0B“Lo stretching per il calciatore: pro e contro”

FEDERAZIONE ITALIANA GIUOCO CALCIO
SETTORE TECNICO
Corso per l’abilitazione a Preparatore Atletico
1B
Presidente: Avv. Mario Valitutti
TEORIA E METODOLOGIA DELL’ALLENAMENTO
TESI FINALE:
“Lo stretching per il calciatore: pro e contro”
0B
Corsista:
Relatore:
Alessandro Ruspantini
Prof. Mario Marella
STAGIONE 2000-2001
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INDICE
3B
pagina
Introduzione.
3
I perché dello stretching.
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Classificazione dei metodi di allungamento.
4
Regole generali per l’esecuzione degli esercizi di stretching.
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Lavorare sulle catene o sui segmenti muscolari?
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Incremento e mantenimento della flessibilità.
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Presa di coscienza del proprio corpo.
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Prevenzione degli infortuni.
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Stretching “a freddo” o “a caldo”?
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Riscaldamento e stretching.
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Recupero attivo e stretching.
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Stretching e forza.
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Stretching e giovani calciatori.
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Test.
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Una proposta pratica.
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Conclusione.
24
Bibliografia.
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Introduzione.
Da quando lo stretching è divenuto una pratica conosciuta e diffusa nello sport, ne è stato
consigliato e fatto un uso indiscriminato perché ritenuto apportatore di soli effetti positivi.
C’è stato anche un grande impulso per quanto riguarda le differenti tecniche esecutive,
codificate soprattutto dalla fisioterapia per ottenere i migliori risultati. Si è però poi
riscontrato che lo stretching, come ogni altro mezzo allenante, ha molteplici sfaccettature e
non può essere accettato incondizionatamente. Deve quindi essere utilizzato differentemente
in base a vari fattori quali ad esempio l’obiettivo che si vuole raggiungere, il momento in cui
deve essere proposto, il background motorio dell’atleta, la specificità dello sport. In
particolare, nel gioco del calcio si riscontrano delle problematiche peculiari: la necessità di
concentrarsi su determinati muscoli maggiormente coinvolti nella performance, il limitato
tempo a disposizione per lavorare su una capacità spesso considerata ai margini, la generale
scarsa predisposizione dell’atleta-calciatore verso questa pratica, la necessità di
organizzazione su base settimanale dell’allenamento, la difficoltà in uno sport di squadra di
individualizzare le esercitazioni in base alle caratteristiche personali ed agli specifici compiti
di gioco.
In questa breve trattazione saranno messe a confronto le diverse interpretazioni, spesso
contrastanti, degli aspetti dello stretching per il calciatore e al termine sarà proposto un
approccio a questa tecnica che tenga conto di quanto esposto.
Il lavoro tratterà inizialmente dei motivi per i quali si consiglia l’utilizzo dello stretching per
il calciatore, in seguito si riporterà la classificazione dei principali metodi di allungamento.
Saranno poi riportate alcune regole generali da seguire quando si vogliono effettuare questo
tipo di esercitazioni. Si vedrà che lo stretching è utile per prendere coscienza del proprio
corpo e se sia efficace o meno nella prevenzione degli infortuni. In seguito saranno messe a
confronto le teorie per le quali lo stretching debba essere eseguito con muscoli caldi o
freddi, quindi si tratterà del suo inserimento nelle fasi di riscaldamento e di defaticamento
nelle sedute di allenamento: in particolare si vedranno i rapporti con la forza e con le sedute
di allenamento dedicate a questa capacità. Si parlerà dello stretching nell’età giovanile e di
alcuni test di pratico utilizzo che possono aiutare ad individuare le carenze di flessibilità
particolarmente implicate nel calcio. Infine nella parte conclusiva, come già accennato, si
tenterà di presentare, in base a quanto evidenziato nei precedenti capitoli, una proposta
quanto più operativa possibile per il calcio.
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I perché dello stretching.
I motivi per i quali generalmente è indicata l’esecuzione di questa particolare forma di
esercitazioni, sono molteplici. I vari autori apportano diverse ragioni, spesso non coincidenti
o addirittura discordanti. Di seguito indicheremo quelle più ricorrenti in letteratura:
•
Miglioramento e mantenimento della flessibilità, di cui la mobilità articolare e la
capacità d’allungamento sono dei sottotermini (Frey, 1977 citato da Weineck, 1998):
tutti gli autori che hanno trattato l’argomento stretching sono concordi su questo
punto.
•
Prevenzione degli infortuni (ad esempio Sölveborn, 1983; Carminati e Bozzetti,
1993; Anderson, 1994; Weineck, 1998): non tutti gli autori concordano pienamente.
•
Miglioramento della coordinazione intermuscolare, tramite il rilassamento degli
antagonisti (Meinel, 1984; Cerullo, 1997; Schnabel et al., 1998; Weineck, 1998).
•
Probabile aumento del numero dei sarcomeri in serie (Tardieu e Tardieu, 1972 e
Golspink, 1985, citati da Cometti, 1995; Kurz, 1994; Cerullo, 1997).
•
Preparazione dell’apparato muscolo-scheletrico a movimenti intorno ai limiti
articolari.
•
Azione facilitante sulla circolazione capillare grazie all’effetto “spugna” (Mosca,
1994; Cerullo, 1997).
•
Rilassamento psico-fisico (Knebel et al., 1993; Anderson, 1994; Cerullo, 1997,
Balaskas e Stirk, 1998; Weineck, 1998).
•
Presa di coscienza del corpo e di tutte le sue parti (Knebel et al., 1993; Anderson,
1994; Cerullo, 1997; Balaskas e Stirk, 1998; Weineck, 1998).
Classificazione dei metodi di allungamento.
Generalmente si distinguono quattro grandi gruppi in cui le tecniche di stretching possono
essere classificate:
1. stretching dinamico;
2. stretching statico;
3. tecniche P.N.F;
4. stretching globale attivo.
