AGNELLINI ARTE MODERNA Andy Warhol "Dalla realtà al mito" Testo in catalogo di Dominique Stella La pop art appartiene alla storia dell’arte come movimento decisivo della seconda metà del XX secolo. Essa rimette in questione, in modo sostanziale, i criteri che sino ad allora avevano caratterizzato “l’opera d’arte”, offrendo una riflessione sull’oggetto artistico e ponendolo in una dialettica sociologica che desacralizza l’immagine dipinta (o la scultura), per conferirle una dimensione di oggetto comunicante (alla stessa stregua della pubblicità) o per banalizzarla, proiettandola nella sfera dell’oggetto industriale multiplo, tipico del consumo di massa. Il movimento nasce in Inghilterra a metà degli anni ’50 per impulso di Richard Hamilton ed Eduardo Paolozzi. Si sviluppa principalmente negli Stati Uniti, durante gli anni ’60, grazie agli artisti americani Andy Warhol, Roy Lichtenstein, Robert Rauschenberg e Jasper Johns. Gli artisti s’interrogano sul concetto di produzione di massa e sull’alienazione dell’individuo divenuto consumatore: il dirompere della pubblicità, delle riviste e dell’industrializzazione riduce l’uomo allo stato di macchina produttrice e consumatrice. L’arte acquisisce questo fatto concretamente rivoluzionario, esasperando il fenomeno nella trasposizione artistica, rimettendo in causa il carattere sacrale dell’opera per presentarla come semplice prodotto di consumo: effimero, usa e getta, a buon mercato… I procedimenti utilizzati dagli artisti derivano da questa modalità di produzione, più industriale che artistica: i colori acrilici, le serigrafie, rendono possibile la moltiplicazione rapida propria della grande distribuzione. L’arte entra nella sfera del consumo, l’opera d’arte non possiede più il mistero della rarità ma diventa oggetto di desiderio di massa. La pop art mette a tal punto in questione il principio di unicità dell’opera; Warhol riproduce le proprie in centinaia di edizioni, sconvolgendo i criteri di un mercato basato sull’esemplare unico. Essa esalta una simbologia popolare, elevando a rango di icone figure appartenenti alla cultura di massa come Mickey Mouse, Marilyn Monroe o Mick Jagger, consacrando questi idoli e trasformandoli in miti imperituri. L’arte di Andy Warhol si basa su uno slittamento dell’atto creatore; il suo vero genio consiste nell’aver messo in discussione l’immagine dell’artista, che da artigiano diviene strumento. Egli propone un’arte basata sulla moltiplicazione delle immagini, come gli oggetti della società del consumismo che sono riprodotti in milioni di esemplari. Il multiplo garantisce l’appartenenza dell’opera alla propria epoca. L’aspirazione del collezionista si soddisfa nel desiderio del consumo e non più nell’appropriazione del capolavoro… Più che da uno stile, l’arte di Warhol discende da uno stato d’animo che consiste nel rendere conto della realtà della società moderna e dell’era del consumismo, introducendo nell’arte gli oggetti e i segni del quotidiano, utilizzando come materia dell’opera i media, i prodotti commerciali e quelli industriali. Scegliendo come tema la cultura del quotidiano, l’artista nega i valori dell’arte moderna, crea un linguaggio autoreferenziale, libero dai vincoli dell’“arte colta”, emancipato dai valori della tradizione. Gli elementi mutuati dai mass media servono da pretesto a un’identificazione completa tra la fonte d’ispirazione e il suo adattamento. L’immagine esiste in un contesto del tutto nuovo. Essa non trasmette alcun messaggio, non assume alcun valore morale, ha senso solamente per la sua forza di rappresentazione, celebrazione di un fenomeno sociale che diviene modello attraverso l’impatto della ripetizione all’infinito. Soltanto gli Stati Uniti, nel desiderio di liberarsi dei propri complessi nei confronti della “vecchia Europa”, potevano produrre un simile cataclisma. La pop art nasce in modo spontaneo, negando i riscontri filosofici, imponendo le nuove tendenze dell’arte occidentale, e Andy Warhol ne diviene il simbolo assoluto. Negli anni ’50, Warhol esercita il suo talento nella sfera della pubblicità. Questa prima parte della sua vita artistica è scandita da alcune mostre: nel 1952 alla Hugo Gallery di New York, nel 1953 alla Loft Gallery, nel 1956 alla Bodley Gallery… Niente ancora lo distingue davvero, se non il suo talento pubblicitario che nel 1956 gli vale la medaglia del “Thirty Fith Annual Art Director’s Club Award’s” e nel 1957 la “Art Director’s club medal”. Egli fonda allora la sua prima società per la gestione delle commissioni destinate alla pubblicità, premessa della Factory che