Le emozioni (pdf - 5 Mb) - Trattamento Posturale Mezieres

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INDICE
1. Le emozioni
1.1 La classificazione delle emozioni
6
1.2 Piccola storia delle ricerche sulle emozioni
9
1.3 Neurofisiologia delle emozioni
13
1.3.1 Il circuito di Papez
13
1.3.2 Sistema limbico
15
1.3.3 La messa in discussione del sistema limbico
18
1.3.4 Il meccanismo della paura
19
1.3.5 Ricordi emotivi
20
1.3.6 Il cervelletto
25
1.3.7 Cenni sulla specializzazione emisferica
30
1.3.8 La riscoperta di Wiliam James
33
1.4 Emozioni di fondo e umore
36
1.5 Ruolo dei sentimenti nell’omeostasi
38
1.6 Il controllo delle emozioni
41
1.7 L’empatia
42
Bibliografia
111
2
Il potere deriva dalla conoscenza, che è sempre una
comprensione incompleta dell’ordine naturale, ma è
incompleta perché continuiamo ad acquisire nuova
conoscenza che necessariamente cambia e può perfino
contraddire le nostre idee precedenti.
Alexander Lowen
3
1. Le emozioni
1.1
La classificazione delle emozioni
Tutte le emozioni sono, essenzialmente, impulsi ad agire; in altre parole,
piani d’azione dei quali ci ha dotato l’evoluzione per gestire in tempo reale le
emergenze della vita. La radice stessa della parola emozione è il verbo latino
moveo, (muovere), con l’aggiunta del prefisso e – (movimento da), per
indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. Il fatto che
le emozioni spingano all’azione è ovvio soprattutto se si osservano gli
animali o i bambini; è solo negli adulti “civili” che troviamo tanto spesso
quella che nel regno animale si può considerare una grande anomalia, ossia
la separazione delle emozioni (che in origine sono impulsi ad agire),
dall’ovvia reazione corrispondente.
Vi sono centinaia di emozioni con tutte le loro mescolanze, variazioni,
mutazioni e sfumature. I ricercatori continuano a discutere su quali
precisamente possano essere considerate le emozioni primarie – o perfino
sull’esistenza di tali emozioni primarie.
Primo che si è accorto che espressioni facciali specifiche (paura,
disgusto, tristezza, gioia, sorpresa, rabbia), sono riconosciute in ogni
cultura del mondo è stato Darwin.1
Fig.1.1.1: Alcune espressioni facciali universali
4
Gli studi effettuati da Paul Ekman, della University California di San
Francisco, in Nuova Guinea, hanno confermato questo aspetto. Comunque,
Ekman non dice che le espressioni delle emozioni elementari si somigliano
tutte; anzi sottolinea che perfino le espressioni facciali universali possono
essere cancellate, attutite o amplificate da fattori appresi, e perfino
mascherate da altre emozioni. Usa il termine regole dell’esibizione per
rimandare alle convenzioni, norme e abitudini che le persone sviluppano per
gestire le espressioni delle emozioni. Le regole dell’esibizione specificano
chi può mostrare quale emozione a chi, quando e in quale misura. Per
Ekman, il concetto di emozioni elementari spiega la somiglianza delle
espressioni tra gli individui e le culture, e le regole dell’esibizione spiegano
molte differenze.2
Alcuni teorici propongono famiglie emozionali fondamentali, anche se
non tutti concordano nell’identificarle. Ecco i candidati principali e alcuni
membri delle loro famiglie:
• Paura: ansia, timore, nervosismo, preoccupazione, apprensione,
cautela, esitazione, tensione, spavento, terrore, e come stato
psicopatologico, fobia e panico.
• Collera: furia, sdegno, risentimento, ira, esasperazione,
indignazione, irritazione, acrimonia, animosità, fastidio, irritabilità,
ostilità, e forse al grado estremo, odio e violenza patologici.
• Tristezza: pena, dolore, mancanza d’allegria, cupezza,
malinconia, autocommiserazione, solitudine, abbattimento,
disperazione, e in casi patologici, grave depressione.
• Gioia: felicità, godimento, sollievo, contentezza, beatitudine,
diletto, divertimento, fierezza, piacere sensuale, esaltazione, estasi,
gratificazione, soddisfazione, euforia, capriccio, e al limite estremo,
entusiasmo maniacale.3
Ho scelto di illustrare brevemente la teoria di Plutchik sulla miscela
emotiva, principalmente per il fatto che può essere illustrata graficamente.
La teoria di Plutchik sulla miscela emotiva, immagina le emozioni come
dei colori elementari, disposti su un cerchio, che nel mischiarsi ne producono
di nuovi. Ogni emozione elementare occupa uno spicchio del cerchio, e due
spicchi che si fondono sono chiamati diadi. Quando si fondono due emozioni
adiacenti, si tratta di diadi del primo ordine; se si fondono due emozioni
separate da una terza, si tratta di diadi di secondo ordine, e cosi via.4
5
Fig.1.1.1: La teoria di Plutchik delle emozioni di base e derivate
Alcuni esempi:
• Diadi primarie (miscela di emozioni adiacenti)
- gioia + accettazione = amore
- paura + sorpresa = spavento
• Diadi secondarie (miscela di emozioni separate da una terza)
- gioia + paura = senso di colpa
- tristezza + paura = risentimento
• Diadi terziarie (miscela di emozioni separate da una terza)
- gioia + sorpresa = delizia
- anticipazione + paura = ansia
Più sono distanti due emozioni elementari, e meno sono suscettibili di
mischiarsi. Se accade, c’è probabilmente un conflitto: la gioia e la paura sono
separate dall’accettazione e la loro fusione è imperfetta, per cui il conflitto
che ne risulta è all’origine del senso di colpa.
La fusione di emozioni fondamentali in emozioni di ordine superiore è
solitamente ritenuta un’operazione cognitiva. Quasi tutte le emozioni
biologicamente elementari sono condivise con gli animali inferiori, ma le
emozioni derivate o non elementari tendono a essere esclusivamente umane.
Le emozioni derivate sono costruite attraverso operazioni cognitive, e
potrebbero essere identiche solo nel caso in cui due animali condividono le
stesse capacità cognitive.
6
1.2 Piccola storia delle ricerche sulle emozioni
Prima del 1884, gli interrogativi sulle emozioni erano per lo più di
carattere filosofico o religioso e sulla scia dell’intellettualismo socratico,
sostenevano che basta e avanza una repressione intellettuale per controllare
gli istinti e le passioni. Il risultato di una convinzione di questo spessore è un
sovraffollamento nelle anticamere degli psicoanalisti, che spesso creano una
sorte di dipendenza psicologica tra paziente-analista, senza risolvere i
problemi di fondo. Per giustificare l’ultima affermazione, suggerisco la
lettura di Karl Jaspers “Il medico nell’età della tecnica”, Raffaello Cortina
Editore, Milano 1991.
L’era moderna della ricerca sull’emozione iniziò quando James William
nel 1884 pubblicò l’articolo What is an Emotion? nella rivista di filosofia
“Mind”. 5
Fig.1.2.1: Le due sequenze emotive di Wiliam James
Uno dei principali obiettivi della ricerca sull’emozione è tuttora quello di
chiarire la sequenza stimolo-sentimento, i processi che intercorrono tra il
primo e il secondo.
James provò a rispondere con un’altra domanda: scappiamo davanti
all’orso perché abbiamo paura, oppure abbiamo paura perché scappiamo?
Ipotizzò che la risposta ovvia – scappiamo perché abbiamo paura – fosse
sbagliata:
“Nel modo di pensare alle emozioni che ci viene spontaneo, la percezione
mentale di un qualche fatto eccita l’affezione mentale chiamata emozione, e
questo successivo stato mentale dà luogo all’espressione fisica. La mia tesi,
al contrario, è che i cambiamenti fisici seguano direttamente la percezione
del fatto eccitante e che il nostro sentimento di questi cambiamenti che si
producono sia l’emozione.”
In sostanza, l’ipotesi di James era semplice: si basava sulla premessa che
le emozioni sono spesso accompagnate da reazioni fisiche (cuore che batte
all’impazzata, nodo allo stomaco, mani sudate, tensioni muscolari e cosi via),
e che possiamo percepire quello che avviene nel nostro corpo proprio come
7
quello che avviene nel mondo esterno. Secondo James, le emozioni ci
sembrano diverse da altri stati mentali proprio per le reazioni fisiche che
danno luogo a sensazioni interne, e proviamo emozioni diverse proprio
perché ognuna è accompagnata da sensazioni e da reazioni diverse. Ma le
reazioni fisiologiche ritornano sempre alla mente sotto forma di sensazioni
fisiche seguendo un inconfondibile schema di retroazione sensoriale, il
quale dà a ogni emozione una qualità inconfondibile.
Provare paura è diverso dal provare rabbia o amore, perché la “sigla“
fisiologica della paura è diversa. L’aspetto mentale dell’emozione, il
sentimento, è schiavo della sua fisiologia e non viceversa; non tremiamo
perché abbiamo paura, non piangiamo perché siamo tristi: abbiamo paura
perché tremiamo e siamo tristi perché piangiamo.
Fig.1.2.2: La teoria della retroazione di William James
La soluzione di James al problema della sequenza stimolo-sentimento, è
che la retroazione delle risposte determini i sentimenti. Siccome, emozioni
diverse hanno risposte diverse, la retroazione verso il cervello è diversa e ciò
spiegherebbe quello che proviamo in tali situazioni.
Per James, la qualità peculiare di un’esperienza emotiva era determinata
dalla retroazione nel cervello delle risposte fisiche, le quali si presentavano
pertanto prima dei sentimenti.
All’inizio degli anni ’20 del secolo scorso, un famoso fisiologo (Walter
Cannon), che studiava le reazioni fisiche della fame e dell’emozione intensa,
mete in discussione la tesi di William James. Le ricerche di Cannon hanno
portato al concetto di “reazione di emergenza”, una risposta fisiologica
specifica che accompagna ogni stato nel quale il corpo deve spendere energia
fisica, e si pensava che essa agisse in maniera uniforme, a prescindere dal
come e dal perché era stata attivata.6
Data la presunta unicità del meccanismo di risposta simpatica, Cannon
sostenne che le risposte fisiologiche che accompagnavano le diverse
emozioni dovessero essere uguali, a prescindere dallo stato emotivo provato.