Il primo gruppo si riferisce ad esercizi consistenti in contrazioni ripetitive dei muscoli
agonisti con conseguente allungamento degli antagonisti, quindi slanci, oscillazioni,
molleggi, ecc.; secondo Knebel et al. (1993) per questo gruppo non si può parlare
propriamente di stretching. Con il tempo questi esercizi sono stati sempre meno utilizzati a
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causa della potenziale pericolosità, data dallo stiramento repentino dei muscoli con
conseguente riflesso da stiramento (Fox et al.,1995; Bosco, 1990). Tuttavia, con i dovuti
accorgimenti, gli allungamenti dinamici possono essere eseguiti per conseguire scopi
altrimenti irraggiungibili (Cambone, 1993; De Santis et al., 1998) e per preparare l’apparato
locomotore a movimenti richiesti dalla prestazione. In base agli studi del professor Zito
(citato da Capanna, 2000) ripetuti esercizi di flessibilità dinamica con azione dell’agonista e
detensione riflessa dell’antagonista, permetterebbero di ottenere effetti sulla flessibilità più
efficaci degli esercizi passivi. Sapega et al. (1981, citati da Weineck, 1998) ritengono che
questi esercizi portino ad una flessibilità poco sviluppata e di breve durata, perché sarebbero
influenzati gli elementi elastici del muscolo senza raggiungere un cambiamento stabile delle
componenti plastiche. Secondo Hardy e Jones (1986) e De Vries (1962), citati da Bosco
(1990), il lavoro per ogni gruppo muscolare non dovrebbe superare i 30-36 secondi, mentre
per Capanna (2000) 3 o 4 movimenti per 2 o 3 volte consentono un incremento notevole a
breve termine.
Il secondo gruppo si riferisce al classico metodo introdotto dal professore di educazione
fisica americano Bob Anderson, che con il suo celebre libro “STRETCHING” contribuì alla
diffusione, soprattutto in Italia, di questa pratica (Cambone, 1993). L’esecuzione passa
attraverso una tensione rilassata e prolungata, che aumenta gradatamente. Si passa, infatti,
da una tensione “facile” della durata di 10-30 secondi, che serve ad abituare il muscolo alla
successiva tensione “di sviluppo”, che è appunto la parte principale dell’esercizio e che
permette l’effettivo incremento della flessibilità; dopo altri 10-30 secondi, la tensione viene
progressivamente diminuita per ritornare poi alla normalità evitando movimenti bruschi; il
singolo esercizio viene ripetuto due o tre volte (Anderson, 1994). Nel metodo Esnault le
caratteristiche dell’esercitazione sono le stesse, ma viene apportata una variante: prima di
eseguire l’allungamento si imprime un movimento rotatorio all’articolazione, che può essere
interno o esterno, per sfruttarne il meccanismo di rotazione, il quale consente un maggior
coinvolgimento di fibre muscolari (Carminati, Bozzetti, 1993).
Al terzo gruppo appartengono quegli esercizi di stretching più evoluti derivanti direttamente
dalla fisioterapia (Sölveborn, 1983) che utilizzano l’inibizione dei corpuscoli del Golgi data
dalla precedente contrazione isometrica, che deve durare almeno 6 secondi per generarla
(Sölveborn, 1983; Bosco, 1990; McAtee, 1996) e l’inibizione reciproca degli antagonisti.
Anche qui si distinguono alcune tecniche leggermente diverse tra loro (Schnabel et al.,
1998): ricordiamo la tecnica TRS (tension - relax - stretch) e la tecnica CHRS (contract -
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hold - relax - stretch). Queste metodiche sono caratterizzate dalla seguente procedura
(Sölveborn, 1983; Bosco, 1990; McAtee, 1996; Schnabel et al., 1998):
-
il raggiungimento di una posizione di leggero allungamento, nella quale effettuare una
contrazione isometrica contro una resistenza esterna per 10–30 secondi;
-
il rilassamento per 2-3 secondi;
-
l’allungamento passivo dei muscoli precedentemente contratti della durata di 10-30
secondi, con o senza la contemporanea contrazione degli antagonisti, che genererebbe
una inibizione reciproca (Bosco, 1990; Fox et al., 1995).
Per completezza è utile ricordare che a questo gruppo appartengono una grande varietà di
tecniche (che verranno di seguito soltanto elencate) che utilizzano delle combinazioni di
contrazioni isotoniche ed isometriche (Alter, 1988, 1996): repeated contractions, rhythmic
initiation, slow reversal, slow reversal-hold, rhythmic stabilization, contract-relax, holdrelax, slow reversal-hold-relax, agonistic reversal.
Figura 1 - Le tecniche PNF (tratto da Alter, 1988)
Riguardo queste tecniche è bene riportare alcuni studi che hanno evidenziato probabili
rischi. Moore e Hutton (1980) e Beaulieu (1981), citati da McAtee (1996), hanno rilevato
un’elevata attività elettromiografica del muscolo dopo la contrazione isometrica, che può
portare ad un rischio di lesione nella fase di allungamento. Mentre altre ricerche (Condon e
Hutton, 1987; Osternig et al., 1987), sempre riportate da McAtee (1996), hanno evidenziato
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un’attività elettromiografica del muscolo in allungamento quando viene contratto
contemporaneamente il muscolo antagonista (e ciò significa che ci sarebbe assenza
dell’inibizione reciproca). Cornelius nel 1983 (citato da McAtee, 1996) ha posto attenzione
sulla fase di contrazione isometrica, causa di un aumento di pressione con rischi di
ipertensione. Nel 1988, però, Cornelius e Hamm (citati da McAtee, 1996) hanno concluso
che l’aumento di pressione arteriosa rispetto al riposo non è significativa e quindi la breve
durata della contrazione durante questi esercizi può essere eseguita senza rischi da soggetti
ipertesi che non manifestino altri sintomi.
Il quarto gruppo comprende una metodica che negli ultimi anni sta riscuotendo molto
successo in ambito sia terapeutico che sportivo: lo stretching globale. Partendo dalla
differenziazione tra muscoli statici (tonici e fibrosi) e muscoli dinamici (poco tonici e con
poche fibre connettive), i propugnatori di questa tecnica, di cui Mézières è la caposcuola,
pongono l’accento sul fatto che i muscoli statici, che rappresentano i 2/3 della muscolatura
umana, non riposano mai perché sono antigravitari e permettono i movimenti correnti
(Souchard, 1995). Prevalentemente affaticati, i muscoli statici possono facilmente evolvere
verso l’accorciamento così che la loro rigidità può generare conseguenze quali
deformazioni, deviazioni o mancanza di ampiezza articolare. Per di più lo sport accentua
queste tendenze (Souchard, 1995). Poiché i muscoli statici sono organizzati in catene
muscolari, ogni stiramento localizzato (come avviene nelle tecniche tradizionali riportate
sopra) comporta una compensazione tramite accorciamento da parte di un altro punto
qualunque della catena muscolare. Invece, essa deve essere considerata come fosse un
elastico e quindi deve essere tirata dai due estremi. Perciò, “solo stiramenti globali, che
interdicono ogni compensazione, sono realmente efficaci. Bisogna elasticizzare i muscoli in
senso contrario alla loro fisiologia, essendo la trazione assiale più importante. Per evitare le
compensazioni in rotazione, in flessione laterale e le lesioni articolari che essi rischiano di
provocare, gli esercizi devono essere simmetrici.” (Souchard 1995). Le catene statiche
tendenti all’accorciamento che Souchard individua sono: la grande catena principale
posteriore, la catena superiore della spalla, la catena laterale dell’anca, la grande catena
principale anteriore, la catena antero-interna dell’anca, la catena antero-interna della spalla,
la catena anteriore delle braccia e la catena inspiratoria.
