Mostra di Andy Warhol. Impressioni della Socia Cral Vittoria Mazzoni Il 23 novembr e 2013 il CRAL della Provinci a di Milano ha organizz ato una visita guidata alla mostra di Andy Warhol, situata in un’ala al primo piano del Palazzo Reale di Milano. La nostra guida, Claudia Corti, ci ha introdotti nel mondo di questo artista così eclettico e immortale da essere creduto da molti quasi un vampiro. E’ difficile capire davvero chi fosse Andy Warhol: viene definito un “imprenditore d’arte” in quanto fu pubblicitario, scultore, pittore, regista, attore, direttore della fotografia, sceneggiatore e montatore. Collaborò anche con il mondo della musica, dando una mano ai Velvet Underground di Lou Reed, per il quali ha disegnato la celebre banana gialla che campeggia sul primo album della band, ma soprattutto fu un esponente della Pop Art. Tutto il suo lavoro e la sua vita erano rivolti a coinvolgere più persone possibili. Il suo vero nome era Andrew Warhola, nacque nel 1928 a Pittsburgh, in Pennsylvania, ma le sue origini erano cecoslovacche. Il padre era un operaio, la madre invece, per arrotondare lo stipendio del marito, componeva dei fiori in alluminio utilizzando lattine. Warhol manifestò fin da piccolo il suo talento artistico. Immaginatevi un bimbo spesso malato, di salute cagionevole., che resta a casa spesso da scuola, ma non ha la tv come i bimbi di oggi. Per non annoiarsi si appassiona ai colori. Dotato di una forte sensibilità e ambizione, negli anni ’50 decide di far subito carriera e di entrare nel mondo che conta dalla porta principale: studia arte pubblicitaria al Carnegie Institute of Technology di Pittsburg, si laurea nel 1949 e si trasferisce a New York. Qui viene assunto da Vogue e Glamour. Il suo stipendio è elevato, ma non lo soddisfa. Si rende conto che negli ambienti artistici non viene considerato un vero artista, ma rimane solo un pubblicitario. Warhol era molto ambizioso, voleva la gloria, non sopportava i confronti con gli altri artisti, voleva stupire ed essere diverso. Per questo molla tutto, compresa la pubblicità, il suo lavoro a Vogue e Glamour e decide di guadagnarsi il rispetto che si deve a un vero artista. Realizza, così. una prima serie di scarpe in lamina d’oro. Abbiamo già detto che era ossessionato dalla fama, ma lo era anche dai personaggi famosi. Ogni sua scarpa portava il nome di un cantante, un attore. E’ curioso come lui odiasse le scarpe, considerando inutile averne più di due paia, una per l’estate e una per l’inverno. Eppure la sua casa ne era piena! Credeva che spendere fosse molto americano. La sua opera prima come artista fu il ritratto di Liz Taylor. incontra l’attrice ad una festa e subito ne resta affascinato. Liz aveva annunciato che presto sarebbe morta, cosa che poi, in realtà, non accadde. Con il fiuto del buon pubblicitario, Warhol decide di ritrarla prima che morisse, quando era ancora in salute e bella. Negli anni ’60 ha un’idea geniale: l’arte deve essere immediata, alla portata di tutti. Artisti come Pollock usavano l’arte per comunicare, ma Warhol si rende conto che il mondo è cambiato: c’è la televisione, in America è stato introdotto il pagamento a rate, le esigenze delle persone sono cambiate. E’ convinto che se si vuole dare un’idea della propria personalità meglio andare da uno psicoterapeuta che attraverso l’arte. L’arte diventa così puro divertimento. Esisteva in quegli anni un tappeto, con disegnati sopra i piedi, che insegnava a ballare. Warhol ebbe l’idea di disegnare due sagome di scarpe, una bianca per il piede sinistro, l’altra nera per il piede destro. Alcuni amici gli fanno notare che il dipinto poteva intendersi politicamente. Ma lui non voleva creare qualcosa di complicato: spaventato smette di dipingere anche le scarpe e si dedica a 32 varietà di zuppa Cambell’s, una delle cose che gli piaceva di più, perché utile e facile da scaldare, alla portata di tutti. Capisce ora che una delle cose più vicine alle persone è il supermercato, il cibo, i prezzi quotidiani delle merci. Compra delle bottigliette di Coca-Cola e le mette in una cassa. Davvero interessante notare che lui considerava la cola una grande forma di libertà: il ricco e il povero potevano bere la stessa qualità di prodotto, senza alcuna discriminazione sociale. Ma Warhol, non contento, vuole cambiare anche la tecnica, è insoddisfatto della sua arte. Utilizza una tecnica industriale, meno artistica: la serigrafia, basata su degli stencil di stoffa su cui si passava un rullo per stendere il colore. Nelle prime opere realizzate con la serigrafia tende ad utilizzare il pennello per i ritocchi, successivamente non lo utilizzerà più. La tecnica della serigrafia è importantissima perché ribalta la concezione che un‘opera d‘arte sia unica nel suo genere. Introduce la ripetizione, l’idea che l’arte sia come una pubblicità, che possa martellare all’infinito la mente dell’osservatore e essere conosciuta anche in ambienti poco colti. Per questo motivo ama anche i fumetti, con la loro semplicità d’impatto. Per un periodo riproduce anche fumetti, ma scopre che l’artista Roy Lichtenstein ha più capacità di lui e decide di evitare il confronto. Curiosi sono i suoi autoritratti, dove si mostra in primo piano con gli occhiali scuri. