FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO SETTORE TECNICO Corso per l’abilitazione a Preparatore Atletico 1B Presidente: Avv. Mario Valitutti TEORIA E METODOLOGIA DELL’ALLENAMENTO TESI FINALE: “Lo stretching per il calciatore: pro e contro” 0B Corsista: Relatore: Alessandro Ruspantini Prof. Mario Marella STAGIONE 2000-2001 2B INDICE 3B pagina Introduzione. 3 I perché dello stretching. 4 Classificazione dei metodi di allungamento. 4 Regole generali per l’esecuzione degli esercizi di stretching. 8 Lavorare sulle catene o sui segmenti muscolari? 9 Incremento e mantenimento della flessibilità. 10 Presa di coscienza del proprio corpo. 11 Prevenzione degli infortuni. 12 Stretching “a freddo” o “a caldo”? 13 Riscaldamento e stretching. 13 Recupero attivo e stretching. 14 Stretching e forza. 15 Stretching e giovani calciatori. 17 Test. 18 Una proposta pratica. 22 Conclusione. 24 Bibliografia. 25 2 Introduzione. Da quando lo stretching è divenuto una pratica conosciuta e diffusa nello sport, ne è stato consigliato e fatto un uso indiscriminato perché ritenuto apportatore di soli effetti positivi. C’è stato anche un grande impulso per quanto riguarda le differenti tecniche esecutive, codificate soprattutto dalla fisioterapia per ottenere i migliori risultati. Si è però poi riscontrato che lo stretching, come ogni altro mezzo allenante, ha molteplici sfaccettature e non può essere accettato incondizionatamente. Deve quindi essere utilizzato differentemente in base a vari fattori quali ad esempio l’obiettivo che si vuole raggiungere, il momento in cui deve essere proposto, il background motorio dell’atleta, la specificità dello sport. In particolare, nel gioco del calcio si riscontrano delle problematiche peculiari: la necessità di concentrarsi su determinati muscoli maggiormente coinvolti nella performance, il limitato tempo a disposizione per lavorare su una capacità spesso considerata ai margini, la generale scarsa predisposizione dell’atleta-calciatore verso questa pratica, la necessità di organizzazione su base settimanale dell’allenamento, la difficoltà in uno sport di squadra di individualizzare le esercitazioni in base alle caratteristiche personali ed agli specifici compiti di gioco. In questa breve trattazione saranno messe a confronto le diverse interpretazioni, spesso contrastanti, degli aspetti dello stretching per il calciatore e al termine sarà proposto un approccio a questa tecnica che tenga conto di quanto esposto. Il lavoro tratterà inizialmente dei motivi per i quali si consiglia l’utilizzo dello stretching per il calciatore, in seguito si riporterà la classificazione dei principali metodi di allungamento. Saranno poi riportate alcune regole generali da seguire quando si vogliono effettuare questo tipo di esercitazioni. Si vedrà che lo stretching è utile per prendere coscienza del proprio corpo e se sia efficace o meno nella prevenzione degli infortuni. In seguito saranno messe a confronto le teorie per le quali lo stretching debba essere eseguito con muscoli caldi o freddi, quindi si tratterà del suo inserimento nelle fasi di riscaldamento e di defaticamento nelle sedute di allenamento: in particolare si vedranno i rapporti con la forza e con le sedute di allenamento dedicate a questa capacità. Si parlerà dello stretching nell’età giovanile e di alcuni test di pratico utilizzo che possono aiutare ad individuare le carenze di flessibilità particolarmente implicate nel calcio. Infine nella parte conclusiva, come già accennato, si tenterà di presentare, in base a quanto evidenziato nei precedenti capitoli, una proposta quanto più operativa possibile per il calcio. 3 I perché dello stretching. I motivi per i quali generalmente è indicata l’esecuzione di questa particolare forma di esercitazioni, sono molteplici. I vari autori apportano diverse ragioni, spesso non coincidenti o addirittura discordanti. Di seguito indicheremo quelle più ricorrenti in letteratura: • Miglioramento e mantenimento della flessibilità, di cui la mobilità articolare e la capacità d’allungamento sono dei sottotermini (Frey, 1977 citato da Weineck, 1998): tutti gli autori che hanno trattato l’argomento stretching sono concordi su questo punto. • Prevenzione degli infortuni (ad esempio Sölveborn, 1983; Carminati e Bozzetti, 1993; Anderson, 1994; Weineck, 1998): non tutti gli autori concordano pienamente. • Miglioramento della coordinazione intermuscolare, tramite il rilassamento degli antagonisti (Meinel, 1984; Cerullo, 1997; Schnabel et al., 1998; Weineck, 1998). • Probabile aumento del numero dei sarcomeri in serie (Tardieu e Tardieu, 1972 e Golspink, 1985, citati da Cometti, 1995; Kurz, 1994; Cerullo, 1997). • Preparazione dell’apparato muscolo-scheletrico a movimenti intorno ai limiti articolari. • Azione facilitante sulla circolazione capillare grazie all’effetto “spugna” (Mosca, 1994; Cerullo, 1997). • Rilassamento psico-fisico (Knebel et al., 1993; Anderson, 1994; Cerullo, 1997, Balaskas e Stirk, 1998; Weineck, 1998). • Presa di coscienza del corpo e di tutte le sue parti (Knebel et al., 1993; Anderson, 1994; Cerullo, 1997; Balaskas e Stirk, 1998; Weineck, 1998). Classificazione dei metodi di allungamento. Generalmente si distinguono quattro grandi gruppi in cui le tecniche di stretching possono essere classificate: 1. stretching dinamico; 2. stretching statico; 3. tecniche P.N.F; 4. stretching globale attivo. Il primo gruppo si riferisce ad esercizi consistenti in contrazioni ripetitive dei muscoli agonisti con conseguente allungamento degli antagonisti, quindi slanci, oscillazioni, molleggi, ecc.; secondo Knebel et al. (1993) per questo gruppo non si può parlare propriamente di stretching. Con il tempo questi esercizi sono stati sempre meno utilizzati a 4 causa della potenziale pericolosità, data dallo stiramento repentino dei muscoli con conseguente riflesso da stiramento (Fox et al.,1995; Bosco, 1990). Tuttavia, con i dovuti accorgimenti, gli allungamenti dinamici possono essere eseguiti per conseguire scopi altrimenti irraggiungibili (Cambone, 1993; De Santis et al., 