Infine, secondo questa tecnica lo stiramento deve essere prolungato (addirittura fino a 10
minuti ed oltre) per diminuire gradualmente la forza di trazione della catena muscolare
interessata, con una esecuzione delicata, dolce e progressiva (Souchard 1995).
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Figura 2 - Una delle principali posture di stretching globale per la grande
catena muscolare posteriore (tratto da Souchard, 1995)
Regole generali per l’esecuzione degli esercizi di stretching.
Gli esercizi di stretching possono essere eseguiti anche in maniera passiva grazie all’aiuto di
un partner o di attrezzi e posizioni particolari: in questo modo si può incrementare la
flessibilità passiva consentendo di aumentare la flessibilità di riserva (Manno et al., 1987;
Cambone, 1990, 1993; Weineck, 1998).
Quando si eseguono esercizi di allungamento bisogna tenere presente alcuni principi:
- allungare il muscolo lungo il suo asse di forza (Knebel et al., 1993);
- nel caso di stretching settoriale, se il muscolo da allungare è biarticolare bisogna fissare
una articolazione al limite ed agire su quella libera (Knebel et al., 1993);
- generalmente, in caso di stretching selettivo, più grande è il muscolo da allungare e
maggiore sarà il tempo da dedicarvi (Cerullo, 1997);
- se si eseguono esercizi in piedi, bisogna mantenere le gambe leggermente piegate per
evitare eccessive pressioni sulla colonna vertebrale (Cerullo, 1997);
- rispettare lo stato di funzionamento del muscolo in quel determinato momento (Weineck,
1998);
- rispettare una gradualità nell’aumento dell’intensità degli esercizi (Weineck, 1998; Paish,
2000);
- durante l’esecuzione degli esercizi evitare di trattenere il respiro, mantenendolo normale e
tranquillo (Balaskas e Stirk, 1998), oppure lento e profondo (Mosca, 1994; Cerullo, 1997). Il
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motivo delle affermazioni precedenti risiede nel fatto che una respirazione contratta provoca
un aumento involontario del tono muscolare;
- durante l’esecuzione di esercizi di allungamento statico non oltrepassare la soglia del
dolore, che è sintomo di eccessiva tensione (Anderson, 1994; Cerullo, 1997; Weineck,
1998);
- eseguire esercizi con calma e tranquillità, senza fretta (Cerullo, 1997);
- lavorare in modo alternato sui muscoli che incidono sulla prestazione del calciatore
(Weineck, 1998);
- per Bangsbo (1996) “un muscolo dovrebbe essere attivato prima e dopo essere stato
allungato”; inoltre la durata dovrebbe essere di 10 secondi di allungamento completo seguiti
da altri 10 secondi di ulteriore allungamento raggiunto lentamente;
- Mahel (1986, citato da Schnabel et al., 1998) consiglia di iniziare dai muscoli delle
estremità per poi passare ai muscoli del tronco, ed eseguire sequenze che prevedano
l’allungamento dell’agonista seguito da quello dell’antagonista, per prevenire o contrastare
gli squilibri muscolari.
Lavorare sulle catene o sui segmenti muscolari?
Negli ultimi anni la tendenza ad utilizzare gli esercizi di stretching globale per mettere in
allungamento intere catene muscolari si è sempre più diffusa. Le motivazioni per le quali si
dovrebbe lavorare con le posture sono state spiegate precedentemente, mentre in questa
sezione saranno riportate le ragioni addotte da alcuni autori contrari al lavoro in catena, che
sembrano essere convincenti. Secondo Cambone (1993) bisogna coinvolgere una
articolazione per volta per massimizzare l’intervento su di essa, poiché coinvolgendo più
articolazioni lavorerebbe comunque sempre un’articolazione più delle altre, e queste
verrebbero di conseguenza trascurate. Per Knebel et al. (1993) e Mosca (1994), invece, il
motivo per il quale non dovrebbe essere coinvolta una catena di articolazioni è che non
sarebbe rispettata la funzionalità dell’allungamento stesso perché, “nel caso di una
muscolatura “accorciata” in una determinata regione, potrebbero essere interessate le catene
articolari vicine; così l’effetto di allungamento che si vuole ottenere fondamentalmente
fallisce” (Knebel et al., 1993). Inoltre il muscolo accorciato, sul quale bisognerebbe lavorare
con più attenzione, sarebbe poco coinvolto perché gli altri muscoli si troverebbero più
disponibili ad essere allungati con conseguente azione di compenso (Weineck, 1998). Il
lavoro selettivo sarebbe più mirato con la conseguenza oltretutto di imparare a riconoscere le
sensazioni provenienti da ogni singolo muscolo (Mosca, 1994).
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Incremento e mantenimento della flessibilità.
Secondo Zito (in Castagna 1999) una eccessiva flessibilità non è detto che sia necessaria,
bisogna ricercare la flessibilità ottimale per la disciplina sportiva, nel nostro caso il calcio. I
benefici che ne derivano sono diversi:
•
Secondo Harre (1977), Weineck (1998) e Cambone (1990, 1993) la flessibilità serve
indirettamente per migliorare le altre qualità fisiche (Forza, Velocità, Resistenza).
Sull’incremento della velocità sono d’accordo anche Knebel et al. (1993).