nascerà più tardi nel 1963. Il suo senso per gli affari si rivela già allora. Warhol non ha mai fatto mistero delle proprie ambizioni; la sua filosofia si riassume nella sua celebre frase: “Ho iniziato come artista commerciale, voglio finire come artista manager”… Esattamente ciò che egli fece. Dopo una carriera da pubblicitario negli anni ‘50, egli divenne negli anni ’70 uno straordinario mediatore dell’industria culturale, senza dimenticare il brillante artista che egli fu negli anni ’60. A partire dal 1960, Warhol realizza le sue prime opere ispirate ai fumetti; dal 1962 crea i suoi primi barattoli di Campbell’s Soup e le bottiglie di Coca-Cola, e inventa le serigrafie che mettono in scena le star americane. La tecnica di fabbricazione delle opere è sempre stata una priorità nella concezione artistica di Warhol; l’assenza di manualità e il trasferimento delle competenze all’utensile, costituisce la base delle sue prime realizzazioni. Già nel suo periodo di grafismo pubblicitario, la tecnica della blotted line gli permise di stabilire un primo passaggio dal disegno alla stampa, priviligiando il trasferimento manuale del disegno inchiostrato dalla carta a una carta assorbente e elaborando un sistema di riproduzione seriale del colore che gli consentiva di riutilizzare più volte lo stesso soggetto. In questo caso, anche se la traccia manuale è ancora presente, essa non genera l’espressione di uno stile personale ma appare come una citazione, di Cocteau principalmente, o di Matisse. La sua forza risiede nell’impatto visivo che il pubblicitario ricerca. In seguito, la serigrafia rappresenta l’arma di diffusione di massa di cui la macchina Warhol ha bisogno. Questo strumento gli permette di aderire pienamente all’istante, al quotidiano, e di illustrare i fatti più significativi che focalizzano l’interesse delle masse, sforzandosi sempre di rendere reale il principio secondo cui l’arte non è altro che ciò che gli spettatori consumano. Questo principio appaga l’ego di tutti e suscita l’immediata identificazione del consumatore all’immagine che gli viene proposta. “Siamo tutti degli eroi”, afferma egli, almeno per quindici minuti… Warhol utilizza le fotografie pubblicitarie, o le immagini tratte dalle riviste, per trasformarle, deviarle dal loro senso e dalla loro verità umana… Un fatto sensazionale (il suicidio di Marylin Monroe), un evento della storia (l’attentato di Dallas contro Kennedy), un’oggetto ordinario ma ricorrente (come il barattolo di zuppa Campbell) o l’immagine del dollaro americano, banale e al tempo stesso leggendario, suscitano una moltiplicazione all’infinito. L’artista diviene manipolatore, spersonalizza il suo soggetto, lo svuota di ogni contenuto emotivo; il senso stesso dell’oggetto si attenua a vantaggio dell’immagine. Qual’è il valore simbolico del messaggio? Una messa in questione della società del consumismo, un’incarnazione mitologica di un quotidiano banale e crudelmente effimero?… La più celebre di queste manipolazioni è la serie su “Marilyn” eseguita poco dopo il suicidio della star americana, nell’agosto del 1962. Per Warhol, Marilyn Monroe incarna un’immagine leggendaria stereotipata, in contraddizione assoluta con il personaggio drammatico quale ella fu nella realtà. L’artista “dipinge” la celebre attrice nella sua versione incorporea, come un’immagine stereotipata, facendo volontariamente allusione al manifesto cinematografico, nel quale la dimensione umana svanisce a vantaggio di una semplificazione schematica. Altre star americane sono state oggetto di queste interpretazioni colorate, Liz Taylor, Joan Collins, Mick Jagger, Jacqueline Kennedy, Mao… e molte altre. Risucchiate nella spirale moltiplicata della loro rappresentazione, queste star sono divenute oggetti quotidiani di una mitologia mediatica divoratrice di vita e avida di un potere illusorio sulle masse. Perché questo potere è distruttivo, è un potere superficiale che non ha niente a che vedere con ciò che è umano, interiore, profondo. Significa voler essere soltanto un’immagine, una facciata, una piccola luce su uno schermo, uno specchio dell’immaginario altrui, una calamita che attira i desideri… un oggetto di assoluto narcisismo. Ma queste immagini di un quotidiano sublimato, nelle quali le gerarchie sembrano abolite, affascinano. Esse rappresentano il sogno americano, come lo ha vissuto questo figlio di emigrati cecoslovacchi cresciuto nella miseria e per il quale l’uguaglianza di fronte al consumo rappresentava una vittoria. Egli, del resto, affermava proprio questo sentimento: “La cosa straordinaria di questo