1998) e per preparare l’apparato locomotore a movimenti richiesti dalla prestazione. In base agli studi del professor Zito (citato da Capanna, 2000) ripetuti esercizi di flessibilità dinamica con azione dell’agonista e detensione riflessa dell’antagonista, permetterebbero di ottenere effetti sulla flessibilità più efficaci degli esercizi passivi. Sapega et al. (1981, citati da Weineck, 1998) ritengono che questi esercizi portino ad una flessibilità poco sviluppata e di breve durata, perché sarebbero influenzati gli elementi elastici del muscolo senza raggiungere un cambiamento stabile delle componenti plastiche. Secondo Hardy e Jones (1986) e De Vries (1962), citati da Bosco (1990), il lavoro per ogni gruppo muscolare non dovrebbe superare i 30-36 secondi, mentre per Capanna (2000) 3 o 4 movimenti per 2 o 3 volte consentono un incremento notevole a breve termine. Il secondo gruppo si riferisce al classico metodo introdotto dal professore di educazione fisica americano Bob Anderson, che con il suo celebre libro “STRETCHING” contribuì alla diffusione, soprattutto in Italia, di questa pratica (Cambone, 1993). L’esecuzione passa attraverso una tensione rilassata e prolungata, che aumenta gradatamente. Si passa, infatti, da una tensione “facile” della durata di 10-30 secondi, che serve ad abituare il muscolo alla successiva tensione “di sviluppo”, che è appunto la parte principale dell’esercizio e che permette l’effettivo incremento della flessibilità; dopo altri 10-30 secondi, la tensione viene progressivamente diminuita per ritornare poi alla normalità evitando movimenti bruschi; il singolo esercizio viene ripetuto due o tre volte (Anderson, 1994). Nel metodo Esnault le caratteristiche dell’esercitazione sono le stesse, ma viene apportata una variante: prima di eseguire l’allungamento si imprime un movimento rotatorio all’articolazione, che può essere interno o esterno, per sfruttarne il meccanismo di rotazione, il quale consente un maggior coinvolgimento di fibre muscolari (Carminati, Bozzetti, 1993). Al terzo gruppo appartengono quegli esercizi di stretching più evoluti derivanti direttamente dalla fisioterapia (Sölveborn, 1983) che utilizzano l’inibizione dei corpuscoli del Golgi data dalla precedente contrazione isometrica, che deve durare almeno 6 secondi per generarla (Sölveborn, 1983; Bosco, 1990; McAtee, 1996) e l’inibizione reciproca degli antagonisti. Anche qui si distinguono alcune tecniche leggermente diverse tra loro (Schnabel et al., 1998): ricordiamo la tecnica TRS (tension - relax - stretch) e la tecnica CHRS (contract - 5 hold - relax - stretch). Queste metodiche sono caratterizzate dalla seguente procedura (Sölveborn, 1983; Bosco, 1990; McAtee, 1996; Schnabel et al., 1998): - il raggiungimento di una posizione di leggero allungamento, nella quale effettuare una contrazione isometrica contro una resistenza esterna per 10–30 secondi; - il rilassamento per 2-3 secondi; - l’allungamento passivo dei muscoli precedentemente contratti della durata di 10-30 secondi, con o senza la contemporanea contrazione degli antagonisti, che genererebbe una inibizione reciproca (Bosco, 1990; Fox et al., 1995). Per completezza è utile ricordare che a questo gruppo appartengono una grande varietà di tecniche (che verranno di seguito soltanto elencate) che utilizzano delle combinazioni di contrazioni isotoniche ed isometriche (Alter, 1988, 1996): repeated contractions, rhythmic initiation, slow reversal, slow reversal-hold, rhythmic stabilization, contract-relax, holdrelax, slow reversal-hold-relax, agonistic reversal. Figura 1 - Le tecniche PNF (tratto da Alter, 1988) Riguardo queste tecniche è bene riportare alcuni studi che hanno evidenziato probabili rischi. Moore e Hutton (1980) e Beaulieu (1981), citati da McAtee (1996), hanno rilevato un’elevata attività elettromiografica del muscolo dopo la contrazione isometrica, che può portare ad un rischio di lesione nella fase di allungamento. Mentre altre ricerche (Condon e Hutton, 1987; Osternig et al., 1987), sempre riportate da McAtee (1996), hanno evidenziato 6 un’attività elettromiografica del muscolo in allungamento quando viene contratto contemporaneamente il muscolo antagonista (e ciò significa che ci sarebbe assenza dell’inibizione reciproca). Cornelius nel 1983 (citato da McAtee, 1996) ha posto attenzione sulla fase di contrazione isometrica, causa di un aumento di pressione con rischi di ipertensione. Nel 1988, però, Cornelius e Hamm (citati da McAtee, 1996) hanno concluso che l’aumento di pressione arteriosa rispetto al riposo non è significativa e quindi la breve durata della contrazione durante questi esercizi può essere eseguita senza rischi da soggetti ipertesi che non manifestino altri sintomi. Il quarto gruppo comprende una metodica che negli ultimi anni sta riscuotendo molto successo in ambito sia terapeutico che sportivo: lo stretching globale. Partendo dalla differenziazione tra muscoli statici (tonici e fibrosi) e muscoli dinamici (poco tonici e con poche fibre connettive), i propugnatori di questa tecnica, di cui Mézières è la caposcuola, pongono l’accento sul fatto che i muscoli statici, che rappresentano i 2/3 della muscolatura umana, non riposano mai perché sono antigravitari e permettono i movimenti correnti (Souchard, 1995). Prevalentemente affaticati, i muscoli statici possono facilmente evolvere verso l’accorciamento così che la loro rigidità può generare conseguenze quali deformazioni, deviazioni o mancanza di ampiezza articolare. Per di più lo sport accentua queste tendenze (Souchard, 1995). Poiché i muscoli statici sono organizzati in catene muscolari, ogni stiramento localizzato (come avviene nelle tecniche tradizionali riportate sopra) comporta una compensazione tramite accorciamento da parte di un altro punto qualunque della catena muscolare. Invece, essa deve essere considerata come fosse un elastico e quindi deve essere tirata dai due estremi. Perciò, “solo stiramenti globali, che interdicono ogni compensazione, sono realmente efficaci. Bisogna elasticizzare i muscoli in senso contrario alla loro fisiologia, essendo la trazione assiale più importante. Per evitare le compensazioni in rotazione, in flessione laterale e le lesioni articolari che essi rischiano di provocare, gli esercizi devono essere simmetrici.” (Souchard 1995). Le catene statiche tendenti all’accorciamento che Souchard individua sono: la grande catena principale posteriore, la catena superiore della spalla, la catena laterale dell’anca, la grande catena principale anteriore, la catena antero-interna dell’anca, la catena antero-interna della spalla, la catena anteriore delle braccia e la catena inspiratoria. Infine, secondo questa tecnica lo stiramento deve essere prolungato (addirittura fino a 10 minuti ed oltre) per diminuire gradualmente la forza di trazione della catena muscolare interessata, con una esecuzione delicata, dolce e progressiva (Souchard 1995). 