Cannon notò che le risposte del SNA (cuore che batte forte, mani che sudano,
etc.), sono troppo lente per rendere conto dei sentimenti; quando questi
cominciano a prodursi noi stiamo già provando l’emozione.
Per Cannon le emozioni sono determinate da processi interamente
racchiusi nelle risposte concentrate nell’ipotalamo che, assegna al corpo la
produzione delle risposte emotive e alla corteccia quella delle esperienze
emotive. E siccome le fibre che scendono verso i sistemi di risposta fisica e
quelle che ascendono verso la corteccia vengono attivate simultaneamente
8
dall’ipotalamo, i sentimenti e le reazioni emotive si producono in parallelo,
invece che in sequenza.
James e Cannon non vanno d’accordo sul fatto che la retroazione corporea
differenzia le varie emozioni, ma concordano sul fatto che sono proprio le
risposte fisiche a rendere le emozioni diverse dagli altri stati mentali, non
emotivi.
Nei primi anni ’20 del secolo scorso, i sociopsicologi della Columbia
University, Stanley Schachter e Jerome Singer pensavano come Cannon, che
la retroazione non fosse abbastanza specifica da determinare l’emozione
provata in una data situazione ma, come James, la ritenevano un fattore
importante.7 Secondo loro, la retroazione da eccitazione fisica indica in
maniera affidabile che sta accadendo qualcosa di significativo anche se non
si è in grado di segnalare cosa sia accadendo di preciso.
Fig.1.2.3: La teoria dell’eccitazione cognitiva (Schachter e Singer)
Una volta che percepiamo l’eccitazione fisica (attraverso la retroazione),
siamo motivati a esaminare le circostanze. Diamo poi un’etichetta
all’eccitazione, in base alla valutazione cognitiva della situazione.
L’etichettatura è ciò che determina l’emozione provata. Cosi la cognizione
colmerebbe il divario tra la non specificità della retroazione fisica e i
sentimenti. In breve, le emozioni risulterebbero dall’interpretazione cognitiva
delle situazioni.
Nella teoria di Schachter e Singer mancava qualcosa, i due ricercatori
volevano spiegare come trattiamo le risposte emotive una volta che sono
avvenute (una volta notato che il cuore batte forte, la respirazione si accelera,
aumenta il tono muscolare, etc.), mentre si scappa davanti all’orso,
chiamiamo quell’esperienza paura, ma la loro teoria non diceva cosa fosse a
provocare quelle risposte.
Secondo Magda Arnold, perché uno stimolo produca una risposta emotiva
o un sentimento emotivo, il cervello ne deve prima valutare l’importanza.8
Fig.1.2.4: La teoria della valutazione di Arnold
Le valutazioni portano poi a certe tendenze all’azione. La tendenza che si
prova ad avvicinarsi a oggetti e a situazioni desiderabili e ad allontanarsi da
quelle indesiderabili spiega, nel modello della Arnold, i sentimenti coscienti.
Anche se le valutazioni possono essere coscienti o meno, abbiamo un
9
accesso cosciente al processo di valutazione, una volta che questo è
avvenuto.
Sulla scia di Magda Arnold, la ricerca è andata in avanti, usando
l’introspezione come strumento d’indagine sulle emozioni. Ad esempio, uno
studio sui processi di valutazione precedenti l’emozione, fatto da Craig
Smith e Phoebe Ellsworth, concludevano che le emozioni sono intimamente
collegate alle valutazioni cognitive delle circostanze, quindi è possibile
studiarle chiedendo alle persone di riflettere sulle differenze tra le emozioni.9
Come altri ricercatori, pensavano che l’informazione usata dai soggetti per
riflettere su un’esperienza fosse la stessa che il cervello usa per crearla.
Le teorie della valutazione hanno dato troppo peso al contributo dei
processi cognitivi, cancellando cosi la differenza tra emozione e cognizione.
Fig.1.2.5: Il modello di valutazione omnicomprensivo
Dopo Arnold, molti altri psicologi riconoscono ora l’importanza dei
processi di valutazione nei fenomeni emotivi, ma non sempre accettano la
sua equivalenza tra sentimenti emotivi e tendenze all’azione. Il modello di
valutazione omnicomprensivo indica semplicemente che le valutazioni
colmano il divario tra stimolo e sentimento.
Nel 1980, il sociopsicologo Robert Zajonc pubblica l’articolo Feelig and
Thinking: Pereferences Need No Interferences (Sentire e pensare: le
preferenze non hanno bisogno di interferenze)10, con il quale dimostra che le
preferenze (semplici reazioni emotive), potevano formarsi senza alcuna
registrazione cosciente degli stimoli. L’articolo non frenò del tutto la ricerca
cognitivista sulla valutazione, ma mise perlomeno in crisi e mantenne viva
l’idea che l’emozione non sia soltanto cognizione. Secondo Zajonc, il
fenomeno psicologico scoperto da lui in precedenza e chiamato mero effetto
espositivo (subliminale o cosciente), è sufficiente per creare delle preferenze.
Fig.1.2.6: La teoria del primato affettivo di Zajonc
Contraddicendo molti studi di psicologia, Zajonc ha sostenuto che l’affetto
precede e avviene indipendentemente dalla cognizione. Oggi sembra chiara
che l’elaborazione emotiva può prodursi fuori dalla consapevolezza, ma è
ben diverso dal problema di sapere se l’emozione e cognizione sono
indipendenti.
10
Gli esperimenti di Robert Bornstein sull’inconscio emotivo hanno
dimostrato che il mero effetto espositivo è molto più forte quando gli stimoli
sono presentati in modo subliminale, rispetto a quando sono liberamente
disponibili all’introspezione cosciente.11 Le nostre emozioni sono influenzate
più facilmente quando non siamo consapevoli dell’influenza che si produce.
Questa piccola storia delle ricerche sull’emozione si potrebbe concludere,
per ora con John Bargh che dimostra come le emozioni, gli atteggiamenti, gli
scopi e le intenzioni possano essere attivati inconsapevolmente, influenzare il
modo in cui le persone pensano a certe situazioni sociali o come vi si
comporta. I tratti somatici come lunghezza dei capelli o del colore della pelle
bastano a generare degli stereotipi legati alla razza o al sesso, a prescindere
dal fatto che la persona con questi tratti esprima o meno le caratteristiche
comportamentali dello stereotipo. Questa attivazione automatica degli
atteggiamenti si produce in situazioni diverse e sembra costituire la nostra
prima reazione a una persona.
Quando ci si accorge di avere pregiudizi e quando si hanno dei valori in
grado di contrastarli, è possibile esercitare un controllo. Ma per poterlo fare,
occorre essere consapevoli delle influenze inconsce, il che è tutt’altra
faccenda:
“Nella misura in cui la gente valuta la validità di tale affermazione in
base alla propria esperienza fenomenica, non risulteremo convincenti
perché, per definizione, non si può avere un’esperienza fenomenica della
percezione in assenza di consapevolezza.”12
Per Bargh, uno dei scopi della sociopsicologia è di rendere la gente
cosapevole dei fattori inconsci, contro-intuitivi, che ne condizionano il
pensiero e il comportamento, e che sono stati scoperti con metodi scientifici.
1.3
Neurofisiologia delle emozioni
1.3.1 Il circuito di Papez
Una delle più influenti teorie del cervello emotivo, è stata elaborata da
James Papez, un anatomista della Cornell University, nel 1937. Papez
eccelleva nella sintesi: combinò l’idea di C. Juddson Herrick (un anatomista
specializzato nell’evoluzione del cervello), sulla differenziazione evolutiva
tra corteccia mediale e laterale, con le conseguenze delle lesioni cerebrali
della corteccia mediale negli esseri umani e le ricerche sul ruolo
dell’ipotalamo nel controllo delle reazioni emotive negli animali.
Usci fuori una teoria che spiegava l’esperienza soggettiva dell’emozione
in termini di flusso di informazione lungo connessioni anatomiche circolari,
dall’ipotalamo alla corteccia mediale e ritorno, il cosiddetto circuito di
Papez13
Per Papez, le esperienze emotive potevano venire generate in due modi:
11
1. con l’attivazione del flusso di sentimenti attraverso oggetti
sensoriali, cioè attraverso il flusso di segnali dalle aree sensoriali del
talamo verso i corpi mammillari, poi verso il talamo anteriore e la
corteccia cingolata;
2. attraverso le informazioni veicolate dal flusso di pensieri verso la
corteccia cerebrale, dove lo stimolo viene percepito e i ricordi che vi
si riferiscono vengono attivati.
Fig.1.3.1.1: La teoria del circuito di Papez
Le aree corticali implicate nella percezione e nella memoria attivano a loro
volta la corteccia cingolata. Nel primo caso, la corteccia cingolata è attivata
da processi subcorticali di basso livello con il flusso di sentimenti; nell’altro
è attivata da processi corticali di alto livello con il flusso di pensieri.
Il circuito di Papez è stato un brillante esercizio di anatomia speculativa,
dato che all’epoca la maggior parte dei percorsi anatomici ipotizzati erano
12
ancora sconosciuti. Anche se è un modello superato, sono state trovate delle
connessioni che assomigliano con il circuito di Papez.
1.3.2 Sistema limbico
Sempre nel 1937, Heinrich Klüver e Paul Bucy, scoprono la cosi detta
cecità psichica in seguito all’asportazione dei lobi temporali nelle scimie:
“L’animale non mostra le reazioni di solito associate alla rabbia e alla
paura. Si avvicina agli esseri umani, agli animali e agli oggetti animati e
inanimati senza esitazioni e sebbene non presenti difetti motori, tende a
esaminarli con la bocca invece che usando le mani... Da diversi test, non
risulta alcuna diminuzione dell’acuità visiva né della capacità di
localizzazione visivamente la posizione degli oggetti nello spazio. Tuttavia,
la scimmia sembra incapace di riconoscere gli oggetti attraverso la
vista...”14
La cosi detta sindrome di Klüver-Bucy, è caratterizzata da:
• “tranquillità” davanti a cose che prima temevano (persone, serpenti,
etc.);
• si mettono in bocca qualunque cosa (dato che non riescono a
identificare con la vista quello che è commestibile);
• diventano ipersessuati, tentando di accoppiarsi con scimmie dello
stesso sesso o con membri di altre specie.
