mucosa respiratoria, a diversi livelli, a seconda della sua
dimensione. Particelle più grandi stimoleranno una risposta
immune a livello della mucosa nasale e paranasale
provocando edema e secrezione nasale (rinite allergica) e, nei
casi più gravi, sinusite e proliferazione della mucosa. A livello
bronchiale, l’allergene potrà invece provocare, in soggetti
predisposti (broncoiperreattività) bronco costrizione ed
edema della mucosa con diminuzione del calibro bronchiale e
difficoltà espiratoria (espirazione prolungata con fischi e
gemiti, asma). Una complicazione temibile delle reazioni
allergiche è l’edema della glottide, che può portare a morte
per soffocamento.
A livello dell’apparato digerente si potranno avere sintomi
come edema delle labbra, prurito, vomito e enterocolite
allergica.
La persistenza della stimolazione allergica può condurre ad
uno stato di infiammazione allergica cronica, caratterizzato da
un ruolo maggiore degli eosinofili e dalla persistenza di
edema.
In alcuni casi, sono sufficienti minime dosi di antigene che
raggiungano il circolo per provocare reazioni allergiche
48
4. Le allergie alimentari
sistemiche (anafilassi) che possono portare rapidamente a
decesso per shock circolatorio. Il trattamento, in questi casi,
richiede l’utilizzo di adrenalina, per mantenere il circolo e
secondariamente di antistaminici e cortisonici per arginare la
risposta allergica.
Le reazioni allergiche ritardate avvengono di solito a ore o
giorni dall’introduzione dell’allergene e sono dovute a un
meccanismo immunologico diverso, classificabile come
reazione di tipo IV secondo Gell e Coombs. Sono basate su
questo meccanismo alcune allergie come l’enteropatia da
proteine del latte vaccino. Il criterio temporale ha particolare
importanza nella diagnosi di allergia. In particolare la relazione
di causa-effetto tra l’esposizione all’allergene e lo sviluppo dei
sintomi sarà in genere evidente per reazioni immediate. Per
reazioni più lente e/o in caso di sintomi più sfumati, la
relazione di causa-effetto può essere dubbia. In questi casi,
elementi aggiuntivi per la diagnosi specifica possono essere
ottenuti da test di provocazione cutanea (prick test) o dalla
ricerca di anticorpi IgE specifici nel sangue (RAST). Anche
l’aumento degli eosinofili nel sangue (o nel muco nasale) dopo
stimolo con l’antigene può fornire un utile parametro
informativo.
Il prick test è una procedura diagnostica che ricerca la
presenza nella cute di mastociti sensibilizzati con IgE
49
4. Le allergie alimentari
specifiche. Infatti, nelle ipersensibilità immediate, le IgE
tendono a distribuirsi sui mastociti in tutte le sedi,
indipendentmente dalla
localizzazione dei sintomi
(respiratori,
cutanei,
gastroenterici). La cute
offre
quindi
un
“laboratorio” facilmente
accessibile dove ricercare
la presenza
anticorpi.
di
questi
In pratica, una goccia di
soluzione
contenente
un’appropriata
concentrazione
dell’antigene
viene
applicata sulla cute e con
un ago si produce una
piccola scarificazione in
Fig. 4.2.Esecuzione di un prick test.
modo da interrompere la barriera epiteliale e facilitare il
contatto dell’antigene con i mastociti cutanei (fig. 4.2). Nel
caso che siano presenti IgE specifiche, queste indurranno la
degranulazione dei mastociti, e la formazione del pomfo. Le
dimensioni e la forma del pomfo e dell’area eritematosa che lo
circonda possono fornire un dato semi-quantitativo
50
4. Le allergie alimentari
sull’intensità dell’allergia. L’esame è eseguito di solito
confrontando diversi allergeni con un controllo positivo
(istamina).
Questo test, in presenza di una sintomatologia allergica, ha un
elevato potere informativo, tuttavia è bene tenere in
considerazioni alcuni aspetti. Primo, la positività al prick test
non indica necessariamente un’allergia con espressione clinica
manifesta: alcuni soggetti possono avere il prick test positivo
ma possono tollerare (con vari meccanismi compensatori)
l’allergene. In questi soggetti un’esclusione dell’allergene
potrebbe avere conseguenze peggiori che una continua
esposizione. Il prick test può risultare falsamente negativo in
soggetti
che
assumono
farmaci
antistaminici
e
corticosteroidei. Infine, non sempre l’antigene applicato nel
prick test rispecchia fedelmente quello in grado di provocare
la reazione allergica (che può essere ad esempio un allergene
derivato dalla digestione di proteine nell’apparato digerente).
Un test equivalente rispetto al prick test è costituito dai RAST.
In questo caso, gli anticorpi IgE specifici sono misurati nel siero
dei pazienti per mezzo di una metodica radio-immunologica. I
vantaggi dei RAST stanno nell’elevato numero di allergeni
valutabili contemporaneamente e nella possibilità di ottenere
un dato quantitativo indipendente dal trattamento attuale del
paziente. Gli svantaggi stanno nel costo, ma anche in
51
4. Le allergie alimentari
un’eccessiva identificazione di risposte allergiche clinicamente
non rilevanti.
Nel caso di allergie con ipersensibilità di tipo ritardato, i test
utili per la conferma diagnostica saranno differenti,
includendo il dosaggio di anticorpi di tipo IgG (ad esempio
nell’enteropatia da intolleranza alle proteine del latte vaccino)
o l’applicazione dell’antigene per periodi di 48-72 ore (patch
test, nella dermatite da contatto).
In ogni caso, una prova della responsabilità di un dato
alimento in una reazione allergica potrà derivare da test di
scatenamento, in cui si riproduca (con le precauzioni adeguate
rispetto al tipo di reazione) la tipica relazione temporale tra
applicazione dello stimolo e manifestazione clinica. In caso di
sintomi soggettivi o più difficilmente misurabili e oggettivabili,
potrà essere utile eseguire test di scatenamento in doppio
cieco, cioè somministrando in giorni diversi l’antigene
“mascherato” in modo che né il medico né il paziente lo
possano riconoscere, fino a completamento della procedura.
52
4. Le allergie alimentari
Allergie alimentari: allergia al latte.
L’allergia alimentare al latte è una condizione relativamente
frequente nei primi anni di vita, interessando il 5% dei
bambini. Il sintomo più frequentemente associato all’allergia
al latte è costituto dalla dermatite, ma è bene ricordare che
meno di un terzo delle dermatiti eczematose dei primi anni di
vita dipendono da allergie alimentari. Più raramente, l’allergia
al latte può presentarsi anche (o soltanto) con sintomi di tipo
anafilattico (cioè sintomi a comparsa acuta e in genere a
interessamento multi-organo, mediati da IgE). Questi sono
riassunti nella tabella seguente (tab. 4.1).
Localizzazione
Cavo orale
Cute
Apparato
digerente
Apparato
respiratorio
Apparato
circolatorio
Altro
Segni e sintomi
Prurito a labbra, lingua e palato, edema di labbra
e lingua, sapore metallico in bocca
Eritema, prurito, orticaria, angioedema, rash,
piloerezione
Nausea, dolore addominale (colica), vomito e
diarrea
Rinorrea, congestione nasale e starnuti; Prurito
e tensione in gola, disfonia, tosse abbaiante
prurito nei condotti uditivi esterni; dispnea,
tosse profonda.
Astenia, sincope, dolore toracico, tachicardia,
disaritmia, ipotensione
Prurito periorale, eritema congiuntivale e
lacrimazione, dolore lombare e contrazioni
uterine, sensazione di morte.
Tab. 4.1. Segni e sintomi di allergia a seconda della localizzazione
53
4. Le allergie alimentari
Nelle forme più gravi, l’anafilassi coinvolge anche l’apparato
respiratorio e circolatorio in un quadro che può giungere allo
shock e alla morte (tab 4.2). Si tratta di casi rari, ma
particolarmente gravi, perché spesso possono essere
provocati da esposizione a quantità minime di antigene, tanto
da poter essere inavvertite.
Tab. 4.2. Gradi di anafilassi, dal prurito allo shock.
Le reazioni più blande possono essere controllate con un
antistaminico, mentre nei casi più gravi è indispensabile
ricorrere all’uso dell’adrenalina, per mantenere la circolazione
e il respiro.
Purtroppo, le reazioni anafilattiche tendono a ripetersi
costringendo chi ne soffre a evitare con estremo rigore il
contatto con le sostanze scatenanti. Dato che, come si diceva,
54
4. Le allergie alimentari
contatti inavvertiti non sono infrequenti, anche da contatti
minimi attraverso la cute o per via inalatoria 12,13, il paziente
dovrà anche essere costantemente munito di una dose di
adrenalina auto-iniettabile, da utilizzare in caso di necessità
(fig. 4.3).
55
4. Le allergie alimentari
Va da sé che la vita per
questi soggetti cosiddetti
“super-allergici” con rischio
di
anafilassi
è
pesantemente penalizzata.
Impone infatti una difficile
dieta di esclusione (tracce
occulte di latte possono
essere contenute in molti
alimenti 14,15) e una difficile
vita
sociale
(feste,
ristoranti, comunità) ma
nonostante ciò permane
comunque il rischio di
andare
incontro
a
Fig. 4.3. Manifesto informativo
sull’uso di adrenalina auto-
manifestazioni
gravi,
potenzialmente mortali. D’altra parte, la maggior parte dei
pazienti tende a risolvere spontaneamente la propria allergia
con la crescita e ritornando ad assumere gli alimenti
incriminati dopo alcuni anni di dieta. Tuttavia, non sempre
questo accade, e c’è una piccola parte di pazienti in cui
l’allergia non diminuisce nonostante la dieta 16,17. In realtà ci
sono ragionevoli motivi per ritenere che lo sviluppo di una
tolleranza specifica sia più difficile in totale assenza
dell’antigene. Infatti, come abbiamo già discusso, la tolleranza
56
4. Le allergie alimentari
immune non è solo un fenomeno passivo (assenza di linfociti
reattivi contro un dato antigene), ma soprattutto un
fenomeno attivo (presenza di linfociti specifici per l’antigene e
specializzati nel mantenimento della tolleranza).
Per questo motivo, ci si è domandati se si potessero sviluppare
protocolli per re-indurre la tolleranza attiva in questi soggetti,
somministrando l’allergene in un regime controllato e sicuro,
in modo da garantire almeno la tolleranza di piccole dosi e di
permettere una migliore qualità di vita.
Alcune esperienze, in un contesto un po’ diverso, suggerivano
che effettivamente l’anafilassi può essere prevenuta con una
forzata esposizione a piccole dosi dell’antigene: ad esempio,
nell’anafilassi da veleno di imenotteri, esistono procedure di
desensibilizzazione basate sull’iniezione sottocutanea ripetuta
di piccole dosi dell’allergene. Per le allergie alimentari, invece,
sono stati proposti protocolli basati sulla somministrazione
sublinguale o orale dell’antigene in causa, a dosi ripetute e
incrementali, avviando la procedura in un ambiente
ospedaliero protetto, dove eventuali reazioni gravi possono
prontamente essere fronteggiate 18,19.
Con queste procedure si ottengono, in diversi centri (tra cui
quello della Clinica Pediatrica di Trieste), risultati sicuramente
incoraggianti. La maggior parte dei bambini trattati riesce a
tollerare dosi più o meno alte dell’alimento, di solito ben al di
sopra di quelle che possono essere responsabili di assunzioni
57
4. Le allergie alimentari
accidentali. In altre parole, se bevi ogni giorno mezzo bicchiere
di latte puoi essere sicuro che non avrai una reazione
anafilattica bevendone un cucchiaio.
Queste procedure di desensibilizzazione sono ancora
largamente empiriche, e si basano sul graduale aumento della
dose, giocando ai limiti delle dosi tollerate senza sintomi
importanti. Sfortunatamente, non sono ancora chiari i
meccanismi cellulari e molecolari che permettono il
raggiungimento della tolleranza in questi pazienti. Sembra
probabile che un ruolo all’inizio della procedura sia svolto
dall’“esaurimento” della risposta anticorpale specifica, per
continua lieve stimolazione; un altro fenomeno, potrebbe
risiedere nell’induzione di anergia nei linfociti specifici
continuamente stimolati; ancora, un effetto anti-allergico
viene attribuito ad una diversa modalità di risposta
anticorpale contro l’antigene con IgG4 bloccanti piuttosto che
con IgE; infine, ci si aspetta che la tolleranza definitiva si associ
anche allo sviluppo di linfociti regolatori, in grado di
mantenere attivamente lo stato di tolleranza. Una migliore
conoscenza di come la desensibilizzazione orale possa attivare
questi e altri meccanismi potrà forse permettere in futuro di
migliorare in termini di tempi ed efficacia i protocolli di
desensibilizzazione.
58
4. Le allergie alimentari
Atopia e stile di vita “occidentale”:
l’ipotesi igienica.
L’atopia è una condizione di predisposizione allo sviluppo di
risposte allergiche espresse variamente (eczema, rinite ed
asma), in risposta a comuni ed innocui antigeni ambientali.
Una parte dei fattori predisponenti è stata identificata:
•
•
nella maggior attitudine dell’atopico a produrre IgE;
in una risposta esagerata da parte di mastociti ed
eosinofili; nell’ipereattività bronchiale (nel caso dell’asma);
• nell’aumento di permeabilità cutanea (nel caso della
dermatite atopica).
Si tratta per lo più di caratteri geneticamente determinati (per
i quali sono stati identificati i rispettivi loci) abbastanza comuni
nella popolazione generale. Esistono poi fattori ambientali da
lungo tempo accertati come il fumo di sigaretta e l’aumento
del particellato atmosferico, che condizionano l’espressione
della malattia nel soggetto predisposto.
Negli ultimi 20 anni però si è assistito ad un sorprendente
aumento dell’incidenza e della severità delle malattie atopiche
nei paesi ad alto tenore socio-economico, difficilmente
spiegabile sulla base della genetica e dei sopramenzionati
fattori ambientali.
Uno studio condotto dopo l’unificazione tedesca ha
paragonato la prevalenza di alcune manifestazioni allergiche
59
4. Le allergie alimentari
tra bambini in età scolare della ex-Germania Est (Lipsia) e della
Germania Ovest (Monaco). L’incidenza di atopia era
lievemente minore nei bambini di Lipsia, nonostante questi
fossero esposti a livelli di inquinamento atmosferico
sensibilmente maggiori 20. Da qui nasceva l’idea che esistesse
qualche elemento dello “stile di vita occidentale” capace di
influenzare lo sviluppo di atopia in modo più determinante
rispetto all’inquinamento ambientale, come ad esempio un
incremento nell’esposizione all’acaro della polvere in ambienti
domestici più riscaldati. L’idea è sostenuta anche da altri lavori
che hanno riscontrato un aumento dell’incidenza di atopia in
seguito alla migrazione in paesi più ricchi di soggetti
provenienti da un paese con basso standard socioeconomico 21,22.