7 Figura 2 - Una delle principali posture di stretching globale per la grande catena muscolare posteriore (tratto da Souchard, 1995) Regole generali per l’esecuzione degli esercizi di stretching. Gli esercizi di stretching possono essere eseguiti anche in maniera passiva grazie all’aiuto di un partner o di attrezzi e posizioni particolari: in questo modo si può incrementare la flessibilità passiva consentendo di aumentare la flessibilità di riserva (Manno et al., 1987; Cambone, 1990, 1993; Weineck, 1998). Quando si eseguono esercizi di allungamento bisogna tenere presente alcuni principi: - allungare il muscolo lungo il suo asse di forza (Knebel et al., 1993); - nel caso di stretching settoriale, se il muscolo da allungare è biarticolare bisogna fissare una articolazione al limite ed agire su quella libera (Knebel et al., 1993); - generalmente, in caso di stretching selettivo, più grande è il muscolo da allungare e maggiore sarà il tempo da dedicarvi (Cerullo, 1997); - se si eseguono esercizi in piedi, bisogna mantenere le gambe leggermente piegate per evitare eccessive pressioni sulla colonna vertebrale (Cerullo, 1997); - rispettare lo stato di funzionamento del muscolo in quel determinato momento (Weineck, 1998); - rispettare una gradualità nell’aumento dell’intensità degli esercizi (Weineck, 1998; Paish, 2000); - durante l’esecuzione degli esercizi evitare di trattenere il respiro, mantenendolo normale e tranquillo (Balaskas e Stirk, 1998), oppure lento e profondo (Mosca, 1994; Cerullo, 1997). Il 8 motivo delle affermazioni precedenti risiede nel fatto che una respirazione contratta provoca un aumento involontario del tono muscolare; - durante l’esecuzione di esercizi di allungamento statico non oltrepassare la soglia del dolore, che è sintomo di eccessiva tensione (Anderson, 1994; Cerullo, 1997; Weineck, 1998); - eseguire esercizi con calma e tranquillità, senza fretta (Cerullo, 1997); - lavorare in modo alternato sui muscoli che incidono sulla prestazione del calciatore (Weineck, 1998); - per Bangsbo (1996) “un muscolo dovrebbe essere attivato prima e dopo essere stato allungato”; inoltre la durata dovrebbe essere di 10 secondi di allungamento completo seguiti da altri 10 secondi di ulteriore allungamento raggiunto lentamente; - Mahel (1986, citato da Schnabel et al., 1998) consiglia di iniziare dai muscoli delle estremità per poi passare ai muscoli del tronco, ed eseguire sequenze che prevedano l’allungamento dell’agonista seguito da quello dell’antagonista, per prevenire o contrastare gli squilibri muscolari. Lavorare sulle catene o sui segmenti muscolari? Negli ultimi anni la tendenza ad utilizzare gli esercizi di stretching globale per mettere in allungamento intere catene muscolari si è sempre più diffusa. Le motivazioni per le quali si dovrebbe lavorare con le posture sono state spiegate precedentemente, mentre in questa sezione saranno riportate le ragioni addotte da alcuni autori contrari al lavoro in catena, che sembrano essere convincenti. Secondo Cambone (1993) bisogna coinvolgere una articolazione per volta per massimizzare l’intervento su di essa, poiché coinvolgendo più articolazioni lavorerebbe comunque sempre un’articolazione più delle altre, e queste verrebbero di conseguenza trascurate. Per Knebel et al. (1993) e Mosca (1994), invece, il motivo per il quale non dovrebbe essere coinvolta una catena di articolazioni è che non sarebbe rispettata la funzionalità dell’allungamento stesso perché, “nel caso di una muscolatura “accorciata” in una determinata regione, potrebbero essere interessate le catene articolari vicine; così l’effetto di allungamento che si vuole ottenere fondamentalmente fallisce” (Knebel et al., 1993). Inoltre il muscolo accorciato, sul quale bisognerebbe lavorare con più attenzione, sarebbe poco coinvolto perché gli altri muscoli si troverebbero più disponibili ad essere allungati con conseguente azione di compenso (Weineck, 1998). Il lavoro selettivo sarebbe più mirato con la conseguenza oltretutto di imparare a riconoscere le sensazioni provenienti da ogni singolo muscolo (Mosca, 1994). 9 Incremento e mantenimento della flessibilità. Secondo Zito (in Castagna 1999) una eccessiva flessibilità non è detto che sia necessaria, bisogna ricercare la flessibilità ottimale per la disciplina sportiva, nel nostro caso il calcio. I benefici che ne derivano sono diversi: • Secondo Harre (1977), Weineck (1998) e Cambone (1990, 1993) la flessibilità serve indirettamente per migliorare le altre qualità fisiche (Forza, Velocità, Resistenza). Sull’incremento della velocità sono d’accordo anche Knebel et al. (1993). • Esecuzione accurata e precisa dei gesti tecnici (Weineck, 1998; Knebel et al. 1993). Nel calcio bisogna migliorare la flessibilità dei seguenti muscoli e articolazioni che intervengono nei gesti tecnici più frequenti (Weineck, 1998): colonna vertebrale e muscolatura del bacino (finte e dribbling), articolazione tibio-tarsica (calci con il pieno collo del piede), articolazione dell’anca (takle scivolati), muscoli adduttori della coscia e articolazione dell’anca (tiri con movimento rotatorio dei fianchi), articolazione della spalla, dell’anca e colonna vertebrale (per i gesti tecnici del portiere). • Economia