La scultura greca - Corso di Archeologia

La scultura greca
Lezioni del marzo 2011
Miscellanea a cura di Sandro Caranzano , riservati
ai fruitori del corso di archeologia presso
l'Università Popolare di Torino 2010-2011
Premessa:
Le origini:
Un excursus sull’evoluzione della scultura greca necessiterebbe di un vero e proprio
volume, tanto ampia è la produzione letteraria della critica accreditata. Per questa
ragione, vogliamo limitarci a fornire un breve riassunto delle principali personalità
artistiche presentate durante il corso, rimandando alla lettura dei molteplici
compendi di storia dell’arte pubblicati sino ad oggi.
Usualmente, l'arte dell'antica Grecia viene suddivisa in quattro periodi principali,
partendo dal punto di vista dello stile: “arcaico”, “severo”, “classico” ed “ellenistico”.
Il “periodo arcaico” è convenzionalmente fissato a partire dal X sec. a.C., sebbene si
abbiano pochissime informazioni sulla produzione artistica greca nei due secoli
precedenti (il “Medioevo ellenico”). Le Guerre persiane (480-448 a.C.) sono
normalmente ritenute la linea di separazione tra il “periodo arcaico” e il successivo
“periodo classico”, mentre il regno di Alessandro Magno (336-323 a.C.) segna la
separazione convenzionale tra il “periodo classico” e quella “ellenistico”. Il punto di
arrivo della parabola dell’arte greca e fissata al 146 a.C., quando la Grecia diventa
Provincia romana.
Una vera e propria statuaria greca per caratteri, filosofia e stile può essere
identificata a partire dall’VIII sec a.C. con il superamento delle tradizioni dedalica,
erede diretta delle forme artistiche di età micenea , attraverso l’intermediazione
esercitata dal medioevo ellenico.
La statuaria arcaica è caratterizzata da kouroi (sing. kouros/”ragazzo”) e da korai
(sing. kore/”ragazza”). Le opere scultoree sono di dimensioni variabili, dai quindici
centimetri ad oltre due metri di altezza; possono essere di bronzo, di pietra (marmo)
o di altri materiali. Il kouros dell'età arcaica presenta un modellato plastico imitativo
della natura ma con una forte accentazione geometrica perché le parti anatomiche –
spesso abbastanza proporzionate – sono il più delle volte ridotte a elementi
semplici, quali poligoni e solidi regolari. Nell'Apollo da Tebe il petto, l'addome e
l'arcata costale sono incisi nel bronzo, mentre il torso appare come un trapezio con
la base minore rivolta verso il basso.
Kore di Antenore, Atene, Museo
dell’Akropolis (ultimo quarto del VI sec
a.C.).La statua e la base inscritta sono
state trovate nel febbraio 1886, a nordovest dell’Eretteo. Antenore, secondo le
fonti fu autore del gruppo dei
Tirannicidi, distrutto nella colmata
persiana e sostituito, nel 480 a.C.,
dall’opera di Kritios e Nesiotes. Marmo
“insulare” (altezza m. 2,15).
Moscophoros “portatore di vitello”;
dall'Acropoli di Atene, 570-560 a.C.
(altezza m. 1,65): Dedicata da Rhombos
ad un dio, raffigura un giovane
sorridente che porta sulle spalle un
vitello. Gli avambracci flessi con le mani
che afferrano i piedi dell'animale, creano
con le zampe una evidentissima forma
ad "x". Appare evidente il modellato
plastico che si fa più imitativo della
realtà, soprattutto nella testa del vitello.
Si tratta di un'opera a funzione religiosa,
rappresentativa delle offerte animali
tipicamente in uso in questo periodo.
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La postura è abbastanza rigida, con le figure rappresentate in piedi, con un arto
inferiore avanzato. Il movimento di avanzamento è spesso accompagnato dalla
flessione dell'avambraccio che regge un'offerta votiva o uno strumento
caratterizzante l'attività del personaggio rappresentato. Le figure sono quasi sempre
nude, caratteristica che probabilmente deriva dall'uso sportivo (gli atleti
gareggiavano nudi, oppure coperti con armi militari). Al contrario, le korai sono
vestite con himation, peplo o chitone che ne nascondendo le membra, lasciando in
evidenza solo le curve del corpo.
