01.12.2014_LaRivistaItalianaDelPersonalChef_intervista

SADLER
LE OCCASIONI
DELLA
METROPOLI
Il grande chef milanese offre la sua interpretazione
del rapporto fra cucina e territorio
DI GIORGIO GIORGETTI
Claudio Sadler, due stelle Michelin da tempo infinito e d’altrettanto
tempo sinonimo di qualità indiscussa in tutta Milano. E oltre,
naturalmente. I meneghini più vecchi se lo ricordano ancora
quando era patron dell’Osteria di Porta Cicca, in Ripa di Porta
Ticinese: era qui che andavano le famiglie bene del capoluogo
e provincia, quando volevano mangiar davvero i piatti della
tradizione. Ci andavano i genitori di un mio caro amico, negli
anni Ottanta-Novanta, ogni tanto si portavano dietro il figlio, un
ragazzino come me ma già appassionato di cucina. Del Sadler di
quei tempi, quindi, ho soltanto racconti di seconda mano, per lo
più sfocati dal ricordo. Un tempio della gastronomia milanese,
mi dicevano. L’unico posto dove si possono gustare i veri piatti
meneghini, mi ridicevano. Il fatto che a due passi ci fosse anche
l’altro mito di Milano, Al Pont de Ferr, a quanto pare non disturbava.
Ma a quei tempi, a casa mia, neppure l’auto avevamo: figurati se
riuscivamo ad andare in quattro all’Osteria di Porta Cicca, che nel
1991 aveva già conquistato la sua prima stella Michelin.
E, a questo punto, era chiaro che l’osteria s’era fatta stretta. Il
locale si spostò così in via Trollo, sempre in zona Navigli, e nel
2002 si prese la seconda stella. Ed è questo il Sadler che comincio
a conoscere pur io, finalmente, soprattutto quando il ristorante
approda in via Ascanio Sforza. Quello di una cucina meditata ma
non saccente, quello della ricetta “che forse ce la faccio anch’io”,
ma che non ti viene mai uguale. Quello che ti pare tutto facile,
poi alla fine capisci che quest’apparente semplicità è questione di
grandissima tecnica. E di stile. Il suo, benedetto da un cognome che
è da solo un marchio naturale e che dà nome al ristorante, a scanso
di equivoci. Sadler. Bellissimo. Mica Giorgio Giorgetti, che quando ti
presenti, devi giustificare la fantasia di mamma e papà!
«Il bello di lavorare a Milano è che questa citta è moderna e
cosmopolita» afferma Sadler in prima battuta, quando gli chiedo
come concilia prodotti del territorio e cucina. «Qui la logica del
chilometro zero non esiste, non ha molto senso. Credo che uno
chef, piuttosto, debba essere capace di sfruttare le occasioni che
un mercato gli offre, piuttosto che intestardirsi su una determinata
filosofia, che in alcuni luoghi può essere sterile o addirittura
controproducente per tutti, clienti inclusi».
Mi spieghi meglio... «Il mercato del mondo passa da qui, da Milano»
CLAUDIO SADLER, chef bistellato di Milano, patròn dell’omonimo ristorante in via Ascanio Sforza 77.
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Ingredienti per dieci persone: 800 g di riso Carnaroli, due scalogni tritati, 4 l di brodo di
pesce, vino bianco q.b., 50 g di nero di seppia, tobiko (uova di pesce volante) q.b., 100 g
di Parmigiano Reggiano, 50 g di burro, olio extravergine d’oliva all’aglio q.b., tre calamari
tagliati a julienne, citronette q.b. per la salsa di mango: due manghi ben maturi e dolci.
Preparazione: Prepara un buon brodo di pesce. In una casseruola fai soffriggere lo scalogno
assieme all’olio, tosta il riso, sfuma con vino bianco, bagna con il brodo di pesce e cuoci per
15 minuti. Negli ultimi minuti di cottura, aggiungi il nero di seppia al riso.
In seguito prepara la salsa di mango, frullando con un mixer i manghi, passando il tutto al
colino. Taglia i calamari a julienne e condiscili con la citronette, il sale e il pepe.