Nel 1949, Paul MacLean riprese e ampliò la teoria di Papez
aggiungendovi la sindrome di Klüver-Bucy e la psicologia freudiana,
cercando di elaborare una teoria omnicomprensiva del cervello emotivo.
MacLean credeva che la capacità di valutare la svariate qualità affettive ed
emotive dell’esperienza e di trasformarle in sentimenti diversi (paura, rabbia,
amore, odio, etc.), richiedesse l’intervento della corteccia cerebrale. Già si
sapeva che la neocorteccia era priva di connessioni importanti con
l’ipotalamo e quindi non poteva agire sui centri autonomi che producono
reazioni viscerali e che, come avevano sostenuto Papez e Henrrik, le aree più
antiche dal punto di vista evolutivo della corteccia mediale, il cosiddetto
rinencefalo, erano invece strettamente legate all’ipotalamo. Siccome a
produrre le reazioni autonome (cambiamento della respirazione, della
frequenza cardiaca e di altre funzioni viscerali), non era la stimolazione della
neocorteccia bensì quella delle zone rinencefaliche, le rinominò cervello
viscerale.15
Il perno del cervello viscerale era l’ippocampo; si pensava che ricevesse i
segnali dal mondo esterno (vista, odorato, udito, tatto, gusto), e anche
dall’ambiente interno o viscerale. L’integrazione delle sensazioni interne ed
esterne sarebbe la base dell’esperienza emotiva. Le cellule piramidali
dell’ippocampo formano una specie di “tastiera emotiva”, e quando sono
13
attivate da elementi del mondo sensibile, suonano le note delle emozioni che
noi proviamo.
Fig.1.3.2.1: Il cervello viscerale
MacLean ipotizzò che le nostre emozioni, al contrario dei nostri pensieri,
ci risultano difficili da capire per via delle differenze strutturali tra
l’organizzazione dell’ippocampo (il nucleo del cervello viscerale), e quella
della neocorteccia dove risiede il cervello pensante della parola:
“Si potrebbe dedurne che il sistema ippocampale tratti l’informazione
soltanto in maniera molto rozza e sia un cervello troppo primitivo per
analizzare il linguaggio. Eppure potrebbe far parte di un simbolismo non
verbale e avere quindi ripercussioni importanti, dato che il simbolismo
influenza la vita emotiva dell’individuo. Si potrebbe immaginare, per
esempio, che sebbene il cervello viscerale non possa aspirare a concepire il
colore rosso come una parola di quattro lettere o come una particolare
lunghezza d’onda, lo associ comunque simbolicamente a oggetti molto
diversi, come il sangue, lo svenimento, la lotta, i fiori, etc. Se il cervello
viscerale fosse capace di collegare simbolicamente un certo numero di
fenomeni sparsi, quindi, e al tempo stesso fosse privo della facoltà analitica
14
del cervello pensante (il quale discrimina tra differenze anche molto sottili),
potrebbe lasciarsi coinvolgere inavvertitamente in una serie di correlazioni
assurde, precorritrici di fobie, di comportamenti ossessivi, compulsivi, etc.
In assenza dell’aiuto e del controllo della neocorteccia, le sue impressioni
verrebbero trasmesse senza modifiche all’ipotalamo e ai centri inferiori.
Considerando alla luce della psicologia freudiana, il cervello viscerale
avrebbe numerosi attributi dell’inconscio. Tuttavia, si potrebbe sostenere
che il cervello viscerale non sia affatto inconscio (forse nemmeno durante
il sonno), ma che sfugga all’intelletto perché la sua struttura animalistica e
primitiva gli rende impossibile comunicare in termini verbali.
... Nel paziente psicosomatico, sembrerebbe che non ci sia quasi nessuno
scambio diretto tra il cervello viscerale e quello pensante, e che i sentimenti
emotivi prodottisi nella formazione ippocampale, invece di venire trasmessi
all’intelletto per essere valutati, trovino un’espressione immediata
attraverso i centri autonomi.”
Nel 1952, tre anni dopo la pubblicazione dell’ipotesi del cervello
viscerale, MacLean lo chiamò con il termine di sistema limbico, un aggettivo
tratto dalla descrizione data da Broca dell’orlo della corteccia mediale, poi
ribattezzata rinencefalo.16 Diversamente da Broca, però, MacLean aveva in
mente non la struttura, ma la funzione, quando fece entrare nel sistema
limbico la corteccia limbica di Broca e la sue regioni corticali e subcorticali.
Oltre alle aree del circuito di Papez, MacLean vi aggiunse anche regioni
come l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale, prima di suggerire che le
strutture del sistema limbico comprendessero uno sviluppo neurale
filogeneticamente antico, funzionante in maniera integrata per garantire la
sopravvivenza dell’individuo e della specie. Un vero sistema evoluto per
mediare funzioni viscerali e comportamenti affettivi come cibarsi, difendersi,
lottare e riprodursi, essenziali per la vita viscerale o emotiva dell’individuo
Il sistema limbico comprende:
• una vasta area mediale della corteccia, giro del cingolo, in
corrispondenza dei lobi frontale, parietale e occipitale, e giro
paraippocampale, la parte ventro-mediale della corteccia
temporale;
• componenti sottocorticali: ipotalamo, già accennato più sopra, e
varie strutture adiacenti, tra cui il setto, parte dei nuclei della base e
del talamo anteriore, ippocampo e amigdala.
15
Fig.1.3.2.2: Il sistema limbico
1.3.3 La messa in discussione del sistema limbico
La teoria di MacLean abbracciava gli ultimi risultati delle neuroscienze,
della psicologia e della psichiatria, ma anche idee sulla modellizzazione al
computer dell’attività neurale.
Nei primi anni ’70 del secolo scorso, gli anatomisti Harvey Karten e Glenn
Northcutt dimostrarono che le creature cosiddette primitive hanno in realtà
delle aree che corrispondono ai criteri strutturali e funzionali della
neocorteccia, ma trovandosi in posti diversi rispetto alle aree corticali dei
mammiferi non era facile riconoscerle.17 Queste scoperte hanno messo
leggermente in crisi la neurologia evolutiva molto in voga in quel periodo.
Il sistema limbico si poteva definire in base alla sua connettività con
ipotalamo. Ma oggi è stato dimostrato che l’ipotalamo è collegato con tutti i
livelli del sistema nervoso, neocorteccia inclusa.
Per MacLean, le aree del sistema limbico si potevano determinare in base
al loro coinvolgimento nelle funzioni viscerali. Alcune aree tradizionalmente
incluse nel sistema limbico contribuiscono al controllo del sistema nervoso
autonomo; ora però, altre come l’ippocampo sono ritenute implicate non
16
tanto nelle funzioni autonome ed emotive quanto nella cognizione. Altre aree
che nessuno aveva pensato di includere nel sistema limbico (in particolare
quelle del midollo allungato), hanno un ruolo importante nella regolazione
autonoma.
Le lesioni dell’ippocampo, e di alcune zone del circuito di Papez come i
corpi mammillari e il talamo anteriore, hanno pochi effetti coerenti sulle
funzioni emotive mentre producono disordini gravi della memoria cosciente
o dichiarativa, cioè sulla capacità di sapere cosa si è fatto pochi attimi prima,
di immagazzinare l’informazione, di richiamarla e di descrivere verbalmente
quanto ricordato.
Il concetto di sistema limbico è piuttosto ampio, anche se tale sistema non
è né fortemente organizzato, né ben definito nel cervello; la prova che una
qualche area limbica fosse coinvolta in un qualche processo emotivo è stata a
volte generalizzata ed è servita a convalidare l’idea che l’intero sistema fosse
coinvolto nelle emozioni.
Le emozioni sono sicuramente delle funzioni coinvolte nella
sopravvivenza e l’evoluzione del cervello è fondamentale per capire le
emozioni; ma siccome emozioni diverse riguardano funzioni di
sopravvivenza diverse (difesa contro il pericolo, trovare il cibo, accoppiarsi,
etc), ognuna potrebbe appartenere a sistemi cerebrali diversi, evolutisi per
ragioni diverse e di conseguenza i sistemi emotivi potrebbero essere più di
uno.
1.3.4 Il meccanismo della paura
La paura è una delle emozioni più studiate dai neuroscenziati, non per il
sadismo, quanto per il fatto che è facilmente riprodurla sia nei animali, che
negli esseri umani.
Nel processo evolutivo, la paura riveste un’importanza particolare, perché
più di ogni altra emozione ha rilievo per la sopravvivenza. Oggi, le paure
ingiustificate sono una minaccia per la stabilità psicofisica di un numero
crescente di persone, procurando sofferenze dovute a una grande varietà di
preoccupazioni, all’angoscia e in casi patologici, agli attacchi di panico, alle
fobie o al disturbo ossessivo compulsivo. In poche parole: la paura è buona
per l’autopoiesi, ma decisamente toglie la gioia di vivere!
Behavioral and Brain Research 58, nel 1993, pubblica l’articolo
“Emotional Memory Systems in the Brain”, dove LeDoux dimostra che nel
cervello gli input sensoriali provenienti dall’occhio o dall’orecchio viaggiano
dapprima diretti al talamo e poi – servendosi di un circuito monosinaptico –
all’amigdala; un secondo segnale viene poi inviato dal talamo alla
neocorteccia – il “cervello pensante”. Questo circuito permette all’amigdala
di cominciare a rispondere prima della neocorteccia – che deve elaborare le
informazioni attraverso vari livelli di circuiti cerebrali prima di poterle
17
percepire in modo davvero completo e iniziare infine la sua risposta, che
risulta molto più raffinata rispetto a quella dell’amigdala.
Fig.1.3.4.1: Il meccanismo della paura
Un esempio di come funzionano i circuiti neurali della paura, e quale è il
ruolo dell’amigdala come sistema di allarme:
• rumore forte improvviso;
• l’orecchio percepisce le onde sonori trasformate al livello della
coclea in impulsi nervosi che sono trasportati dalla branca cocleare
del N.VIII° nel bulbo e poi al talamo;
• dal talamo partono due vie:
1° - una diramazione più piccola conduce
all’amigdala e ippocampo;
2° - l’altra, più grande, porta alla corteccia
uditiva nel lobo temporale.