nel movimento (Knebel et al., 1993) con conseguente risparmio energetico. • Protezione dalle sollecitazioni eccessive degli elementi passivi dell’articolazione, con conseguente prevenzione di traumi (Knebel et al., 1993). • Compenso delle retrazioni muscolari che sono inevitabili nei distretti più sollecitati dal gioco del calcio (Moreau e Le Bivic, 1998). Questi muscoli che tendono all’accorciamento sono (Weineck, 1998; Cuzzolin, 2000): il pettorale, la parte superiore del trapezio, la parte inferiore dell’erettore spinale, il quadrato dei lombi, gli adduttori della coscia, i flessori dell’anca, in particolare l’ileo-psoas, gli estensori ed i flessori del ginocchio ed il tricipite surale. Dal risultato di alcuni studi le tecniche di stretching PNF risulterebbero più efficaci per l’incremento della flessibilità (Cambone, 1990; Cacchi e coll., 1991; Einsingbach et al., 1990), anche se hanno gli inconvenienti di avere una durata maggiore delle altre e di non essere facilmente eseguibili. McAtee (1996) mette in evidenza che il 57% degli studi da lui analizzati conferma che, con le tecniche PNF si ottengono miglioramenti sulla flessibilità superiori rispetto alle altre tecniche. Lo stesso McAtee (1996), però, riporta che alcune ricerche hanno osservato che per quanto riguarda lo stretching PNF, pur ottenendo risultati positivi, non sarebbero migliori di quelli ottenuti con gli altri metodi. Per Knebel et al. (1993) i metodi di rilassamento post-isometrico e i tipi di allungamento passivo, essendo più intensi, sarebbero più efficaci per incrementare la flessibilità o eliminare una muscolatura contratta, mentre per il mantenimento andrebbero bene anche gli 10 esercizi di stretching statico (comprendendo in quest’ultimo caso anche lo stretching globale). Per quanto riguarda il tempo di esecuzione necessario per ottenere l’incremento della flessibilità bisogna tener presente che esso varia in base alla tecnica utilizzata, ma soprattutto all’obiettivo da perseguire ed alla situazione contingente in cui ci si trova ad operare. Per ottenere un guadagno temporaneo di escursione basta eseguire tre-cinque ripetizioni (Wiemann, 1994, Wydra et al., 2000, citati da Wiemann e Klee, 2000). Ugualmente Zito (in Castagna, 1999) afferma che quattro ripetizioni al 70% dell’intensità sono sufficienti per determinare un miglioramento temporaneo della flessibilità. Dordel (1975, citato da Knebel et al., 1993) sostiene che più è il tempo di applicazione dell’allungamento, più persiste l’allungamento residuo (= stato di allungamento che permane nel muscolo appena tornato allo stato di riposo dopo uno stiramento efficace). Secondo gli studi di Roberts et al. (citato da Tornese et al., 2000) tre allungamenti di 15 secondi ciascuno sono più efficaci sull’anca e sul ginocchio rispetto a nove allungamenti di 5 secondi. Per Schnabel et al. (1998) per ottenere incrementi della flessibilità bisogna effettuare un allenamento concentrato, possibilmente due volte al giorno, di non meno di 13 minuti. Invece, secondo Capanna (2000) e Zito (in Castagna, 1999), per ottenere miglioramenti duraturi sulla flessibilità la stimolazione deve essere prolungata e ripetuta nel tempo: l’intervento su ogni muscolo deve durare per più di 30’’ da ripetere 5 o 6 volte all’interno di una stessa seduta, per 3 volte a settimana per 5/6 settimane. Per Weineck (1998) i calciatori hanno bisogno di 6 settimane per raggiungere la flessibilità necessaria per iniziare l’allenamento, quindi è bene iniziare un programma di stretching nel precampionato per proseguire con il mantenimento durante la stagione agonistica (Weineck, 1998). Platonov (1996) ritiene che per ottenere miglioramenti della flessibilità servono 3 o 4 sedute settimanali, mentre 1 o 2 sono insufficienti. Le sedute distanziate tra loro più di 48-72 ore, cioè eseguite ogni 2 o 3 giorni, servono solo per il mantenimento e non per l’incremento della flessibilità (Vago, 1997). Inoltre, per il mantenimento della flessibilità, Schnabel et al. (1998) consigliano di eseguire almeno una seduta specifica a settimana oltre ai consueti allungamenti durante le fasi di riscaldamento e di defaticamento. Presa di coscienza del proprio corpo. Lo stretching, che trae origine da discipline orientali volte alla spiritualità e all’armonia col corpo, consente di concentrarsi su di esso con calma ed in tranquillità. È possibile, tramite questo tipo di ginnastica, imparare a percepire i propri muscoli e le sensazioni che ne 11 provengono migliorando la conoscenza di se stessi e delle proprie potenzialità (Knebel et al., 1993; Mosca, 1994; Alter, 1996; Mazzali e Bacconi, 1996). Prevenzione degli infortuni. Ekblom (1994) afferma che la flessibilità protegge contro il rischio di infortuni nel calcio, mentre Weineck (1998) aggiunge che con esercizi di flessibilità è possibile prevenire processi degenerativi delle articolazioni. Per molti autori la flessibilità rappresenta una buona profilassi agli infortuni di carattere muscolo-tendineo-legamentoso (Harre, 1977; Sölveborn, 1983; Mahel, 1986, Brenke et al.1986, Mahel, 1987, citati da Manno et al., 1987; Anderson, 1994; Gerish, 1986, Bönisch e Steinbach, 1990, citati da Weineck, 1998; Cambone, 1993; Carminati e Bozzetti, 1993; Moreau e Le Bivic, 1998). Weineck (1998) riferisce che molti studi dimostrano questo rapporto. Invece, secondo Zito (in Castagna, 1999) ed anche altri autori (Kujala e coll., Hartig e coll., Best e coll., citati da Tornese et al., 2000) la relazione tra prevenzione degli infortuni e flessibilità non è scientificamente provata, infatti, negli ultimi anni i dati provenienti dalla biologia e dalla teoria dell’allenamento vanno in questa direzione. Staley et al. (1991) affermano che uno stretching aggressivo può causare dei microtraumi, e ciò è inevitabile se lo scopo è la ricerca del miglioramento della flessibilità. La tensione passiva degli elementi elastici in serie del muscolo (integrina, distrofina, titina, ecc.) durante un allungamento estremo è paragonabile, ed a volte anche superiore, alla tensione passiva che c’è durante