Non è chiaro però quale elemento della “occidentalizzazione”
sia il responsabile di questo fenomeno. Alla fine degli anni ‘80
è stato suggerito che quest’andamento potesse dipendere
dalle migliorate condizioni igieniche con disimpegno del
sistema immune sul fronte delle infezioni e suo riversamento
su una risposta allergica contro allergeni. Infatti, alcune
evidenze suggerivano che le infezioni acquisite durante
l’infanzia potessero prevenire lo sviluppo della febbre da
fieno 23. Studi successivi hanno riscontrato una relazione
variabile tra specifiche infezioni contratte durante l’infanzia e
lo sviluppo di atopia 24-26. A conferma dell’ipotesi “infettiva” si
60
4. Le allergie alimentari
poteva leggere il dato che nelle famiglie più numerose l’atopia
è meno frequente ed in particolare lo è di meno nei fratelli
successivi, verosimilmente perché esposti precocemente a
infezioni trasmesse dai fratelli maggiori 27.
Nello stesso periodo apparve evidente da
studi di
immunologia che la risposta contro le infezioni è mediata da
meccanismi diversi ed antagonisti rispetto alla risposta
allergica. I linfociti Thelper che organizzano la risposta immune
nei due casi sono schematicamente distinguibili in base al
profilo di citochine prodotte in Th1 (risposta alle infezioni) e
Th2 (allergia).
In base a questo presupposto teorico è possibile leggere la
relazione inversa tra incidenza delle malattie allergiche e
miglioramento
delle
condizioni
igienico-sanitarie,
ammettendo che la diminuita esposizione a malattie infettive
alteri l’equilibrio delle citochine nell’organismo, con una
maggior disponibilità a fare risposte di tipo Th2 e quindi a
sviluppare allergia. In realtà dal punto di vista immunologico le
cose non sembrano essere così semplici poiché le scelte che
l’organismo può compiere di fronte ad una molecola estranea
non prevedono solo la possibilità esclusiva di una risposta Th1
o Th2, ma anche l’opportunità di imparare a tollerare del tutto
la nuova molecola con una modalità di risposta diversa o non
rispondendovi affatto.
61
4. Le allergie alimentari
Di fatto i dati riguardanti la relazione tra infezioni ed atopia
sono ancora controversi. La positività ai prick test per una
batteria di allergeni inalanti è risultata dimezzata in
adolescenti che avevano avuto il morbillo in età infantile
rispetto a quelli che erano stati vaccinati e non avevano
contratto la malattia 25. In questo studio, condotto in Guinea
Bissau, un potenziale fattore confondente potrebbe essere
costituito da un elevato livello di infestazione parassitaria.
Infatti la risposta allergica utilizza gli stessi meccanismi che
l’evoluzione ha selezionato per combattere i parassiti ed è
stata osservata una relazione inversa tra infestazioni
parassitarie ed atopia, tanto da suggerire che quest’ultima si
possa sviluppare solo laddove il sistema eosinofili-IgE resta
privo del suo obiettivo naturale.
Poiché il micobatterio della tubercolosi (MBT) è un potente
induttore di risposta tipo Th1, si è pensato che la diminuzione
dell’incidenza della tubercolosi potesse essere il fattore
infettivologico responsabile dell’aumento dell’atopia. Un
recente
studio
anglo-nipponico
ha
valutato
retrospettivamente la prevalenza di sintomi e di segni
ematochimici di atopia in soggetti che erano stati vaccinati per
la tubercolosi con un protocollo che prevedeva la ripetizione
della dose nel caso che a controlli successivi non fosse
mantenuta la positività alla cutireazione tubercolinica
28
. Nei
soggetti che rispondevano meglio al vaccino si registrava una
62
4. Le allergie alimentari
minor prevalenza di segni clinici e laboratoristici di atopia. Una
possibile interpretazione di questo dato è che i responder
siano i meno predisposti a sviluppare atopia non per effetto
del vaccino ma per caratteristiche geneticamente determinate
del proprio sistema immune. E’ difficile tuttavia utilizzare lo
stato di risposta al MBT come indicatore di una condizione
genetica di responsività immune, poiché che nell’arco di
vent’anni la reattività tubercolinica della popolazione
giapponese diminuì dal 95% al 58%. Gli autori suggeriscono
che in realtà le risposte più durature al vaccino siano
mantenute dalla circolazione di MBT nella popolazione e che
sia questo il vero fattore protettivo nei confronti dell’atopia.
Un altro dato interessante che emerge da questo lavoro è
l’aumento di incidenza di atopia in soggetti che si sono
negativizzati alla tubercolina.
Un altro lavoro svolto in Svezia, tuttavia, non ha riscontrato
alcun effetto prottetivo della vaccinazione precoce con BCG
sullo sviluppo di allergie in soggetti con familiarità per atopia
29
. D’altra parte è noto che il BCG è dotato di un’efficacia
estremamenrte più scarsa rispetto all’esposizione naturale
all’MBT, che in Svezia è pressocché assente.
Uno studio italiano su allievi militari ha dimostrato una
relazione inversa tra la prevalenza di una pregressa epatite A e
la presenza di asma e rinite. La stessa correlazione era
evidente con i parametri di laboratorio (positività di una
63
4. Le allergie alimentari
batteria di prick test per inalanti, livelli sierici di IgE specifiche
contro i comuni allergeni inalanti). Inoltre veniva confermata
in questo lavoro una relazione inversa tra atopia e numero di
fratelli. Non è chiaro però il ruolo della pregressa infezione da
epatite A, che potrebbe essere semplicemente la spia di
condizioni igienico-ambientali, o di abitudini alimentari diverse
26
.
Se le infezioni hanno un ruolo nell’atopia è giusto pensare che
questo sia giocato anche dalle vaccinazioni. Tradizionalmente
però, le vaccinazioni sono state mirate a ottenere
prevalentemente una risposta di tipo anticorpale specifica
(come ad esempio quella bloccante le tossine tetanica e
difterica) che non riproduce quella secondaria all’infezione
naturale. Di fatto una differenza nell’attivazione di linfociti Th1
e Th2 è stata rilevata di recente con l’uso di diversi vaccini (per
esempio si è evidenziato che il vaccino antipertosse acellulare
dà una risposta sia Th1 che Th2, diversamente dal vaccino
cellulare che induce solo una risposta Th1) 30. In molti casi la
risposta anticorpale al vaccino viene potenziata per mezzo di
adiuvanti, il più usato dei quali è senza dubbio l’idrossido di
alluminio. L’aggiunta di idrossido di alluminio a un vaccino
antipertossico cellulare condiziona non solo una maggior
risposta di tipo IgG, ma anche IgE 31.
64
4. Le allergie alimentari
In conclusione i dati epidemiologici permettono di sostenere
che lo stile di vita occidentale si associa a una maggiore
incidenza di atopia, ma è tuttora incerto quali aspetti
dell’occidentalizzazione siano responsabili del fenomeno in
questione. Le evidenze a favore di un ruolo delle infezioni,
sebbene
teoricamente
sostenute
dall’ipotesi
della
polarizzazione immunologica tra Th1 e Th2, necessitano di
ulteriori studi che sappiano discriminare quali infezioni
abbiano un ruolo maggiore ed in che epoca della vita. In realtà
il problema è ulteriormente confuso dalla eccessiva
semplificazione che si fa parlando di una polarizzazione tra
Th1 e Th2, trascurando altre modalità di risposta che
conducano ad una tolleranza vera e propria e non al semplice
shift della risposta. E’ verosimile che anche questo processo
sia influenzato da fattori igienico-ambientali, in particolare per
quanto riguarda la colonizzazione delle mucose da parte di
diversi microrganismi saprofiti e quindi le abitudini alimentari.
Studi in questo senso potrebbero condurre a nuovi tipi di
immunoterapia dell’atopia.
65
5. La malattia celiaca
5. La malattia celiaca
La malattia celiaca viene descritta per la prima volta come
un’entità nosologica definita verso la fine dell’800 da Samuel
Gee, a Londra 32. Gee indicò la malattia con il nome di
“malattia celiaca”, nome già utilizzato dal medico greco
Aretaeus di Cappadocia nel secondo secolo a.C. per indicare
una malattia caratterizzata da disturbi intestinali (koiliakos, in
greco) con diarrea untuosa, pallore e calo ponderale. E’ da
notare che questo medico operava proprio nell’Est della
Turchia, in prossimità delle regioni del Medioriente dove si
erano maggiormente sviluppati la coltivazione ed il consumo
di frumento. Forse, la descrizione di Aretaeus di Cappadocia ci
racconta di uno dei primi incontri tra l’uomo e questo nuovo
alimento, dopo più di un milione di anni di evoluzione in sua
assenza. Dopo questa descrizione, non si è parlato più di
malattia celiaca per duemila anni: è possibile che una certa
selezione negativa si sia sviluppata dopo i primi contatti e che
la malattia sia divenuta quindi più rara e meno evidente.
Successivamente, si è tornati a parlare di malattia celiaca nel
XIX secolo, forse in concomitanza con un sensibile aumento di
concentrazione di glutine nel frumento. Infatti, l’agricoltura,
dapprima con la selezione di specie più vantaggiose (ad
esempio quelle in cui i semi rimanevano più a lungo sulla spiga
e consentivano quindi una mietitura più proficua) e
66
5. La malattia celiaca
successivamente favorendo gli incroci tra piante con
determinate caratteristiche (ad esempio la capacità di
lievitazione della farina, in gran parte dipendente dalla sua
collosità, a sua volta determinata dal contenuto in glutine) ha
gradualmente portato a varietà di frumento molto più ricche
in glutine (dal 2 al 30% del contenuto proteico del cereale).
Era della nascita della malattia celiaca.
Samuel Gee descrisse la malattia come una “indigestione
cronica” che si può verificare in persone di qualsiasi età, ma
che interessa specialmente i bambini tra 1 e 5 anni di età.
L’aspetto caratteristico riguarda le feci, che appaiono in grandi
quantità, sformate ma non liquide, con aspetto chiaro,
consistenza simile a lievito e schiumosa (a suggerire la
presenza di fenomeni fermentativi), particolarmente
maleodoranti (suggerendo fenomeni putrefattivi). Il paziente
appariva cachettico, di debole muscolatura, pallido e gonfio.
La malattia spesso conduceva a decesso e, anche in caso di
guarigione, tendeva a ricadere. Ciò che ha reso più innovativa
la descrizione di Gee, fu la sua conclusione, secondo cui l’unico
trattamento possibile doveva consistere nella dieta. Tuttavia,
le sue osservazioni riguardo a un maggior effetto lesivo di riso
67
5. La malattia celiaca
e mais rispetto a farina di frumento si sarebbero poi rivelate
erronee.
Il fatto che la malattia possa essere diventata più frequente
che nei secoli precedenti non è induce inizialmente a ricercare
una correlazione con specifici cambiamenti ambientali.
L’identificazione dell’agente scatenante il morbo celiaco
richiese circa mezzo secolo. Per quanto la comparsa della
malattia dopo lo svezzamento potesse suggerire la
responsabilità delle farine, dapprima questa venne attribuita
alla loro composizione in amidi. Ancora nel 1921 la malattia
veniva connotata come una intolleranza ai carboidrati, mentre
i grassi erano tollerati molto meglio. Nel 1949 Sydney Haas
proponeva una dieta a base di banane, e altri frutti, alimenti
particolarmente graditi ai bambini celiaci. La buona capacità di
tollerare questi alimenti permise di “riabilitare” i carboidrati.
Contemporaneamente, in Olanda, la transitoria sostituzione
delle farine di frumento e segale con quelle di riso e patate,
più facilmente disponibili durante la carestia successiva alla
guerra, permise di richiamare l’attenzione sull’intolleranza a
specifiche farine. Fu solo nel 1952 che Anderson dimostrò la
responsabilità del glutine di frumento e non dei carboidrati,
nella intolleranza del celiaco 33. Nell’anno successivo, l’esame
del contenuto di grassi nelle feci venne utilizzato per valutare
l’effetto di diverse farine nell’alimentazione del soggetto
68
5. La malattia celiaca
celiaco, permettendo di confermare il ruolo del frumento,
dell’orzo, della segale e dell’avena 34.
La storia della celiachia, tuttavia,
non
finisce
con
l’identificazione del glutine come sua causa scatenante.
L’espressione stessa della malattia sembra assumere diverse
facce nel tempo, ogni volta associate a nuove scoperte e
nuove conoscenze. Non è perciò solo un esercizio teorico
quello di individuare nella storia di questa malattia delle vere
e proprie ere storiche che segnano in parallelismo i mutamenti
del rapporto tra uomo e ambiente, ma anche tra conoscenze
mediche e malattie (tab. 5.1).
69
5. La malattia celiaca
Era
Preceliaca
Nascita
della m.
celiaca
E. del
glutine
Anni
1888
1888
1952
1952
1965
E. degli 1965
AGA
-
E. degli 1973
EMA
-
E. della 1997
tTG o era
moleco
alre
E.
“omica”
Clinica
Diagnosi
Biologia
Non conosciuta. Minore assunzione di glutine
nella dieta umana. Prevalenza di cause infettive.
Sindrome
Clinica
Prime ricerche
intestinale
(fattore
chimiche
(celiaca)
tempo)
Sindrome
Frazioni
intestinale.
tossiche del
Crisi celiaca.
glutine
Forme atipiche: AGA +
Inizio
studi
anemia
3 Biopsie.
immunologici.
HLA
“infezione da
glutine”
Malattia
EMA +
Primi
manifesta
/ 3 biospie
screening AGA
silente / latente
poi EMA.
Autoimmunità.
Ruolo
dell’HLA.
Linfociti CD3+
intraepiteliali.
L’ampio spettro tTG +
Screening su
del rischio glutine 1 biopsia
goccia
di
- associato
sangue.
Anticorpi anti
peptidi
deaminati di
gliadina.
2011
-
tTG, altro?
70
Anti-tTG nella
mucosa.
Librerie
fagiche.
5. La malattia celiaca
Tab. 5.1
L’era del glutine.
Possiamo far iniziare verso
metà del secolo scorso
l’Era del glutine. L’aspetto
clinico della malattia è
sempre incentrato sulla
”indigestione cronica” e
sulla compromissione della
funzione intestinale. In
alcuni casi può svilupparsi
una forma grave, la
cosiddetta “crisi celiaca”,
condizione
caratterizzata
Fig. 5.1 Alcuni esempi di cibi privi di
glutine.
da un circolo vizioso di
amplificazione del danno in seguito a infezioni
gastroenteriche, e che poteva condurre a shock e morte. La
terapia della malattia si base su una dieta permanente con
esclusione dei cibi contenti glutine: frumento, orzo, segale ed
in un primo tempo avena. Il celiaco può invece assumere
liberamente altri cereali (riso, mais) e tuberi (patate), carni,
pesci, frutta, verdure, legumi (vedi fig. 5.1, da
www.farmacialoreto.it). Questi alimenti alternativi non hanno
71
5. La malattia celiaca
tuttavia permesso per molti anni di produrre validi sostituti
della pasta e del pane, rendendo alquanto difficile
l’esecuzione della dieta, soprattutto nelle regioni a dieta
mediterranea.