I volti presentano un sorriso che probabilmente indica l'eterna felicità, la superiorità
dell'anima derivante dal distacco dagli affanni terreni. Queste statue, qualunque sia
la loro grandezza, raffigurano dei, atleti vincitori di gare o militari valorosi morti in
guerra. Quando sono offerte agli dei, hanno una funzione dedicatoria o votiva;
quando invece sono poste in prossimità di sepolcri hanno la funzione di ricordare il
defunto. Le statue di grandezza superiore al naturale, suggeriscono una soggezione
psicologica nel fruitore dell'opera e, in forma implicita, tendono a riconoscerne la
grandezza eroica. La grande maggioranza delle decorazioni sono andate perse, ma
tracce rilevate con il metodo della fluorescenza su alcune opere indicano che molto
probabilmente la scultura era resa policroma con applicazioni di strati di pittura.
Spesso venivano colorati anche gli occhi, cosa che conferiva a queste sculture un
realismo impressionante.
Hera di Cheramyes (VI sec a.C.): Originariamente realizzata a Samo, la kore è oggi conservata nel
Museo del Louvre di Parigi. Il nome di Cheramyes – inciso sulla statua stessa – è
per certi versi enigmatico; esso non viene citato da nessuna autore dell’antichità e
potrebbe indicare sia lo scultore che realizzò l’opera, sia un dedicante. La Hera di
Samo è uno dei più antichi esempi di statuaria greca ionica. Alta un metro e
novantadue centimetri, è un modello di grande essenzialità geometrica ma, allo
stesso tempo, evidenzia una sensibilità propria tipica della corrente ionica. Il lungo
fusto cilindrico è solcato da sottili striature e le pieghe del lungo camice (chitone) e
del mantello (himation) indossati dalla dea, creano una delicata vicenda di ombre e
di luci sulla superficie della statua che, per il suo volume e per le sue forme, sembra
quasi una colonna ionica. I piedi si ritraggono sotto la veste per non turbare la
perfetta circolarità della base e le pieghe del mantello si fanno più rade per suggerire
le curve del braccio e del busto, quasi a frenare lo slancio delle pieghe sottostanti più
minute e fitte come striature verticali. È importante l’effetto luce sulla statua, sia
sullo stelo cilindrico delle gambe avvolte nella veste pieghettata, sia sul busto
squadrato idealmente chiuso in quattro piani ortogonali. Lo scultore ha cercato di
definire un particolare effetto: la sostanza viva dello spazio, la luce, penetra in quella
geometrica della scultura fino ad identificarsi con la materia dello spazio stesso; la
luce indugia sulle superfici incurvate. L’Hera di Samo ci è giunta priva del capo, ma
ciò non impedisce di ravvisare in questa opera uno dei più ammirevoli e
caratteristici saggi della plastica ionica, ed è tipicamente ionico sia l’intrecciarsi di
un’attenta sensibilità alle variazioni e vibrazioni luminose, sia la rigorosa geometria
dei grandi volumi.
Metope piccole di Selinunte (VIII-VII sec a.C.): Sono sei, in tufo,
appartenute (come fanno supporre le dimensioni abbastanza simili) forse
ad un unico edificio templare o forse (come fanno supporre i punti diversi
in cui sono state ritrovate) a più edifici templari, che non conosciamo ma
che certamente dovevano trovarsi all'interno dell'acropoli; uno di essi
potrebbe essere il c.d. "tempio delle piccole metope", il cui basamento
rettangolare è posto ad est del tempio D. Furono reimpiegate nella cinta
muraria dopo la distruzione della città da parte dei Fenici avvenuta nel
409 a.C., quando per necessità di difesa i Selinuntini non badarono più a
conservare opere d'arte. È chiara in esse la matrice culturale grecoorientale, ma vi è nel contempo presente una certa componente locale. Le
prime quattro furono rinvenute nel 1892 da A. Salinas presso la torre
semicircolare oltre la porta nord; le ultime due da V. Tusa nel 1968 nella
torre che sta alla estremità meridionale della cinta muraria del lato est. Sono databili
fine VII- inizi VI sec a.C.
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Il periodo severo (480-450 a.C.). Il passaggio dall'arte arcaica a quella classica si ebbe attraverso lo
“stile severo”, posizionato cronologicamente tra le guerre persiane (480 a.C.) e la
metà del V sec d.C.: in esso si fusero le precedenti esperienze e, superata l'astratta
monumentalità arcaica, si affrontarono i problemi del naturalismo e del movimento.