•
Esecuzione accurata e precisa dei gesti tecnici (Weineck, 1998; Knebel et al. 1993). Nel
calcio bisogna migliorare la flessibilità dei seguenti muscoli e articolazioni che
intervengono nei gesti tecnici più frequenti (Weineck, 1998): colonna vertebrale e
muscolatura del bacino (finte e dribbling), articolazione tibio-tarsica (calci con il pieno
collo del piede), articolazione dell’anca (takle scivolati), muscoli adduttori della coscia e
articolazione dell’anca (tiri con movimento rotatorio dei fianchi), articolazione della
spalla, dell’anca e colonna vertebrale (per i gesti tecnici del portiere).
•
Economia nel movimento (Knebel et al., 1993) con conseguente risparmio energetico.
•
Protezione dalle sollecitazioni eccessive degli elementi passivi dell’articolazione, con
conseguente prevenzione di traumi (Knebel et al., 1993).
•
Compenso delle retrazioni muscolari che sono inevitabili nei distretti più sollecitati dal
gioco del calcio (Moreau e Le Bivic, 1998). Questi muscoli che tendono
all’accorciamento sono (Weineck, 1998; Cuzzolin, 2000): il pettorale, la parte superiore
del trapezio, la parte inferiore dell’erettore spinale, il quadrato dei lombi, gli adduttori
della coscia, i flessori dell’anca, in particolare l’ileo-psoas, gli estensori ed i flessori del
ginocchio ed il tricipite surale.
Dal risultato di alcuni studi le tecniche di stretching PNF risulterebbero più efficaci per
l’incremento della flessibilità (Cambone, 1990; Cacchi e coll., 1991; Einsingbach et al.,
1990), anche se hanno gli inconvenienti di avere una durata maggiore delle altre e di non
essere facilmente eseguibili. McAtee (1996) mette in evidenza che il 57% degli studi da lui
analizzati conferma che, con le tecniche PNF si ottengono miglioramenti sulla flessibilità
superiori rispetto alle altre tecniche. Lo stesso McAtee (1996), però, riporta che alcune
ricerche hanno osservato che per quanto riguarda lo stretching PNF, pur ottenendo risultati
positivi, non sarebbero migliori di quelli ottenuti con gli altri metodi.
Per Knebel et al. (1993) i metodi di rilassamento post-isometrico e i tipi di allungamento
passivo, essendo più intensi, sarebbero più efficaci per incrementare la flessibilità o
eliminare una muscolatura contratta, mentre per il mantenimento andrebbero bene anche gli
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esercizi di stretching statico (comprendendo in quest’ultimo caso anche lo stretching
globale).
Per quanto riguarda il tempo di esecuzione necessario per ottenere l’incremento della
flessibilità bisogna tener presente che esso varia in base alla tecnica utilizzata, ma
soprattutto all’obiettivo da perseguire ed alla situazione contingente in cui ci si trova ad
operare. Per ottenere un guadagno temporaneo di escursione basta eseguire tre-cinque
ripetizioni (Wiemann, 1994, Wydra et al., 2000, citati da Wiemann e Klee, 2000).
Ugualmente Zito (in Castagna, 1999) afferma che quattro ripetizioni al 70% dell’intensità
sono sufficienti per determinare un miglioramento temporaneo della flessibilità. Dordel
(1975, citato da Knebel et al., 1993) sostiene che più è il tempo di applicazione
dell’allungamento, più persiste l’allungamento residuo (= stato di allungamento che
permane nel muscolo appena tornato allo stato di riposo dopo uno stiramento efficace).
Secondo gli studi di Roberts et al. (citato da Tornese et al., 2000) tre allungamenti di 15
secondi ciascuno sono più efficaci sull’anca e sul ginocchio rispetto a nove allungamenti di
5 secondi. Per Schnabel et al. (1998) per ottenere incrementi della flessibilità bisogna
effettuare un allenamento concentrato, possibilmente due volte al giorno, di non meno di 13
minuti. Invece, secondo Capanna (2000) e Zito (in Castagna, 1999), per ottenere
miglioramenti duraturi sulla flessibilità la stimolazione deve essere prolungata e ripetuta nel
tempo: l’intervento su ogni muscolo deve durare per più di 30’’ da ripetere 5 o 6 volte
all’interno di una stessa seduta, per 3 volte a settimana per 5/6 settimane. Per Weineck
(1998) i calciatori hanno bisogno di 6 settimane per raggiungere la flessibilità necessaria per
iniziare l’allenamento, quindi è bene iniziare un programma di stretching nel precampionato per proseguire con il mantenimento durante la stagione agonistica (Weineck,
1998). Platonov (1996) ritiene che per ottenere miglioramenti della flessibilità servono 3 o 4
sedute settimanali, mentre 1 o 2 sono insufficienti. Le sedute distanziate tra loro più di 48-72
ore, cioè eseguite ogni 2 o 3 giorni, servono solo per il mantenimento e non per l’incremento
della flessibilità (Vago, 1997). Inoltre, per il mantenimento della flessibilità, Schnabel et al.
(1998) consigliano di eseguire almeno una seduta specifica a settimana oltre ai consueti
allungamenti durante le fasi di riscaldamento e di defaticamento.
Presa di coscienza del proprio corpo.
Lo stretching, che trae origine da discipline orientali volte alla spiritualità e all’armonia col
corpo, consente di concentrarsi su di esso con calma ed in tranquillità. È possibile, tramite
questo tipo di ginnastica, imparare a percepire i propri muscoli e le sensazioni che ne
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provengono migliorando la conoscenza di se stessi e delle proprie potenzialità (Knebel et al.,
1993; Mosca, 1994; Alter, 1996; Mazzali e Bacconi, 1996).
Prevenzione degli infortuni.