18
• l’ippocampo, un magazzino fondamentale per la memoria,
confronta rapidamente quel rumore ad altri suoni simili già uditi in
passato, per capire se è un suono conosciuto;
• nel frattempo la corteccia uditiva svolge un’analisi più
sofisticata del suono per cercare di comprendere la fonte,
formulando delle ipotesi (vento, tuono, sparo, etc.), e le invia
all’amigdala e all’ippocampo, che rapidamente lo paragonano a
ricordi simili;
• se la conclusione è rassicurante (è soltanto la persiana che sbatte
a ogni raffica di vento), l’allarme generale non si innalza a un
livello più alto;
• ma se c’è ancora incertezza, un altro circuito fra l’amigdala,
l’ippocampo e la corteccia prefrontale, accresce ulteriormente
l’incertezza e fissa l’attenzione, cercando di identificare la fonte del
suono con sempre maggior preoccupazione;
• se da questa ulteriore analisi non si ricava una risposta
soddisfacente, l’amigdala fa scattare un allarme e la sua area
centrale attiva l’ipotalamo, il tronco encefalico e il sistema
neurovegetativo ( reazione da stress).18, 19
Questa scoperta capovolge l’idea secondo la quale, per formulare le sue
reazioni emozionali, l’amigdala dipenderebbe totalmente dai segnali
provenienti dalla neocorteccia. Essa può invece innescare una risposta
emozionale attraverso questa via di emergenza proprio mentre viene attivato
un circuito riverberante parallelo con la neocorteccia. L’amigdala può
spingerci all’azione mentre la neocorteccia, leggermente più lenta – ma in
possesso di informazioni più complete – prepara il suo piano di reazione più
raffinato.
Dal punto di vista anatomico, il sistema emozionale può agire
indipendentemente dalla corteccia, alcuni ricordi e reazioni emotive possono
formarsi senza alcuna partecipazione cognitiva cosciente. Nell’amigdala
possono esserci ricordi e repertori di risposte che vengono messi in atto
senza che ci si renda assolutamente conto del perché si agisca in quel modo,
e questo perché il circuito monosinaptico dal talamo all’amigdala esclude
completamente la neocortaccia. Questo consente all’amigdala di assumere il
ruolo di archivio di impressioni e ricordi emozionali dei quali non abbiamo
mai una conoscenza pienamente consapevole.
L’amigdala è un complesso di nuclei al polo anteriore del lobo temporale.
Una sua funzione fondamentale è di ricevere informazione da tutta la
corteccia (specialmente quella limbica e le aree associative), ed elaborarla
come input per l’ipotalamo. Ha però molte connessioni bidirezionali con
altre strutture e tutta la corteccia. Nel complesso si potrebbe dire che
19
“interpreta” lo stato del soggetto rispetto all’ambiente esterno, regolando il
comportamento di conseguenza.
Si noti che una definizione del genere potrebbe essere data per strutture
implicate nella genesi della autoconsapevolezza e della coscienza, ma
l’amigdala svolge questo ruolo ben sotto il livello di coscienza.
L’amigdala influenza pesantemente l’attività di elaborazione di tutto il
SNC; l’amigdala è indispensabile per la generazione di importanti forze
pulsionali come la paura e l’aggressività, e per il controllo dell’istinto di
esplorazione (soprattutto orale) e sessuale. Nel complesso si può ritenere che
l’amigdala definisca la “colorazione” emotivo-pulsionale di ogni esperienza
(sensoriale ma anche cognitiva). E’ di conseguenza ovvio il suo ruolo anche
nella attenzione e nella memoria (es.: ricordi insignificanti si possono fissare
per sempre se vissuti in un momento di paura).20
Fig.1.3.4.2: L’amigdala e alcune delle sue affrenze
I segnali provenienti da ippocampo hanno una parte importante nello
stabilire il contesto emotivo. Ippocampo e le aree affini alla corteccia
(compresa quelle rinali o transizionali), sono coinvolte nella formazione e nel
richiamo dei ricordi espliciti, e i segnali provenienti da tali aree all’amigdala
possono far si che le emozioni siano innescate da questi ricordi. La corteccia
mediale prefrontale è coinvolta nel processo chiamato “estinzione”, con il
quale la capacità degli stimoli di suscitare delle risposte, viene indebolita
dall’esposizione ripetuta allo stimolo condizionato, in assenza dello stimolo
incondizionato. I segnali inviati dalla corteccia mediale prefrontale
all’amigdala sembrano contribuire a questo processo.
20
Fig.1.3.4.3: L’amigdala e alcune delle sue manifestazioni emotive
Da questo schema si osserva che l’amigdala, può influenzare una larga
varietà di espressioni e sensazioni del nostro corpo. Per esempio,
l’espressione di paura riconoscibile sul viso di un individuo sembra essere
indotta dall’amigdala mediante l’attivazione del nervo trigemino e facciale.
La risposta ormonale legata alla paura viene mediata dall’attivazione del
nucleo paraventricolare, mentre la tachicardia dall’attivazione dell’ipotalamo
laterale, etc.
1.3.5 Ricordi emotivi
Oggi si ritiene che il cervello contenga molteplici sistemi di memoria. La
memoria cosciente, dichiarativa o esplicita, è mediata dall’ippocampo e dalle
aree corticali connesse, mentre le diverse forme di memoria inconscia o
implicita sono mediate da altri sistemi.
Un sistema di memoria implicita è quello della memoria emotiva (ad
esempio la paura), che comprende l’amigdala e le aree collegate. In
situazioni traumatiche, il sistema implicito e quello esplicito funzionano in
parallelo.
21
Fig.1.3.5.1: Tipizzazione della memoria
*** Si ipotizza che in generale, il cervello funzioni comparando il pattern
di attivazione neuronale generato dall’input sensoriale (attivazione che sale
“bottom-up”), con schemi di attivazione neuronale proposti dalle strutture
superiori (“top-down”), sulla base di esperienze precedenti. In questa luce il
“priming” non è che la manifestazione più diretta di un tale meccanismo
fondamentale di funzionamento del SNC.
In seguito, l’esposizione agli stimoli presenti durante il trauma può
riattivare entrambi i sistemi, nell’esperienza cosciente immediata:
• l’attività del sistema della memoria esplicita, nell’ippocampo risulta
nella consapevolezza del sapere o delle esperienze immagazzinate
in passato (i ricordi espliciti sono collegati strettamente a ciò di cui
ci si occupa durante l’esperienza);
• attraverso il sistema dell’amigdala, gli stimoli provocheranno
tensione muscolare, variazioni della pressione sanguigna e della
frequenza cardiaca, il rilascio di ormoni e altre risposte fisiologiche
22
e cerebrali (i ricordi emotivi impliciti possono cogliere aspetti che
sfuggono all’attenzione e alla consapevolezza).
Siccome i sistemi sono attivati dagli stessi stimoli e funzionano
contemporaneamente, i due tipi di memoria sembrano far parte di un’unica
funzione della memoria. Un posto dove ricordi espliciti delle esperienze
emotive e ricordi emotivi impliciti si incontrano, c’è: nella memoria di
lavoro e nella creazione dell’esperienza cosciente immediata.
Comunque i ricordi sono ricostruzioni imperfette dell’esperienza, sono
ricostruzioni fatte al momento del loro richiamo, e lo stato del cervello in
quel momento può influire sul modo in cui i ricordi lontani vengono
richiamati. I ricordi espliciti sono fatti anche di semplificazioni, aggiunte,
elaborazioni e razionalizzazioni dei ricordi di esperienze di apprendimento, e
anche di omissione degli elementi dell’apprendimento stesso.
1.3.6 Il cervelletto
Al cervelletto arrivano informazioni sensoriali, principalmente attraverso i
nuclei pontini. I nuclei profondi (fastigio, interposto=globoso+ emboliforme
e dentato) proiettano al nucleo rosso e ad altri “relais motori”. Proiettano
pure alla oliva inferiore, che risulta “informata” dell’output del cervelletto.
L’oliva inferiore riceve anche proiezioni da midollo spinale, nuclei sopraassiali e corteccia, e può pertanto eseguire una comparazione dell’output
cerebellare con la situazione sensori-motoria generale.
L’input al cervelletto arriva attraverso le fibre muscoidi (mossy fibers)
sulle cellule granulari. Ognuna di queste con le sue lunghe fibre parallele
contatta una numerosa serie di cellule di Purkinje nella corteccia cerebellare.
Le cellule di Purkinje ricevono anche - dall’oliva inferiore - fibre rampicanti,
che trasmettono impulsi sinaptici eccitatori capaci di produrre silenziamento
delle sinapsi delle fibre parallele sullo stesso neurone che sono
simultaneamente attive.
L’attivazione di una fibra rampicante tende quindi a “sconnettere” la sua
cellula di Purkinje bersaglio dalle cellule granulari attive nello stesso
momento. Poiché le cellule di Purkinje sono inibitorie sui neuroni dei nuclei
profondi, l’attivazione di una fibra rampicante libera un neurone dei nuclei
profondi da inibizione, con conseguente attivazione di vie motorie
discendenti (nucleo rosso) e feedback sull’oliva inferiore.
23
Fig.1.3.6.1: Il circuito elementare del cervelletto
Questo circuito permette di costruire per “trial and error” sistemi di
risposta adeguata. Può spiegare ad esempio l’instaurarsi di riflessi
condizionati:
• ripetendo più volte uno stimolo (non condizionato) che produce una
risposta riflessa, in associazione con uno stimolo indifferente
(condizionato) quest’ultimo finisce per determinare la stessa
risposta (condizionata);
• lo stimolo non condizionato dà luogo ad input sensoriali che
raggiungono l’oliva inferiore, altri input sensoriali (tra i quali lo
stimolo condizionato) raggiungono in tempi vicini il cervelletto dai
nuclei pontini via mossy fibers, e producono output cerebellare (dai
nuclei profondi) riverberato sull’oliva inferiore;
• i neuroni olivari - attraverso le fibre rampicanti - modificano la
connettività delle fibre parallele attivate dagli input sensoriali
presenti;
24
• quando l’output cerebellare - prova e riprova - risulta corretto, lo
stimolo condizionato determina output cerebellare sul nucleo rosso
(ed altri nuclei motori) che riproduce la risposta allo stimolo non
condizionato (risposta condizionata).