Appartiene a questo periodo la descrizione del tipico danno
della mucosa intestinale dipendente dall’assunzione di glutine
nel celiaco. Campioni bioptici vengono ottenuti dapprima in
seguito ad interventi chirurgici e successivamente per mezzo
di una capsula automatica collegata ad un sondino e provvista
di un meccanismo di prelievo per suzione (capsula di CrosbyKugler) 35. Questi esami permettono di evidenziare
l’appiattimento dei villi intestinali e l’infiltrazione di linfociti
nella mucosa (Fig. 5.2). Questo tipo di lesione conduce ad una
notevole perdita della superficie di assorbimento degli
alimenti: si dice infatti, a titolo d’esempio, che la superficie
che occuperebbe un
tutte le sue villosità,
campo da tennis. Per
una disponibilità di
intestino umano, se venissero svolte
sarebbe all’incirca pari a quella di un
un organismo evolutosi in presenza di
cibo molto variabile, la capacità di
assorbire quanto più possibile le sostanze alimentari ingerite è
infatti un imperativo. Alla presenza di un apporto dietetico
limitato, però, la perdita di superficie di assorbimento
comporta un grave difetto di nutrizione. Diversamente, con
un’alimentazione più ricca del necessario, com’è quella
disponibile oggi in molti paesi, la riduzione della superficie di
72
5. La malattia celiaca
assorbimento può essere in parte compensata dalla quantità
del cibo. Questo, forse, è uno dei motivi che condurrà nelle
ere successive ad altrettanti cambiamenti nell’espressione
della malattia celiaca.
La disponibilità di tecniche semplificate per il prelievo e
l’analisi istologica della mucosa duodenale permette di
confermare la diagnosi di celiachia dimostrando le
caratteristiche alterazioni al momento della diagnosi e la loro
guarigione in una seconda biopsia eseguita dopo un congruo
periodo di dieta di esclusione. Non solo, l’esecuzione di una
terza biopsia dopo un tentativo di reintroduzione del glutine
poteva evidenziare la ricomparsa delle alterazioni tipiche,
permettendo al tempo stesso di rinforzare la certezza della
diagnosi e anche la convinzione che l’intolleranza costituisse in
questi soggetti una condizione permanente, da trattare con
dieta senza glutine per tutta la vita.
Villo intestinale normale
Villi tozzi e appiattiti nella mucosa
Fig 5.2. Aspetto morfologico della mucosa nel soggetto normale e nel celiaco.
73
5. La malattia celiaca
di un soggetto celiaco
L’era degli AGA
(Patogenesi:
la
celiachia
come
malattia
dell’immunità; AGA nella diagnosi: non solo sintomi
intestinali).
A seguito dell’identificazione della responsabilità del glutine
nella patogenesi della celiachia, anticorpi diretti contro questa
proteina vennero identificati nel siero dei soggetti celiaci (AGA
= anti glutine). Di conseguenza, anche l’idea della celiachia
come una “indigestione cronica” venne progressivamente
sostituita dall’interpretazione della malattia come “infezione
cronica” da glutine. Infatti, l‘assunzione di glutine nel soggetto
celiaco comportava una risposta immunitaria simile a quella
messa in atto contro agenti infettivi, con la differenza che in
questo caso l’ “infezione” non può essere debellata, dato che
l’agente che ne è alla base viene continuamente assunto con
gli alimenti. E’ chiaro che non si tratta di infezione nel senso
stretto del termine, tuttavia l’immagine ben sintetizza la
natura della risposta immune patologica del celiaco. Qui può
essere utile ricordare quanto abbiamo già detto per gli studi di
von Pirquet sull’allergia per comprendere come il sistema
immunitario, più che l’agente scatenante in sé, potesse essere
il vero responsabile della malattia. Non deve quindi stupire se,
negli stessi anni, si scopre che la maggior componente
genetica di rischio di celiachia risiede in determinati
74
5. La malattia celiaca
polimorfismi degli antigeni di istocompatibilità, che possono
condizionare il modo in cui il soggetto riconosce la proteina
estranea.
Se da un lato la presenza degli AGA aveva indotto a
interpretare la patogenesi della celiachia in chiave
immunologica, dall’altro la possibilità di dosare questi
anticorpi aveva fornito un nuovo strumento per la diagnosi
della malattia. L’era degli AGA è quindi anche l’era in cui si
consolida il ruolo della sierologia nella diagnosi della malattia:
ciò permetterà di espandere le conoscenze cliniche sulla
malattia, includendo casi con sintomi intestinali più sfumati e
con altre patologie associate, come ad esempio l’anemia da
carenza di ferro e la bassa statura isolata. Non solo, grazie alla
diagnosi sierologica, ci si è accorti che la malattia era in realtà
molto più frequente di quanto si pensasse inizialmente e che
potesse presentarsi in alcuni casi addirittura senza alcun
sintomo rilevante. Anche in questi casi, per i quali venne
coniata l’espressione di “celiachia silente”, la biopsia
intestinale mostrava tipiche alterazioni che recedevano
successivamente a dieta senza glutine.
In questo periodo viene anche compresa la relazione tra
malattia celiaca e dermatite erpetiforme. Quest’ultima è una
manifestazione cutanea di celiachia, che può verificarsi anche
in assenza di un’enteropatia manifesta 36-38 o in presenza di
una celiachia latente.
75
5. La malattia celiaca
La coscienza del problema aumenta progressivamente, fino
alla costituzione della Celiac Society nel 1968 (11 anni più tardi
nascerà l’Associazione Italiana Celiachia).
L’era degli EMA
(La celiachia come modello unico di disregolazione
autoimmune).
L’idea di un’associazione tra malattia celiaca e reazioni
autoimmuni nasce dall’osservazione della relazione tra questa
malattia e il diabete di tipo 1. Alla fine degli anni ’60 si erano
messe a punto delle metodiche di immunofluorescenza per
identificare anticorpi correlati ad una particolare nefrite
sperimentale, gli anticorpi anti-reticolina (visualizzabili con
una colorazione su sezioni di rene di ratto). Nel 1971 vengono
identificati, nel siero di soggetti celiaci, anticorpi antireticolina, ai quali non si dà però subito un significato definito
39
. Due anni più tardi, viene dimostrato che questi anticorpi
sono presenti solo quando il soggetto mangia liberamente,
mentre spariscono con la dieta senza glutine 40. L’osservazione
viene interpretata all’inizio come conseguenza di una crossreazione tra reticolina e glutine, ipotesi che tuttavia non verrà
confermata. In ogni caso, si comincia a studiare la sensibilità e
specificità di questo nuovo test come possibile ausilio per la
diagnosi di malattia celiaca. L’introduzione successiva
76
5. La malattia celiaca
dell’esofago di scimmia (e più recentemente del cordone
ombelicale umano) come substrato ha permesso di migliorare
molto la qualità del test 41 che si mostrerà addirittura più
specifico della determinazione degli AGA. La reazione di
fluorescenza avveniva in questi casi verso il tessuto connettivo
di sostegno del muscolo liscio e gli anticorpi venivano perciò
denominati anti-endomisio o EMA o AEA (Fig. 5.3). Anche se
non si sapeva spiegare la loro stretta correlazione con
l’assunzione di glutine e con la celiachia, gli EMA diventarono
sempre più un test fondamentale per la diagnosi della
malattia. Questo fu tanto vero, che la presenza di EMA positivi
permetterà in seguito di identificare casi di “celiachia latente”,
in assenza di un chiaro danno della mucosa intestinale
all’indagine bioptica 42. L’analisi delle biopsie con anticorpi anti
CD3 marcati permette comunque di identificare anche in
questi casi un infiltrato infiammatorio nell’epitelio intestinale
con aumento di un particolar gruppo di linfociti, provvisti di
recettore gamma/delta 43-45.
Fig. 5.3 Disegno di
fluorescenza antiendomisio.
77
5. La malattia celiaca
Schematicamente, l’era degli EMA è caratterizzata sul piano
clinico dalla definizione dell’associazione tra celiachia e
autoimmunità. Questa associazione viene dapprima attribuita
alla condivisione di un comune substrato genetico di
suscettibilità dato da specifici polimorfismi del sistema HLA.
Successivamente, però, alcune osservazioni suggeriranno una
relazione più complessa.
La specifica associazione degli EMA con la malattia celiaca e la
loro dipendenza dall’assunzione di glutine suggeriscono che
questa proteina sia in grado di scatenare fenomeni
autoimmuni in soggetti predisposti. Inoltre il fatto che gli EMA
potessero essere presenti in assenza di evidenti lesioni
intestinali e di altre manifestazioni cliniche rinforzava
l’importanza di reazioni autoimmuni nella malattia.
Uno studio pionieristico italiano (vedi Ventura et al., scheda di
seguito) ha messo in luce la relazione tra rischio di
autoimmunità e tempo di esposizione al glutine nei soggetti
celiaci, suggerendo l’idea di un ruolo preventivo della dieta
sullo sviluppo delle malattie autoimmuni associate.
Se questo è vero, l’azione preventiva può essere influenzata
dalla capacità di individuare precocemente i soggetti celiaci. A
questo proposito, è bene osservare che il rischio di sviluppare
malattie glutine-correlate potrebbe essere in buona parte
indipendente dall’espressione clinica della malattia. Anzi, il
78
5. La malattia celiaca
lavoro coordinato da Ventura suggerisce che proprio i soggetti
con sintomi clinici meno evidenti possano avere un rischio
maggiore di sviluppare malattie, in quanto la loro celiachia
rimane più a lungo non diagnosticata.
Queste considerazioni sono particolarmente importanti, ove si
consideri che per molti anni si è consigliato di ritardare
l’introduzione del glutine nell’alimentazione dei lattanti con la
speranza di prevenire lo sviluppo della malattia celiaca: la
posticipazione del glutine dopo l’anno di età, infatti, si associa
a sintomi più sfumati e tollerabili. Tuttavia, chi ha assunto il
glutine nei primi mesi di vita non ha solo una reazione più
grave ed evidente, con i tipici sintomi gastrointestinali, ma ha
anche una maggior probabilità di ricevere una diagnosi
tempestiva e un trattamento preventivo efficace. Viceversa,
chi assume il glutine più tardivamente ha maggior probabilità
di essere identificato come celiaco in età più avanzata, sulla
base di sintomi più sfumati e meno tipici. Questo è quanto è
accaduto in due città non molto lontane l’una dall’altra,
Gotheborg in Svezia e Tampere in Finlandia (vedi Ascher et al,
scheda), a testimoniare ancora l’importante ruolo
dell’ambiente nel condizionare i tempi e i modi con cui
l’intolleranza al glutine può esprimersi in una popolazione.
Le differenze ambientali potevano essere responsabili anche
della convinzione che la celiachia fosse molto più rara negli
79
5. La malattia celiaca
stati Uniti d’America che nell’Europa. Anche in questo caso,
l’era degli EMA ha permesso di effettuare screening di
popolazione in Europa come negli Stati Uniti, che hanno
mostrato una prevalenza simile della malattia nei diversi
paesi 46.
Dal punto di vista sociale, gli screening
danno maggiore visibilità al problema
della
celiachia.
Vengono
perciò
costituite associazioni a tutela dei
pazienti e dei loro diritti e, più
gradualmente, si giunge ad una
Fig. 5.4 Logo utilizzato
coscienza sociale della celiachia: viene
per certificare prodotti
elaborato un logo per la certificazione privi di glutine.
degli alimenti senza glutine (Fig. 5.4);
vengono garantiti pasti senza glutine nelle mense (e anche in
alcuni ristoranti); vengono prodotti prontuari e ricettari per
l’alimentazione senza glutine.
80
5. La malattia celiaca
Ventura A, Magazzù G, Greco L.
Duration of exposure to gluten and risk for
autoimmune disorders in patients with celiac
disease. SIGEP Study Group for Autoimmune
Disorders in Celiac Disease.
Gastroenterology. 1999 Aug;117(2):297-303 47
Sono stati studiati 909 pazienti con malattia celiaca
consecutivamente riferiti in un periodo di 6 mesi presso i 10 centri
partecipanti al progetto. L’età al momento dello studio era
compresa tra 10 e 25 anni. Sono stati inoltre selezionati 1268
controlli sani tra
studenti
universitari (età
media 21 anni).
Infine, sono stati
analizzati
163
pazienti
con
malattia di Crohn
come controllo
malato.
I celiaci sono stati suddivisi in tre gruppi sulla base dell’età in cui
avevano ricevuto la diagnosi. Dato che tutti i pazienti hanno
effettuato una dieta senza glutine dopo la diagnosi, e dato che l’età
attuale era simile per tutto il gruppo, la precocità della diagnosi
correlava con un’esposizione più breve al glutine, mentre i soggetti
con diagnosi più tardiva erano anche quelli più a lungo esposti alla
dieta contenente la proteina. Il grafico mostra che i soggetti esposti
più a lungo al glutine hanno un maggior rischio di sviluppare
malattie autoimmuni. Questi dati suggeriscono che una diagnosi
precoce ed una dieta senza glutine possano prevenire almeno in
parte il rischio di sviluppare malattie autoimmuni in soggetti celiaci.
81
5. La malattia celiaca
H Ascher, K Holm, B Kristiansson, M Maki
Different features of coeliac disease in two
neighbouring countries.
Archives of Disease in Childhood 1993; 69: 375-380 48
E' probabile che le modalità di introduzione del glutine nella dieta
(precocità, quantità) influenzino il tipo di presentazione clinica e, di
conseguenza, la riconoscibilità della malattia. Di fatto, in Svezia
(Gothenburg), dove il consumo di glutine da parte dei lattanti inizia
presto ed è discretamente elevato già dal quarto-quinto mese di
vita, l'incidenza della malattia celiaca è molto elevata e quasi tutti i
casi vengono diagnosticati per la comparsa del classico quadro
gastroenterologico.
In Finlandia (Tampere), dove la somministrazione di glutine ai
lattanti è più cauta, la prevalenza della malattia celiaca
diagnosticata su base clinica è significativamente inferiore, l'età
media alla diagnosi è significativamente più avanzata e prevalgono
i casi con presentazione atipica.
82
5. La malattia celiaca
Gli screening eseguiti mostrano però che la prevalenza reale della
malattia è la stessa nei due paesi 49,50. E' ragionevole quindi pensare
che la precoce e relativamente elevata assunzione di glutine con la
dieta dai primi mesi favorisca un modo più clamoroso e classico, e
quindi riconoscibile, di presentazione clinica della malattia celiaca
nei soggetti predisposti. Il ritardo o la cautela nell'introduzione
dell'alimento potrebbero essere causa dell'aumento di forme
paucisintomatiche o atipiche. Non va dimenticato tuttavia che larga
parte della morbidità associata alla celiachia (osteopenia, anemia
sideropenica, patologia neurologica, manifestazioni autoimmuni,
linfoma etc.) non è necessariamente correlata al grado
dell'enteropatia ma dipende piuttosto dal protrarsi dell'assunzione
di glutine. Sembra quindi ragionevole che la miglior strategia
preventiva sia quella di non ritardare l'introduzione del glutine
nella dieta e di rendere, così, precocemente manifesta e
riconoscibile la malattia nella sua forma più classica (enteropatica).
83
5. La malattia celiaca
L’era degli EMA si
chiude
con
un
immagine che può
ben
sintetizzare
molti dei concetti
fin qui
l’iceberg
espressi:
della
celiachia 51 (Fig 5.5).
Questi
possono
essere riassunti nei
seguenti punti.
Fig. 5.5 L’iceberg della celiachia
• La variabilità
dell’espression
e clinica della malattia
• Il ruolo degli anticorpi nella diagnosi e negli screening e
le relative conseguenze sulla definizione di quadri
clinicamente “silenti” o istopatologicamente “latenti”
• L’idea di una condizione ancora vaga e da definire di
intolleranza al glutine geneticamente determinata,
correlata alla presenza degli HLA tipici.