la contrazione isometrica massima volontaria (Wiemann, 1994 citato da Wiemann e Klee, 2000). Quindi, lo stretching eseguito fino ai limiti articolari rappresenta un carico eccessivo per le strutture muscolari passive. Secondo Smith et al. (1993, citati da Wiemann e Klee, 2000) con l’allungamento muscolare (sia statico che dinamico) si può generare un dolore muscolare tardivo. Sembra perciò che lo stretching generi microtraumi sulle miofibrille simili a quelli derivanti da esercitazioni di forza. Inoltre, le tensioni che subiscono gli elementi passivi del muscolo durante un allungamento intensivo, tendono ad aumentare sempre di più perché di ripetizione in ripetizione ci si abitua al dolore muscolare. Si rischia così di oltrepassare i limiti della capacità di carico delle strutture passive provocando dei microtraumi nel muscolo (Wiemann e Klee, 2000). Secondo Capanna (2000) le stimolazioni in allungamento prolungate e ripetute, necessarie per ottenere uno stabile miglioramento della flessibilità generano, a livello inconscio nel sistema nervoso, delle informazioni anomale verso il muscolo e che, se sono seguite da esercitazioni tecniche o atletiche, possono causare delle risposte involontarie ostacolanti la perfetta sincronizzazione fra contrazione e rilassamento. Di conseguenza, come afferma anche Zito (in Castagna, 1999), se questi allungamenti non 12 sono inseriti in un sistema di allenamento adeguato, rischiano di provocare infortuni anziché prevenirli. Stretching “a freddo” o “a caldo”? Secondo Souchard (1995) lo stretching andrebbe fatto senza riscaldamento per ottenere un allungamento duraturo, quindi efficace. Secondo lo studioso francese, infatti, il muscolo riscaldato aumenterebbe temporaneamente il suo coefficiente di elasticità che, in base alla sua formula di deformabilità (allungamento guadagnato dopo la trazione = forza dello stiramento / coefficiente di elasticità x tempo) porterebbe si ad un allungamento, ma non definitivo. Anche Knebel et al. (1993) ammettono un preriscaldamento con esercizi di allungamento a muscolatura fredda, consigliando però di utilizzare un approccio graduale e di controllare bene le tecniche di esecuzione. Alter (1996), invece, afferma: “Lo stretching dovrebbe essere sempre preceduto da un periodo di riscaldamento”. Effettivamente, molti autori sostengono che l’allungamento debba essere effettuato dopo una fase di riscaldamento generale attivo perché questa diminuirebbe la tendenza a lesionarsi da parte del muscolo e del tessuto connettivo; inoltre permetterebbe di ottenere risultati ottimali sulla flessibilità, dovuta ad una deformazione proprio del tessuto connettivo favorita dall’innalzamento della temperatura tessutale (Beaulieu, 1980, Shellock, 1983, citati da Manno et al., 1987; Pombo e Da Silva Pina Da Morais, 1997; Cerullo, 1997; Zito in Castagna, 1999). Si può effettivamente constatare che un allungamento “a caldo”, con le strutture muscolo-tendineearticolari che oppongono minore resistenza (per la produzione di liquido sinoviale, per la diminuzione della viscosità muscolare conseguente all’innalzamento della temperatura corporea e alla conseguente liquefazione del sarcoplasma, per la diminuzione della viscosità dei tessuti connettivi muscolo-scheletrici, per l’aumento della circolazione periferica), consente un allontanamento maggiore dei capi articolari e delle inserzioni muscolari, con conseguente incremento dell’allungamento e contemporanea deformazione delle strutture limitanti la flessibilità. Riscaldamento e stretching. Secondo Sternard (riportato da Cambone, 1993), lo stretching sarebbe valido come forma di riscaldamento, probabilmente perché facilitando la circolazione sanguigna a livello periferico consente un aumento della temperatura e del metabolismo locale. La maggior parte degli autori, però, crede, come Cambone (1993) che lo stretching vada fatto a muscolo caldo come integrazione del riscaldamento. Secondo Tornese et al. (2000) gli esercizi di allungamento, insieme ad un riscaldamento globale, ottimizzano le condizioni fisiche e 13 biochimiche del tessuto muscolare prima di un allenamento, una gara o una sessione di riabilitazione. Per Knebel et al. (1993) sarebbero più efficaci, durante il riscaldamento, stimoli di allungamento moderati e ripetuti anziché esagerati in intensità e in modalità di esecuzione. Infatti, uno stretching intensivo nel riscaldamento rischia di avere effetti opposti a quelli che generalmente si ricercano, ossia, invece di migliorare la prestazione e diminuire l’incidenza di infortuni, peggiora la prestazione e aumenta la probabilità di incorrere in infortuni (Weimann e Klee, 2000). Per Bangsbo (1996) andrebbero fatti leggeri esercizi di stretching durante il riscaldamento al termine di ogni step, con una durata di pochi secondi ad esercizio e di non più di due minuti per blocco. Secondo Bangsbo (1996) allungare i muscoli freddi aumenterebbe il rischio di infortuni, quindi consiglia l’esecuzione di un programma completo solo al termine del riscaldamento, oppure nel defaticamento. Infine, osservazione molto importante, secondo Martin et al. (1997) anche gli esercizi di stretching che si eseguono durante il riscaldamento dovrebbero tener conto degli obiettivi della seduta di allenamento. Recupero attivo e stretching. L’utilizzo dello stretching nel defaticamento e nelle sedute di recupero attivo nel calcio sembra un fatto ormai assodato. Soltanto alcuni autori citati ma non specificati da Cambone (1993) sembra siano contrari. Il resto della letteratura sembra essere favorevole adducendo anche diverse motivazioni. Bangsbo (1996) afferma che andrebbe effettuato stretching come parte integrante del defaticamento per allungare i muscoli coinvolti nella precedente attività ed evitare così un accorciamento permanente; inoltre, sempre secondo Bangsbo, in questa fase, il programma di stretching dovrebbe essere completo poiché i muscoli sono “caldi” e non ci sarebbe rischio di infortunio. Anche Zito (in Castagna, 1999) e Sapega et al. (1981, citati da Alter, 1988, 1990), per lo stesso motivo