E’ stata opinione comune degli scienziati che il cervelletto, a differenza
della neocorteccia, funzioni senza centri consapevolmente coscienti di
attività del pensiero. Questo è vero. Non c’è alcuna attività di pensiero in
questo organo. Però, ora sembra che la memoria per certe risposte apprese
possa essere immagazzinata qui, specialmente in quelle zone del cervelletto
che si sono evolute più recentemente.
Ecco un esempio: la risposta condizionata creata da Pavlov quando
suonava il campanello e poi dava da mangiare ai suoi cani, alla fine produsse
la salivazione immediata di tutti i partecipanti all’esperimento al semplice
suono del campanello. Una volta che l’associazione è stata appresa da
determinati centri del cervello come la neocorteccia e l’ippocampo, i recessi
più profondi del cervelletto danno automaticamente “il permesso” di
preparare fisiologicamente il corpo all’esperienza. (Però, se eliminassimo
chirurgicamente quella parte del cervelletto che è attivata durante una
risposta condizionata, i cani non saliverebbero mai – anche se ricordassero lo
stimolo consapevolmente.)
Perciò, la memoria associativa dello stimolo produce la risposta fisiologica
automatica della memoria corporea. Più forte è il condizionamento allo
stimolo alla risposta condizionata, più attivo è il processo automatico del
cervelletto. Cioè la memoria e le informazioni dell’esperienza si sono trovate
neurologicamente entro le pieghe subconsce del cervelletto. Se questo è vero,
allora le nostre stesse assuefazioni ed abitudini, che sono risposte
condizionate, hanno una vera memoria fisiologica subconscia nel profondo
delle nostre connessioni cervello/corpo, nel cervelletto. Anche le nostre più
grandi abilità e le capacità acquisite più sviluppate, sono radicate in questo
organo.
Il cervelletto è unico nel fatto che ha approssimativamente un milione di
connessioni per neurone. Questo è il motivo per cui è così denso e gommoso,
come struttura anatomica. E’ considerato quasi esclusivamente materia
grigia. La sostanza della materia grigia è composta di neuroni. I neuroni sono
più granulari e più densi quando hanno delle connessioni dendritiche
addizionali. Il cervelletto è l’elemento con materia grigia più densamente
granulata dell’intero cervello. Perciò, ha il numero più grande di connessioni
e potenziali connessioni di tutto l’intero cervello.
25
Fig.1.3.6.2: Il cervelletto
Fino a poco tempo fa, gli scienziati pensavano che il numero totale di
neuroni nel cervello al momento della nascita fosse in quantità fissa. Però, il
cervelletto è una delle zone del cervello che continuano a suddividersi e a
produrre neuroni addizionali dopo la nascita. Infatti, la moltiplicazione delle
cellule cerebrali continua a lungo dopo la nascita a velocità diverse ed in
diversi periodi dello sviluppo.
L’insieme dei risultati sperimentali ottenuti nell’animale e nell’uomo,
sembra giustificare la tendenza attuale a non considerare più il cervelletto
come organo esclusivamente dedicato al controllo dell’equilibrio, o dei
movimenti volontari. In base all’esistenza di cospicue connessioni
anatomiche con le aree associative e paralimbiche della corteccia cerebrale,
entrambe coinvolte nella organizzazione di funzioni nervose superiori, si è
progressivamente consolidata l’ipotesi che il cervelletto rappresenti una parte
importante del sistema distribuito di circuiti neurali dedicati alle funzioni
cognitive.
A sostegno di tale ipotesi vari studi sperimentali nell’animale hanno
dimostrato il suo coinvolgimento in numerose funzioni non motorie quali i
fenomeni di condizionamento classico, i comportamenti predatori ed
26
appetitivi, le relazioni comportamentali e neurovegetative di aggressione e
attacco.
Anche nell’uomo in particolare con l’ausilio della PET e della RM, si
stanno raccogliendo prove di un ruolo del cervelletto in un numero sempre
più elevato di compiti cognitivi che vanno dalla elaborazione del linguaggio
alla attenzione, dalla memoria di lavoro verbale alla immaginazione mentale,
dalla elaborazione di segnali sensoriali alla modulazione delle emozioni.
Jeremy Schmahmann ha evidenziato come alcuni tipi di lesione
cerebellare si associano ad alterazioni nella velocità, nella consistenza, nella
proprietà dei processi cognitivi producendo una sorta di “dismetria del
pensiero” analoga alla dismetria del movimento descritta da Lucani quasi un
secolo prima.
Si configura così una “sindrome cognitivo-affettiva cerebellare” che è
possibile descrivere in diverese patologie traumatiche, degenerative o
malformative del cervelletto e che si caratterizza per disturbi delle funzioni
esecutive (pianificazione, set-shifting, ragionamento astratto, working
memory; fluenza verbale), compromissione della cognizione-spaziale
(organizzazione visivo-spaziale e memoria visivo spaziale), modificazioni
della personalità (disinibizione, oppure appiattimento affettivo,
comportamento inappropriato), difficoltà di linguaggio (disprosodia,
agrammatismo e lieve anomia).21
I disturbi comportamentali sarebbero associati soprattutto a lesioni del
lobo posteriore cerebellare e del verme, mentre lesioni del lobo anteriore
produrrebbero solo alterazioni minori delle funzioni esecutive e visivospaziali.
Per quanto attiene ai disturbi della sfera affettiva si hanno delle indicazioni
preliminari di un coinvolgimento del verme cerebellare nel controllo della
elaborazione di reazioni comportamentali legate a stati di particolare
coinvolgimento emotivo come il panico, la tristezza, la depressione e la
paura.
Le disfunzioni cognitivo-affettive correlate a patologia cerebellare
potrebbero essere prodotte dalla integrazione tra alterazioni cerebellari e
conseguenti modificazioni nel funzionamento delle aree cerebrali connesse
(diaschisi). I deficit osservati sarebbero correlati alla distribuzione dei
circuiti neurali responsabili della modulazione cerebellare sull’attività di aree
prefrontali, parietali posteriori, temporali superiori e limbiche. Il ruolo
cognitivo del cervelletto è correlato in particolare alle regioni posteriori e
laterali, agli emisferi ed ai nuclei profondi soprattutto il nucleo dentato che
presenta numerosi collegamenti con le aree corticali cerebrali e specialmente
con la corteccia prefrontale dorsolaterale, implicata direttamente in processi
cognitivi specifici.
27
Infine numerosi studi hanno recentemente proposto una relazione
significativa tra i disturbi del cervelletto e schizofrenia, autismo, psicosi di
tipo affettivo e disturbo ossessivo-compulsivo.22, 23
1.3.7 Cenni sulla specializzazione emisferica
Le prime osservazioni riguardo alla lateralizzazione si devono al metodo
per eccellenza della neurologia quello della lesione, ancora oggi largamente
utilizzato, mentre il metodo più tipico in questo campo consiste nello studio
dei pazienti cosiddetti split-brain, anche se i risultati di queste ricerche sono
stati spesso oggetto di discussione a causa della variabilità rispetto alla
completezza della commissurotomia. Un altro metodo molto utilizzato è il
test di Wada (iniezione di sodio amitale, che provoca una inattivazione
temporanea di un emisfero cerebrale), permettendo lo studio su un cervello
intatto e porta a considerare la possibilità di una disconnessione funzionale.24
Negli anni Settanta, sono stati utilizzate altre due metodologie per poter
svolgere degli studi su soggetti normali: l’ascolto dicotico e la presentazione
tachistoscopica. Oggi si utilizzano massicciamente le tecniche di
neuroimmagine funzionale come la Tomografia ad Emissioni di Positroni
(PET), la Risonanza Magnetica Funzionale e la Spettroscopia a Risonanza
Magnetica (MRS).
Più che di lateralizzazione oggi si parla del concetto di modularità, la
modalità più condivisa con cui affacciarsi allo studio del cervello, visto
quindi come un’organizzazione in moduli che funzionano in modo
indipendente e parallelo. Questo concetto ha soppiantato quello di
lateralizzazione, idea suggestiva nata dai primi studi e si riferisce alla
presenza di due menti (diverse) in un solo cervello.25
Nonostante il cambiamento di prospettiva, non si possono negare agli
emisferi specifiche abilità, che sottendono una diversa elaborazione
dell’informazione in entrata, e dunque l’evidenza di determinate dominanze.
Il punto risiede nell’utilizzo di dati e ipotesi teoriche all’interno di una
visione più ampia, che non si fermi a quella che potrebbe essere una sterile
descrizione di dicotomie (temporale/spaziale, sequenziale/simultaneo,
digitale/analogico, analitico/olistico), ma venga utilizzata per un quadro
sempre meglio integrato delle conoscenze.
Le basi per la teoria risultano i numerosi esperimenti rivelatori, effettuati
su pazienti split brain, tra i quali quello cosiddetto della “zampa di gallina”
eseguito per la prima volta da Gazzaniga e Joseph LeDoux (1978) risulta tra i
più caratteristici e classici.25 Al soggetto vengono presentate rapidamente e
contemporaneamente due immagini, rispettivamente una zampa di gallina
all’emisfero sinistro e una nevicata al destro e gli viene poi chiesto di
scegliere un’illustrazione attinente a ciascuna immagine lateralizzata a
partire da una serie posta di fronte a lui. Il soggetto sceglie con la mano
28
destra una gallina e con la sinistra una pala di neve. Gli sperimentatori
chiedono di motivare la scelta e la risposta, ormai divenuta famosa, è:
“Ah, è facile. La zampa di gallina va con la gallina e ci vuole una pala
per pulire il pollaio.”
In un attimo l’emisfero sinistro, unico ad avere la possibilità di esprimersi
verbalmente, costruisce una teoria sulle azioni del corpo e spiega la scelta
–adeguata- messa in atto dal “muto” emisfero destro.