Il tempio di Zeus a Olimpia è il capolavoro del periodo, soprattutto per le sue metope
figurate e le sue sculture frontonali. L'architettura dei numerosi templi della Magna
Grecia e delle colonie asiatiche è vicina a quella della madrepatria. Tra le sculture
architettoniche, le metope del tempio E di Selinunte (Palermo, Museo archeologico)
si avvicinano nella loro intensità espressiva all'arte di Olimpia. Note solo da copie
sono le opere dei maggiori scultori, come il gruppo dei Tirannicidi di Crizio e
Nesiote, l'Afrodite Sosandra di Calamide, il Discobolo di Mirone. Non mancano però
insigni originali di artisti anonimi, come i grandi bronzi dell'Auriga di Delfi (Delfi,
Museo) o del Poseidon di Capo Artemision (Atene, Museo Nazionale) e, tra i marmi,
la testa dell'Efebo biondo dell'Acropoli nonché alcune belle stele attiche. Per
esemplificare il tema, presenteremo alcune opere campione scelte tra la vasta
produzione di questo trentennio.
Auriga di Delfi (480-450 a.C.): Si tratta di una statua di bronzo databile intorno al 478 a.C., rinvenuta
negli scavi del santuario di Delfi e facente parte di una quadriga, commissionata da
Polizalo (Polyzalos di Deinomedes), tiranno di Gela, forse per ricordare una vittoria
ottenuta nella corsa con i carri, nel 478 o 474.
L’autore dell’opera ci è ignoto, tuttavia molti studiosi ritengono probabile
un’attribuzione a Sotada di Tespie o a Pythagoras di Samo. La statua era
probabilmente collocata su un carro tirato da cavalli, del quale si conservano solo
pochi frammenti. L'opera fu fusa in bronzo a cera persa mentre le rifiniture furono
eseguite a freddo. La scultura presenta un'ottima conservazione anche se è mancante
del braccio sinistro, perché venne sepolta da una caduta di massi nei pressi del
tempio di Delfi dove era collocata.
L’auriga veste un lungo chitone cinto in vita, pesante e scanalato come una colonna;
nella mano destra tiene delle redini; il volto è leggermente rivolto a destra. Attorno
al capo la benda (ténia) del vincitore, con decoro a meandro e incrostazioni di rame
e argento; gli occhi sono in pietra dura e le ciglia di lamina di rame. I piedi sono resi
con una naturalezza fresca e precisa, mostrano i tendini tesi per lo sforzo appena
compiuto. I capelli sono finemente disegnati, in riccioli che non alterano le
dimensioni del capo.
Krìtios e Nesiòtes, Statue di Armòdio e Aristogìtone (ca. 477 a.C.): Dopo l’affermazione della
democrazia, fu commissionato allo scultore Antenore un gruppo scultoreo dei
Tirannicidi per l'Agorà di Atene. Questo gruppo fu trafugato dai Persiani durante
l'occupazione di Atene nel 480 a.C. e restituito agli ateniesi da Alessandro Magno
(secondo lo storico Arriano) o da Seleuco I Nicatore (secondo lo scrittore romano
Valerio Massimo). Nel frattempo i cittadini attici avevano però commissionato
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nuove statue dei tirannicidi a Crizio e Nesiote, completate attorno al 477 a.C.
Entrambi i gruppi di statue sono andati perduti, ma i Tirannicidi di Krition e
Nesiotes furono copiati più volte in epoca ellenistica e romana. Una di queste copie è
oggi esposta al Museo Archeologico di Napoli e ci mostra i ritratti idealizzati dei due
eroi: Armòdio – nudo sbarbato con un fisico forse più maturo di quello di un
ragazzo della sua età – spinge in avanti una spada con il braccio sinistro alzato e ne
tiene un'altra nella mano destra; Aristogìtone, rappresentato con la barba, brandisce
due spade ed ha la clamide poggiata sulla spalla sinistra. Delle quattro spade si sono
salvate solo le else, mentre la testa originale di Aristogitone è andata perduta,
sostituita da un'altra che non si armonizza troppo bene. Conosciamo un altro tributo
ai Tirannicidi in un inno destinato ai simposi (skolion) ad opera di Callistrato, un
poeta ateniese.
Calàmide, Afrodite Sosàndra (470-460 a.C.): La tradizione letteraria rappresentata da Pausania (I
23, 2) e da Luciano (Imagines, 6) ci fa conoscere l’esistenza di una statua bronzea
raffigurante l’Afrodite Sosandra ("che salva gli uomini"), realizzata nel decennio
470/460 a.C. da Calamide, uno dei grandi bronzisti dello stile cosiddetto "severo".