Samuel Gee fu il primo a descrivere la punta emersa di
questo iceberg, ma fu proprio grazie agli anticorpi che si
riuscì a svelare gradualmente la complessità della parte
84
5. La malattia celiaca
immersa. L’idea più importante che si celava sotto il pelo
dell’acqua era quella che una quota più o meno ampia
della popolazione potesse essere esposta ad un rischio di
sviluppare un’ampia varietà di patologie correlate
all’assunzione del glutine.
L’iceberg conteneva in sé il germe di una visione continua
della celiachia con infiniti livelli intermedi, dalla malattia ad
espressione intestinale conclamata fino a casi in cui solo
sofisticati esami immunologici avrebbero provato la presenza
di un’alterata sensibilità al glutine (vedi era molecolare).
85
5. La malattia celiaca
L’era della transglutaminasi tessutale (il
bersaglio molecolare degli anticorpi
anti-endomisio).
Negli anni novanta molti ricercatori erano convinti che
l’individuazione dell’antigene endomisiale contro cui era
rivolta la risposta autoimmune del celiaco avrebbe permesso
di svelare gli aspetti ancora incogniti della patogenesi della
malattia. Molte cose in realtà erano già state dimostrate: si
conosceva la sequenza dei peptidi di gliadina (frazione
proteica alcol-solubile del glutine) con maggior affinità per
l’HLA DQ2 o DQ8; si erano isolati da biopsie intestinali cloni di
linfociti CD4 in grado di riconoscere questi peptidi su cellule
presentanti l’antigene provviste di HLA DQ2 e DQ8 52; si era
dimostrato che questi linfociti producono grandi quantità di
interferone gamma, che sono almeno in parte responsabili del
danno mucosale (l’effetto viene bloccato da anticorpi antiinterferon gamma) 53. Insomma, si sapeva che per essere
celiaci era necessario avere un determinato HLA di rischio e si
capivano anche le basi immunologiche e molecolari di questa
predisposizione. Tuttavia solo una parte dei soggetti con
questo profilo genetico sviluppava la celiachia. Inoltre, la
malattia si associava alla presenza di anticorpi anti-endomisio
ancora più specificamente che agli anticorpi anti-glutine e
sembrava ragionevole ritenere che questa fosse la
86
5. La malattia celiaca
caratteristica che meglio differenziava quell’un per cento di
celiaci da tutti gli altri soggetti con DQ2 e DQ8. Di
conseguenza, era logico prevedere che l’identificazione del
vero bersaglio molecolare di questi anticorpi avrebbe
permesso di spiegare anche che cosa differenzia il celiaco dagli
altri soggetti con gli stessi HLA o, in altre parole, che cosa fa si
che alcuni soggetti con quel determinato HLA riescano a
tollerare il glutine ed altri no.
Molti tentativi di isolare l’antigene bersaglio degli anticorpi
anti-endomisio erano basati su western-blot o cromatografia
d’affinità tra siero di soggetti celiaci e estratti proteici ottenuti
da tessuti contenenti endomisio (esofago di scimmia, cordone
ombelicale umano). Solo nel 1997, un gruppo tedesco riuscì a
identificare l’antigene per
mezzo di una classica
metodica
biochimica:
l’immunoprecipitazione 54.
In pratica, si trattava di
trovare le condizioni ideali
perché l’incontro tra il
Fig. 5.6 Diagramma di una reazione
di immunoprecipitazione
87
siero e l’antigene in fase
solubile
portasse
alla
formazione di complessi
macromolecolari insolubili
che potevano essere poi
5. La malattia celiaca
separati per mezzo di ultracentrifugazione. Quando sufficienti
quantità di anticorpo sono mischiate con un antigene solubile
macromolecolare (contenente quindi più siti di legame), si
possono formare aggregati visibili di antigene cross-legato con
anticorpo (Fig. 5.6 da: http://www.ncbi.nlm.nih.gov/bookshelf/br
.fcgi?book=imm&part=A2395&rendertype=figure&id=A2414).
Sfruttando
questo
principio,
Dieterich
e
collaboratori
identificarono il bersaglio della risposta autoimmune tipico
della celiachia in un enzima denominato transglutaminasi
tessutale (tTG o TG2).
La transglutaminasi tessutale è un enzima di grande
importanza in almeno due distinti processi biologici: la
stabilizzazione dei tessuti connettivi e l’apoptosi cellulare. I
fibroblasti rilasciano l’enzima nella matrice extracellulare dove
questo resta adeso a proteine di matrice come la fibronectina.
Nelle fasi di costruzione o di riparazione del tessuto
connettivo, l’enzima stabilisce legami covalenti tra gruppi
glutamminici e lisine di proteine adiacenti, in particolare di
fibre collagene, in modo da “cucire” la trama e l’ordito del
tessuto (fig. 5.7).
Fig. 5.7 Legame tra lisina e glutammina catalizzato dalla transglutaminasi
tessutale.
88
5. La malattia celiaca
All’nterno delle cellule, invece, l’enzima viene indotto e
attivato durante l’apoptosi cellulare. In questo caso, l’azione di
cucitura permette di condensare tutto il contenuto
macromolecolare della cellula in aggregati compatti e
insolubili (corpi apoptotici) che possono essere facilmente
rimossi dal sistema fagocitario senza che avvenga la
dispersione di antigeni immunogeni nel sistema. Lo
svolgimento corretto di questo processo fa sì che la morte
cellulare sia accompagnata solo da minimi fatti infiammatori e
senza lo sviluppo di reazioni immuni verso antigeni “criptici“
(cioè quelli normalmente nascosti al sistema immune).
Ogni tessuto danneggiato presenta di conseguenza
un’aumentata attività della transglutaminasi tessutale, e
questo vale ovviamente anche per la mucosa del soggetto
celiaco. Non solo, la mucosa danneggiata del celiaco presenta
anche un’alterata permeabilità epiteliale alle macromolecole,
e può permettere quindi il passaggio di grandi quantità di
peptidi di gliadina, che vengono a contatto con il tessuto
danneggiato e con il sistema immune. Per capire come tutto
questo possa condurre infine alla produzione di anticorpi antitransglutaminasi, può essere opportuno considerare un
fenomeno denominato “antigen spreading”, già noto in altre
malattie come il Lupus eritematoso Sistemico.
Questo fenomeno consiste nella produzione di anticorpi con
diverse specificità in seguito al riconoscimento di un unico
89
5. La malattia celiaca
antigene da parte dei linfociti Thelper. Infatti, è noto che i
linfociti T riconoscono l’antigene sotto forma di brevi peptidi
presentati in un’apposita tasca delle molecole HLA di classe II.
E’ noto anche che i linfociti B possono funzionare da cellule
presentanti l’antigene: a differenza delle cellule dendritiche,
che possono fagocitare qualsiasi antigene, i linfociti B
presenteranno solo peptidi derivati da antigeni riconosciuti
per mezzo dei loro anticorpi di superficie. Questo, tuttavia,
non significa necessariamente che i linfociti B presentino ai
linfociti T peptidi derivati dalla stessa proteina che
riconoscono con i propri anticorpi. Infatti, gli anticorpi
possono legare anche complessi formati da più molecole
riunite con legami d’affinità o con legami covalenti: in questi
casi l’anticorpo può riconoscere una data molecola, mentre ai
linfociti T può essere presentato un peptide derivante da
un’altra proteina presente nel complesso macromolecolare.
Un esempio “storico” di questo meccanismo riguarda la
produzione degli anticorpi anti-DNA nel Lupus Eritematoso
Sistemico: è chiaro, in questo caso, che i linfociti B non
possono presentare ai linfociti T frammenti di DNA ma solo
peptidi che il linfocito B porta al suo interno perché
complessati al DNA (cioè peptidi derivati da proteine
istoniche).
Una cosa simile sembrerebbe accadere nella malattia celiaca.
In questo caso, gliadina e transglutaminasi formerebbero un
90
5. La malattia celiaca
complesso macromolecolare che può essere riconosciuto sia
da anticorpi anti-glutine (AGA) che da anticorpi antitransglutaminasi (TGA). Entrambi i linfociti B, produttori di
AGA o TGA, potranno presentare ai linfociti T gli stessi peptidi
derivati dalla gliadina. Dell’esistenza di questi linfociti T nella
mucosa del celiaco abbiamo già parlato. Questo meccanismo
renderebbe conto del fatto che sia la produzione di AGA che
quella di TGA appaiono similmente dipendenti dall’assunzione
di glutine (Fig. 5.8).
Fig. 5.8 Possibile ruolo del glutine nella produzione di autoanticorpi antitransglutaminasi
91
5. La malattia celiaca
Innanzitutto, se è vero che gliadina e transglutaminasi
possono trovarsi in complessi macromolecolari, qual è il senso
di questa interazione? Primo, la gliadina ha una struttura tale
da essere un buon substrato per la transglutaminasi. L’azione
della tTG sulla gliadina può essere varia: la gliadina può essere
legata covalentemente ad altre proteine; la gliadina può
essere deaminata su residui glutamminici. La prima possibilità,
che può teoricamente creare gravi problemi per la formazione
di neoantigeni, non è stata estesamente indagata. La seconda
possibilità, invece, è stata verificata, ed anzi è stato dimostrato
che i peptidi di gliadina così trattati dalla tTG aumentano la
loro affinità per l’HLA DQ2 e la loro tossicità per il celiaco 55,56.
Secondariamente, la risposta anticorpale contro i peptidi
deaminati di gliadina (DGP)57 è stata utilizzata recentemente
per mettere a punto nuovi test diagnostici, che presentano
migliore sensibilità e specificità rispetto ai vecchi anticorpi
anti-glutine (AGA) 58.
Questo insieme di dati può permetterci di costruire un
modello patogenetico della reazione immunopatologia tipica
della mucosa del soggetto celiaco (Fig. 5.9).
92
5. La malattia celiaca
Fig. 5.9 Un qualsiasi
insulto della parete
determina
un
aumento
della
permeabilità
epiteliale con ingresso
di peptidi tossici di
gliadina
e
contemporaneamente
un’attivazione
tessutale
di
transglutaminasi.
L’azione della tTG
sulla
gliadina
aumenta la reattività
di questa per l’HLA
DQ2 e l’attivazione dei linfociti CD4 specifici, avviando un circolo
vizioso, con mantenimento del danno tessutale, ulteriore ingresso di
gliadina e ulteriore attivazione di tTG.
Si riproduce così, ad un livello maggiore di conoscenza, il
modello già visto in precedenza dell’infezione cronica da
glutine.
Questo
modello
può
spiegare
come
mai
i
sintomi
gastroenterici della celiachia possono essere slatentizzati e
aggravati in seguito a infezioni. Tuttavia, ancora una volta, il
modello non ci spiega la differenza tra il soggetto
93
5. La malattia celiaca
geneticamente predisposto e il celiaco vero e proprio. Un
ipotesi recente valorizza il ruolo di una sovra-produzione di
IL-15 nella mucosa dei soggetti con malattia celiaca. Questa
anomalia può essere scatenata da particolari infezioni
intestinali e può a sua volta influenzare l’omeostasi intestinali,
favorendo lo sviluppo di una risposta immune agli antigeni e
ostacolando il fisiologico programma di tolleranza. Una volta
rotta la tolleranza alla gliadina, il sistema potrebbe amplificarsi
grazie alle particolari interazioni tra glutine transglutaminasi e
HLA, fino ad auto mantenersi anche al di fuori di cause
infettive59-62.
Altri autori hanno a suggerito che un altro meccanismo in
gioco nella patogenesi della celiachia potrebbe risiedere in
una risposta attivatoria dell’immunità naturale in seguito al
contatto con la gliadina, che potrebbe avere tra l’altro anche
delle proprietà simili a quelle di alcuni pattern patogeni
batterici e virali (PAMPs). Tuttavia, i dati disponibili non
permettono ancora una chiara interpretazione in tal senso.
L’era della tTG non ha avuto solo importanti ripercussioni sulle
conoscenze patogenetiche, ma anche su quelle cliniche. La
standardizzazione di test ELISA basati su transglutaminasi
umana ricombinante ha permesso infatti un notevole
miglioramento della diagnostica della celiachia, consentendo
la realizzazione di nuovi e più sensibili screening di
94
5. La malattia celiaca
popolazione.
Uno
di
questi è stato condotto
nelle scuole elementari
di Trieste, per mezzo
dell’analisi di poche
gocce
di
sangue
ottenuto per puntura di
polpastrello 63. Questa
iniziativa ha consentito
di
misurare
la
Fig 5.10 La tossicità del frumento
contenuto in una pizza sull’epitelio del
celiaco, in un disegno dei bambini delle
scuole elementari
prevalenza
della
celiachia al di sopra
dell’
1%
e
di
contribuire ad una disseminazione nella società delle
conoscenze sull’argomento (nella figura 5.10, un disegno dei
bambini che hanno partecipato allo screening).
La forza degli anticorpi anti-transglutaminasi ha consentito
inoltre di poter confermare la diagnosi di celiachia con
l’esecuzione di una sola biopsia senza necessità di ripetere
l’indagine a dieta e dopo scatenamento. Anzi, in casi con
sintomatologia riferibile a celiachia e anticorpi positivi, la
negativizzazione di questi e la regressione della sintomatologia
possono, secondo alcuni, essere sufficienti a confermare la
diagnosi anche senza biopsia.
95
5. La malattia celiaca
L’era delle “omiche”: indagando la base
dell’iceberg e cercando nuove terapie.
Al pari di quanto avviene per molti test diagnostici
quantitativi, la definizione della celiachia sulla base della
positività degli anticorpi anti-transglutaminasi rappresenta
un’approssimazione matematico-statistica più che una
certezza biologica. Infatti, i valori patologici di anticorpi sono
definiti sulla base della media di una popolazione sana più due
volte la deviazione standard della distribuzione. Il valore
concettuale di quest’approssimazione può cambiare a seconda
di come si voglia vedere la malattia celiaca: se si tratta di una
malattia “tutto o niente”, il significato degli anticorpi anti tTG
è quello di un’approssimazione probabilistica; se si tratta di
una condizione continua, con diversi livelli di malattia,
l’approssimazione riguarda la “quantità” di celiachia. Il
modello dell’iceberg della celiachia suggerisce che
quest’ultimo tipo di interpretazione possa descrivere meglio la
realtà. Nella base immersa si nasconderebbero quindi diversi
livelli di intolleranza al glutine, il cui significato deve essere
ancora valutato.
Per essere chiari, è bene dire che dal punto di vista clinico vale
la pena, per ora, di accettare un compromesso, e di fermarsi a
considerare come celiachia solo quella più facilmente
identificabile sulla base dei sintomi clinici, dei livelli sierici di
96
5. La malattia celiaca
anticorpi, delle lesioni bioptiche. Dal punto di vista della
ricerca, invece, può essere interessante capire se, al di là di
questi casi, esista uno spettro più ampio di intolleranza al
glutine e se questo possa comportare o meno il rischio di
sviluppare altre malattie associate.
Per indagare quest’aspetto, sono stati proposti diversi
approcci, i principali dei quali consistono nella ricerca diretta
degli anticorpi anti-transglutaminasi nella mucosa intestinale
con
metodiche
di
immunofluorescenza
e
nella
caratterizzazione degli anticorpi prodotti nella mucosa con la
tecnologia delle libraries fagiche. Ulteriori dati sono attesi
dall’applicazione di studi genomici e proteomici ad alta resa
(high throughput).