Sono stati compiuti esperimenti simili anche riguardo la risposta emotiva;
ad esempio ad una ragazza venne mostrato un filmino, che riguardava scene
di un incendio piuttosto raccapriccianti, esclusivamente ad un campo visivo.
Al momento del resoconto la ragazza disse che non sapeva dire ciò che aveva
visto, ma si sentiva impaurita e aggiunse che, anche se il Dr. Gazzaniga le
era simpatico, ma in quel momento per qualche ragione aveva paura di lui.
La valenza emozionale era stata trasmessa, ma l'emisfero sinistro non aveva
recepito il contenuto che aveva determinato la variazione a livello
emozionale, e dovendo comunque gestire l’emozione, l’aveva interpretata
come aveva potuto.26
Gazzaniga, nella sua teoria dell’interprete, postula l’esistenza di un
interprete all’interno di un’organizzazione modulare del cervello (1985)26,
organizzazione in cui l’informazione in arrivo viene scomposta in parti e
trattata da unità specifiche che funzionano indipendentemente dalla
consapevolezza verbale e in parallelo al pensiero cosciente (Gazzaniga stesso
riconosce la similarità tra la modularità della mente da lui formulata e il
concetto freudiano di funzionamento mentale inconscio, proponendo di
cambiare il concetto di “processo inconscio” nell’idea di “moduli mentali
consci ma non verbali” ).27
L’ipotesi dell’interprete, modulo strettamente collegato alle capacità
verbali, deriva dalla rilevazione della tendenza ad interpretare insita
nell’emisfero sinistro, il quale sembra regolato da una legge per cui ha
bisogno di dare una spiegazione a tutto. Le inferenze tratte, sia riguardo gli
eventi del mondo circostante sia riguardo i nostri comportamenti e stati
d’animo, permettono la formulazione di ipotesi che possono trasformarsi in
credenze e teorie più o meno multidimensionali e flessibili, e fondamentali
per l’identità dell’individuo. La voglia di spiegazione e il conseguente ordine
logico del campo dell’esperienza eliminano il disagio psichico e permettono
di provare un sentimento di sollievo (accostabile alla necessaria sensazione
di coerenza interna di Gazzaniga), ma possono portare lontano dalla verità.
La teoria dei sistemi di Ramachandran, professore di neuroscienze e
psicologia a San Diego, nel suo libro Phantoms in the brain, espone la teoria
– peraltro non in disaccordo con quella di Gazzaniga - in cui sostiene che
l’anosognosia risulta dai diversi ruoli giocati dagli emisferi rispetto al
sistema di credenze.28 L’emisfero sinistro avrebbe il compito di ordinare gli
input e interpretarli in un sistema di credenza coesivo con lo scopo di
29
mantenere quest’ultimo stabile e efficiente. Al giungere di un’informazione
incoerente, la tendenza dell’emisfero sinistro sarà di ignorarla o di
stravolgerla per adattarla alla struttura preesistente (lo stesso Ramachandran
suggerisce come questo tipo di scopo, sia il motivo alla base delle difese
freudiane: negazione, rimozione, razionalizzazione, e altre forme di
autoinganno).
L’emisfero destro invece funziona da rilevatore di anomalie per il quale il
sistema verrà rivisto non appena l’anomalia supera una certa soglia. Nel caso
di lesione all’emisfero destro il rilevatore risulta indebolito e l’emisfero
sinistro manterrà la sua credenza e razionalizzerà in modo fantasioso
l’incapacità motoria, che pur apparendo ai suoi occhi, non appare al suo
emisfero destro!
In definitiva, paiono delinearsi due modalità elaborative caratterizzanti gli
emisferi, che porterebbero alle preferenze nell’esecuzione di compiti
specifici da parte degli emisferi:
1. L’emisfero destro è di primaria importanza nell’elaborazione del
vissuto somatico delle sensazioni corporee e del corpo nello spazio,
nell’ambito delle emozioni, soprattutto nella prima gestione
effettuata in modo analogico, e nell’ambito della comunicazione di
queste; esso infatti occupa un posto di primo piano riguardo la
prosodia ed è inoltre migliore nel riconoscimento di pattern.
2. L’emisfero sinistro, fondamentale per il linguaggio, si occupa delle
categorie, del pensiero più astratto, della logica e della causalità e
utilizza regole nell’organizzare elementi che hanno la caratteristica
di essere entità discrete.
L’emisfero destro si considera dominante per quanto riguarda
l’elaborazione delle informazioni socio-emozionali, esso è infatti
maggiormente connesso alle strutture del sistema limbico e controlla
bilateralmente il sistema nervoso simpatico, nel riconoscimento dei volti,
delle espressioni emotive del viso e dell’elemento emotivo nel discorso, ossia
nella prosodia, nell’abilità musicale, in particolare per la melodia. Esso
possiede maggior abilità nei compiti visuo-spaziali, nell’orientare il corpo
nello spazio e nell’elaborazione delle sensazioni somatosensoriali per la
costituzione dell’immagine corporea.
L’emisfero sinistro invece è dominante riguardo al linguaggio, in
particolare nell’uso della grammatica, nel ragionamento analitico, nella
risoluzione di problemi, nella capacità di trarre inferenze e di interpretare. E’
inoltre maggiore la capacità di controllo dei movimenti fini di dita, mani,
braccia e dei muscoli legati all’articolazione del linguaggio dunque bocca e
lingua.
30
1.3.8 La riscoperta di Wiliam James
L’approccio di William James rispetto alle emozioni è interessante almeno
per due motivi:
1. E’ un approccio diametralmente opposto alla visione comune.
2. Mete in evidenza un fatto non sufficientemente studiato, cioè un
certo “pattern respiratorio” + una certa frequenza cardiaca + una
certa tensione muscolare, può evocare una certa emozione, senza il
contesto ambientale specifico.
Come fisioterapisti, a volte (soprattutto nella rieducazione posturale più o
meno globale, oppure di massaggio), ci troviamo davanti casi di pazienti che
hanno cosi dette “reazioni vagali”, ma questa non è che una “vaga”
spiegazione di quello che sta succedendo.
Stando alla teoria di James, la qualità peculiare di un’esperienza emotiva e
determinata dalla retroazione nel cervello delle risposte fisiche, le quali si
presentano prima dei sentimenti. Ma non accade cosi con tutti gli stimoli che
si percepiscono. Vanno valutate le caratteristiche fisiche dello stimolo, ne va
determinato il significato che, una volta computato, innesca l’emozione,
come sostengono tutte le teorie esposte fin qui. La valutazione quindi,
congiunge gli stimoli alle risposte e gli stimoli ai sentimenti.
I processi di valutazione accessibili consciamente, non possono essere
l’unico modo in cui funziona il cervello emotivo. La causa di un’emozione
può essere ben diversa dalle ragioni che abbiamo per spiegarla a posteriori a
noi e agli altri, ma le teorie della valutazione si sono occupate delle ragioni,
non delle cause.10, 11, 12
Nella versione neurale della teoria della retroazione di William James, le
emozioni sono mediate dalle aree sensoriali e motorie della corteccia; le aree
motorie sono necessarie per produrre delle reazioni e quelle sensoriali per
percepire lo stimolo all’inizio, e poi per sentire la retroazione delle risposte.
31
Fig.1.3.8.1: Percorsi cerebrali, secondo William James
Dopo un secolo di contestazioni, oggi sono in pochi a non riconoscere che
i sentimenti sono principalmente un riflesso dei cambiamenti dello stato
corporeo (che è poi il contributo originale di James), anche se la sua
illustrazione era comprensibilmente lacunosa e va estesa in termini scientifici
moderni.
Per esempio, James fece assegnamento esclusivamente su rappresentazioni
relative ai visceri, non considerò i muscoli scheletrici come possibile fonte di
rappresentazione dei sentimenti e non fece alcuna menzione del “milieu
interno” (ambiente interno). Le attuali conoscenze suggeriscono per la
maggior parte dei sentimenti la dipendenza da cause diverse: da cambiamenti
muscoloscheletrici e viscerali, come pure del milieu interno.
Antonio Damasio nel libro “Emozione e coscienza”, (Adelphi Edizioni,
2000 ), sostiene che nel corso degli eventi più tipici, le risposte emotive sono
dirette sia al corpo sia al cervello. Il cervello produce cambiamenti
importanti dell’elaborazione neurale e questi sono una parte sostanziale di
ciò che si percepisce come un sentimento. Il corpo non è più il teatro
esclusivo delle emozioni e quindi non è l’unica fonte dei sentimenti; inoltre,
la fonte corporea potrebbe essere “virtuale”, cioè la rappresentazione del
corpo che Damasio chiama “come se”, e non del corpo “com’è”. Comunque,
ai fini dell’esperienza effettiva dei sentimenti il meccanismo del circuito del
corpo (com’è), per l’emozione e il sentimento, è più importante del
meccanismo del circuito “come se”.
32
L'idea che i nostri pensieri possano influenzare le nostre emozioni non è
nuova. In effetti, l'origine di questa teoria si puo' far risalire ai filosofi Stoici,
in particolare Epitteto, che scriveva "Gli uomini sono disturbati non dagli
eventi, ma dalla percezione che hanno di essi".
Le principali critiche alla teoria di William James e le risposte di Antonio
Damasio:
1. I pazienti con midollo spinale reciso, sembrano essere in grado
di sentire emozioni.
• Molte delle informazioni pertinenti alle emozioni, si
propagano in realtà nei nervi cranici e in particolare nel
nervo vago (N.X), che emergono sopra di qualunque
lesione midollare compatibile con la vita.
• Una parte cospicua dei segnali del corpo non si
propaga per vie nervose, ma nel flusso sanguigno,
raggiungendo anche in questo caso il sistema nervoso
centrale.
• Tutte le indagini su pazienti con una lesione al midollo
spinale, hanno rivelato qualche deficit che aumenta con
altezza della lesione.29, 30 (Da non sottovalutare il fatto
che lesioni spinali più alte, sono accompagnate da
deficit psicologici più gravi e quindi una maggiore
menomazione dei sentimenti.)
• E’ raro che le interruzioni del midollo spinale siano
complete e quindi rimangono vie di fuga per accedere
al sistema nervoso centrale.
