Lo stretching e l'attività sportiva Autori: Vincenzo VERGINE e Biagio MORETTI Fonte: Assoallenatori La letteratura scientifica mette in discussione il ruolo dello stretching in tutti i programmi di warming‐ up e cooling‐down, ormai parte integrante di tutta la pratica dell’attività fisica e sportiva. I criteri di classificazione sono numerosi e si basano su diversi parametri, tra cui i principali sono: • Sedi anatomiche: analitico‐globale • Movimento: statico‐dinamico • Applicazione: attivo‐passivo • Tempo: stretching‐posture Prenderemo di seguito in considerazione l’efficacia dello stretching in varie fasi dell’attività sportiva, discutendo le ragioni che giustificano il suo impiego: Stretching e prevenzione delle lesioni muscolo‐tendinee La capacità del muscolo di assorbire l’energia dipende sia dalle componenti muscolari che da quelle tendinee (Safran). Quando gli elementi contrattili sono attivi, un tessuto tendineo in grado di allungarsi assorbe più energia, riducendo l’esposizione delle fibre muscolari al trauma. Dopo lo stretching dell’unità miotendinea si è osservato un allungamento delle fibre tendinee che perdono la loro efficacia nell’assorbire energia: tale fenomeno è definito creeping effect ed è reversibile dopo circa un’ora dal termine dell’allungamento. Studi comparati evidenziano che non esiste alcuna correlazione tra l’utilizzo sistematico dello stretching nei protocolli di warming‐up e la prevenzione delle lesioni muscolo‐tendinee (cfr. Van Mechelen et al. su Jogging e lesioni; Pope, Addestramento militare e lesioni; Cross, Calcio e stretching). I tre aspetti che spiegano l’inefficacia dello stretching nella prevenzione delle lesioni sono: • l’effetto “analgesico” dello stretching • il microtrauma correlato allo streching • il fenomeno del “creeping”. Shrier e Magnusson hanno evidenziato che l’effetto analgesico dello stretching induce un’accresciuta tolleranza all’allungamento. La stress tolerance (Magnusson) chiarisce il meccanismo per cui l’atleta può andare in overstretch a causa della sua aumentata tolleranza al dolore: i recettori del dolore sono come “anestetizzati” e questo può spiegare il senso di benessere che si prova dopo aver svolto esercizi di stretching. A causa di questo fenomeno, tuttavia, l’atleta riesce ad allungare più del solito, con conseguente aumento del rischio d’infortunio. L’allungamento passivo induce un incremento di tensione muscolare simile alla contrazione muscolare massimale. La conseguenza è che le unità contrattili possono essere sovraccaricate o danneggiate, col rischio di lesioni durante l’attività sportiva. Un allungamento superiore al 20% della lunghezza delle fibre a riposo può danneggiare la giunzione miotendinea (Moepherson). Durante lo stretching si verifica una riorganizzazione delle fibre collagene del tendine, con conseguente riduzione della capacità di assorbimento e relativo sovraccarico muscolare. Tale fenomeno, anche se reversibile, ha una fase di latenza abbastanza lunga e il tempo che intercorre tra il pregara e la gara potrebbe essere insufficiente al pieno recupero. Ciò potrebbe rappresentare un fattore di rischio traumatico. In sintesi: l’analisi della letteratura mostra una correlazione non chiara tra l’utilizzo dello stretching negli esercizi di warm‐up e la prevenzione delle lesioni. Malgrado la mancanza di prove scientifiche, molti autori ritengono comunque che lo stretching prevenga le lesioni muscolo‐tendinee. Suggeriamo pertanto che lo stretching venga considerato un’attività da dosare con competenza, per evitare danni causati dalla sua cattiva applicazione. Un’ulteriore distinzione dev’essere fatta per gli sport nei quali prevalgono i cicli di allungamento‐accorciamento (salti), dove è necessaria un’ideale compliance o conformità muscolo‐tendinea per controllare l’energia elastica accumulata, e quelli in cui i gesti sono più lenti e ciclici e le forze muscolari devono essere trasmesse direttamente alle articolazioni: in queste ultime attività, perseguire un’elevata compliance può sortire un effetto negativo. Stretching e performance Molti studi in letteratura hanno dimostrato che esiste una correlazione tra l’applicazione dello stretching e la prestazione: le prestazioni più studiate sono state la forza e la velocità. Wieman e Klee hanno dimostrato che l’allungamento passivo riduce le prestazioni negli sprint in serie. In un lavoro comparativo hanno somministrato ad un gruppo di atleti 15 secondi di stretching ai flessori ed agli estensori dell’anca prima di eseguire 40 m di sprint: il risultato è stato un aumento del tempo di 0,14 secondi. Il gruppo di controllo ha invece svolto corsa lenta tra le serie