Partendo dal modello dell’iceberg della celiachia, è
ragionevole domandarsi se possano esistere livelli “intermedi”
di intolleranza al glutine, che sfuggano agli attuali criteri
diagnostici della malattia. E’ possibile, infatti, definire un
gruppo di soggetti con elevato rischio teorico di essere celiaci
(parenti di celiaci o diabetici con HLA DQ2 e/o DQ8) che
risultano negativi alle indagini sierologiche per
celiaca e all’esame morfologico della biopsia
Ebbene, in alcuni di questi soggetti è possibile
anticorpi anti-transglutaminasi, deposti nella
la malattia
intestinale.
identificare
mucosa a
contatto con il proprio bersaglio (vedi Koskinen et al, scheda).
Inoltre, anche con la metodica delle librerie fagiche (vedi
97
5. La malattia celiaca
Marzari et al, scheda) è stato possibile dimostrare che alcuni
soggetti con queste caratteristiche producono nella mucosa
anticorpi anti-transglutaminasi, indotti dall’esposizione al
glutine. Quest’ultima tecnologia ha permesso inoltre di
dimostrare che questi anticorpi sono prodotti proprio dai
linfociti situati nella mucosa e non da linfociti del sangue
periferico 64. Infine, sempre applicando questa metodica è
stato possibile caratterizzare dalla mucosa di soggetti la
produzione di altri autoanticorpi (ad esempio contro il
pancreas o contro strutture del cervello), anch’essi con
comportamento glutine-dipendente. Se questo è vero, sembra
ragionevole pensare che una dieta senza glutine possa
contribuire alla prevenzione del rischio di autoimmunità anche
in questo gruppo, come già abbiamo visto per i soggetti con
celiachia più tipica. La diagnosi di questi soggetti con
“intolleranza intermedia”, quindi, potrebbe permettere di
prevenire una quota supplementare di malattie autoimmuni
indotte dal glutine.
Va detto comunque, che è probabile che anche nei soggetti
celiaci il glutine non sia l’unico fattore ambientale in causa
nello scatenamento di reazioni autoimmuni. D’altra parte, è
possibile che l’esposizione al glutine agisca amplificando il
rischio che altri fattori ambientali provochino una risposta
autoimmune. La spiegazione più semplice per questa ipotesi è
che il particolare tipo di infiammazione indotta dal glutine
98
5. La malattia celiaca
nella mucosa interferisca con il normale funzionamento dei
meccanismi di tolleranza nella mucosa stessa: un antigene
estraneo simile ad antigeni endogeni (mimetismo molecolare)
potrebbe rischiare di indurre una risposta autoimmune
piuttosto che una risposta di tolleranza.
Un’altra spiegazione potrebbe risiedere più specificamente nei
rapporti tra glutine, transglutaminasi tessutale e risposta
autoimmune contro questo enzima. In realtà, non c’è alcuna
dimostrazione
consistente
che
la
risposta
antitransglutaminasi in sé abbia un ruolo preponderante nelle
malattie autoimmuni associate alla celiachia, tanto che alcuni
considerano tuttora questi anticorpi soprattutto come un
epifenomeno della malattia, specifico e utilissimo per la
diagnosi, ma forse non fondamentale nella patogenesi delle
manifestazioni della malattia. Sicuramente non indispensabile
allo sviluppo dell’enteropatia (che come abbiamo visto
dipende soprattutto dalla produzione di Interferon gamma da
parte di linfociti T CD4 specifici per il glutine). Tuttavia,
esistono alcune condizioni autoimmuni associate alla celiachia
dove il ruolo patogenetico di questi anticorpi è
definitivamente dimostrato o altamente probabile. In primo
luogo, la dermatite erpetiforme, manifestazione cutanea
autoimmune che sembrerebbe dipendere dalla produzione di
anticorpi contro la transglutaminasi epidermica (leggermente
diversa rispetto a quella tessutale). E’ possibile anche che, al
99
5. La malattia celiaca
pari degli anticorpi anti-transglutaminasi, altri autoanticorpi
siano prodotti nella mucosa per un meccanismo di “antigen
spreading” cioè in seguito al riconoscimento di diversi antigeni
in complesso con peptidi di gliadina: come già discusso per gli
anticorpi anti-transglutaminasi, la gliadina potrebbe fornire i
peptidi riconosciuti da linfociti T anti-gliadina che a loro volta
fornirebbero l’aiuto per la produzione di diversi autoanticorpi.
Come al solito, è possibile che nella realtà siano coinvolti
diversi di questi meccanismi. Di fatto, la sola produzione di
autoanticorpi potrebbe spiegare alcune condizioni
autoimmuni (atassia, dermatite) ma più difficilmente altre
come il diabete e la tiroidite autoimmune, in cui è
ampiamente riconosciuto un ruolo patogenetico prevalente
dell’immunità cellulare.
Tutto questo, quando ancora alcuni autori discutono se la
celiachia debba o meno essere considerata essa stessa una
malattia auto-immune. L’autore di queste dispense ritiene di
no, anche se questa discussione non può avere che risvolti
scolastici. Pensare alla celiachia come una malattia
autoimmune mi sembra confondente, perché non si chiarisce
quale sia il nucleo che noi vogliamo considerare malattia. In
altre parole, se l’intolleranza al glutine è autoimmune, tutti i
malati devono avere aspetti clinici della malattia a patogenesi
autoimmune, e non semplicemente fenomeni autoimmuni
come la presenza di autoanticorpi.
100
5. La malattia celiaca
Per esercizio, ricordiamo che la definizione di una malattia
come autoimmune prevede il soddisfacimento di alcuni criteri
abbastanza simile ai postulati di Koch per le malattie infettive.
Lasciamo al lettore il giudizio su quanto la celiachia possa
soddisfare questi criteri.
•
•
•
Deve essere identificata una risposta adattativa
autoimmune anticorpale e/o cellulare in tutti i soggetti
affetti dalla malattia.
La risposta autoimmune deve essere responsabile di un
danno caratterizzante della malattia.
Il trasferimento delle cellule e/o anticorpi autoreattivi
deve essere in grado di riprodurre in un altro soggetto la
stessa malattia (cosa non facile da dimostrare, in assenza
di modelli animali della malattia).
In ogni caso, la definizione della celiachia come autoimmune o
meno non cambia sostanzialmente il suo ruolo nell’aumentare
il rischio di sviluppare autoimmunità. Anzi, questo ruolo
apparirebbe più chiaro e netto proprio se si ammettesse che la
malattia non è in se autoimmune.
101
5. La malattia celiaca
Koskinen O, Collin P, Korponay-Szabo Ilma, Salmi T, Iltanen S,
Haimila K, Partanen J, Mäki M, Kaukinen K.
Gluten-dependent
Small
Bowel
Mucosal
Transglutaminase 2-specific IgA Deposits in Overt
and Mild Enteropathy Coeliac Disease
J Pediatr Gastroenterol Nutr 2008;47:436-442. 65
Vengono riportate immagini di immunofluorescenza (riquadri
grandi) e corrispondenti immagini morfologiche dei villi intestinali
(rettangoli piccoli), alla prima valutazione (A e B), dopo due anni di
dieta contenente glutine (D e E) e dopo una dieta priva di glutine (E
e F).
A e B mostrano un quadro di celiachia “latente”: I villi sono normali
(B) mentre si osservano dei depositi di IgA che co-localizzano con la
transglutaminasi tessutale (A). Non si evince dall’immagine in
bianco e nero, ma le frecce indicano il colore arancione derivante
dalla fusione della fluorescenza gialla dovuta alla presenza di IgA e
rossa dovuta alla presenza di transglutaminasi.
D: due anni dopo la mucosa mostra segni di atrofia, sono sempre
presenti anticorpi nella mucosa, ma non nel siero. Viene avviata la
dieta senza glutine.
F e E: a dieta senza glutine, la mucosa guarisce e scompaiono i
depositi di anticorpi IgA anti-transglutaminasi.
102
5. La malattia celiaca
Marzari R, Sblattero D, Florian F, et al.
Molecular dissection of the tissue transglutaminase
autoantibody response in celiac disease.
J Immunol. 2001 Mar 15;166(6):4170-6. 66
Per prima cosa è utile ricordare che ciascun linfocito B mucosale
presenterà nel proprio genoma dei riarrangiamenti che
permettono la produzione di anticorpi funzionali con un elevato
grado di diversità. Utilizzando dei primers che fiancheggiano le
regioni variabili delle immunoglobuline, è possibile collezionare
sotto forma di DNA copia (cDNA) tutto il patrimonio di diversità
anticorpali codificate nell’intestino. Per eseguire l’analisi di questa
enorme biblioteca, può essere sfruttata la tecnologia delle libraries
fagiche. In pratica, questa tecnologia permette di associare a
ciascuna sequenza di DNA codificante per una catena anticorpale la
corrispondente proteina: per far ciò, il DNA viene trasferito
all’interno di fagi in modo tale che la catena anticorpale venga
espressa sul capside. In questo modo il fago fornisce un potente
strumento di analisi e selezione: esso accoppia una proteina
(esposta sulla superficie del fago ed utilizzabile per processi di
selezione su base di affinità) al relativo DNA. Una volta identificata
una catena anticorpale di interesse, questo sistema permette di
amplificare ulteriormente il fago e di valutare agevolmente le
caratteristiche molecolari dell’anticorpo, cioè con quali moduli di
DNA questo è stato assemblato durante la ricombinazione
genetica. Il limite di questa tecnologia è che non permette di
effettuare l’accoppiamento giusto tra catene leggere e pesanti e
quindi non riproduce con certezza l’anticorpo esattamente come è
in vivo. D’altra parte, è noto che la catena pesante contribuisce per
la maggior parte alla specificità antigenica, e quindi si ritiene che
l’approssimazione delle librerie fagiche sia più che soddisfacente.
Questo tipo di analisi ha permesso di caratterizzare la risposta
autoanticorpale del soggetto celiaco, identificare le regione
103
5. La malattia celiaca
variabili più comunemente utilizzate negli anticorpi antitransglutaminasi, mappare la specificità per diversi epitopi
dell’antigene e identificare la sede di produzione della risposta
autoimmune. Insieme ai risultati dell’immunofluorescenza in situ,
questa metodica ha permesso di dimostrare che gli anticorpi anti
tTG vengono prodotti e depositati nella mucosa, non solo nella
celiachia, ma anche in alcuni soggetti con diabete senza una
celiachia manifesta 67. La metodica è stata adattata per un uso
routinario mirato a identificare se esista uno spettro di sensibilità al
glutine più ampio della celiachia tipica 68.
Di seguito riportiamo anche un piccolo approfondimento sulle
relazioni tra malattia celiaca e diabete di tipo 1.
104
5. La malattia celiaca
Il diabete visto dall’intestino.
Il diabete insulino-dipendente (DMT1) è una malattia
multifattoriale legata a fattori ereditari multigenici ed elementi
ambientali. Il peso dei fattori ambientali sembra essere
preponderante (la concordanza della malattia in gemelli
monozigoti è intorno al 30%), ma un substrato genetico
“permissivo” è indispensabile al realizzarsi della malattia. In
particolare, l’associazione con particolari HLA offre un interessante
collegamento tra la genetica e l’ambiente.
La possibilità di identificare soggetti ad alto rischio di sviluppare il
diabete insulino-dipendente (diabete di tipo 1) porta in sé la
frustrazione derivante dall’assenza di un’efficace strategia
preventiva della malattia. La presenza di anticorpi diretti contro il
pancreas e l’analisi dell’HLA consentono di predire con elevata
affidabilità lo sviluppo del diabete in età pediatrica (fratelli o figli di
diabetici), quando il rischio di sviluppare la malattia è ancora
elevato e i tempi per la prevenzione sono più lunghi. In familiari di
1° grado di diabeteci, il valore predittivo degli autoanticorpi contro
il pancreas varia dal 5 al 70% (in caso di positività multiple). E può
essere rinforzato dalla concordanza degli HLA di rischio.
E’ chiaro che la determinazione di questo rischio ha senso, ed è
eticamente accettabile, solo in presenza di efficaci strategie
preventive o nell’ambito di studi sperimentali di prevenzione.
D’altra parte, la presenza di una risposta autoanticorpale
persistente contro il pancreas indica forse qualcosa di più di una
condizione di rischio, qualcosa che è forse già l’inizio della malattia,
lo specchio dell’insulite, cioè dell’attivazione di linfociti autoreattivi
che infiltrano le insule pancreatiche, conducendo lentamente ad
una distruzione delle beta-cellule fino alla comparsa del diabete
manifesto. Un intervento a questo punto avrebbe già il significato
di una prevenzione secondaria.
Tra le strategie preventive, è stata valutata anche la
105
5. La malattia celiaca
somministrazione orale di insulina, allo scopo di indurre attraverso
il sistema immune dell’intestino una risposta di tolleranza
all’ormone e al tempo stesso alle cellule pancreatiche. Per quanto
questa strategia non abbia portato finora ad apprezzabili risultati
clinici, essa contiene un’idea originale: quella che l’intestino possa
avere un ruolo nella genesi, e d’inverso nella prevenzione, del
diabete autoimmune.
Gli studi epidemiologici hanno mostrato che l’incidenza del diabete
negli anni può variare molto più di quanto vari il patrimonio
genetico della stessa popolazione, suggerendo che sia possibile
identificare i fattori ambientali attivi nella genesi della malattia. Un
recente studio collaborativo europeo ha mostrato inoltre che
l’aumento di incidenza del diabete mellito è maggiore nei bambini
più piccoli (+ 6.3% negli ultimi 15 anni), con una tendenza
all’anticipazione dell’età di insorgenza. Tra i possibili fattori
ambientali in causa, appaiono di particolare importanza
l’alimentazione e le infezioni, in particolare quelle a carico del
tratto gastro-intestinale. Entrambi questi fattori si confrontano con
l’organismo a livello della mucosa dell’intestino e il mediatore del
confronto tra la genetica e l’ambiente è quindi il sistema immune
della mucosa intestinale. L’ipotesi che stiamo valutando, e cioè che
il diabete nasca dall’intestino, appare coerente con questi dati. Di
fatto, come vedremo, l’osservazione che nei soggetti diabetici
siano identificabili sottili alterazioni del sistema immune
intestinale, è coerente con una visione più allargata della
patogenesi del diabete e di altre malattie autoimmuni d’organo.
Glutine, latte vaccino e infezione da enterovirus sono tre fattori
ambientali per i quali è stato ipotizzato un ruolo nella patogenesi
del DMT1. La prima caratteristica che questi hanno in comune è
quella di entrare in contatto con l’organismo a livello della mucosa
intestinale. I due alimenti hanno poi una seconda caratteristica in
comune, quella cioè di aver fatto parte nei secoli recenti di un
importante cambiamento delle abitudini dietetiche (almeno per
106
5. La malattia celiaca
quanto riguarda le quantità), che non ha avuto né il tempo né le
condizioni (almeno nei paesi ad elevato sviluppo socio-sanitario) di
indurre un adattamento della specie in termini di selezione
naturale. E’ possibile che il cambiamento dietetico spieghi, almeno
in parte, la variabile incidenza di diabete nel tempo che si è
osservata in più paesi.