Ekblom (1994) afferma che la flessibilità protegge contro il rischio di infortuni nel calcio,
mentre Weineck (1998) aggiunge che con esercizi di flessibilità è possibile prevenire
processi degenerativi delle articolazioni. Per molti autori la flessibilità rappresenta una
buona profilassi agli infortuni di carattere muscolo-tendineo-legamentoso (Harre, 1977;
Sölveborn, 1983; Mahel, 1986, Brenke et al.1986, Mahel, 1987, citati da Manno et al., 1987;
Anderson, 1994; Gerish, 1986, Bönisch e Steinbach, 1990, citati da Weineck, 1998;
Cambone, 1993; Carminati e Bozzetti, 1993; Moreau e Le Bivic, 1998). Weineck (1998)
riferisce che molti studi dimostrano questo rapporto. Invece, secondo Zito (in Castagna,
1999) ed anche altri autori (Kujala e coll., Hartig e coll., Best e coll., citati da Tornese et al.,
2000) la relazione tra prevenzione degli infortuni e flessibilità non è scientificamente
provata, infatti, negli ultimi anni i dati provenienti dalla biologia e dalla teoria
dell’allenamento vanno in questa direzione. Staley et al. (1991) affermano che uno
stretching aggressivo può causare dei microtraumi, e ciò è inevitabile se lo scopo è la ricerca
del miglioramento della flessibilità. La tensione passiva degli elementi elastici in serie del
muscolo (integrina, distrofina, titina, ecc.) durante un allungamento estremo è paragonabile,
ed a volte anche superiore, alla tensione passiva che c’è durante la contrazione isometrica
massima volontaria (Wiemann, 1994 citato da Wiemann e Klee, 2000). Quindi, lo stretching
eseguito fino ai limiti articolari rappresenta un carico eccessivo per le strutture muscolari
passive. Secondo Smith et al. (1993, citati da Wiemann e Klee, 2000) con l’allungamento
muscolare (sia statico che dinamico) si può generare un dolore muscolare tardivo. Sembra
perciò che lo stretching generi microtraumi sulle miofibrille simili a quelli derivanti da
esercitazioni di forza. Inoltre, le tensioni che subiscono gli elementi passivi del muscolo
durante un allungamento intensivo, tendono ad aumentare sempre di più perché di
ripetizione in ripetizione ci si abitua al dolore muscolare. Si rischia così di oltrepassare i
limiti della capacità di carico delle strutture passive provocando dei microtraumi nel
muscolo (Wiemann e Klee, 2000). Secondo Capanna (2000) le stimolazioni in allungamento
prolungate e ripetute, necessarie per ottenere uno stabile miglioramento della flessibilità
generano, a livello inconscio nel sistema nervoso, delle informazioni anomale verso il
muscolo e che, se sono seguite da esercitazioni tecniche o atletiche, possono causare delle
risposte involontarie ostacolanti la perfetta sincronizzazione fra contrazione e rilassamento.
Di conseguenza, come afferma anche Zito (in Castagna, 1999), se questi allungamenti non
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sono inseriti in un sistema di allenamento adeguato, rischiano di provocare infortuni anziché
prevenirli.
Stretching “a freddo” o “a caldo”?
Secondo Souchard (1995) lo stretching andrebbe fatto senza riscaldamento per ottenere un
allungamento duraturo, quindi efficace. Secondo lo studioso francese, infatti, il muscolo
riscaldato aumenterebbe temporaneamente il suo coefficiente di elasticità che, in base alla
sua formula di deformabilità (allungamento guadagnato dopo la trazione = forza dello
stiramento / coefficiente di elasticità x tempo) porterebbe si ad un allungamento, ma non
definitivo. Anche Knebel et al. (1993) ammettono un preriscaldamento con esercizi di
allungamento a muscolatura fredda, consigliando però di utilizzare un approccio graduale e
di controllare bene le tecniche di esecuzione. Alter (1996), invece, afferma: “Lo stretching
dovrebbe essere sempre preceduto da un periodo di riscaldamento”. Effettivamente, molti
autori sostengono che l’allungamento debba essere effettuato dopo una fase di riscaldamento
generale attivo perché questa diminuirebbe la tendenza a lesionarsi da parte del muscolo e
del tessuto connettivo; inoltre permetterebbe di ottenere risultati ottimali sulla flessibilità,
dovuta ad una deformazione proprio del tessuto connettivo favorita dall’innalzamento della
temperatura tessutale (Beaulieu, 1980, Shellock, 1983, citati da Manno et al., 1987; Pombo e
Da Silva Pina Da Morais, 1997; Cerullo, 1997; Zito in Castagna, 1999). Si può
effettivamente constatare che un allungamento “a caldo”, con le strutture muscolo-tendineearticolari che oppongono minore resistenza (per la produzione di liquido sinoviale, per la
diminuzione della viscosità muscolare conseguente all’innalzamento della temperatura
corporea e alla conseguente liquefazione del sarcoplasma, per la diminuzione della viscosità
dei tessuti connettivi muscolo-scheletrici, per l’aumento della circolazione periferica),
consente un allontanamento maggiore dei capi articolari e delle inserzioni muscolari, con
conseguente incremento dell’allungamento e contemporanea deformazione delle strutture
limitanti la flessibilità.
Riscaldamento e stretching.
Secondo Sternard (riportato da Cambone, 1993), lo stretching sarebbe valido come forma di
riscaldamento, probabilmente perché facilitando la circolazione sanguigna a livello
periferico consente un aumento della temperatura e del metabolismo locale. La maggior
parte degli autori, però, crede, come Cambone (1993) che lo stretching vada fatto a muscolo
caldo come integrazione del riscaldamento. Secondo Tornese et al. (2000) gli esercizi di
allungamento, insieme ad un riscaldamento globale, ottimizzano le condizioni fisiche e
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biochimiche del tessuto muscolare prima di un allenamento, una gara o una sessione di
riabilitazione. Per Knebel et al. (1993) sarebbero più efficaci, durante il riscaldamento,
stimoli di allungamento moderati e ripetuti anziché esagerati in intensità e in modalità di
esecuzione. Infatti, uno stretching intensivo nel riscaldamento rischia di avere effetti opposti
a quelli che generalmente si ricercano, ossia, invece di migliorare la prestazione e diminuire
l’incidenza di infortuni, peggiora la prestazione e aumenta la probabilità di incorrere in
infortuni (Weimann e Klee, 2000). Per Bangsbo (1996) andrebbero fatti leggeri esercizi di
stretching durante il riscaldamento al termine di ogni step, con una durata di pochi secondi
ad esercizio e di non più di due minuti per blocco. Secondo Bangsbo (1996) allungare i
muscoli freddi aumenterebbe il rischio di infortuni, quindi consiglia l’esecuzione di un
programma completo solo al termine del riscaldamento, oppure nel defaticamento.
Infine, osservazione molto importante, secondo Martin et al. (1997) anche gli esercizi di
stretching che si eseguono durante il riscaldamento dovrebbero tener conto degli obiettivi
della seduta di allenamento.
Recupero attivo e stretching.