ritengono che il momento migliore per effettuare esercizi di stretching volti al miglioramento della flessibilità debbano essere eseguiti subito al termine della seduta di allenamento quando la temperatura corporea è ancora alta. Anche Capanna (2000) concorda, ma per un altro motivo: poiché gli esercizi di stretching potrebbero disturbare la motricità, dovrebbero essere eseguiti in altri momenti della giornata, e se ciò non è possibile, in alternativa è preferibile eseguirli al termine della seduta di allenamento. Un’altra valida motivazione a sostegno dell’esecuzione dello stretching nel defaticamento, è che contribuirebbe ad un più veloce smaltimento degli elementi tossici grazie all’azione 14 facilitante sulla circolazione capillare periferica (Mosca, 1994; Alter, 1988, 1996; Cerullo, 1997; Moreau e Le Bivic, 1998). Staley et al. (1991) e Wirhed (1992) ritengono che uno stretching effettuato con una bassa tensione ridurrebbe il DOMS (dolore muscolare tardivo); a supporto di questa tesi ci sono diversi studi tra cui quello sperimentale di Kokkinidis et al. (1998). Contrariamente, la sperimentazione di Buroker e Schwane (1989) non ha rilevato alcun effetto benefico dello stretching statico sul DOMS, né immediato né dopo i tre giorni seguenti. Molti autori (ad es. Alter, 1988, 1996 ; Weineck, 1998), poi, sostengono che durante il defaticamento lo stretching faciliti il rilassamento muscolare; Knebel et al. (1993) aggiungono che lo stretching serve, oltre che per un rilassamento muscolare, anche per un rilassamento psichico (riduzione delle varie emozioni, della spossatezza fisica e della sensazione di vuoto). Anche Harre (1977) e Weineck (1998) affermano che lo stretching è importante nel defaticamento, però consigliano di evitare allenamenti di flessibilità dopo sforzi fisici prolungati che abbiano determinato uno stato di affaticamento muscolare, poiché in questi casi viene abbassata la sensibilità dei fusi neuromuscolari. Al contrario, Einsingbach et al. (1990) consigliano di eseguire esercizi di stretching dopo un duro allenamento anaerobico. Bisogna aggiungere che non tutte le tecniche di stretching si prestano alla rigenerazione muscolare. Shobert et al. (1990, in Weineck, 1998) consigliano un’alternanza di 10 secondi di allungamento e 10 secondi di rilassamento favorendo così l’afflusso sanguigno nel muscolo e di conseguenza il metabolismo locale, contrariamente ad una tensione “di sviluppo” che rischierebbe di ischemizzare il muscolo affaticato. Nelle sedute defaticanti del giorno dopo la gara, lo stretching è considerato uno degli elementi fondamentali del lavoro, naturalmente inserito organicamente in un allenamento attentamente organizzato (Pincolini, 1996, 2001; Costantino, 2001). Stretching e forza. Spesso la flessibilità e la forza vengono messe in contraddizione, ritenendo l’una un fattore limitante per l’altra. Secondo Harre (1977), però, l’incremento di massa muscolare non danneggia la flessibilità purchè anche questa venga allenata. Soltanto in casi estremi (che non sono pertinenti al calcio) ciò si può verificare. A sostegno delle affermazioni di Harre, Schmitt et al. (1998) hanno visto che in calciatrici di elite, combinando esercizi di stretching e di pesi, si possono migliorare contemporaneamente la flessibilità e la forza. Quindi, il problema non è di escludere l’una o l’altra capacità, ma di come organizzarle in modo efficace. Le teorie, in questo caso sono piuttosto contrastanti. 15 Sul fatto che lo stretching vada o meno eseguito prima di sedute di forza, ci sono teorie e studi sperimentali sia a favore che contro. Güllich (1996) e Güllich e Schmidtbleicher (2000), citati da Wiemann e Klee (2000), hanno trovato che dopo un programma di stretching statico, perdurava per 30 minuti una diminuzione della prestazione nel drop jump. Anche prima di sedute di allenamento per la forza reattiva-elastica Cacchi e coll. (1991) sconsigliano di eseguire stretching: Fucci e Carminati (1998) hanno provato a spiegarne il perché con il fatto che nello stretching vengono attivati i corpuscoli tendinei del Golgi, che negli esercizi di forza reattiva-elastica dovrebbero rimanere sopiti il più possibile. Al contrario Wilson et al. (1992), con la loro sperimentazione, hanno ottenuto dei risultati che indicano che l’allenamento della flessibilità ha l’effetto di ridurre la stiffness degli elementi elastici in serie, con conseguente aumento di riuso elastico nel ciclo stiramentoaccorciamento. Ma gli stessi Cacchi e coll. (1991), citando Asmussen (1976), ritengono che un muscolo non riscaldato abbia una tenuta più lunga nei ponti actomiosinici con una conseguente maggiore energia elastica; infatti, dalla loro ricerca il riuso di energia elastica diminuiva se precedentemente era stato eseguito dello stretching. Fowles et al. (2000) hanno trovato che un gruppo muscolare (in questo caso i flessori plantari) sottoposti a stretching passivo prolungato, diminuisce per più di un’ora i livelli di forza volontaria. Anche Staley et al. (1991) sostengono che lo stretching statico potrebbe abbassare temporaneamente i livelli di forza statica, quindi sarebbe sconsigliato prima di esercizi con sovraccarichi. Invece, in uno studio di Worrel et al. (citati da Tornese et al., 2000) si è visto che l’incremento di flessibilità degli ischio-peroneo-tibiali (che però non era statisticamente significativo) ottenuto con lo stretching passivo o con il metodo PNF era correlato con un incremento del picco di momento di forza nei test isocinetici in eccentrico a 60° e 120° /sec e in concentrico a 120° /sec. Per quanto riguarda l’esecuzione durante le sedute di forza, le motivazioni contrarie sono le stesse precedentemente esposte, oltre al fatto che l’affaticamento abbassa la sensibilità dei fusi neuromuscolari (Harre, 1977; Weineck; 1998) e quindi eseguendo l’allungamento si rischia di stirare oltre i limiti le componenti muscolari passive e di determinare così un carico eccessivo che si andrebbe ad aggiungere a quello specifico della seduta. Altri autori invece sostengono, per vari motivi e con