di sprint e non ha fatto registrare alcun incremento significativo del tempo di percorrenza (+ 0,03 secondi). Nelson ha sottolineato che l’allungamento passivo prima di competizioni agonistiche può avere effetti negativi sulla forza esplosiva, sulla potenza e sulla velocità. Fowles ha constatato che lo stretching prolungato provoca una diminuzione del firing muscolare che dura circa 15 minuti dopo l’applicazione e un decremento della forza contrattile (9%) che persiste per circa un’ora. Henning e Podzielny hanno registrato una riduzione del 4% delle prestazioni di salto in alto e della forza muscolare quando nel riscaldamento erano inclusi esercizi prolungati di stretching. Church ha studiato differenti protocolli di warm‐up: 1) warm‐up senza stretching; 2) warm‐up con stretching statico; 3) warm‐up e pnf (Proprioceptive Neuromuscular Facilitation). I risultati hanno evidenziato una risposta maggiormente negativa nel terzo protocollo (pnf), in relazione soprattutto a prestazioni di salto. Cornwell ha monitorato gli effetti dello stretching passivo in relazione all’esecuzione di squat e contromovimenti ed ha messo in evidenza una ridotta attività elettromiografica del gastrocnemio e del soleo. Una migliore mobilità articolare pare, invece, avere un effetto positivo nelle prestazioni di resistenza: ciò è spiegato da una minore resistenza dei gruppi muscolari ritratti, che consente una corsa globalmente più economica. Sulla base della letteratura scientifica presentata, si può affermare che le esercitazioni di stretching prima di una competizione agonistica riducono le prestazioni di forza esplosiva e la performance conseguente. Stretching e flessibilità muscolare Le varie tecniche di allungamento muscolare (passivo, attivo, statico, dinamico balistico e pnf) sono state elaborate allo scopo di aumentare la flessibilità e l’escursione articolare. Le tecniche di pnf sembrano essere le più efficaci per aumentare l’escursione articolare: esse, tuttavia, possono aumentare il rischio di lesioni a causa dell’aumentata tolleranza all’allungamento del complesso muscolo‐tendineo; tra i vari fattori che rendono la pnf efficace nell’aumentare l’escursione articolare, è importante la postura assunta durante l’applicazione. L’allungamento balistico è da evitarsi per le microlesioni che può provocare a livello del connettivo. Lo stretching passivo per 15‐30 secondi risulta più efficace di quello dinamico ed è indipendente dal riscaldamento. In sintesi, l’efficacia dei vari protocolli al fine di migliorare l’escursione articolare è stata valutata in relazione alla durata e alla tipologia del programma da somministrare. Sulla base di numerose esperienze si è potuto constatare che i miglioramenti più importanti si ottengono proponendo somministrazioni da 6 a 90 minuti con sessioni multiple giornaliere: ciò produce effetti che perdurano per alcune settimane e questi sono correlati alla postura assunta e al timing impiegato. Stretching e recupero dopo l’attività fisica È convinzione diffusa che lo stretching dopo una competizione agonistica o dopo sedute di allenamento intenso favorisca il recupero. Freiwald e collaboratori hanno notato che esercizi di stretching statico comprimono i capillari riducendo il flusso sanguigno: ciò determina condizioni fisiologiche non ottimali per il recupero muscolare. Schober e collaboratori hanno verificato l’efficacia dei tre metodi più usati per il recupero muscolare e hanno constatato che lo stretching statico prolungato e la pnf non aiutano il recupero: solo lo stretching dinamico, effettuato a intervalli, può migliorare il recupero dopo lo sforzo fisico. Si può dunque asserire che lo stretching non è lo strumento più idoneo per facilitare il drenaggio sanguigno nel microcircolo muscolare: d’altra parte, sembra che le esercitazioni di stretching non abbiano alcun effetto sulla doms (Delayed Onset Muscular Soreness). Lo stretching eseguito dopo uno sforzo prolungato determina anche un incremento di creatinchinasi (ck) e una riduzione della forza nel distretto muscolare allungato, una funzione importante nel rilassamento muscolare; l’attività fisica, infatti, aumenta la stiffness (rigidità) passiva del muscolo, correlata soprattutto a contrazioni isometriche e concentriche più che a quelle eccentriche. Dopo una partita di calcio la stiffness muscolare aumenta considerevolmente: Magnusson ha dimostrato che l’allungamento dopo la partita può ridurla senza modificare peraltro le proprietà viscoelastiche dei tessuti interessati. La ricerca sul campo: il laboratorio Fiorentina Scopo della nostra ricerca è verificare le nuove indicazioni metodologiche sullo stretching e