L’utilizzo dello stretching nel defaticamento e nelle sedute di recupero attivo nel calcio
sembra un fatto ormai assodato. Soltanto alcuni autori citati ma non specificati da Cambone
(1993) sembra siano contrari. Il resto della letteratura sembra essere favorevole adducendo
anche diverse motivazioni. Bangsbo (1996) afferma che andrebbe effettuato stretching come
parte integrante del defaticamento per allungare i muscoli coinvolti nella precedente attività
ed evitare così un accorciamento permanente; inoltre, sempre secondo Bangsbo, in questa
fase, il programma di stretching dovrebbe essere completo poiché i muscoli sono “caldi” e
non ci sarebbe rischio di infortunio. Anche Zito (in Castagna, 1999) e Sapega et al. (1981,
citati da Alter, 1988, 1990), per lo stesso motivo ritengono che il momento migliore per
effettuare esercizi di stretching volti al miglioramento della flessibilità debbano essere
eseguiti subito al termine della seduta di allenamento quando la temperatura corporea è
ancora alta. Anche Capanna (2000) concorda, ma per un altro motivo: poiché gli esercizi di
stretching potrebbero disturbare la motricità, dovrebbero essere eseguiti in altri momenti
della giornata, e se ciò non è possibile, in alternativa è preferibile eseguirli al termine della
seduta di allenamento.
Un’altra valida motivazione a sostegno dell’esecuzione dello stretching nel defaticamento, è
che contribuirebbe ad un più veloce smaltimento degli elementi tossici grazie all’azione
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facilitante sulla circolazione capillare periferica (Mosca, 1994; Alter, 1988, 1996; Cerullo,
1997; Moreau e Le Bivic, 1998).
Staley et al. (1991) e Wirhed (1992) ritengono che uno stretching effettuato con una bassa
tensione ridurrebbe il DOMS (dolore muscolare tardivo); a supporto di questa tesi ci sono
diversi studi tra cui quello sperimentale di Kokkinidis et al. (1998). Contrariamente, la
sperimentazione di Buroker e Schwane (1989) non ha rilevato alcun effetto benefico dello
stretching statico sul DOMS, né immediato né dopo i tre giorni seguenti.
Molti autori (ad es. Alter, 1988, 1996 ; Weineck, 1998), poi, sostengono che durante il
defaticamento lo stretching faciliti il rilassamento muscolare; Knebel et al. (1993)
aggiungono che lo stretching serve, oltre che per un rilassamento muscolare, anche per un
rilassamento psichico (riduzione delle varie emozioni, della spossatezza fisica e della
sensazione di vuoto).
Anche Harre (1977) e Weineck (1998) affermano che lo stretching è importante nel
defaticamento, però consigliano di evitare allenamenti di flessibilità dopo sforzi fisici
prolungati che abbiano determinato uno stato di affaticamento muscolare, poiché in questi
casi viene abbassata la sensibilità dei fusi neuromuscolari. Al contrario, Einsingbach et al.
(1990) consigliano di eseguire esercizi di stretching dopo un duro allenamento anaerobico.
Bisogna aggiungere che non tutte le tecniche di stretching si prestano alla rigenerazione
muscolare. Shobert et al. (1990, in Weineck, 1998) consigliano un’alternanza di 10 secondi
di allungamento e 10 secondi di rilassamento favorendo così l’afflusso sanguigno nel
muscolo e di conseguenza il metabolismo locale, contrariamente ad una tensione “di
sviluppo” che rischierebbe di ischemizzare il muscolo affaticato.
Nelle sedute defaticanti del giorno dopo la gara, lo stretching è considerato uno degli
elementi fondamentali del lavoro, naturalmente inserito organicamente in un allenamento
attentamente organizzato (Pincolini, 1996, 2001; Costantino, 2001).
Stretching e forza.
Spesso la flessibilità e la forza vengono messe in contraddizione, ritenendo l’una un fattore
limitante per l’altra. Secondo Harre (1977), però, l’incremento di massa muscolare non
danneggia la flessibilità purchè anche questa venga allenata. Soltanto in casi estremi (che
non sono pertinenti al calcio) ciò si può verificare. A sostegno delle affermazioni di Harre,
Schmitt et al. (1998) hanno visto che in calciatrici di elite, combinando esercizi di stretching
e di pesi, si possono migliorare contemporaneamente la flessibilità e la forza. Quindi, il
problema non è di escludere l’una o l’altra capacità, ma di come organizzarle in modo
efficace. Le teorie, in questo caso sono piuttosto contrastanti.
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Sul fatto che lo stretching vada o meno eseguito prima di sedute di forza, ci sono teorie e
studi sperimentali sia a favore che contro. Güllich (1996) e Güllich e Schmidtbleicher
(2000), citati da Wiemann e Klee (2000), hanno trovato che dopo un programma di
stretching statico, perdurava per 30 minuti una diminuzione della prestazione nel drop jump.
Anche prima di sedute di allenamento per la forza reattiva-elastica Cacchi e coll. (1991)
sconsigliano di eseguire stretching: Fucci e Carminati (1998) hanno provato a spiegarne il
perché con il fatto che nello stretching vengono attivati i corpuscoli tendinei del Golgi, che
negli esercizi di forza reattiva-elastica dovrebbero rimanere sopiti il più possibile. Al
contrario Wilson et al. (1992), con la loro sperimentazione, hanno ottenuto dei risultati che
indicano che l’allenamento della flessibilità ha l’effetto di ridurre la stiffness degli elementi
elastici in serie, con conseguente aumento di riuso elastico nel ciclo stiramentoaccorciamento. Ma gli stessi Cacchi e coll. (1991), citando Asmussen (1976), ritengono che
un muscolo non riscaldato abbia una tenuta più lunga nei ponti actomiosinici con una
conseguente maggiore energia elastica; infatti, dalla loro ricerca il riuso di energia elastica
diminuiva se precedentemente era stato eseguito dello stretching. Fowles et al. (2000) hanno
trovato che un gruppo muscolare (in questo caso i flessori plantari) sottoposti a stretching
passivo prolungato, diminuisce per più di un’ora i livelli di forza volontaria. Anche Staley et
al. (1991) sostengono che lo stretching statico potrebbe abbassare temporaneamente i livelli
di forza statica, quindi sarebbe sconsigliato prima di esercizi con sovraccarichi. Invece, in
uno studio di Worrel et al. (citati da Tornese et al., 2000) si è visto che l’incremento di
flessibilità degli ischio-peroneo-tibiali (che però non era statisticamente significativo)
ottenuto con lo stretching passivo o con il metodo PNF era correlato con un incremento del
picco di momento di forza nei test isocinetici in eccentrico a 60° e 120° /sec e in concentrico
a 120° /sec.