La statua, dedicata da Callia, cognato di Cimone, all’ingresso dell’ Acropoli di Atene,
aveva un sorriso «puro e venerando» ed era avvolta in un mantello «semplice e
dignitoso», che le copriva anche la testa. Nell’800, gli studiosi individuarono, fra le
numerose repliche romane di originali greci, una serie di copie acefale di una statua
panneggiata e tutta chiusa nel manto, cui ben si adattavano, per stile e dimensioni,
alcune teste avvolte dallo himation che erano state identificate con il ritratto di
Aspasia, la favorita di Pericle. Nel 1953, la felice scoperta di una copia intera della
statua – ora al Museo Nazionale di Napoli – confermò che corpo e testa erano
coerenti. La grazia unita al pudore, ecco la definizione di Luciano perfettamente
realizzata: e la severità della figura ben si accorda con lo stile degli anni in cui fu
attivo Calamide. La resa del mantello (concepito come un blocco chiuso e solido ma
al tempo stesso soffice e pesante) e alcuni particolari (quali il contorno degli occhi e
l’andamento delle labbra) tradiscono la maniera tipica di realizzazione per mano di
un bronzista.
Il periodo classico: Il periodo classico dell'arte greca dalla metà del sec. V alla morte di Alessandro
Magno (323 a.C.), ebbe il suo inizio, e anche il suo maggior splendore, nell'età di
Pericle. L'Acropoli di Atene accolse i monumenti più significativi dell'arte classica,
dal Partenone di Ictino, ai propilei di Mnesicle (in cui l'ordine dorico si unisce a
quello ionico), all'Eretteo di Filocle e al tempietto di Atena Nike di Callicrate, di
pieno stile ionico. Tutti i più importanti santuari del mondo greco si arricchirono di
templi, di tesori, di monumenti votivi.
Mirone di Eleutère, Discobolo e gruppo di Atena e Marsia: Mirone di Eleutère, detto l'ateniese,
concentrò la sua attività nell'attuale capitale greca, mantenendosi operativo per tutta
la prima metà del V sec. Fu allievo di Agelada di Argo (maestro anche di Policleto)
e realizzò prevalentemente opere in bronzo; nessuna sua opera è giunta fino a noi in
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forma diretta, ma possiamo averne un’idea attraverso le copie romane in marmo,
che dimostrano la popolarità di cui godeva sin dai tempi antichi. Il Discobolo è
noto per tre copie romane di un originale perduto in bronzo 480-460 a.C.
Mirone si dedicò all'imitazione della natura nei suoi aspetti immanenti, compresi gli
atteggiamenti, i movimenti e le posture tipicamente umane, come la sorpresa di
Marsia (del gruppo Athena e Marsia) davanti all’epifania di Atena con lo sguardo
fisso sui flauti caduti a terra.
Fermare un attimo fu sicuramente uno degli obiettivi dell'arte di Mirone che, in
questo modo, sembra aver voluto rispondere al filosofo Zenone che negava
l’esistenza del tempo, in quanto «il passato non c'è più, il futuro ancora deve arrivare
ed il presente corre». Mirone fu dunque in grado di bloccare un istante di vita,
isolando nel marmo un atomos (l’elemento non divisibile) temporale. Nel caso del
Discobolo non si trattò del suggerimento di un movimento completo e neanche della
celebrazione di un atleta vittorioso, bensì della descrizione dettagliata del grande
sforzo fisico compiuto da un atleta, teso a lanciare il disco il più lontano.
Il trono Ludovisi (V sec a.C.). Il Trono Ludovisi fu rinvenuto nel 1887 durante i lavori di
urbanizzazione della Villa Ludovisi, nella zona compresa tra le odierne via Piemonte,
via Abruzzi, via Boncompagni e via Sicilia, nell’area corrispondente agli antichi
Horti Sallustiani. Per la forma inconsueta e per la decorazione a rilievo evocativa di
miti arcaici, il trittico marmoreo divenne la scultura più famosa e discussa della
collezione Boncompagni Ludovisi. La frattura della parte superiore della fronte non
permette di definire con certezza la sagoma originaria, probabilmente triangolare.
Molteplici sono state le ipotesi circa la destinazione del monumento, inizialmente
interpretato come balaustra di scala, successivamente come trono di una colossale
statua di divinità (forse Afrodite Erycina) ed, infine, come coronamento di un altare
o di un'edicola. La maggior parte degli studiosi ritiene che il soggetto rappresenti la
nascita di Venere (Afrodite) dalla spuma del mare a Cipro; alternativamente, si è
proposto trattarsi della nascita di Proserpina dall’Ade in primavera (tesmophorìe).