confrontarle con quelle della letteratura internazionale. Abbiamo scelto di verificare la relazione che intercorre tra l’applicazione delle principali tecniche di warm‐up, in cui lo stretching svolge un ruolo‐chiave, e la performance muscolare dell’atleta. A tale scopo si è preferito utilizzare le tre tecniche di allungamento muscolare maggiormente utilizzate nell’ambito sportivo in generale e specificatamente nel calcio: 1) stretching statico prolungato; 2) pnf; 3) stretching dinamico. Tali tecniche sono state comparate con un warm‐up in cui non è presente alcuna tecnica di stretching. Le qualità fisiche indagate sono state selezionate in funzione del ruolo che esse ricoprono in relazione alla performance muscolare: 1) forza e potenza degli arti inferiori; 2) stiffness; 3) pulse (impulso). Materiali e metodi Gli strumenti utilizzati per la ricerca sono: 1) macchine muscolari isotoniche; 2) power control; 3) dynabiopsy; 4) cellule fotoelettriche. Le macchine isotoniche, modello rom della Technogym, sono la leg extension (muscoli estensori della coscia) e la standing leg curl (flessori della coscia). Il power control, modello Tecnogym, applicato direttamente sulle macchine isotoniche suddette, ha lo scopo di rilevare la potenza muscolare espressa in watt dai gruppi muscolari indagati. Il dynabiopsy, modello Polymed, ha la funzione (in questo studio) di indagare, per tutte le fasi del salto, la forza dinamica, la stiffness della coscia e della gamba, e la pulse che indica la qualità della coordinazione inter‐ e intramuscolare. Le cellule fotoelettriche sono dotate di pedana con rilevamento della capacità di reazione. Presentazione del lavoro La ricerca è stata condotta al centro sportivo di Caldine (Fi), sede di riferimento del settore giovanile dell’Acf Fiorentina e ha visto impegnato il gruppo degli allievi nazionali della stessa società. Il gruppo di atleti esaminati è stato di 24 unità 1. 20 classe 1992 2. 4 classe 1993 I tipi di warm‐up applicati sono stati 1. Stretching statico prolungato 5 serie di stretching da 30'' e 20'' di recupero per gruppo muscolare; 2. pnf 5 serie da 5'' isometria e 30'' di stretching per gruppo muscolare; 3. Stretching dinamico 5 serie da 10 ripetizioni per gruppo muscolare; 4. Corsa continua blanda 10'. I test effettuati sono stati 1. Test di potenza con power control 3 per ogni gruppo muscolare dopo i diversi tipi di warm‐up; 2. Test di forza degli arti inferiori con dynabiopsy 3 dopo ogni tipo di warm‐up 3. Test sulla stiffness 3 dopo ogni tipo di warm‐up; 4. Test sulla pulse 3 dopo ogni tipo di warm‐up. Analisi dei risultati I risultati ottenuti confermano le tesi degli ultimi lavori internazionali e mettono in luce nuovi importanti aspetti di cui tener conto nel rapporto tra i differenti warm‐up‐stretching e la performance. L’analisi e l’interpretazione dei dati evidenzia che: 1. Il warm‐up di tipo dinamico contribuisce a sviluppare valori di potenza maggiori rispetto agli altri tipi di warm‐up. Esso, inoltre, consente di mantenere un elevato valore di stiffness a livello della gamba. Ciò rende l’atleta maggiormente predisposto a lavori di forza e velocità. Il valore pulse, parametro di coordinazione intra‐ ed intermuscolare, non sembra essere influenzato dai diversi tipi di warm‐up, quanto dalle specifiche capacità intrinseche dell’atleta. Il warm‐up effettuato tramite tecnica pnf è stato quello che ha prodotto i risultati peggiori in termini di potenza espressa. Con tale tecnica, anche la stiffness diminuisce. Conclusioni In sintesi, dopo un’attenta analisi dei dati, possiamo affermare che il warm‐up di tipo dinamico si è dimostrato il più adatto al pregara o prima di esercizi di tipo massimale o submassimale, ove risulti necessaria una ottimale attivazione neuronale e un’elevata stiffness (forza‐velocità). La tecnica meno adatta ad un warm‐up pregara si è dimostrata la pnf, in quanto riduce la potenza, la reattività e la stiffness indispensabili in gara o in allenamenti di tipo massimale o submassimale. Prima di massime performance, la corsa blanda è da preferire allo streching statico. La pulse, che ci fornisce indicazioni sul livello di coordinazione sia di tipo inter‐ che intramuscolare, non risulta essere direttamente influenzata dal tipo di warm‐up. La capacità di reazione non sembrerebbe significativamente modificata in relazione alle differenti tecniche di stretching utilizzate. * Professor Vincenzo Vergine, Docente di Metodi e sistemi di valutazione all’Università di Bari e responsabile dell’area fisica del settore giovanile della Fiorentina * Professor Biagio Moretti, Presidente del corso di laurea di Scienze motorie dell’Università di Bari.