2. Resezione del nervo vago
W. Cannon usò gli esperimenti di C.S. Sherrington sui cani e i propri
esperimenti sui gatti come punta di lancia del suo attacco a James, nel
1927.31
Le risposte emotive registrate dopo la resezione del nervo vago e del
midollo spinale, possono essere mediate dai nervi cranici non compromessi. I
cani rispondevano con rabbia alla vista dei gatti, e viceversa, anche se non
potevano muoversi, essendo paralizzati dal collo in giù. Davanti a queste
manifestazioni emotive, Cannon deduce che sono il segno sicuro della
presenza di sentimenti.
Secondo Damasio, l’errore sta nel non operare una distinzione di fondo tra
emozione e sentimento e nel non riconoscere la catena sequenziale e
unidirezionale del processo, dall’induttore, all’emozione automatica, alla
rappresentazione dei cambiamenti emotivi, al sentimento.
33
1.4
Emozioni di fondo e umore
Quando avvertiamo che una persona è tesa o nervosa, scoraggiata o
entusiasta, depressa o allegra, senza che abbia detto nulla che possa indicare
uno di questi possibili stati, è perché abbiamo colto l’emozione di fondo da
sottili particolari della postura del corpo, dalla velocità e dalla forma dei
movimenti, da minimi cambiamenti della quantità e dalla velocità dei
movimenti oculari e dal grado di contrazione dei muscoli facciali.
Possono generare emozioni di fondo gli stessi processi di regolazione della
vita, ma anche i processi ininterrotti di conflitto mentale, manifesto o
segreto, poiché portano alla prolungata soddisfazione o inibizione di impulsi
e motivazioni.
Per esempio, le emozioni di fondo possono nascere:
– praticando un’intensa attività fisica (dal picco di euforia che segue
il jogging mattutino, alla depressione generata da un lavoro
manuale privo di ritmo e di interesse);
– rimuginando su una decisione difficile;
– assaporando la prospettiva di un meraviglioso piacere che si
attende, etc.
In breve, alcune condizioni dello stato interno generate da processi
fisiologici in corso o dalle interazioni dell’organismo con l’ambiente, o da
entrambi i fattori, causano risposte che costituiscono emozioni di fondo. Tali
emozioni ci consentono di provare, tra gli altri, i sentimenti di fondo di
tensione o rilassamento, di affaticamento o energia, di benessere o
malessere, di anticipazione o timore.
Nelle emozioni di fondo, le risposte costitutive sono più vicine al nucleo
centrale della vita e il loro bersaglio è più interno che esterno. A svolgere il
ruolo principale nelle emozioni di fondo sono i profili del milieu interno, e
dei visceri. Pur non utilizzando il repertorio differenziato delle espressioni
facciali esplicite che permettono di distinguere senza difficoltà le emozioni
primarie e sociali, anche le emozioni di fondo si esprimono con grande
ricchezza nei cambiamenti muscoloscheletrici, per esempio nei dettagli della
postura e nella forma complessiva dei movimenti del corpo.
Quando le emozioni di fondo tendono a diventare abbastanza frequenti o
addirittura costanti per lunghi intervalli di tempo, è preferibile parlare di
umore e non di emozione.
L’umore può essere patologico e in questo caso si parla di disturbi
dell’umore. La depressione e la mania sono gli esempi classici. Siamo
depressi quando l’emozione della tristezza si trascina per giorni, settimane e
mesi, quando i pensieri malinconici, il pianto, la perdita di appetito, di sonno
e di energia non si presentano in un’unica raffica, o in un’onda leggera, ma
34
come una modalità esistenziale continua, fisicamente e mentalmente. Le
stesse considerazioni valgono anche per la mania.32
L’umore, essendo costituito da un’emozione prolungata e dai sentimenti
che ne conseguono, porta oltre il tempo normale le collezioni di risposte che
caratterizzano le emozioni:
– cambiamenti endocrini,
– cambiamenti del sistema nervoso autonomo,
– cambiamenti del sistema muscoloscheletrico,
– cambiamenti della modalità di elaborazione delle immagini.
Quando tutto il blocco di reazioni si dispiega in modo persistente e
inopportuno per lunghi periodi, l’individuo che ne è colpito paga un prezzo
proibitivo.
Le differenze cruciali fra le emozioni di fondo e le e m o z i o n i
convenzionali dipendono:
1. dall’origine dell’induttore immediato:
– emozioni convenzionali ⇒ di solito esterno,
– emozioni di fondo ⇒ è interno.
2. dal punto focale delle reazioni, i cui bersagli preferiti sono:
– emozioni convenzionali ⇒ il sistema muscoloscheletrico e il
sistema viscerale,
– emozioni di fondo ⇒ e l’ambiente interno.
E’ verosimile che l’evoluzione delle emozioni abbia avuto inizio con le
cosi dete emozioni di fondo. Quando si mettono a confronto le emozioni di
fondo con le sei emozioni primarie e con le cosiddette emozioni sociali, si
nota un grado progressivo di specificità degli induttori, di specificità delle
reazioni e di specificità dei bersagli delle reazioni, una differenziazione
progressiva del controllo, da globale a locale.
Il termine “sociale”, o “secondario”, non deve far pensare che queste
emozioni siano prodotte esclusivamente dall’educazione nell’ambito di una
certa cultura.33 Diverse emozioni sociali iniziano a comparire in una fase
successiva dello sviluppo umano, probabilmente soltanto dopo l’inizio della
maturazione di un concetto di sé; la vergogna e la colpa sono esempi di
questo sviluppo successivo (i neonati non provano vergogna né sensi di
colpa, ma i bambini di due anni si). Questo non significa, tuttavia, che le
emozioni secondarie non siano biologicamente predeterminate, in parte o in
prevalenza.
35
1.5 Ruolo dei sentimenti nell’omeostasi
Nella prima parte del Novecento, W.B. Cannon descrive una funzione
biologica che chiamò omeostasi: “... le reazioni fisiologiche coordinate che
mantengono la maggior parte degli stati stazionari del corpo ... e che sono
così caratteristiche dell’organismo vivente.”34
Un semplice organismo unicellulare, non soltanto è vivo, ma è
determinato a rimanere tale. Questo impulso di rimanere vivi, non è una
proprietà esclusiva degli esseri umani, in un modo o nell’altro, è comune a
tutti gli organismi viventi. A variare è il grado di conoscenza di tale impulso
nei diversi organismi. Ma l’impulso è comunque presente, che l’organismo
lo sappia o meno. Grazie alla coscienza, gli esseri umani ne hanno una viva
consapevolezza.
La funzione delle sensazioni soggettive (un’emozione, il sentire
quell’emozione e il sapere di sentire quell’emozione) è quella di modulare il
comportamento stesso: gli eventi sentimentali soggettivamente rilevati,
costituiscono un complesso di segnali interni (retroazione), che influenzano
il soggetto nell’evoluzione e nello sviluppo del comportamento di risposta.
Per esempio, la paura intesa come segnale interno, facilita la fuga, la rabbia
facilita l’attacco, il piacere sessuale l’avvicinamento verso il partner, etc.
E’ attraverso i sentimenti (i quali sono diretti verso l’interno e privati), che
le emozioni (le quali sono dirette verso l’esterno e pubbliche), iniziano ad
avere effetto sulla mente. Ma l’effetto completo e durevole dei sentimenti
richiede la coscienza, poiché è soltanto con l’avvento di un senso di sé che
l’individuo viene a conoscenza dei sentimenti che ha.
Le emozioni sono di per sé utili, ma non sufficienti in quanto solo il
processo del sentire inizia a mettere sull’avviso l’organismo nei confronti del
problema che l’emozione ha cominciato a risolvere. Già il semplice processo
del sentire fornisce all’organismo un incentivo a dare retta ai risultati della
manifestazione emotiva (la sofferenza inizia con sentimenti, benché sia più
intensa quando la si conosce e la stessa considerazione vale per la gioia).
La disponibilità del sentimento è anche il trampolino per lo sviluppo
successivo: il sentimento di sapere che abbiamo sentimenti. A sua volta,
sapere è il trampolino per il processo di pianificazione di risposte specifiche
e non stereotipate che possono fare da complemento a un’emozione, oppure
garantire che i guadagni immediati procurati dall’emozione possano essere
mantenuti nel tempo.
La corteccia orbito-frontale (prefrontale), è implicata nella capacità delle
emozioni di influenzare le nostre strategie decisionali, prima della
comprensione razionale. Non solo, le nostre reazioni somatiche (retroazione),
possono precedere e guidare gli atti decisionali.10, 11, 12
36
Fig.1.5.1: Teoria del marcatore somatico
Studiando pazienti con lesioni della regione prefrontale, specie del settore
ventrale e mediale, e nella regione parietale destra, Antonio Damasio ha
elaborato la cosiddetta teoria del marcatore somatico.35 Questi pazienti
presentavano un disturbo della capacità di prendere decisioni vantaggiose in
situazioni di rischio e di conflitto e una riduzione selettiva della capacità di
entrare in risonanza emotiva in queste situazioni, pur conservando tutte le
capacità emotive. Tali osservazioni indicano che la riduzione selettiva
dell’emozione nuoce alla razionalità non meno dell’eccesso di emozione.
Ad esempio un bambino sta giocando tranquillamente ed improvvisamente
viene aggredito da un cane. Lo stato di terrore ed attivazione fisica
(tachicardia, sudorazione, senso di freddo e tensione muscolare, etc.),
associato a quest’evento viene registrato nel suo cervello come un segnale
somatico di paura legato all’idea e all’immagine del cane. La presenza di
tutti questi segnali (immagini retiniche, aggiustamenti muscolo-posturali e
dagli aggiustamenti muscolo-viscerali-endocrini), descrive sia il cane che si
dirige verso il corpo del bambino, sia una parte della reazione del corpo del
bambino verso il cane mentre l’organismo del bambino si regola per
continuare a elaborare l’avvicinamento del cane in modo soddisfacente.
37
Non esiste una percezione pura di un oggetto nell’ambito di un canale
sensoriale. Per percepire un oggetto, visivamente o in un altro modo,
l’organismo ha bisogno di segnali sensoriali specializzati e dei segnali che
derivano dagli aggiustamenti del corpo necessari affinché si realizzi la
percezione.