La decorazione a bassorilievo raffigura sulla fronte Afrodite/Proserpina vestita di
chitone, che nasce dalla spuma del mare, sorretta da due korai; il leggero velo che
esse sorreggono nasconde in parte la scena. Sui lati sono rappresentate due figure
sedute su un cuscino: a sinistra una giovane nuda suona il doppio flauto, a destra
una donna con chitone e mantello rialzato sul capo prende da una pìsside dei grani
di incenso per porli in un bruciaprofumi. Negli anni immediatamente successivi alla
scoperta, apparve sul mercato antiquario un secondo trittico di dimensioni
compatibili ma realizzato con uno stile molto più moderno (ellenistico o romano).
Questo pezzo un po’ enigmatico che sembra essere stato scoperto presso gli Horti
Sallustiani è denominato Trono di Boston in considerazione del suo attuale luogo
di conservazione (il Museum of Fine Arts di Boston). Si reputa che i pezzi siano
giunti anticamente nella capitale per opera dei Romani, dopo essere stati razziati dal
santuario di Afrodite di Locri Epizefiri.
Fidia, (Atene ca. 490 a.C. – ca. 430 a.C.) è stato un celebre scultore, pittore e architetto greco, delle cui
opere ci sono giunti ben pochi resti: le conoscenze attuali sulla sua opera si basano
prevalentemente sulla descrizione di scrittori antichi e sulle copie di alcune sue
sculture eseguite nel marmo o riprodotte su monete e gemme. Fidia eccelleva nella
perfezione e nella plasticità delle forme e conferiva alla materia una perfetta
espressione di ideale di eterna bellezza. Sulla sua vita si hanno pochi dettagli:
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sappiamo che nacque ad Atene poco dopo la battaglia di Maratona, che fu allievo di
Egia (uno scultore della scuola peloponnesiaca) e che conobbe il pittore Polignoto;
insieme a Mirone e Policleto apprese ad Argo le tecniche della scultura in bronzo.
La sua prima opera conosciuta è la colossale Atena Promàchos eretta in bronzo
sull’Acropoli di Atene nel 460 a.C. In seguito, Pericle lo scelse per sovraintendere ai
lavori del nuovo tempio dedicato ad Atena (il celebre Partenone). La colossale statua
di culto crisoelefantina (rivestita d’oro e di avorio) dell’Atena Parthènos fu
dedicata nel 438 a.C.; Fidia realizzò anche i modelli per le sculture dei due frontoni
del tempio, quelli per le novantadue metope del fregio esterno e il fregio ionico che
decora il muro della cella. L’esecuzione dei singoli pezzi fu, tuttavia, affidata ai suoi
allievi e collaboratori. La maggior parte delle sue opere sono realizzate con la tecnica
del cosiddetto “panneggio bagnato”, un modo di trattare le vesti in modo tale da fare
comunque intendere la struttura dei corpi sottostanti.
Una importante raccolta di sculture fidiache è conservata presso il British Museum
di Londra nella sezione riservata alla “collezione di lord Elgin”. Il gruppo scultoreo
inserito nel timpano orientale rappresentava la nascita miracolosa di Atena da Zeus
e Metis (la “prudenza”). Il gruppo è inquadrato dalle quadrighe di Helios e Selene
raffigurati, rispettivamente, nell’atto di sorgere e di tramontare. Dioniso è sdraiato
sul proprio mantello e si rivolge verso il sorgere del sole; seguono, sedute, Kore e
Demetra a cui si avvicina Artemide. Al centro è raffigurato Zeus dal cui cranio è
uscita Atena in armi, grazie al provvidenziale intervento di Efèsto. Seguono altre
divinità, da ultime Hestia e Dione che raccoglie in grembo il capo di Afrodite.
Il mito narrato nel frontone orientale è quello della gara tra Atena e Poseidone per il
predominio sull'Attica. All'avvenimento partecipano varie divinità e gli eroi mitici
della città e della regione. Al centro Poseidone – sceso da cavallo – fa scaturire una
sorgente d'acqua salmastra con il tridente, mentre Atena fa nascere
miracolosamente un ulivo dalla roccia. Accorrono verso la scena Iris e Anfitrite a
cavallo di un mostro marino; gli dei tendono verso il centro del triangolo, occupato
dall'olivo, dono di Atena.