diverse tipologie, l’esecuzione dello stretching durante allenamenti di forza. Cambone (1993) lo consiglia durante le pause di lavoro per integrare la parte del riscaldamento. Cerullo (1997) lo consiglia durante le pause di esercitazioni pliometriche, di forza in generale, di resistenza e di velocità per permettere un recupero attivo. Platonov (1996) afferma che è importante alternare esercizi di stretching ad esercizi che hanno altri obiettivi, particolarmente per la forza, perché permettono di 16 aumentarne l’efficacia. Per Cometti (1995) lo stretching andrebbe eseguito all’interno delle esercitazioni di forza, ed anche Bellotti e Matteucci (1999) ritengono che gli esercizi di stretching siano molto importanti all’interno delle sedute per la forza con sovraccarichi. Egger (1994) addirittura ha elaborato una particolare esercitazione in cui vengono sviluppate contemporaneamente la forza e la flessibilità tramite l’alternanza di stretching ed esercizi con sovraccarico. I principi a cui si ispira sono: - necessità di sviluppare gli agonisti e gli antagonisti per rafforzare la propriocettività muscolare; - necessità di stirare il muscolo per ottenere il suo rafforzamento; - migliore capacità di stiramento del muscolo affaticato; - favorevole rafforzamento dell’agonista quando l’antagonista viene stirato. L’allenamento prevede una prima fase in cui si allunga il muscolo antagonista, poi una seconda fase in cui l’agonista lavora, in seguito nella terza fase l’agonista viene stirato e nella quarta fase lavora l’antagonista: alla fine il ciclo si ripete di nuovo. Infine, sullo stretching eseguito dopo sessioni di forza, Fucci e Carminati (1998) sono d’accordo per 4 motivi: viene pompato più sangue nei muscoli affaticati e svuotati, viene abbassato il tono muscolare, si riduce la pressione sulle articolazioni e sull’apparato scheletrico e vengono attivati i corpuscoli tendinei del Golgi, che di conseguenza permettono al muscolo di rilassarsi. Invece, Souchard (1995) e Weineck (1998) lo consigliano per evitare la tendenza all’accorciamento. Stretching e giovani calciatori. Di fronte ad un giovane calciatore ci si può chiedere se sia consigliabile o meno proporgli esercitazioni di stretching. Si ha il dubbio se ce ne sia la necessità, se sia adeguato proporre esercizi che contrastano con la dinamicità del giovane o se possano sortire effetti positivi. Harre (1977) afferma che la flessibilità deve essere migliorata (con esercizi di stretching) nell’età infantile e giovanile perché a queste età è particolarmente favorevole. Anche Sermeev (1966, citato da Alter, 1996) ha osservato che il maggior incremento della flessibilità avviene tra i 7 e i 15 anni. Se ci si lavora precocemente, poi nell’età adulta servirà solo mantenerla. Inoltre con l’utilizzo dello stretching si cerca di compensare gli squilibri dovuti alla pratica sportiva che nell’età evolutiva possono creare seri danni in prospettiva futura (Mosca, 1994). Bisogna ricordarsi, però, che lo scheletro dei giovani non è ancora maturo, perciò bisogna utilizzare non esercitazioni riconducibili specificatamente al calcio, ma che abbiano un effetto generalizzato per una crescita globale e armonica di tutto il corpo. Knebel et al. (1993) danno alcuni principi da seguire: 17 - esecuzione corretta degli esercizi; - utilizzazione di esercizi corretti ed efficaci; - cura parallela della flessibilità e della forza (quest’ultima sempre con i dovuti accorgimenti del caso); - utilizzo di tutti i sistemi persuasivi per far eseguire queste esercitazioni che risultano poco divertenti per i giovani; - Weineck (1998) consiglia esercizi con gli attrezzi e sconsiglia quelli a coppie che potrebbero causare danni, poiché non si è ancora in grado di imprimere le giuste tensioni; - la flessibilità non aumenta ugualmente in tutti i sistemi articolari: di ciò bisogna tener conto per organizzare l’allenamento di flessibilità per i giovani (Manno, 1989; Weineck, 1998). Nell’infanzia possono essere eseguiti esercizi di flessibilità dinamica, perché il rischio di infortuni è basso (Weineck, 1998). Inoltre, fino a 10 anni l’allenamento può essere a carattere generale (Weineck, 1998). Poi la flessibilità comincia a decrescere dopo l’infanzia (già dal decimo/dodicesimo anno di età secondo Knebel et al., 1993), quindi è bene cominciare a porre attenzione alle esercitazioni di stretching per contrastare questa tendenza, lavorandoci anche solo per mantenerla (Cambone, 1990). Secondo Weineck (1998) dai 1416 anni lavori di stretching statico possono entrare sistematicamente a far parte dell’allenamento calcistico, con una intensificazione degli stessi dopo i 16 anni. Ciò diventa importante se si tiene conto che la pratica del calcio favorisce l’accorciamento di alcuni muscoli specificamente sollecitati. Si è visto, comunque, che per calciatori giovani sani, tre allenamenti di stretching a settimana bastano per evitare gli accorciamenti muscolari (Weineck, 1998). Test. I test per valutare la flessibilità sono molteplici, provenienti o dall’ambito fisioterapico o dalla pratica del campo o da studi specifici. Di seguito verranno presi in considerazione alcuni test che possono fornire informazioni utili e che allo stesso tempo abbiano una certa praticità nell’ambito calcistico. • Seat & reach: il soggetto è seduto con le gambe tese e unite. Flettendo il busto avanti, con le braccia tese si deve portare la punta delle dita delle mani verso la punta delle dita dei piedi (Marella, Risaliti, 1999). Questo test può dare un risultato numerico se viene eseguito con l’apposito strumento di rilevazione graduato, oppure 18 si possono trarre delle indicazioni sugli eventuali blocchi a diversi livelli lungo la catena muscolare posteriore. Figura 3 - Diversi atteggiamenti che possono essere assunti durante l'esecuzione del seat & reach (tratto da Weineck, 1998) • Test per i flessori dell’anca (Marella, Risaliti, 1999): il soggetto si posiziona su un tavolo in posizione supina (annullando le curve fisiologiche), con una gamba che fuoriesce. Flettere l’altro arto inferiore aiutandosi con le mani poste sulla parte posteriore della coscia. Il soggetto può aderire perfettamente al piano con la gamba perpendicolare al tavolo nel caso di normalità (figura 4), può sollevare la coscia (figura 5) evidenziando una retrazione dell’ileo-psoas, oppure, con la coscia aderente al tavolo, può sollevare la gamba (figura 6) evidenziando una retrazione del retto femorale. 