L’affermazione che non esiste una percezione pura è corretta anche nei
casi in cui si impedisce alla persona di muoversi:
• In un individuo curarizzato, nessun muscolo scheletrico si
muove, perché il curaro blocca i recettori nicotinici per il
neurotrasmettitore acetilcolina. Ma i muscoli “viscerali” coinvolti
nell’emozione possono muoversi liberamente, poiché il curaro non
ha effetto sui recettori muscarinici per l’acetilcolina.
• L’affermazione è corretta anche quando si pensa
semplicemente a un oggetto, senza percepirlo effettivamente nel
mondo esterno all’organisomo. Il motivo è questo: nelle registrazioni
che teniamo degli oggetti e degli eventi che abbiamo percepito sono
compresi innanzitutto gli aggiustamenti motori compiuti per avere la
percezione e anche le reazioni emotive susseguenti. Sono tutti
registrati nella memoria, benché in sistemi distinti. Di conseguenza,
anche quando stiamo “soltanto” pensando a un oggetto, tendiamo a
ricostruire ricordi non soltanto di una forma o di un colore, ma anche
del coinvolgimento percettivo richiesto dall’oggetto e delle reazioni
emotive di accompagnamento, per quanto lievi possano essere state.
Ritornando al bambino spaventato dal cane, quando il bambino incontrerà
in seguito il cane, la sua sola vista potrà generare una risposta fisica simile a
quella originaria senza che sia aggredito direttamente.
Quando compare uno stimolo emotivo, vengono attivati (tramite i canali
sensoriali: vista, udito, etc.), l’amigdala ed il sistema limbico che, a loro
volta inducono una reazione fisica piacevole o spiacevole. Questa reazione
fisica stimola l’amigdala e sistema limbico, ma anche la corteccia somatosensoriale ed insulare a formare una mappa somato-sensoriale della reazione
fisica allo stimolo (cioè uno schema delle sensazioni che abbiamo provato in
risposta a quello stimolo). La corteccia orbito-frontale collega lo stimolo
emotivo a questa mappa somato-sensoriale, creando il cosiddetto marcatore
somatico. Quando, in un secondo tempo, si presenta un stimolo emotivo
simile a quello che ha innescato la prima risposta fisica, la corteccia orbitofrontale (con la collaborazione dell’amigdala), riattiva le mappe somatosensoriali legate allo stimolo emotivo originario. Questa riattivazione
provocherebbe quella sensazione fisica piacevole o spiacevole (marcatore
somatico), capace di avvertirci della possibile natura favorevole o
sfavorevole dello stimolo attuale e quindi di aiutarci a prendere una decisione
al riguardo.
38
In sostanza, il marcatore somatico può essere inteso come un tentativo di
ricostruire lo schema delle sensazioni fisiche che si sono presentate quando è
comparso lo stimolo simile a quello attuale in relazione alle conseguenze
positive o negative che aveva prodotto per l’individuo. Questa associazione
viene appresa e può essere modificata dall’esperienza.
1.6 Il controllo delle emozioni
Frenare un’emozione ci riesce più o meno quanto trattenere un starnuto.
Possiamo sforzarci di dissimulare le emozioni e riuscirci in parte, ma non del
tutto. Alcuni di noi, sotto l’influenza culturale adeguata, diventano piuttosto
bravi a dissimulare, ma in sostanza ciò che si acquisisce è la capacità di
mascherare alcune delle manifestazioni esteriori dell’emozione senza riuscire
mai a bloccare i cambiamenti automatici che avvengono nei visceri e nel
“milieu” interno.
Fig.1.6.1: La repressione emotiva
Ad esempio, l'attivazione di uno stato di ansia nell'uomo è dovuta a una
serie di fattori collegati e integrati, predisposti psicologicamente per attivare
una risposta cognitivo - comportamentale di attacco - fuga. Nel complesso
questa reazione nasce dalla percezione da parte dell'individuo di uno stimolo
(esterno o interno) che è successivamente valutato a livello cognitivo o
subconscio con la possibilità di attribuire un significato di “minaccia” allo
stimolo stesso. Si attivano quindi, a livello macromolecolare, dei meccanismi
biologici collegati allo stato di funzionalità del complesso recettoriale
GABA.
39
L'attivazione di questo complesso recettoriale comporta, a causa
dell'immediata chiusura al passaggio per gli ioni cloro all'interno dei neuroni,
un successivo “arousal” (eccitazione), a livello del SNC. Ciò accade in
particolare per quelle strutture con una ricca distribuzione di questo
complesso recettoriale, come l’amigdala, il cervelletto, il sistema
ipotalamo–ipofisario.
Come conseguenza dell'attivazione di questo meccanismo si osserva
l'instaurarsi di uno stato emozionale di allarme e, da un punto di vista
neurofisiologico, lo scatenamento di una serie di meccanismi neurovegetativi
(modificazioni di frequenza cardiaca, pressione arteriosa, tensione
muscolare, sudorazione cutanea) e neuroendocrini (incremento di ACTH, β endorfina, cortisolo, prolattina, adrenalina), che nel loro complesso sono in
grado di sostenere meglio l'organismo nella situazione di attacco/fuga.
La valutazione cognitiva di uno stimolo come “minaccioso” determina
quindi, per mezzo di tali meccanismi, un arousal cognitivo e fisiologico, che
si blocca in una spirale di attivazione cronica (ansia cronica), se la reazione
attacco-fuga finale è per qualche motivo bloccata; ciò è quanto
frequentemente accade nella specie umana, in quanto gli stimoli
cognitivamente valutati come minacciosi sono per la maggior parte degli
stimoli interni di carattere conflittuale.
Si può intervenire su questo meccanismo a vari livelli:
– per mezzo di tecniche psicoterapeutiche, che tendono a modificare la
natura cognitiva dello stimolo;
– per mezzo di farmaci (benzodiazepine), in grado di bloccare
chimicamente a livello macromolecolare il meccanismo di arousal;
– per mezzo di tecniche di rilassamento.
Le tecniche di rilassamento muscolare nella terapia dell'ansia cronica
producono, mediante una risposta trofotropica a livello ipotalamico, una
modulazione sia per la componente emozionale dell'ansia sia per i suoi
correlati neurovegetativi ed endocrini. Inoltre, tendono ad agire
indirettamente sulla componente cognitiva della valutazione dello stimolo in
quanto favoriscono la percezione del controllo e la formazione di
convinzioni di abilità nell'autocontrollo sullo stimolo “minaccia”. In tal
modo si determina un'attenuazione o un annullamento della valutazione
negativa dello stimolo stesso.
1.7 L’empatia
Quando osserviamo il comportamento altrui siamo esposti ad una varietà
di espressioni, che non si riguardano unicamente la tipologia delle azioni
40
osservate, ma comprendono anche le emozioni e le sensazioni che
accompagnano tali azioni. Quando ciò accade, si crea automaticamente un
legame affettivo interpersonale dotato di significato.
L'empatia è precisamente la capacità di stabilire questo legame.36
Il legame empatico non è limitato alla nostra capacità di comprendere
quando qualcuno sia triste, felice od arrabbiato, l'empatia, in senso largo,
consente anche di comprendere implicitamente le sensazioni esperite
dall'altro.
Nell'esperienza quotidiana siamo in grado di decodificare la qualità delle
sensazioni ed emozioni contenute ed espresse nel comportamento altrui,
senza fare ricorso ad espliciti sforzi cognitivi. Il significato delle espressioni
del comportamento affettivo sembra essere compreso automaticamente ed
implicitamente dall'osservatore senza la necessità di alcuna complessa
mediazione cognitiva.
Antonio Damasio ha ripetutamente sottolineato come uno dei meccanismi
che permette di provare emozioni consista nell'attivazione di un circuito
nervoso di tipo "come se", cioè un circuito di simulazione. Questi
meccanismi di simulazione creano una rappresentazione/modellizzazione
delle modificazioni corporee indotte dall'esperienza delle emozioni attraverso
un'attivazione dall'interno delle mappe corporee sensoriali.37
Secondo Gallese, è possibile che l'attivazione di questi circuiti "come se"
possa avvenire non solo dall'interno, ma anche dall'osservazione degli altri.38
Risultati preliminari sembrano suggerire che le stesse strutture nervose
attive durante l'esperienza soggettiva di sensazioni di emozioni, siano attive
anche quando cerchiamo di decodificare negli altri quelle stesse sensazioni
ed emozioni. Questo tipo di attivazione "esterocettiva" rappresenta un
ulteriore esempio di simulazione.
Le emozioni costituiscono per l'individuo uno degli strumenti più precoci
per acquisire conoscenze circa il proprio stato interno, consentendogli di
apportare, ove necessario, aggiustamenti comportamentali volti a conseguire
un'ottimizzazione dello stato interno. Ciò indica una forte interazione tra
emozioni ed azione.
L'azione coordinata dei circuiti nervosi sensori-motori ed affettivi,
consente di semplificare ed automatizzare innumerevoli strategie
comportamentali messe in essere dagli organismi per garantirsi la
sopravvivenza.39
L'immaginazione motoria, l'osservazione d'azioni, l'imitazione d'azioni, e
l’empatia sembrano condividere lo stesso meccanismo di base: una
simulazione incarnata (simulazione di azioni, di sensazioni e di
emozioni).38, 40
La simulazione incarnata consente di creare modelli del mondo reale o
immaginario. La nostra comprensione delle relazioni interpersonali dipende
dalla capacità di modellare il comportamento altrui attraverso l’impiego
41
delle stesse risorse neurali utilizzate per modellare il nostro comportamento.
Molti studi di psicologia sociale dimostrano che tendiamo ad
accompagnare la nostra comprensione liguistica o la nostra attività
immaginativa con reazioni corporee che simulano le esperienze reali.41
Gli stimoli, indipendentemente dalla loro natura esterna o interna,
inducono forme di simulazione incarnata con la modalità di una reazione
automatica, quasi riflessa. Questi studi mostrano una sorprendente relazione
tra differenti aspetti delle nostre funzioni cognitive più elevate e la
simulazione incarnata.
Le emozioni riflettono le intenzioni: di conseguenza, la consapevolezza
delle emozioni porta alla consapevolezza delle intenzioni.
42
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