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima, ma Warhol non voleva che gli altri lo scrutassero nel profondo, forse ne aveva anche paura. Si occupa anche di rappresentare il tema della morte: attraverso sedie elettriche, disastri, incidenti. La sua osservazione in merito è molto attuale: è convinto che con l’avvento della televisione anche le notizie spiacevoli scivolino come acqua nei pensieri della gente, tutto perda la propria eccezionalità e tutto perda di valore. Nel 1962 apre un suo studio a New York, The Factory, a Midtown Manhattan. Era un laboratorio in cui si riunivano artisti vari e dove giravano droghe e alcool e parecchie persone morirono di overdose. Qui fa arrivare del compensato che decora sempre con la tecnica della serigrafia e realizza oggetti commerciali, con marchi come la Kellog’s, la Cambells. La sua casa era stipata di oggetti, quasi avesse paura del vuoto. Collezionava ritagli di giornale, tra questi c’era una foto di Marylin Monroe, che utilizzava per realizzare la sua opera più famosa, un’opera rimasta nella storia. Ritrae Marylin bella, truccata e con quell’espressione un po’ languida, come lui credeva che lei fosse davvero. Non cambiò mai la figura e la rappresentò molte volte partendo solo da quell’immagine. Le sue opere non sono mai impegnate politicamente tranne una: una serigrafia di Nixon, raffigurato con i colori di Hulk e per lui simbolo di antipolitica. Al di sotto del viso di Nixon aveva posto la scritta: vota Mc Govern, il suo avversario di turno. Nixon gliela farà pagare e per diverso tempo la Factory avrà la finanza in casa. Per capire quanto Warhol ci tenesse alla pubblicità consideriamo i ritratti di Mao. Che motivo aveva un uomo dissociato politicamente nel ritrarre l’emblema del comunismo cinese? Si era solo reso conto di non piacere ai giovani degli anni ‘70 e rappresentare il leader cinese era l’unico modo per attirare la loro attenzione. Il suo eclettismo si estende anche all’arte astratta, basti pensare a Oxidations Painting, un’opera dedicata a Pollock, che lui realizza un giorno di forte sbronza. Chiede ai suoi collaboratori di urinare sopra una tela ricoperta di vernice fresca al rame e ne vengono fuori delle opere particolari e, a mio parere affascinanti, in tonalità oro, verde e arancione. Questa forma d’arte doveva solo essere liberatoria, senza complicazioni. Tranne un’eccezione, quella del ritratto di Basquiat, un ragazzo di colore della Factory, morto di overdose, che l’artista considerava come suo figlioccio, un graffitaro di strada con cui probabilmente aveva intessuto una relazione. In questa tela c’è qualcosa di più, nonostante sia fatta con l’ossidazione, un sentimento che traspare, come se la figura del ragazzo fluttuasse. L’ossidazione ha creato intorno alla parte destra del volto come delle palline luminose, delle stelle. Nella penultima sala della mostra ci sono due opere uniche, non riprodotte in più versioni stavolta: due dei disegni terapeutici di Rorschach. Sono solo due perché Warhol credeva che fosse il paziente a disegnare e il terapeuta ad interpretare l’opera. Quando scopre che è il contrario ci rimane male e smette di disegnarli. Finalmente negli ultimi autoritratti si togli i suoi gli occhiali neri, si apre alle interpretazioni del mondo. Indossa anche parrucchini vistosi perché capisce che la sua precoce calvizie non è un difetto, ma una sua particolarità che può sfruttare in un altro modo. Negli anni 80 conclude la sua vita terrena e la morte, forse l’unica cosa che non aveva previsto nella sua vita. Muore in maniera banale, ma in modo quasi cinematografico, come piaceva a lui. Soffriva di dolori addominali e continuava a rimandare l’intervento di calcoli. Quando finalmente si decise avvisa solo due collaboratori, ritenendo l’intervento semplice. Ma durante la notte dopo l’operazione ha una reazione all’anestesia, si sente male e continua a chiamare l’infermiera, che però non risponde, perché stava pregando nella cappella dell’ospedale e per questo venne indagata. Una morte da film giallo. Prima di morire fa un regalo a Milano, proprio alla nostra città: una rappresentazione del Cenacolo. Non l’aveva mai visto, ma per la riproduzione si era basato su una tavoletta acquistata in un mercatino. Non voleva certo fare paragoni tra le sue opere e quelle di Leonardo, essendo coerente con tutta la sua arte, ma voleva che l’Ultima Cena fosse conosciuta in tutto il mondo, anche da coloro che non avrebbero mai potuto vederla. Vittoria Mazzoni