A cottura ultimata del riso, mantecalo con burro, Parmigiano e olio all’aglio. Servi in un
piatto piano con al centro il riso, la salsa attorno e la julienne di calamari sopra.
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Una ricetta firmata dal grande CLAUDIO SADLER.
Sito ufficiale WWW.SADLER.IT
RISOTTO AL NERO DI SEPPIA, CONTRASTO DI MANGO, CALAMARI
E UOVA DI PESCE VOLANTE
dice. «A Milano si trova tutto, basta
cercarlo e pagarlo. Magari non
c’è l’ortaggio colto e mangiato del
contadino, ma è più facile avere
l’agnello irlandese. E questa è
una risorsa non da poco, per un
ristoratore».
Quindi niente km zero? «Non ho
detto questo. Dico che a Milano è
difficile. Altre possibilità, invece,
sono molto più suggestive. Occorre
avere una visione più ampia del
concetto di territorio: la vera
eccellenza di Milano è il suo mercato
cosmopolita ed è importante saperlo
sfruttare bene, con intelligenza
e sensibilità, con attenzione alla
qualità. Da altre parti, sarà vero il
contrario, sarà più sfruttabile il km
zero, non lo so. Ma io opero qua, non
in altre località d’Italia».
Ma come riesce a coniugare la
tradizione gastronomica con la
produzione locale? «Non so se le due
cose sono così inscindibili. Penso
ad alcuni piatti tipici milanesi...
Non è che le materie prime che li
compongono siano state, anche
storicamente, meneghine al cento
per cento. La ricerca della qualità
viene prima dell’aderenza cieca alla
produzione locale. Anche perché non
è detto che nostrano sia sinonimo
di bontà. Se a ciò si aggiunge che la
cucina tradizionale, fatta come un
tempo, non la si propone più...».
Mi sta parlando di rivisitazione... «Sì,
ma una rivisitazione intelligente.
Piatti milanesi in carta ne tengo
ancora, perché qualcuno che
li chiede c’è sempre. Ma sono
proposti in maniera più leggera, con
rosolature più delicate e, quando
occorre, magari con cotture a bassa
temperatura. E poi per queste
pietanze c’è soprattutto la mia
trattoria, Chic’n Quick, dove si fa
più tradizione che nel ristorante
principale e ritengo che la si faccia
bene e con intelligenza. Al Chic’n
Quick si possono trovare il riso giallo
al salto, la costoletta alla milanese e
così via. Anche qui, cerco di seguire
la stagionalità pur contenendo i
prezzi, rendendo la buona cucina più
accessibile».
La riporto al ristorante vero e
proprio e alla sua cucina, quella che
è più legata al suo nome. Ci sono
punti fermi che vorrebbe indicare?
«Il vero punto fermo è che non sto
mai fermo. Che dopo tutti questi
anni provo e sperimento ancora, che
stare in cucina mi piace ed è anche
per questo che ogni due mesi circa
cambio il menù. Ho poi la fortuna di
avere un personale di cucina molto
creativo: anche se il ristorante è
mio, i miei ragazzi vivono e creano
con me» racconta. «Come dicevo,
mi piace sperimentare, ma non ho
mai amato l’astrusità. Il piatto, per
me, deve esser comprensibile. In
tutti i sensi. Se il cliente lo guarda
perplesso, è molto probabile che tu
abbia fallito. Credo che questo sia un
buon consiglio da dare a un personal
chef: proporre piatti riconoscibili,
identificabili».
Qualche altro suggerimento?
«Di studiare bene il territorio e le sue
eccellenze. Di capire come sfruttarlo
al meglio. Come dicevo prima, se si
sta in una grande città, magari non
si ottiene il km zero, ma si hanno
occasioni maggiori per trovare
prodotti rari. Se invece si sta in
centri più piccoli, si ha magari a
portata di mano cibi eccellenti,
che è bello usare per riscoprire e
farli riscoprire, valorizzandoli. Il
territorio deve essere sfruttato con
intelligenza, insomma, non con
idee precostituite».
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