paese è che l’America ha inaugurato la tradizione in cui il consumatore più ricco acquista sostanzialmente le stesse cose del più povero”. Guardi la TV e bevi Coca Cola, e sai che il Presidente beve Coca Cola, che Liz Taylor beve Coca Cola, e pensi che anche tu puoi bere Coca Cola. Una Coca è una Coca, e una montagna di soldi non ti darà mai una Coca migliore di quella che beve il primo che passa per strada. Tutte le Coca sono uguali e tutte le Coca sono buone. Liz Taylor lo sa, il Presidente lo sa, il primo che passa per strada lo sa, e anche tu lo sai”. (The Philosophy of Andy Warhol: (From A to B and Back Again), 1975). Questa filosofia sembra riduttiva ma è efficace. Gli oggetti d’arte prodotti da Andy Warhol sono oggi il simbolo incontestato della società del consumismo e il loro valore commerciale ne è testimone. Tra le opere esemplari proposte da questa mostra, Bomb (1967), più che ogni altra, simboleggia l’artista che la storia ha identificato come una vera e propria bomba nel mondo dell’arte del XX secolo. Si tratta di un modellino della bomba della U.S. Air force, che Warhol ricopre di un colore leggermente argentato. L’artista annienta il significato bellico dell’oggetto attraverso la sua interpretazione decorativa. Quest’arma non è offensiva, poiché si tratta di un modello; l’artista disinnesca il simbolo e lo trasforma in oggetto ludico, in fenomeno di superficie. Egli adotta questo stesso procedimento anche nei ritratti, utilizzando unicamente riproduzioni tratte da riviste, soprattutto quando si tratta di star, la cui immagine è già riciclata dai media. Egli declina immagini di immagini, creando una duplice distanza rispetto al soggetto che ne risulta ancor più incorporeo. È il caso del ritratto di Mao (1972), esposto in questa mostra, che presenta una particolarità: è stato ritoccato a mano e non è stato moltiplicato in numerosi esemplari. Questo rende l’opera particolarmente rara, quasi contraria ai principi dell’artista. Nella tela Flash (1963-1968) Warhol usa lo stesso processo, l’evento viene ricordato tramite estratti di giornali (di nuovo la stampa come fonte dell’immagine). La drammaticità è annientata dal gesto decorativo privilegiato dall’artista, in una lettura della storia che contrappone la violenza dell’attentato del 1963 all’ideale di pace del 1968, illustrato dai fiori. I ritratti di Karen Lerner (1972) appartengono a un’altra categoria. Non si tratta di opere su commissione, come invece i ritratti di Doda Voridis (1977), ma di un desiderio creativo che porta l’artista a lavorare su un soggetto scelto. Composizioni declinate a partire da fotografie scattate in studio che egli reinterpreta, questi ritratti tendono a smaterializzare il soggetto attraverso una tecnica messa a punto nei ritratti delle star e caratteristica del suo stile, che tende a negare l’identità del modello aspirata nelle spirale del colore. Ad affermare la sua realtà, il titolo, elemento d’identificazione. L’esposizione offre anche due interpretazioni di Joseph Beuys secondo Warhol, ricordando il fascino riciproco che queste due leggende del XX secolo hanno esercitato l’una sull’altra. Questi due personaggi si librano sulla storia dell’arte e godono di pari fama: l’uno, Beuys, incarna l’eroe, e l’altro, Warhol, la star. Le loro filosofie dell’arte li contrappongono in un’interpretazione radicalmente opposta del ruolo dell’artista nella società: l’uno (Beuys) si voleva operaio e proletario, operatore che sviluppa la propria energia nel fare; l’altro viveva la sua arte come attore, come macchina che induce desiderio e consumo. Beuys credeva nella creatività e Warhol no. Beuys considerava l’arte come lavoro e Warhol come commercio… Tutta la storia del XX secolo. Un’altra opera, in mostra, contraddistingue il lavoro di Warhol: Drag-Queen (1975). Warhol diceva di essere affascinato dalle drag-queen perché “è davvero un lavoraccio sbarazzarsi di tutti gli attributi maschili e acquisire tutti gli attributi femminili”. Le fotografie, poste di fronte ai quadri che ne scaturirono, svelano spesso il volto tragico di queste creature che Andy ricopre poi con grandi aplats di colore, nel suo caratteristico modo di ridipingere i drammi con colori accesi (si pensi alle serigrafie delle sedie elettriche color arancione o rosa, a Jackie Kennedy vedova su sfondo oltremare…). Tutte queste opere, ed altre come Flowers (1970), Electric Chair (1971), Shoes (1980), presenti nella mostra, incarnano magistralmente il messaggio di un artista che ha rivoluzionato l’arte e il cui nome si è per sempre impresso nell’immaginario collettivo.