L’evidenza di un ruolo patogenetico del glutine, almeno in una
percentuale di diabetici (intorno al 5-10%), nasce dall’osservazione
che i celiaci non diagnosticati, esposti a lungo alla dieta contenente
glutine, hanno un rischio elevato di sviluppare il diabete (fino al
25% dopo 30 anni di dieta contenente glutine). Questo rischio si
riduce fortemente nei soggetti celiaci diagnosticati precocemente,
e quindi a dieta, indicando che un’alimentazione senza glutine
potrebbe essere in grado di prevenire in essi lo sviluppo di diabete.
Coerente con questi dati è l’osservazione che gli anticorpi antipancreas, quando presenti in soggetti celiaci, tendono a scomparire
a dieta senza glutine.
Per concludere, in soggetti con il substrato genetico della celiachia
(HLA ed altro non noto), il glutine potrebbe favorire una risposta
autoimmune anti-pancreas ed infine il diabete conclamato.
L’associazione con la celiachia sembra spiegare solo una parte
minore dei casi di DMT1 (meno del 10 %), ma è possibile che anche
in soggetti non tipicamente celiaci il glutine abbia un ruolo nel
favorire l’insorgere del diabete. Questa ipotesi, finora mai valutata,
è attualmente oggetto di studio con le nuove tecniche dell’era
molecolare della celiachia.
107
Cambiamenti nella epidemiologia e nella clinica della malattia celiaca nelle successive
ere della malattia. La sequenza scritta in bianco riassume le diverse ere della celiachia.
Le immagini sull’orizzonte della figura indicano i cambiamenti della prevalenza di
malattia in coincidenza con l’applicazione di diversi strumenti e strategie di diagnosi. La
riga in basso, in nero, riassume l’evoluzione della clinica della malattia, dovuta sia a
cambiamenti ambientali che al miglioramento delle strategie diagnostiche. L’ultima
colonna propone due possibili scenari per il futuro, a seconda che la diagnostica
biotecnologia permetta di leggere l’intolleranza al glutine come una singola malattie o
come una costellazione di diversi livelli di ipersensibilità.
5. La malattia celiaca
108
6. La malattia di Crohn
6. La malattia di Crohn
Fig. 6.1 Pubblicazioni sulla malattia di Crohn negli anni su due delle
maggiori riviste mediche internazionali.
Nel grafico in figura 6.1 viene riportato il numero di
pubblicazioni sulla malattia di Crohn sulle due principali riviste
mediche internazionali: l’americano “New England Journal of
Medicine” ed il britannico “The Lancet”.
L’interesse verso questa malattia non è stato sempre uguale
per le due riviste. Si possono inoltre notare alcuni picchi che
rispecchiano
verosimilmente
altrettanti
periodi
di
avanzamanto delle conoscenze. Il primo picco, alla fine degli
anni ’60 si associa a molte diverse novità, dall’introduzione di
terapie mediche di fondo alla caratterizzazzione di
manifestazioni associate alla malattia; il secondo picco, di più
ampia durata per il giornale britannico, rispecchia un ulteriore
aumento delle conoscenze, favorito anche dall’introduzione
della colonscopia con fibre ottiche; agli inizi degli anni ’90 si
109
5. La malattia celiaca
prende atto di cambiamenti epidemiologici e alla fine dello
stesso decennio si assiste all’avvio della “rivoluzione
biologica”, con l’introduzione in terapia degli anticorpi anti
TNF-alfa; l’inizio del 2000, infine, è caratterizzato
dall’identificazione di uno dei geni maggiormente associati al
rischio di malattia, NOD2.
110
6. La malattia di Crohn
Era
Anni
Clinica
B. Crohn
Chirurgia
1932
E. medica
del
cortisone e
dell’azatiopr
ina
1951
1967
E.
della
dieta
e
dell’ambient
e
1970
Ileo
terminale:
infiammazione
cronica: ulcere,
fistole e stenosi
69
; Complicanze
nutrizionali della
70
chirurgia
Anche carcinoma,
eritema nodoso,
amiloidosi,
febbre, ritardo di
crescita,
spondilite
anchilosante,
pioderma
gangrenoso
71
Anemia
Aumento
di
incidenza
e
progresso socio77
;
igienico
aumento
della
MC pediatrica
E. biologica
1997
Diagnosi e
terapia
Chirurgica
Biologia
Granuloma.
infiammazione
ma non tumore
né infezione
Effetto del
72
cortisone ;
rischi
del
73
cortisone ;
Sigmoidosco
74
pia
. 6mercaptopu
75 76
.
rina
Ileostomia
78
79,80
. Dieta
.
Doppio
81
contrasto ;
82
Talidomide
Leucociti
nel
83
sangue
e nel
84
muco rettale .
85
Permeabilità ,
86
Infezione
;
difetto immune
87,88
89
; ASCA
Modelli murini
90,91
Infliximab
E. genetica
2001
E.
del
sistema
immune
naturale
E.
delle
interazioni
2002
92
GM-CSF
come
possible
95-97
terapia
NOD2
come
93,94
gene rischio
Difetto
del
98,99
fagocita .
Difetto di switch
100
off
101
2009
Tab. 6.1 Le ere della malattia di Crohn.
111
5. La malattia celiaca
La nascita di una nuova
malattia: Crohn, 1932
All’inizio degli anni ‘30, un gruppo di
chirurghi del Mount Sinai Hospital di
New York, osservò una serie di pazienti
con una malattia infiammatoria cronica
dell’intestino a patogenesi ignota (né
infettiva, né tumorale). Nel 1932, Crohn Fig. 6.2 Burrill B. Crohn
(fig. 6.2), Ginzburg e Oppenheimer descrissero questa
condizione sul Journal of American Medical Association
(JAMA) come una nuova entità nosologica, che avrebbe
successivamente preso il nome di Malattia di Crohn 69.
Fig 6.3 La prima descrizione dell’Ileite Regionale, in seguito denominata
malattia di Crohn.
112
6. La malattia di Crohn
La descrizione con cui iniziava l’articolo (fig. 6.3) costituisce
tuttora un’ottima sintesi delle caratteristiche della malattia:
“noi proponiamo di descrivere, nei suoi dettagli patologici e clinici,
una malattia dell’ileo terminale, che colpisce soprattutto i giovani
adulti e che è caratterizzata da un’infiammazione subacuta o
cronica necrotizzante e cicatrizzante. L’ulcerazione della mucosa si
accompagna a una sproporzionata reazione del tessuto connettivo
della restante parete della zona di intestino coinvolta, un processo
che conduce frequentemente a stenosi del lume intestinale associata
alla formazione di fistole multiple”.
Può essere utile discutere alcuni aspetti di questa descrizione
ai fini della nostra trattazione:
- La frase iniziale - noi proponiamo di descrive una malattia
– tradisce già che si sta parlando di una malattia
precedentemente sconosciuta, il che può suggerire che
-
cambiamenti ambientali abbiano avuto un ruolo nella sua
comparsa;
Malattia dell’ileo terminale: oggi sappiamo che l’ileo
terminale è la localizzazione più caratteristica della
malattia, ma che altre porzioni dell’apparato digerente
possono essere ugualmente interessate, lasciando di solito
ampie porzioni del tutto sane (si parla di “lesioni a salto” o
skip lesions);
-
Colpisce soprattutto i giovani adulti: questo resta vero, ma
negli ultimi decenni sono diventati sempre di più i casi ad
113
5. La malattia celiaca
esordio più precoce, in età pediatrica, suggerendo ancora
un ruolo di cambiamenti dell’ambiente nel modificare
l’espressione della malattia;
-
Infiammazione subacuta o cronica necrotizzante e
cicatrizzante, … sproporzionata reazione della parete …
stenosi e fistole: i sintomi della malattia dipendono
dall’infiammazione in sé (febbre, astenia, calo ponderale),
ma in modo ancora più caratteristico dagli aspetti
distruttivi a pieno spessore di parete dell’infiammazione
(ascessi, fistole, stenosi, masse addominali, occlusione).
Meno importante è invece il sintomo dovuto
all’infiammazione superficiale della mucosa (diarrea con
-
muco e sangue) rispetto a quanto si poteva osservare in
altre malattie come la colite ulcerativa.
Più avanti, si descrive il carattere granulomatoso (vedi
scheda) dell’infiammazione, non riconducibile a cause note
(in primis la tubercolosi e le cause infettive).
L’infiammazione granulomatosa.
L’infiammazione granulomatosa è un tipo particolare di risposta
infiammatoria cronica, caratterizzata da raccolte focali di
macrofagi, cellule epitelioidi e cellule giganti multinucleate.
Questa modalità viene messa in atto in presenza di una relativa
incapacità da parte dei fagociti di rimuovere in modo efficiente un
agente patogeno, a causa di caratteristiche intrinseche del
patogeno o a causa di un difetto dei meccanismi di distruzione di
114
6. La malattia di Crohn
questo da parte della cellula. In tali casi, le citochine e chemochine
rilasciate nella sede del danno richiameranno linfociti, che a loro
volta produrranno citochine in grado di potenziare e modulare
l’attività dei fagociti. Il risultato è il granuloma che può evolvere in
vari modi, in base alla persistenza o meno dei fattori che ne hanno
indotto la formazione.
Gli esempi più classici di reazione granulomatosa si trovano nella
tubercolosi (resistenza del micobatterio alla distruzione da parte
dei fagociti), nel corpo estraneo (indigeribilità) e in un particolare
difetto dei fagociti, la malattia granulomatosa cronica (per un
difetto della capacità ossidativa dei fagociti).
Detto questo, appare comprensibile come in questa prima era
della malattia di Crohn la malattia avesse soprattutto
connotati “chirurgici”.
Gli unici farmaci utilizzati, su base empirica, erano i
sulfamidici, che si erano da poco rivelati preziosi nel
trattamento di malattie infettive. Tra questi farmaci, la
salazopirina sembrava essere dotato di una certa efficacia, ma
è incerto se questa fosse dovuta più alle qualità antibatteriche o a quelle anti-infiammatorie (contenuto di
salicilato).
Nel 1950 cominciano a evidenziarsi le prime complicazioni a
distanza della gestione esclusivamente chirurgica della
malattia: dopo aver resecato la parte di intestino malata, la
malattia tende a ricadere e a richiedere nuovi interventi, fino a
portare a una rilevante diminuzione della superficie di
assorbimento con conseguenti problemi nutrizionali 70.
115
5. La malattia celiaca
Dal cortisone all’azatioprina: la prima
era farmacologica
All’inizio degli anni ‘50 l’uso del cortisone entra con
prepotenza nell’armamentario terapeutico delle malattie
infiammatorie, inclusa la malattia di Crohn 72. L’efficacia del
farmaco è subito evidente e sembra permettere in molti casi
di evitare o posticipare il ricorso alla terapia chirurgica, tanto
che si parlerà di una vera e propria “era degli steroidi” 102. Solo
più tardi, si cominceranno a rendere evidenti anche i rischi di
un trattamento steroideo prolungato (vedi scheda) 73. Infatti,
l’esperienza insegnerà ben presto che la malattia tende a
ricadere alla sospensione del trattamento che viene quindi
mantenuto a tempo indefinito. Non solo, in alcuni pazienti si
sviluppava una certa tolleranza nei confronti del farmaco, che
costringeva ad aumentarne le dosi. Oggi sappiamo che il
trattamento steroideo nella malattia di Crohn si limita a
bloccare le manifestazioni correlate all’infiammazione, senza
influire positivamente sulla storia naturale della malattia.
Negli anni successivi si cercherà di aggiungere al cortisone altri
farmaci immunosoppressori, a cominciare dalla 6mercaptopurina, fino alle mostarde azotate 75 76,103. L’era del
cortisone rappresenta quindi il momento in cui la scoperta di
farmaci con effetto anti-infiammatorio e immunosoppressivo
permette l’attuazione delle prime terapie mediche dotate di
116
6. La malattia di Crohn
una certa efficacia sui sintomi infiammatori della malattia. I
trattamenti medici proposti in precedenza, infatti, non
avevano basi razionali altrettanto solide e spesso
rispondevano a pensieri logici arbitrari e a volte bizzarri (per
una trattazione storica vedi Kirsner, The Lancet 1998 104).
In questo periodo, vengono descritti i primi casi familiari e
pediatrici della malattia, si introducono esami non-chirurgici
per una migliore diagnosi (biopsia rettale, sigmoidoscopia) e
vengono descritte altre condizioni morbose che si associano o
che complicano spesso la malattia di Crohn: carcinoma del
colon, eritema nodoso, amiloidosi, febbre, ritardo di crescita,
anemia, spondilite anchilosante, pioderma gangrenoso.
117
5. La malattia celiaca
Cortisone:
collaterali
meccanismi
di
azione
ed
effetti
Dal 1949, quando Hench e coll. dimostrano l’efficacia
antinfiammatoria dei corticosteroidi o dell’ACTH nell’artrite
reumatoide, i cortisonici diventano il prototipo dei farmaci
antinfiammatori (tanto che altre categorie di farmaci verranno poi
indicate come “farmaci antinfiammatori non steroidei” o ancora,
come farmaci “risparmiatori di cortisone”).
La potenza degli steroidi, giudicata in base alla capacità di
mantenere la sopravvivenza nel soggetto adrenalectomizzato,
correla con l’effetto di ritenzione di sodio (effetto
mineralcorticoide). Attraverso il legame ad un altro tipo di
recettore i cortisonici possono mediare anche un effetto più
complesso sul metabolismo, con aumento della glicemia,
diminuzione dell’uso del glucosio ed accumulo di glicogeno epatico
(effetto glucocorticoide). La potenza glucocorticoide correla con
l’azione antinfiammatoria del farmaco.
I cortisonici sono molecole liposolubili, in grado di attraversare
facilmente le membrane e raggiungere il proprio recettore nel
citoplasma della cellula. In seguito al legame con il cortisone, il
recettore media una serie di effetti di regolazione della sintesi
proteica, direttamente o indirettamente per mezzo del legame ad
altri fattori di trascrizione (vedi immagine). Gli effetti immunologici
dipendono da molteplici meccanismi: da un lato la repressione
della produzione di citochine come l’IL-1, il TNF-alfa, l’IL-6 e la
diminuita produzione di prostaglandine, leucotrieni e di enzimi
litici; dall’altro un effetto immunosoppressore più complesso sulle
cellule dell’immunità naturale e sui linfociti.
118
6. La malattia di Crohn
L’effetto dei glucocorticoidi è molto potente, grazie anche al largo
spettro di azione su più sostanze e funzioni cellulari. Purtroppo,
però, l’utilizzo di questi farmaci nelle malattie infiammatorie
croniche comporta una serie di problemi: primo, il farmaco ha un
effetto sintomatico e non sembra cambiare la storia naturale della
malattia (anzi, forse potrebbe aggravarne alcuni aspetti); oltre agli
effetti sul sistema immunitario i cortisonici hanno marcati effetti
sul metabolismo cellulare, tanto più importanti quanto più la
somministrazione viene protratta. Non solo, l”assuefazione”
dell’organismo ad elevati livelli di cortisone comporta la perdita di
un’efficace risposta ormonale da stress (a causa della cosiddetta
soppressione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene). I principali effetti
indesiderati di terapie di lunga durata a base di corticosteroidi sono
di seguito riassunti:
- Cardiovascolari: ipertensione
- Cute: ecchimosi, petecchie, strie rubre, acne
- Endocrino-metabolici: soppressione asse ipotalamo-ipofisisurrene, irsutismo, aspetto cushingoide, impotenza, irregolarità
mestruali, ritardo e arresto della crescita nei bambini, diabete,
catabolismo proteico, disturbi elettrolitici ritenzione di sodio e
acqua, ipokaliemia, ipocalcemia, calciuria.