Il fregio del Partenone: alto circa un metro e lungo circa un metro e sessanta centimetri, avvolge
completamente la cella dell'edificio. Il tema descritto è quello delle processioni
panatenee. L'inizio della scena è posizionato nell'angolo sud-occidentale da cui
partono – in direzione opposta – due gruppi distinti, impegnati in una processione
che si conclude in prossimità del portone di accesso principale. Il fregio occidentale è
composto da trenta figure, particolarmente pregevole è il corteo dei 192 cavalieri
(forse simboleggianti i caduti nella battaglia di Maratona), impegnati in una
cavalcata che si fa più densa e serrata nel lato settentrionale. Seguono gli anziani, i
musici che suonano cetre e flauti, i portatori di hydriai, i portatori di vassoi con
offerte, e coloro che conducono le pecore e i vitelli al sacrificio. Sono rappresentati
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ben centotrentaquattro protagonisti che costituiscono l'epitome di una società
industriosa, mobile e tesa senza risparmio al futuro. Nel fregio meridionale
centoventotto figure si muovono verso est; i cavalieri occupano le prime lastre, i
carri quelle successive. Seguono gli anziani, i portatori di vassoi e coloro che
conducono i vitelli al sacrificio. Sul lato orientale si riconoscono sessantatre figure in
cui ha particolare rilievo la scena rappresentante le fanciulle ateniesi nell’atto di
offrire il sacro peplo ad Atena. Gli dèi assistono invisibili alla scena; è possibile
riconoscere (partendo da sud), Hermes, Dionisio, Demetra, Ares, Iris, Hera e Zeus
seduto sul trono; sul lato opposto, Atena, Efesto, Poseidone, Apollo, Artemide,
Afrodite ed Eros. Al centro della composizione, un anziano piega il sacro peplo
offerto ad Atena. Alla concitazione del fregio occidentale si contrappone la pacatezza
del fregio orientale. Gli déi sono seduti in atteggiamento colloquiale su sgabelli,
distinguendosi dai vivi per l’altezza, che raggiunge il livello superiore della cornice
nonostante siano in posizione seduta. Del fregio orientale l'unità di mortali, eroi e
déi rappresenta il momento più alto dell'etica partenonica.
Le metope:
Le metope – approssimativamente quadrate e originariamente dipinte su fondo blu
– sono 14 sui lati brevi e 32 su quelli lunghi, formando un ciclo che si articola in
quattro temi, disposti uno per lato.Nel lato occidentale è rappresentata una
amazzonomachia, ma le figure sono tutte scalpellate. Sul lato settentrionale solo la
XXXII metopa è in buono stato di conservazione, e raffigura Iris ed Hera. Sul lato
orientale si ha una gigantomachia, ma le sculture sono in pessimo stato di
conservazione. Sul lato meridionale le metope sono conservate meglio,
probabilmente perché il pendio troppo scosceso dell'Acropoli rendeva questo settore
meno agibile; esse rappresentano una centauromachia (una rappresentazione
allegorica della lotta tra razionalità e bestialità).
Zeus da Olimpia: Nel 437 a.C. Fidia si trasferì ad Olimpia, dove era stato incaricato di realizzare una
statua crisoelefantina di Zeus Olimpio per il
tempio della città, un’opera che sarebbe stata per
lungo tempo annoverata tra le sette meraviglie del
mondo. Purtroppo, la statua è andata perduta ma,
disponiamo della descrizione che ne fece
Pausania nella “Periegesi della Grecia:
« Il Dio, costruito d'oro e d'avorio è assiso in trono; una
corona, che imita i rami di olivo, gli sta sul capo. Egli
porta nella mano destra una Vittoria, anch'essa d'avorio e
d'oro, che tiene una tenia e porta una corona in testa.
Nella mano sinistra del dio è uno scettro ornato di ogni
genere di metalli. L'uccello, che è posto in cima allo
scettro, è l'aquila. D'oro sono anche i calzari del Dio e così
pure il mantello; sul mantello sono posti come ornamento
piccole figure e fiori di giglio. Il trono è variamente ornato
di oro e pietre preziose ed anche di ebano e d'avorio, ed in
esso ci sono figure rappresentate in pittura e figure
scolpite. In ciascuna delle gambe del trono sono quattro
Vittorie, che rappresentano lo schema delle danzatrici; ce
ne sono poi altre due alla base di ciascuna gamba. Sopra
ciascuna delle gambe anteriori si trovano dei fanciulli
tebani rapiti da Sfingi, e, sotto le Sfingi, Apollo e
Artemide saettano i figli di Niobe».