19 Figura 4 - Situazione di normalità (tratto da Weineck, 1998) Figura 5 - Accorciamento dell'ileo-psoas (tratto da Weineck, 1998) Figura 6 - Accorciamento del retto femorale (tratto da Weineck, 1998) • Test per la flessibilità degli ischio-crurali (Marella, Risaliti, 1999): il soggetto si dispone in posizione supina su un piano di appoggio. Mentre l’esaminatore con una mano tiene fermo un arto inferiore allungato sul piano, con l’altra mano porta l’altro arto allungato verso l’alto, con il gluteo in appoggio. L’arto può essere portato fino a 90° (caso di buona funzionalità muscolare) oppure, a seconda della retrazione dei muscoli ischio-crurali, si può bloccare ad un angolo intermedio. 20 Figura 7 - Test per gli ischio-crurali (tratto da Weineck, 1998) • Test di divaricazione degli arti inferiori (Cambone, 1993): il soggetto è seduto a terra con il busto appoggiato ad una parete. Si divaricano gli arti inferiori al massimo grado. Anche in questo caso possono essere prese delle misurazioni numeriche (in centimetri misurando la distanza tra i due malleoli interni, oppure in gradi valutando l’angolo di apertura con un goniometro o un compasso) oppure si possono trarre delle valutazioni sul grado di apertura più o meno accentuato. Figura 8 - Test di divaricazione degli arti inferiori (tratto da Cambone, 1993) 21 • Squat test: questa è una batteria di test elaborata da Cuzzolin (2000), nella quale il soggetto esegue dei movimenti di squat con posizioni variate degli arti superiori. In base ai movimenti di compenso che avvengono durante ogni esecuzione, si individuano i punti di maggiore tensione sui quali sarà necessario lavorare. La valutazione è dinamica e non permette di ricavare dati numerici. Figura 9- Squat test (tratto da Cuzzolin, 2000) Una proposta pratica. Di seguito si tenterà di offrire una proposta applicativa per lo stretching del calciatore, tenendo conto quanto più possibile della realtà pratica e di quanto esposto finora. • Cercare di individualizzare il più possibile gli esercizi in base alla morfologia del giocatore, alle caratteristiche muscolari, al ruolo che ricopre, alle caratteristiche di gioco, alla mentalità, all’età e alla storia degli infortuni, dopo un’attenta analisi funzionale. • Tenere presente quali sono i muscoli e le articolazioni maggiormente sollecitati dal gioco del calcio: il pettorale, la parte superiore del trapezio, la parte inferiore dell’erettore spinale, il quadrato dei lombi, gli adduttori della coscia, i flessori dell’anca, in particolare l’ileo-psoas, gli estensori ed i flessori del ginocchio, il tricipite surale, l’articolazione della caviglia, del ginocchio, dell’anca, della spalla (per il portiere) e la colonna vertebrale. 22 • Richiedere sempre la massima concentrazione e tranquillità quando si eseguono esercizi di stretching. • Eseguire facoltativamente esercizi di stretching statico non intenso “a freddo”, prima dell’allenamento o della partita. • Eseguire 4 o 5 esercizi di stretching submassimale durante il riscaldamento, al termine di ogni step; iniziare con esercizi statici e terminare con esercizi dinamici. • Eseguire esercizi di stretching statico nel defaticamento post-allenamento o postpartita, con intensità submassimali della durata di una decina di secondi con altrettanto tempo di recupero ed esecuzione ripetuta dello stesso esercizio; nel caso di lavoro molto intenso richiedere una minore intensità di esecuzione o evitare di eseguire esercizi di stretching. • Effettuare delle sessioni dedicate allo stretching della durata di 20 – 30 minuti (ed anche oltre) preferibilmente il giorno dopo la partita o dopo un allenamento particolarmente intenso: almeno una volta la settimana. Eseguire esercizi di stretching statico passivo, le tecniche PNF (in particolare la TRS) e le posture di stretching globale alla massima intensità (preceduti da un adeguato riscaldamento), quando di seguito si prevedono lavori blandi (ad esempio lavori tecnico tattici a bassa intensità in cui sia impegnato più il cervello che i muscoli). • Evitare lo stretching prima di intense esercitazioni per la forza, in particolare di forza esplosiva e forza rapida. • Nel precampionato far apprendere ai giocatori le posture di stretching globale e lavorare sullo tecniche PNF. • Utilizzare con moderazione lo stretching passivo. • Creare una cultura per la quale lo stretching entri a far parte della vita quotidiana. 23 Conclusione. Questo lavoro ha cercato di prendere in considerazione i vari aspetti dello stretching con i suoi risvolti nel calcio, cercando di evidenziare la non uniformità delle proposte che provengono dalla letteratura. È molto probabile che ancora molti contributi si possano dare in questo campo, e molti anche nell’ambito del gioco del calcio, dove spesso non viene attribuito un grande peso a questo tipo di esercitazioni. Proprio per questo motivo c’è bisogno di ottimizzare il contributo che può derivare dalla pratica dello stretching per il calciatore, perché nel poco tempo a disposizione che vi si può dedicare, si deve ottenere il massimo vantaggio possibile. Proprio in questo senso, probabilmente, dovranno andare i futuri approfondimenti sull’argomento. 24 Bibliografia. Alter M. J., Science of flexibility, Human Kinetics, Champaign, Illinois, 1996. Alter M. J., Science of stretching, Human Kinetics, Champaign, Illinois, 1988. Anderson B., Stretching, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1994 Balaskas A., Stirk J. L., Stretching, Red Edizioni, Como, 1998. Bangsbo J., La preparazione fisica nel calcio, Kells Edizioni, Ancona, 1996. Bellotti P., Matteucci E., Allenamento Sportivo, UTET, Torino, 1999. 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