- Gastrointestinali: ulcera peptica, emorragia gastrica
119
5. La malattia celiaca
-
Immunitari: aumentata suscettibilità alle infezioni, ritardata
guarigione di ferite
Neuropsichici: iperattività psico-motoria, euforia, insonnia,
sindrome depressivo-maniacale, psicosi
Oftalmici: cataratta, glaucoma, cheratiti
Osteomuscolari: osteoporosi, necrosi asettica della testa del
femore e dell’omero, miopatia
Ambiente e immunità: dalla dieta ad
una nuova epidemiologia
Il ruolo di cambiamenti ambientali nella patogenesi della
malattia di Crohn diviene sempre più evidente: gli studi
epidemiologici mostrano un aumento della prevalenza della
malattia nel tempo 77; la transitoria esclusione di anse
intestinali dal transito alimentare, eseguita per finalità
chirurgiche, permetteva in esse la guarigione del processo
infiammatorio 78; la nutrizione con dieta elementare o semielementare (cioè a base di molecole non complesse)
permetteva non solo di affrontare il difetto nutrizionale tipico
della malattia, ma anche la risoluzione del processo
infiammatorio 79,80 (vedi scheda). Queste e altre osservazioni
erano coerenti con un ruolo chiave dell’ambiente (ed in
particolare di quell’ambiente che entra a contatto con
l’intestino attraverso l’alimentazione) nella malattia di Crohn.
Tuttavia, non era chiaro quali elementi di quest’ambiente
120
6. La malattia di Crohn
fossero i veri responsabili della malattia. Si osservava che
l’aumento dell’incidenza della malattia nei diversi paesi
rispecchiava il progresso socio-igienico-economico, tanto che
si cominciò a parlare di malattie correlate alla
“occidentalizzazione” dello stile di vita 105,106. Non solo, la
malattia, inizialmente descritta come più frequente nella
popolazione ebraica, risultava meno frequente in Israele che
negli Stati Uniti 107. Nonostante questo, non fu possibile
identificare singoli fattori ambientali sicuramente associati con
la malattia.
Dall’altra parte, cominciava a prendere piede l’ipotesi che la
malattia potesse derivare da una risposta immune anomala a
qualche mutamento ambientale non ben identificato. Infatti,
la conta dei globuli bianchi nel sangue e nel muco fecale
diventano al tempo stesso una prova del coinvolgimento
generale del sistema immunitario nella malattia e strumenti
per la diagnosi ed il monitoraggio di questa 83,84. Ancora una
volta, però, non è facile comprendere in che cosa consista
questa anomala risposta all’ambiente: si ipotizza che la
malattia nasca dalla risposta ad agenti infettivi trasmissibili
che tuttavia non vengono mai identificati in modo convincente
86
; si ipotizza un difetto della tolleranza immune contro i
comuni saprofiti, che sarebbe coerente con l’identificazione di
un’alterata reattività cellulare e anticorpale contro alcuni
commensali 87,89; infine, si ipotizza che una patologica risposta
121
5. La malattia celiaca
individuale a determinati fattori ambientali possa derivare da
una condizione di difetto immunitario 88,108. A ciò si
aggiungeva l’evidenza di un’alterata permeabilità intestinale,
che, oltre a provocare malassorbimento e difetto nutrizionale,
poteva svolgere un ruolo patogenetico anche favorendo il
confronto tra componenti ambientali e immunità mucosale. La
misura della permeabilità intestinale diventò di fatto un
ulteriore indicatore biologico dell’attività di malattia,
precedendo nel tempo l’aumento dei leucociti e degli indici di
flogosi e la ricaduta clinicamente manifesta 85.
Contemporaneamente, lo studio di loci associati alla malattia
in famiglie con più casi affetti, promette di fornire una chiave
interpretativa, forse in grado di trovare una sintesi tra queste
diverse teorie.
122
6. La malattia di Crohn
Dieta elementare nella malattia di Crohn 79,80
La figura mostra gli effetti della sola dieta elementare su diversi
parametri indicatori sia dello stato nutrizionale che dello stato
infiammatorio.
Come si vede, la dieta ha di per sé oltre all’effetto nutrizionale
anche un effetto anti-infiammatorio. Il meccanismo con cui si
ottiene questo effetto non è ancora del tutto noto, ma è probabile
che passi attraverso modificazioni della composizione e del
metabolismo della flora batterica intestinale.
123
5. La malattia celiaca
I farmaci biologici: la seconda era
farmacologica
La seconda era farmacologica potrebbe essere anche chiamata
“biotecnologica”. L’idea è quella di ottenere lo stesso potere
anti-infiammatorio del cortisone, senza i pesanti effetti
indesiderati di questo farmaco. Di seguito sono riassunte le
basi di quest’approccio terapeutico.
Sebbene il sistema immune sia in grado di riconoscere una
moltitudine di patogeni ed organizzare nei loro confronti
risposte di volta in volta diverse, le fasi iniziali della difesa
primaria verso gli antigeni sono condivise. La modalità di
risposta può tuttavia essere modulata dalle caratteristiche del
patogeno, dando luogo alla produzione di diversi profili di
citochine. Quando prodotte in grande quantità, queste
citochine mediano effetti sistemici come la reazione febbrile
(azione sull’ipotalamo di IL-1 e TNF-α) e la sintesi delle
proteine della fase acuta (azione sul fegato di IL-1, TNF-α e IL6). A queste azioni si associa un programma di risparmio
energetico da parte dell’organismo, finalizzato a concentrare
tutte le forze sul fronte della difesa immune. In quest’ottica si
devono leggere la sonnolenza provocata dall’IL-1 e dal TNF-α e
l’inibizione della crescita mediata dall’IL-6.
Tra le citochine prodotte nelle malattie infiammatorie
croniche, quella che ha sicuramente il maggior potenziale
124
6. La malattia di Crohn
lesivo è il TNF-α (vedi scheda), anche in ragione della sua
capacità di amplificare la produzione di citochine proflogogene, a loro volta dotate di notevole tossicità. Ad
esempio la secrezione protratta di IL-1 conduce a
riassorbimento osseo, mentre la secrezione cronica di IL-6,
attraverso
una
l’accrescimento.
diminuzione
dell’IGF-I,
ostacola
Le citochine vengono prodotte per brevi periodi di tempo da
cellule attivate del sistema immune. La loro sintesi avviene
ex novo ed è regolata a partire da segnali di membrana
trasdotti attraverso una cascata di eventi, che culminano con
l’attivazione di particolari fattori di trascrizione tra cui l’NF-kB,
in grado di regolare la sintesi delle citochine pro-flogogene e
degli enzimi implicati nel metabolismo delle prostaglandine e
dei tromboxani. E’ bene dire che uno degli antagonisti più
potenti dell’azione dell’NF-kB è proprio il cortisone, ma come
abbiamo visto questo farmaco ha anche altri importanti effetti
indesiderati.
Dato il suo ruolo centrale del TNF-α nell’amplificazione della
risposta infiammatoria, si è pensato di controllare
specificamente gli aspetti più gravi dell’infiammazione per
mezzo dell’inibizione di questa citochina. Per la sua selettività,
questo intervento non è teoricamente gravato dagli effetti
collaterali propri di farmaci come il cortisone, anche se esiste il
125
5. La malattia celiaca
rischio che una soppressione prolungata dell’attività del TNF-α
possa associarsi ad un’aumentata suscettibilità alle infezioni.
Le strategie finora studiate al fine di inibire il TNF-α
comprendono l’infusione endovenosa di anticorpi monoclonali
contro questa citochina 92, l’uso del recettore solubile per il
TNF-α coniugato con il frammento Fc di immunoglobuline di
classe IgG e la somministrazione di farmaci che diminuiscono
l’emivita dell’RNA messaggero del TNF-α (la talidomide
sembrerebbe agire in parte con questo meccanismo).
Sulla base dei trials effettuati, l’inibizione del TNF-α si è
rivelata essere una terapia fondamentale nelle fasi critiche
delle malattie infiammatorie croniche (M. di Crohn, Artrite
Reumatoide), ottenendo un’azione antinfiammatoria molto
marcata, a spese di effetti collaterali contenuti.
Effetti del TNF-α
α
Basse concentrazioni
induce molecole di adesione endoteliali, attiva leucociti
infiammatori ad uccidere i microbi
stimola la produzione di citochine pro-flogogene (IL-1, IL-6, TNF),
potenzia la difesa contro infezioni virali
Concentrazioni sistemiche (ad esempio nella sepsi)
azione pirogena ipotalamica, risposta fase acuta, attivazione del
sistema di coagulazione
inibisce la replicazione midollare, inappetenza
Quantità massicce (ad esempio nello shock settico)
depressione della contrattilià miocardica, diminuito tono della
muscolatura vasale
coagulazione disseminata, ipoglicemia
126
6. La malattia di Crohn
Gli anticorpi anti-TNF sono oggi entrati a far parte
dell’armamentario terapeutico della malattia di Crohn, grazie
alla loro elevata potenza e alla loro relativa selettività.
E’ bene tuttavia non concedersi troppo alla facile equivalenza
tra selettività e sicurezza: per quanto meglio tollerate dei
cortisonici, le nuove terapie biologiche non sono scevre da
effetti collaterali. La loro elevata potenza e la lunga durata
d’azione possono produrre una potente soppressione di alcuni
meccanismi di risposta antimicrobica con elevato rischio di
sviluppare infezioni gravi da alcuni patogeni, come ad esempio
il micobatterio tubercolare. Inoltre, anche questi farmaci
sembrano al pari del cortisone, avere un effetto
prevalentemente sintomatico, senza influenzare in modo
chiaro l’evoluzione della malattia. In conclusione, questi
farmaci rappresentano un indubbio passo avanti nella terapia
della malattia di Crohn, ma solo una maggiore conoscenza
patogenetica della malattia potrà permettere di trovare il
giusto ruolo di questi farmaci, all’interno di terapie sequenziali
o combinate che uniscano il trattamento del sintomo
infiammatorio e le cause immuni ed ambientali che ne sono
alla base.
A questo proposito vengono messi a punto numerosi modelli
murini della malattia, ma come si vedrà in seguito, pochi di
questi si riveleranno in grado di dare informazioni utili a
comprendere meglio la malattia umana.
127
5. La malattia celiaca
Nella tabella 6.2, i modelli murini di malattia infiammatoria
dell’intestino sono suddivisi in quattro gruppi, a seconda di
quale sia stato il difetto indotto. Va detto che nella
maggioranza dei casi quello che si ottiene è un’infiammazione
intestinale aspecifica che non riproduce necessariamente la
malattia di Crohn né la retto-colite ulcerativa umane.
Il primo gruppo, comprende alcuni ceppi murini che
sviluppano spontaneamente infiammazione. Gli altri tre gruppi
comprendono i modelli indotti: per mezzo di agenti lesivi per
la mucosa; per mezzo dell’induzione di svariati difetti
immunologici; per trasferimento di particolari sottogruppi di
linfociti in topi con immunodeficienza. Anche se non
riproducono esattamente la malattia di Crohn, questi esempi
possono testimoniare la facilità con cui vari disturbi
dell’immunità si ripercuotono sull’omeostasi intestinale.
D’altra parte, è nozione comune che molte immunodeficienze
primitive possano associarsi a vari livelli di infiammazione
intestinale. E’ opportuno sottolineare come questi modelli
siano per lo più basati sulla convinzione che il difetto immune
alla base della malattia riguardasse i linfociti della risposta
adattativa, mentre come vedremo, l’identificazione di geni
coinvolti nella malattia umana ha recentemente spostato
l’attenzione su difetti a carico dei fagociti e dell’immunità
naturale.
128
6. La malattia di Crohn
109
Tab. 6.2 Modelli animali di malattia infiammatoria dell’intestino .
L’era genetica e della nuova patogenesi.
Il nuovo millennio si apre con l’identificazione del principale
gene associato al rischio di malattia di Crohn (NOD2) 93,94
promettendo finalmente una migliore comprensione della
patogenesi
della
malattia.
NOD2
(Nucleotide
Oligodimerization Domain 2) è una proteina citoplasmatica,
espressa in particolar modo nelle cellule del sistema
fagocitario e
infiammatoria.
coinvolta
nel
129
controllo
della
reazione
5. La malattia celiaca
Fig. 6.4 Struttura del gene NOD2 e varianti associate a m. di Crohn
NOD2 appartiene ad una famiglia molto vasta di proteine
coinvolte nel riconoscimento di componenti batteriche
(PAMPs, Pathogen Associated Molecular Patterns) e nella
regolazione della risposta infiammatoria (attivazione di NK-kB
e Caspasi-1) oltre che nella regolazione di varie modalità di
maturazione e morte dei fagociti (apoptosi, piroptosi). Questo
sistema è anche descritto come un insieme di piattaforme
molecolari (o inflammasomi) che garantisce una fine
regolazione degli eventi suddetti, per mezzo di un continuo
riassestamento di interazioni, omo- ed etero-dimerizzazioni,
che permettono di trasdurre il segnale producendo la
dimerizzazione e l’attivazione di molecole. Tale meccanismo di
trasduzione viene anche detto “trasduzione per contiguità o
per prossimità”, ed è comune alla maggior parte delle
molecole degli inflammasomi. Nell’ultimo ventennio, una
grande mole di dati sul funzionamento di questi sistemi è
130
6. La malattia di Crohn
derivata dallo studio di alcune malattie monogeniche umane:
le cosiddette sindromi autoinfiammatorie. Si tratta di
condizioni dovute a difetti genetici a carico di alcune di queste
proteine (pirina, nella febbre mediterranea familiare;
CIAS1/NALP3 nelle criopirinopatie) e caratterizzate dalla
ricorrenza di gravi sintomi infiammatori fin dai primi anni, o
addirittura giorni di vita. L’identificazione di NOD2 come
principale gene associato a rischio di malattia di Crohn ha
quindi indotto a seguire l’analogia tra NOD2 e le altre proteine
degli inflammasomi, ritenendo che anche la malattia di Crohn
potesse in qualche misura rientrare tra le sindromi
autoinfiammatorie, dovute ad un eccesso di attivazione e/o ad
un difetto del feedback infiammatorio. Tuttavia, già i primi
lavori mostravano un apparente paradosso, che smorzava un
po’ l’illusione di svelare la patogenesi della malattia di Crohn.
Le varianti di NOD2 associate a malattia di Crohn, erano state
trasdotte in cellule di rene insieme ad un sistema reporter
dell’attività di NF-kB: sorprendentemente, lo stimolo con vari
PAMPs (tra cui il muramil dipeptide o MDP) produceva una
risposta di attivazione di NF-kB minore e non maggiore
rispetto al NOD2 wild type. In altre parole, in un sistema
cellulare semplificato, il risultato delle varianti associate a
malattia sembrava quello di diminuire piuttosto che
aumentare l’attivazione infiammatoria.