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Athena Parthènos: La grande statua crisoelefantina alta circa undici metri, era posta nella cella del
Partenone, sull’acropoli di Atene. Atena era rappresentata in piedi, con una nike
(vittoria) sul palmo della mano destra (il simbolo della vittoria sui Persiani) e uno
scudo appoggiato a terra sulla sinistra. Sullo scudo era rappresentata
un’amazzonomachia, cioè un rilievo raffigurante la battaglia tra eroi ed amazzoni.
Nel 433 a.C., Fidia fu vittima delle lotte politiche in atto in Atene contro Pericle. Per
questo fu accusato di essersi appropriato indebitamente di una parte dell’oro
destinato alla statua ma riuscì a provare la propria innocenza facendo pesare le parti
d’oro della statua. In seguito, egli fu nuovamente accusato di empietà per essersi
raffigurato insieme a Pericle sullo scudo della dea, venendo imprigionato e poi
esiliato ad Olimpia.
Athena Lèmnia: L’originale bronzeo di Fidia – eseguito tra il 451 e il 448 a.C. per gli Ateniesi che
erano andati ad abitare l’isola di Lemno come clerùchi (coloni) – è noto soltanto da
pochissime repliche in marmo di età romana, tra le quali vanno annoverate la testa
rinvenuta nei pressi del Rione Terra a Pozzuoli e la Testa Palagi a Bologna (ritenuta
dagli studiosi la più fedele all’originale).
La statua si ergeva su un piedistallo disposto all’aperto sull’acropoli di Atene e fu
considerata dagli antichi la più bella statua mai realizzata dallo scultore greco. La
dea è in atteggiamento assorto e pensoso; le guance morbide e il naso armonico ne
accentuano la bellezza, celebrata da numerosi scrittori antichi tra cui Luciano, che la
definiva l’«opera» per antonomasia di Fidia, e Pausania, che precisava: «la più
notevole delle opere di Fidia è la statua di Atena detta Lemnia, dal nome dei suoi
donatori». Caratteristica è anche la capigliatura, modellata in ciocche simmetriche
che danno una sensazione di corposità e morbidezza.
Policleto di Argo (V secolo a.C.): fu uno dei massimi scultori greci del periodo classico, contemporaneo
di Fidia e Mirone. Fu l'autore di un trattato, chiamato «Il Canone» in cui
teorizzavano le proporzioni e i rapporti numerici ideali del corpo umano. Il trattato è
andato perduto assieme alle sue opere scultoree, ma le sue elaborazioni teoriche e le
realizzazioni artistiche dello scultore greco ci sono note attraverso alcune copie
romane, che testimoniano anche la fama e la fortuna che questo artista ebbe presso
gli antichi. Tra le statue bronzee eseguite da Policleto le più famose sono il
Diadumeno (ca. 430 a.C.), l'Amazzone ferita (ca. 435 a.C.), la statua crisoelefantina
di Hera (ca. 420 a.C.), ma soprattutto il Doriforo (ca. 450 a.C.).
Il Dorìforo è una splendida scultura di Policleto, realizzata tra il 450 ed il 445 a.C.
rappresentate, con ogni probabilità l’eroe greco Achille..
Di quest’opera non ci è pervenuto l’originale e la copia meglio conservata si trova nel
Museo Archeologico di Napoli. Il Diadùmeno, (in greco Diadúmenos – “che si
cinge la fronte [con la benda della vittoria]”), è una statua realizzata da Policleto tra
il 430 e il 425 a.C. A differenza del Doriforo, nel Diadumeno il baricentro della figura
non è su una gamba ma al centro fra le due. Rimangono, ad oggi, più di trenta copie
di questa scultura; le più celebri sono il Diadumeno di Delo – conservato al Museo
Archeologico Nazionale di Atene – ed il Diadumeno di Vaison – conservato al
British Museum di Londra – .
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Plinio racconta, inoltre, che Policleto intraprese una gara con Fidia, Fradmon e
Kresilas, per chi avesse scolpito l’Amazzone più bella. Policleto vinse con una
statua di bronzo che fu conservata per parecchio tempo nel tempio d’Artemide di
Efeso. Queste tre statue ci sono pervenute in innumerevoli copie romane.