Per quanto riguarda l’esecuzione durante le sedute di forza, le motivazioni contrarie sono le
stesse precedentemente esposte, oltre al fatto che l’affaticamento abbassa la sensibilità dei
fusi neuromuscolari (Harre, 1977; Weineck; 1998) e quindi eseguendo l’allungamento si
rischia di stirare oltre i limiti le componenti muscolari passive e di determinare così un
carico eccessivo che si andrebbe ad aggiungere a quello specifico della seduta. Altri autori
invece sostengono, per vari motivi e con diverse tipologie, l’esecuzione dello stretching
durante allenamenti di forza. Cambone (1993) lo consiglia durante le pause di lavoro per
integrare la parte del riscaldamento. Cerullo (1997) lo consiglia durante le pause di
esercitazioni pliometriche, di forza in generale, di resistenza e di velocità per permettere un
recupero attivo. Platonov (1996) afferma che è importante alternare esercizi di stretching ad
esercizi che hanno altri obiettivi, particolarmente per la forza, perché permettono di
16
aumentarne l’efficacia. Per Cometti (1995) lo stretching andrebbe eseguito all’interno delle
esercitazioni di forza, ed anche Bellotti e Matteucci (1999) ritengono che gli esercizi di
stretching siano molto importanti all’interno delle sedute per la forza con sovraccarichi.
Egger (1994) addirittura ha elaborato una particolare esercitazione in cui vengono sviluppate
contemporaneamente la forza e la flessibilità tramite l’alternanza di stretching ed esercizi
con sovraccarico. I principi a cui si ispira sono:
- necessità di sviluppare gli agonisti e gli antagonisti per rafforzare la propriocettività
muscolare;
- necessità di stirare il muscolo per ottenere il suo rafforzamento;
- migliore capacità di stiramento del muscolo affaticato;
- favorevole rafforzamento dell’agonista quando l’antagonista viene stirato.
L’allenamento prevede una prima fase in cui si allunga il muscolo antagonista, poi una
seconda fase in cui l’agonista lavora, in seguito nella terza fase l’agonista viene stirato e
nella quarta fase lavora l’antagonista: alla fine il ciclo si ripete di nuovo.
Infine, sullo stretching eseguito dopo sessioni di forza, Fucci e Carminati (1998) sono
d’accordo per 4 motivi: viene pompato più sangue nei muscoli affaticati e svuotati, viene
abbassato il tono muscolare, si riduce la pressione sulle articolazioni e sull’apparato
scheletrico e vengono attivati i corpuscoli tendinei del Golgi, che di conseguenza
permettono al muscolo di rilassarsi. Invece, Souchard (1995) e Weineck (1998) lo
consigliano per evitare la tendenza all’accorciamento.
Stretching e giovani calciatori.
Di fronte ad un giovane calciatore ci si può chiedere se sia consigliabile o meno proporgli
esercitazioni di stretching. Si ha il dubbio se ce ne sia la necessità, se sia adeguato proporre
esercizi che contrastano con la dinamicità del giovane o se possano sortire effetti positivi.
Harre (1977) afferma che la flessibilità deve essere migliorata (con esercizi di stretching)
nell’età infantile e giovanile perché a queste età è particolarmente favorevole. Anche
Sermeev (1966, citato da Alter, 1996) ha osservato che il maggior incremento della
flessibilità avviene tra i 7 e i 15 anni. Se ci si lavora precocemente, poi nell’età adulta servirà
solo mantenerla. Inoltre con l’utilizzo dello stretching si cerca di compensare gli squilibri
dovuti alla pratica sportiva che nell’età evolutiva possono creare seri danni in prospettiva
futura (Mosca, 1994). Bisogna ricordarsi, però, che lo scheletro dei giovani non è ancora
maturo, perciò bisogna utilizzare non esercitazioni riconducibili specificatamente al calcio,
ma che abbiano un effetto generalizzato per una crescita globale e armonica di tutto il corpo.
Knebel et al. (1993) danno alcuni principi da seguire:
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- esecuzione corretta degli esercizi;
- utilizzazione di esercizi corretti ed efficaci;
- cura parallela della flessibilità e della forza (quest’ultima sempre con i dovuti accorgimenti
del caso);
- utilizzo di tutti i sistemi persuasivi per far eseguire queste esercitazioni che risultano poco
divertenti per i giovani;
- Weineck (1998) consiglia esercizi con gli attrezzi e sconsiglia quelli a coppie che
potrebbero causare danni, poiché non si è ancora in grado di imprimere le giuste tensioni;
- la flessibilità non aumenta ugualmente in tutti i sistemi articolari: di ciò bisogna tener
conto per organizzare l’allenamento di flessibilità per i giovani (Manno, 1989; Weineck,
1998).
Nell’infanzia possono essere eseguiti esercizi di flessibilità dinamica, perché il rischio di
infortuni è basso (Weineck, 1998). Inoltre, fino a 10 anni l’allenamento può essere a
carattere generale (Weineck, 1998). Poi la flessibilità comincia a decrescere dopo l’infanzia
(già dal decimo/dodicesimo anno di età secondo Knebel et al., 1993), quindi è bene
cominciare a porre attenzione alle esercitazioni di stretching per contrastare questa tendenza,
lavorandoci anche solo per mantenerla (Cambone, 1990). Secondo Weineck (1998) dai 1416 anni lavori di stretching statico possono entrare sistematicamente a far parte
dell’allenamento calcistico, con una intensificazione degli stessi dopo i 16 anni. Ciò diventa
importante se si tiene conto che la pratica del calcio favorisce l’accorciamento di alcuni
muscoli specificamente sollecitati. Si è visto, comunque, che per calciatori giovani sani, tre
allenamenti di stretching a settimana bastano per evitare gli accorciamenti muscolari
(Weineck, 1998).
Test.
I test per valutare la flessibilità sono molteplici, provenienti o dall’ambito fisioterapico o
dalla pratica del campo o da studi specifici. Di seguito verranno presi in considerazione
alcuni test che possono fornire informazioni utili e che allo stesso tempo abbiano una certa
praticità nell’ambito calcistico.
•
Seat & reach: il soggetto è seduto con le gambe tese e unite. Flettendo il busto
avanti, con le braccia tese si deve portare la punta delle dita delle mani verso la
punta delle dita dei piedi (Marella, Risaliti, 1999). Questo test può dare un risultato
numerico se viene eseguito con l’apposito strumento di rilevazione graduato, oppure
18
si possono trarre delle indicazioni sugli eventuali blocchi a diversi livelli lungo la
catena muscolare posteriore.