131
5. La malattia celiaca
Il meccanismo con cui le varianti di NOD2 conducono ad un
aumentato rischio di sviluppare la malattia di Crohn deve
quindi dipendere da equilibri più complessi, per cui è difficile
considerare la malattia di Crohn come una “semplice” malattia
autoinfiammatoria. A completare questo difficile puzzle si
aggiunge la caratterizzazione di un’altra malattia legata a
mutazione del gene NOD2: la sindrome di Blau, una malattia
granulomatosa con artrite granulomatosa, iridociclite e
granulomi cutanei. In questo caso, le mutazioni (diverse da
quelle associate con m. di Crohn) portano ad una “gain of
function” della proteina e la malattia può essere più
chiaramente inclusa nel gruppo delle malattie autoinfiammatorie.
Il difetto dell’immunità naturale: dai
fagociti all’immunità degli epiteli
Abbiamo
arbitrariamente
dedicato
quest’era
al
ruolo
dell’immunità naturalei nella malattia, anche se questa scelta
potrebbe non essere pienamente condivisa dalla comunità
scientifica. Sta di fatto che numerose evidenze hanno
coerentemente suggerito che un difetto non ben identificato
dell’immunità naturale potesse variamente contribuire alla
patogenesi della malattia di Crohn. In altre parole, nonostante
il probabile ruolo di diversi geni e diversi fattori ambientali,
132
6. La malattia di Crohn
potrebbe essere possibile identificare nella malattia alcuni
aspetti funzionali condivisi dalla maggior parte dei casi. A ben
pensare, a suggerire questa idea, stava già da tempo la
specificità della lesione istologica granulomatosa con tendenza
alla formazione di fistole e all’elevata produzione di TNF-α.
Nell’ultimo decennio, diversi ordini di evidenze hanno
permesso di formulare nuove ipotesi riguardo alla patogenesi
dell’infiammazione tipica della malattia.
• Alcuni dei principali geni di rischio della malattia (a
cominciare da NOD2) hanno un ruolo nella risposta
immune naturale dell’epitelio e/o nella corretta funzione
dei fagociti (vedi di seguito).
•
•
•
Tentativi terapeutici basati sullo stimolo dei fagociti per
mezzo del fattore di crescita dei granulociti e dei monociti
(GM-CSF) hanno portato a qualche miglioramento in alcuni
gruppi di pazienti con malattia di Crohn 95-97.
Alcuni difetti congeniti dei fagociti (classificati come
immunodeficienze primitive) possono esprimersi con
un’infiammazione
intestinale
in
buona
parte
sovrapponibile a quella tipica della malattia di Crohn (vedi
scheda).
E’ stato dimostrato che monociti ottenuti da soggetti con
malattia di Crohn hanno un difetto (e non un eccesso)
nella produzione di alcune citochine (tra cui l’IL-8) e hanno
133
5. La malattia celiaca
un relativo difetto a rimuovere batteri non patogeni
•
aggiunti in elevata carica 98,99.
Topi knock out per NOD2 sviluppano un’infiammazione
granulomatosa dopo colonizzazione con H.hepaticus. Il
trapianto di cellule staminali non è sufficiente a
proteggere
dall’infiammazione,
suggerendo
che
l’espressione del difetto nell’epitelio intestinale sia
sufficiente a predisporre alla malattia. Al contrario,
l’espressione forzata di α-defensina nelle cellule
•
dell’epitelio intestinale è in grado di prevenire lo sviluppo
della malattia infiammatoria110.
Tra i difetti immuni associati ad infiammazione similCrohn, è particolarmente interessante citare la displasia
ectodermica anidrotica con immunodeficienza, dovuta al
difetto del gene IKK-gamma, codificante la proteina
NEMO. Anche in questo caso, come per NOD2, il difetto
interessa l’attivazione di NF-KB ed è espresso sia nel
sistema immune che nell’epitelio. I pazienti affetti da
questa malattia possono sviluppare una colite
infiammatoria. Questo rischio non diminuisce in seguito a
trapianto
di
cellule
staminali
ematopoietiche,
sottolineando anche in questo caso il ruolo patogenetico
del difetto epiteliale111.
134
6. La malattia di Crohn
Immunodeficienze
Crohn-like
associate
a
infiammazione
La presenza di infiammazione intestinale con le caratteristiche della
malattia di Crohn è descritta da molti anni in alcune
immunodeficienze primitive. Nella malattia granulomatosa cronica
(CGD) l’infiammazione intestinale può presentarsi anche in assenza
di sintomi infettivi
112-118
. Le caratteristiche dell’infiammazione
intestinale nella CGD sono di fatto indistinguibili rispetto a quelle
della malattia di Crohn 112. Una malattia di Crohn si può sviluppare
anche in soggetti con vari disturbi dei neutrofili, tra cui la
glicogenosi di tipo 1b
adesione
dei
autoimmune
119
, la neutropenia ciclica
neutrofili
122,123
121
,
la
120
neutropenia
, il difetto di
cronica
e
. Alcuni di questi pazienti hanno mostrato una
buona risposta al trattamento con GM-CSF 124-127, che come
abbiamo visto è un trattamento che ha dato qualche beneficio
anche in pazienti con malattia di Crohn senza un evidente difetto
dei fagociti
95-97,128
. Una colite infiammatoria simile alla malattia di
Crohn può essere presente anche in soggetti con sindrome di
Wiskott Aldrich, possibilmente correlata ad un difetto di
produzione di IL-10 129.
Prese nell’insieme, queste evidenze suggeriscono che la
malattia di Crohn possa svilupparsi sul substrato di una più o
meno grave immunodeficienza dell’immunità naturale di
parete e/o dei fagociti. Quanto più grave è il difetto, tanto più
135
5. La malattia celiaca
la malattia avrà un esordio precoce e si assocerà ad un elevato
rischio infettivo. Tanto più sottile è il difetto, tanto più invece
saranno necessari altri fattori genetici e/o ambientali e la
malattia tenderà di conseguenza ad avere un esordio più
tardivo. Questa idea è rappresentata nella fig. 5.6. Diverse
anomalie genetiche conducono a conseguenze funzionali
simili, con sviluppo d’infiammazione cronica granulomatosa
130
.
Fig. 5.6 L’universo dei difetti dell’immunità naturale nella patogenesi della
m. di Crohn.
Quanto più vicina è l’orbita al granuloma, tanto maggiore sarà
il ruolo della genetica e la precocità di esordio. La maggior
parte dei casi di malattia di Crohn è associata ad anomalie
periferiche di quest’universo. Tuttavia, i casi più precoci e a
maggior componente genetica possono offrire un prototipo
semplificato per comprendere la patogenesi della malattia.
136
6. La malattia di Crohn
Se questo è vero, è possibile provare a rileggere il meccanismo
di funzionamento di diversi farmaci nella malattia (tab. 6.3) e
pensare a nuovi trattamenti che prendano in considerazione
sia la necessità di bloccare l’infiammazione che quella di
compensare un possibile difetto immune sottostante o una
difesa di parete.
Tab. 6.3 L’azione di diversi farmaci riletta sulla base delle ipotesi
patogenetiche.
L’era delle interazioni: ambiente,
mucosa e immunità.
Questa è l’era attuale. Le informazioni di cui disponiamo ci
permettono di tentare una lettura funzionale complessiva
partendo dai dati genetici e ambientali disponibili.
Nella maggior parte dei casi, è verosimile che la malattia si
sviluppi solo in presenza di diverse condizioni: un
cambiamento della flora batterica intestinale; una
137
5. La malattia celiaca
diminuzione della capacità di barriera fisica e immunologica
della parete intestinale (teoria del “leaky gut” 131);
un’anomalia del funzionamento dei sistema fagocitico, con
relativa incapacità di eliminare elevate cariche batteriche. E’
ragionevole pensare che difetti più gravi di una di queste
componenti possano condurre a sviluppare la malattia anche
in assenza di altri fattori, come accadrebbe ad esempio in
forme ad esordio precoce legate a gravi difetti dei fagociti.
Una teoria che cerca di mettere insieme tutti questi fattori è
stata recentemente proposta da Segal e collaboratori 101. La
malattia si svilupperebbe quando tre diverse condizioni si
verificano, ciascuna variamente influenzata da fattori genetici
e ambientali: aumentata carica batterica; difettosa risposta da
parte dell’immunità naturale con insufficiente clearance
batterica; attivazione del sistema adattativo con tentativo di
compenso e mantenimento di una risposta cronica
granulomatosa (fig. 6.6).
138
6. La malattia di Crohn
Fig 6.6 Un’ipotesi patogenetica a tre stadi per la malattia di Crohn, da
Segal et al.
101
139
8. Bibliografia
7. Abbreviazioni e glossario
ACTH:
Adreno
Cortico
Tropic
Hormone.
Ormone
adrenocorticotropo. Prodotto dall’ipofisi, stimola la produzione di
ormoni steroidei nella corticale del surrene.
AGA: anticorpi anti glutine
Allergeni: antigeni coinvolti in risposte allergiche.
Angioedema: improvviso passaggio di liquidi nell’interstizio
(sottocute, sottomucose) per rilascio di sostanze attive sulla
permeabilità vasale. A livello della glottide, può provocare difficoltà
respiratoria, asfissia e morte.
Apoptosi: morte cellulare programmata con basso rilascio di
antigeni e molecole infiammatorie nell’ambiente. Utilizzata per
rimuovere cellule danneggiate o cellule che hanno compiuto la
propria funzione.
Autofagia: meccanismo utilizzato per la rimozione di proteine
degradate, organelli danneggiati e/o componenti estranei dal
citoplasma. In pratica, si forma una membrana in grado di avvolgere
una data porzione del citoplasma, formando una vescicola più o
meno grande, che successivamente si fonderà con un lisosoma per
permetterne la degradazione del contenuto.
BCG: Bacillo di Calmette Guérin. Preparato ottenuto da un ceppo
attenuato di Micobatterio tubercolare.
DGP: deamidated gliadin peptide. Anticorpi contro peptidi di
gliadina deaminati dall’azione della transglutaminasi tessutale. Il
test ELISA per la misura di questi anticorpi ha mostrato risultati
migliori rispetto al test allestito con la gliadina in forma nativa.
DMT1: diabete mellito di tipo 1. E’ il diabete autoimmune, tipico
dell’età giovanile e non correlato al sovrappeso.
EGF: epidermal growth factor. Fattore di crescita dell’epidermide.
140
7. Abbreviazioni e glossario
EMA: anticorpi anti-endomisio.
GM-CSF: Granulocyte Monocyte Colony Stimulating Factor. Fattore
di crescita dei granulociti e monociti
HLA: human leukocyte antigens. Antigeni del sistema di
istocompatibilità presenti sui globuli bianchi umani.
IBD: malattia infiammatoria cronica dell’intestino
Ig: Immunoglobulina
Istamina: sostanza contenuta nelle granulazione dei mastociti e
rilasciata in seguito all’attivazione di queste cellule (di solito per
legame di un allergene alle IgE specifiche adese sulla membrana).
L’istamina aumenta la permeabilità vasale e stimola la sensazione
del prurito. E’ responsabile delle caratteristiche lesioni del pomfo e
dell’orticaria.
Inflammasoma: piattaforma molecolare che comprende diverse
proteine caratterizzate da tipici domini funzionali. In seguito ad
attivazione da parte di un ligando (in genere un PAMP), queste
proteine innescano una catena di omo- e oligo-dimerizzazioni,
inducendo prossimità tra domini funzionali (ad esempio CARD o
PYD) in grado di attivare diversi meccanismi effettori (caspasi e/o
fattori di trascrizione).
IGF-1: Insulin –like Growth Factor 1. Anche chiamato Somatomedina
C. Ormone indotto dall’ormone della crescita, di cui media parte
dell’attività di stimolo alla crescita cellulare.
IPEX: Immunodisregolazione, Poliendocrinopatia, Enteropatia legata
al cromosoma X. E’ un difetto congenito dei meccanismi della
tolleranza immune. In questa malattia, le cellule T regolatorie non
svolgono correttamente la loro funzione a causa di mutazioni nel
gene Foxp3.
LPS: lipopolisaccaride batterico. E’ un complesso macromolecolare
in grado di stimolare le cellule dell’immunità naturale attraverso i
toll like receptors.
141
8. Bibliografia
MALT: sistema immune associato alle mucose. Comprende linfociti
intra-mucosali, noduli linfatici solitari e formazioni organizzate come
le placche del Peyer, le tonsille e le adenoidi.
MBT: micobatterio tubercolare
MDP: muramil di-peptide. Componente della parete batterica in
grado di stimolare toll-like receptors umani. Appartiene al gruppo
dei cosiddetti PAMPs.
NF-kB: Fattore Nucleare kB. E’ un fattore di trascrizione
fondamentale in numerose funzioni leucocitarie tra cui la
proliferazione e la produzione di citochine infiammatorie.
NOD2: Nucleotide-binding oligodimerization domain 2. E’ una
proteina (nota anche come CARD15) le cui mutazioni costituiscono il
più comune fattore genetico di rischio per la malattia di Crohn nella
popolazione caucasica.
PAMPs: profili molecolari associati ai patogeni. Si tratta di marcatori
generici del mondo procariotico, condivisi tra più microrganismi, e
riconosciuti dal sistema dell’immunità naturale per mezzo dei toll
like receptors.
PIDs: immunodeficienze primitive. Difetti congeniti (geneticamente
determinati) del funzionamento di una o più componenti del
sistema immune. Possono accompagnarsi ad un’anomala
suscettibilità a infezioni gravi, malattie autoimmuni e infiammatorie,
tumori.
Piroptosi: morte cellulare programmata, senza contrazione
citoplasmatica e con rilascio di varie molecole pro-infiammatorie.
Questo meccanismo potrebbe essere attivato quando la cellula non
può andare in apoptosi in modo sicuro ad esempio per incapacità di
distruggere microrganismi fagocitati, e occorre garantire un
potenziamento della risposta immune.
142
7. Abbreviazioni e glossario
Placche del Peyer: aggregati linfoidi mucosali strutturati,
comunicanti con il lume intestinale per mezzo di cellule specializzate
(M cells).
Pomfo: lesione elementare cutanea, caratterizzata da rilievo
cutaneo rotondeggiante e liscio, dovuto a trasudazione di liquido
nel derma per effetto dell’istamina sulla permeabilità vasale. Nei
casi più gravi, è circondato da un alone eritematoso (dovuto a
maggior afflusso di sangue) e può assumere forma irregolare con
estroflessioni (pseudopodi).
RAST: radio-allergo sorbent test. Test radioimmunologico per la
misura delle IgE specifiche contro allergeni.
Reagine: IgE specifiche contro allergeni e in grado di scatenare
risposte allergiche immediate con degranulazione di mastociti e
rilascio di istamina.
TCR: recettore dei linfociti T.
TGA: anticorpi anti-transglutaminasi.
TLR: toll like receptors. Recettori di membrana o citoplasmatici in
grado di attivarsi in seguito al legame con alcuni componenti
molecolari condivisi tra diversi microbi (o PAMPs).
Treg: linfociti T regolatori. Caratterizzati dall’espressione
dell’antigene CD4 insieme ad elevati livelli di CD25 e FOXP3 (ma
bassi livelli di CD127), sono i principali responsabili del
mantenimento della tolleranza immune periferica.
tTG: transglutaminasi tessutale. E’ il più specifico auto antigene
della celiachia.
143
8. Bibliografia
8. Bibliografia
1
2
3
4
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