SADLER LE OCCASIONI DELLA METROPOLI Il grande chef milanese offre la sua interpretazione del rapporto fra cucina e territorio DI GIORGIO GIORGETTI Claudio Sadler, due stelle Michelin da tempo infinito e d’altrettanto tempo sinonimo di qualità indiscussa in tutta Milano. E oltre, naturalmente. I meneghini più vecchi se lo ricordano ancora quando era patron dell’Osteria di Porta Cicca, in Ripa di Porta Ticinese: era qui che andavano le famiglie bene del capoluogo e provincia, quando volevano mangiar davvero i piatti della tradizione. Ci andavano i genitori di un mio caro amico, negli anni Ottanta-Novanta, ogni tanto si portavano dietro il figlio, un ragazzino come me ma già appassionato di cucina. Del Sadler di quei tempi, quindi, ho soltanto racconti di seconda mano, per lo più sfocati dal ricordo. Un tempio della gastronomia milanese, mi dicevano. L’unico posto dove si possono gustare i veri piatti meneghini, mi ridicevano. Il fatto che a due passi ci fosse anche l’altro mito di Milano, Al Pont de Ferr, a quanto pare non disturbava. Ma a quei tempi, a casa mia, neppure l’auto avevamo: figurati se riuscivamo ad andare in quattro all’Osteria di Porta Cicca, che nel 1991 aveva già conquistato la sua prima stella Michelin. E, a questo punto, era chiaro che l’osteria s’era fatta stretta. Il locale si spostò così in via Trollo, sempre in zona Navigli, e nel 2002 si prese la seconda stella. Ed è questo il Sadler che comincio a conoscere pur io, finalmente, soprattutto quando il ristorante approda in via Ascanio Sforza. Quello di una cucina meditata ma non saccente, quello della ricetta “che forse ce la faccio anch’io”, ma che non ti viene mai uguale. Quello che ti pare tutto facile, poi alla fine capisci che quest’apparente semplicità è questione di grandissima tecnica. E di stile. Il suo, benedetto da un cognome che è da solo un marchio naturale e che dà nome al ristorante, a scanso di equivoci. Sadler. Bellissimo. Mica Giorgio Giorgetti, che quando ti presenti, devi giustificare la fantasia di mamma e papà! «Il bello di lavorare a Milano è che questa citta è moderna e cosmopolita» afferma Sadler in prima battuta, quando gli chiedo come concilia prodotti del territorio e cucina. «Qui la logica del chilometro zero non esiste, non ha molto senso. Credo che uno chef, piuttosto, debba essere capace di sfruttare le occasioni che un mercato gli offre, piuttosto che intestardirsi su una determinata filosofia, che in alcuni luoghi può essere sterile o addirittura controproducente per tutti, clienti inclusi». Mi spieghi meglio... «Il mercato del mondo passa da qui, da Milano» CLAUDIO SADLER, chef bistellato di Milano, patròn dell’omonimo ristorante in via Ascanio Sforza 77. 24 PERSONAL CHEF MAGAZINE 25 Ingredienti per dieci persone: 800 g di riso Carnaroli, due scalogni tritati, 4 l di brodo di pesce, vino bianco q.b., 50 g di nero di seppia, tobiko (uova di pesce volante) q.b., 100 g di Parmigiano Reggiano, 50 g di burro, olio extravergine d’oliva all’aglio q.b., tre calamari tagliati a julienne, citronette q.b. per la salsa di mango: due manghi ben maturi e dolci. Preparazione: Prepara un buon brodo di pesce. In una casseruola fai soffriggere lo scalogno assieme all’olio, tosta il riso, sfuma con vino bianco, bagna con il brodo di pesce e cuoci per 15 minuti. Negli ultimi minuti di cottura, aggiungi il nero di seppia al riso. In seguito prepara la salsa di mango, frullando con un mixer i manghi, passando il tutto al colino. Taglia i calamari a julienne e condiscili con la citronette, il sale e il pepe. A cottura ultimata del riso, mantecalo con burro, Parmigiano e olio all’aglio. Servi in un piatto piano con al centro il riso, la salsa attorno e la julienne di calamari sopra. 