Figura 3 - Diversi atteggiamenti che possono essere
assunti durante l'esecuzione del seat & reach (tratto da
Weineck, 1998)
•
Test per i flessori dell’anca (Marella, Risaliti, 1999): il soggetto si posiziona su un
tavolo in posizione supina (annullando le curve fisiologiche), con una gamba che
fuoriesce. Flettere l’altro arto inferiore aiutandosi con le mani poste sulla parte
posteriore della coscia. Il soggetto può aderire perfettamente al piano con la gamba
perpendicolare al tavolo nel caso di normalità (figura 4), può sollevare la coscia
(figura 5) evidenziando una retrazione dell’ileo-psoas, oppure, con la coscia aderente
al tavolo, può sollevare la gamba (figura 6) evidenziando una retrazione del retto
femorale.
19
Figura 4 - Situazione di normalità (tratto da Weineck, 1998)
Figura 5 - Accorciamento dell'ileo-psoas (tratto da Weineck, 1998)
Figura 6 - Accorciamento del retto femorale (tratto da Weineck, 1998)
•
Test per la flessibilità degli ischio-crurali (Marella, Risaliti, 1999): il soggetto si
dispone in posizione supina su un piano di appoggio. Mentre l’esaminatore con una
mano tiene fermo un arto inferiore allungato sul piano, con l’altra mano porta l’altro
arto allungato verso l’alto, con il gluteo in appoggio. L’arto può essere portato fino a
90° (caso di buona funzionalità muscolare) oppure, a seconda della retrazione dei
muscoli ischio-crurali, si può bloccare ad un angolo intermedio.
20
Figura 7 - Test per gli ischio-crurali (tratto da Weineck, 1998)
•
Test di divaricazione degli arti inferiori (Cambone, 1993): il soggetto è seduto a terra
con il busto appoggiato ad una parete. Si divaricano gli arti inferiori al massimo
grado. Anche in questo caso possono essere prese delle misurazioni numeriche (in
centimetri misurando la distanza tra i due malleoli interni, oppure in gradi valutando
l’angolo di apertura con un goniometro o un compasso) oppure si possono trarre
delle valutazioni sul grado di apertura più o meno accentuato.
Figura 8 - Test di divaricazione degli arti inferiori (tratto da Cambone, 1993)
21
•
Squat test: questa è una batteria di test elaborata da Cuzzolin (2000), nella quale il
soggetto esegue dei movimenti di squat con posizioni variate degli arti superiori. In
base ai movimenti di compenso che avvengono durante ogni esecuzione, si
individuano i punti di maggiore tensione sui quali sarà necessario lavorare. La
valutazione è dinamica e non permette di ricavare dati numerici.
Figura 9- Squat test (tratto da Cuzzolin, 2000)
Una proposta pratica.
Di seguito si tenterà di offrire una proposta applicativa per lo stretching del calciatore,
tenendo conto quanto più possibile della realtà pratica e di quanto esposto finora.
•
Cercare di individualizzare il più possibile gli esercizi in base alla morfologia del
giocatore, alle caratteristiche muscolari, al ruolo che ricopre, alle caratteristiche di
gioco, alla mentalità, all’età e alla storia degli infortuni, dopo un’attenta analisi
funzionale.
•
Tenere presente quali sono i muscoli e le articolazioni maggiormente sollecitati dal
gioco del calcio: il pettorale, la parte superiore del trapezio, la parte inferiore
dell’erettore spinale, il quadrato dei lombi, gli adduttori della coscia, i flessori
dell’anca, in particolare l’ileo-psoas, gli estensori ed i flessori del ginocchio, il
tricipite surale, l’articolazione della caviglia, del ginocchio, dell’anca, della spalla
(per il portiere) e la colonna vertebrale.
22
•
Richiedere sempre la massima concentrazione e tranquillità quando si eseguono
esercizi di stretching.
•
Eseguire facoltativamente esercizi di stretching statico non intenso “a freddo”, prima
dell’allenamento o della partita.
•
Eseguire 4 o 5 esercizi di stretching submassimale durante il riscaldamento, al
termine di ogni step; iniziare con esercizi statici e terminare con esercizi dinamici.
•
Eseguire esercizi di stretching statico nel defaticamento post-allenamento o postpartita, con intensità submassimali della durata di una decina di secondi con
altrettanto tempo di recupero ed esecuzione ripetuta dello stesso esercizio; nel caso
di lavoro molto intenso richiedere una minore intensità di esecuzione o evitare di
eseguire esercizi di stretching.
•
Effettuare delle sessioni dedicate allo stretching della durata di 20 – 30 minuti (ed
anche oltre) preferibilmente il giorno dopo la partita o dopo un allenamento
particolarmente intenso: almeno una volta la settimana. Eseguire esercizi di
stretching statico passivo, le tecniche PNF (in particolare la TRS) e le posture di
stretching globale alla massima intensità (preceduti da un adeguato riscaldamento),
quando di seguito si prevedono lavori blandi (ad esempio lavori tecnico tattici a
bassa intensità in cui sia impegnato più il cervello che i muscoli).
•
Evitare lo stretching prima di intense esercitazioni per la forza, in particolare di forza
esplosiva e forza rapida.
•
Nel precampionato far apprendere ai giocatori le posture di stretching globale e
lavorare sullo tecniche PNF.
•
Utilizzare con moderazione lo stretching passivo.
•
Creare una cultura per la quale lo stretching entri a far parte della vita quotidiana.
23
Conclusione.
Questo lavoro ha cercato di prendere in considerazione i vari aspetti dello stretching con i
suoi risvolti nel calcio, cercando di evidenziare la non uniformità delle proposte che
provengono dalla letteratura. È molto probabile che ancora molti contributi si possano dare
in questo campo, e molti anche nell’ambito del gioco del calcio, dove spesso non viene
attribuito un grande peso a questo tipo di esercitazioni. Proprio per questo motivo c’è
bisogno di ottimizzare il contributo che può derivare dalla pratica dello stretching per il
calciatore, perché nel poco tempo a disposizione che vi si può dedicare, si deve ottenere il
massimo vantaggio possibile. Proprio in questo senso, probabilmente, dovranno andare i
futuri approfondimenti sull’argomento.
24
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