26 PERSONAL CHEF MAGAZINE Una ricetta firmata dal grande CLAUDIO SADLER. Sito ufficiale WWW.SADLER.IT RISOTTO AL NERO DI SEPPIA, CONTRASTO DI MANGO, CALAMARI E UOVA DI PESCE VOLANTE dice. «A Milano si trova tutto, basta cercarlo e pagarlo. Magari non c’è l’ortaggio colto e mangiato del contadino, ma è più facile avere l’agnello irlandese. E questa è una risorsa non da poco, per un ristoratore». Quindi niente km zero? «Non ho detto questo. Dico che a Milano è difficile. Altre possibilità, invece, sono molto più suggestive. Occorre avere una visione più ampia del concetto di territorio: la vera eccellenza di Milano è il suo mercato cosmopolita ed è importante saperlo sfruttare bene, con intelligenza e sensibilità, con attenzione alla qualità. Da altre parti, sarà vero il contrario, sarà più sfruttabile il km zero, non lo so. Ma io opero qua, non in altre località d’Italia». Ma come riesce a coniugare la tradizione gastronomica con la produzione locale? «Non so se le due cose sono così inscindibili. Penso ad alcuni piatti tipici milanesi... Non è che le materie prime che li compongono siano state, anche storicamente, meneghine al cento per cento. La ricerca della qualità viene prima dell’aderenza cieca alla produzione locale. Anche perché non è detto che nostrano sia sinonimo di bontà. Se a ciò si aggiunge che la cucina tradizionale, fatta come un tempo, non la si propone più...». Mi sta parlando di rivisitazione... «Sì, ma una rivisitazione intelligente. Piatti milanesi in carta ne tengo ancora, perché qualcuno che li chiede c’è sempre. Ma sono proposti in maniera più leggera, con rosolature più delicate e, quando occorre, magari con cotture a bassa temperatura. E poi per queste pietanze c’è soprattutto la mia trattoria, Chic’n Quick, dove si fa più tradizione che nel ristorante principale e ritengo che la si faccia bene e con intelligenza. Al Chic’n Quick si possono trovare il riso giallo al salto, la costoletta alla milanese e così via. Anche qui, cerco di seguire la stagionalità pur contenendo i prezzi, rendendo la buona cucina più accessibile». La riporto al ristorante vero e proprio e alla sua cucina, quella che è più legata al suo nome. Ci sono punti fermi che vorrebbe indicare? «Il vero punto fermo è che non sto mai fermo. Che dopo tutti questi anni provo e sperimento ancora, che stare in cucina mi piace ed è anche per questo che ogni due mesi circa cambio il menù. Ho poi la fortuna di avere un personale di cucina molto creativo: anche se il ristorante è mio, i miei ragazzi vivono e creano con me» racconta. «Come dicevo, mi piace sperimentare, ma non ho mai amato l’astrusità. Il piatto, per me, deve esser comprensibile. In tutti i sensi. Se il cliente lo guarda perplesso, è molto probabile che tu abbia fallito. Credo che questo sia un buon consiglio da dare a un personal chef: proporre piatti riconoscibili, identificabili». Qualche altro suggerimento? «Di studiare bene il territorio e le sue eccellenze. Di capire come sfruttarlo al meglio. Come dicevo prima, se si sta in una grande città, magari non si ottiene il km zero, ma si hanno occasioni maggiori per trovare prodotti rari. Se invece si sta in centri più piccoli, si ha magari a portata di mano cibi eccellenti, che è bello usare per riscoprire e farli riscoprire, valorizzandoli. Il territorio deve essere sfruttato con intelligenza, insomma, non con idee precostituite». 27