L'amazzone " Sciarra ", attribuibile a Crèsilas, ha una ferita vicino al petto ed
esprime il desiderio di riposo sia con l'atto di appoggiarsi – probabilmente ad un
pilastro alla sua destra – sia mediante l'iconografia della mano posta sul capo. Il
ritmo chiuso dalla mano sinistra sul capo e la destra appoggiata ad una quinta, ci
allontanano dagli interessi compositivi di Policleto; l’artista sembra interessato ad
un circuito chiuso in sé stesso di ascendenza pittorica.
L'Amazzone Capitolina, opera di Policleto, si appoggia su due lati: a sinistra
sulla gamba portante e a destra sulla lancia. Nel mezzo è messa in risalto la parte
destra e ferita del corpo; la ferita, ben evidente, è sottolineata dal cenno della mano e
dallo sguardo. La guerriera viene rappresentata gravitante sulla gamba sinistra,
mentre la gamba non portante è flessa e tirata indietro; il braccio destro si solleva e
la mano sinistra regge una parte della veste. La figura dell'Amazzone può esser
considerata il corrispettivo femminile del Doriforo, eseguito nel 445 a.C. Infine
Fidia, contemporaneo di Policleto, che aveva già risolto i problemi inerenti la
ponderazione e l'equilibrio dei volumi della statuaria greca, creò un modello
scultoreo espressivamente libero e svincolato dalla problematica tradizionale. Egli
seppe rendere chiare le sue novità nella realizzazione dell'Amazzone ferita (440430 a.C.). Nella copia in gesso del “tipo Mattei” – la migliore fra quelle che si sono
conservate – si può apprezzare l'equilibrio ottenuto tramite l'appoggio sulla gamba
destra tesa e la lancia, tenuta con entrambe le mani. Questo espediente scarica da
buona parte del peso la gamba sinistra, flessa e tirata in avanti, la cui coscia ferita
viene mostrata in primo piano perché un lembo della veste è sollevato ed assicurato
alla cintura.
Kallìmachos:
Fu considerato da Vitruvio l’inventore del capitello corinzio; continuatore della
tecnica scultorea di Fidia, gli viene attribuito un ciclo delle menadi danzanti
conosciuto tramite la copia del Museo dei Conservatori. Callimaco collaborò alla
realizzazione dei parapetti del Tempio di Athena Nike sull’acropoli di Atene e a lui si
attribuisce anche la Venere del Frejus, oggi al Museo del Louvre.
Il tempio di Athena Nike (ca. 410 a.C.) fu circondato da una balaustra scolpita
con motivi di nikai colte in varie attività (celebre quella che si riallaccia un sandalo);
i rilievi – ora nel museo dell'Acropoli – furono eseguiti in un momento storico
gravido di cattivi presagi per Atene e manifestano un superamento dell’interesse
verso la resa naturalistica del corpo umano e delle vesti. Callimaco sembra, invece,
aver ricercato effetti di carattere pittorico che anticiparono, per certi versi, i
caratteri del successivo ellenismo. Il fatto che i rilievi potessero venire osservati dalla
ripida salita ai Propilei – l’unica via d'accesso all'acropoli – consentì la ricerca di
particolari effetti prospettici.
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La statua di culto conservata nel tempio – come ci viene descritta da Pausania –
era di legno e portava in mano una melagrana. La statua era aptera, cioè senz'ali,
per propiziare il fatto che la dea non lasciasse più la città.
Paionios (V sec a.C.): La statua della Nike di Paionios fu trovata ad Olimpia nel 1875 e dobbiamo
immaginarla in cima ad un pilastro in marmo a sezione triangolare alto nove metri;
la figura della Vittoria con il manto svolazzante sta prendendo il volo come
dimostrano i piedi sollevati da terra. Un’iscrizione sulla base dimostra che la
scultura fu realizzata per celebrare una vittoria dei Messeni e dei Naupatii sugli Elidi
e sugli Acarnanii, nel corso della Guerra del Peloponneso. In questa statua l’eredità
fidiaca si coglie nella qualità disegnativa della figura animata dal panneggio; la
teatralità è dominante.
Skopas (420– 340 a.C.): fu un celebre scultore ed architetto dell'antica Grecia. Nacque nell'isola di
Paros, nelle isole Cicladi (Mar Egeo) ed è tutt'oggi considerato un innovatore ed un
maestro. Collaborò con Prassitele, Leochares, Bryaxis e Timotheos e realizzò una
parte del Mausoleo di Alicarnasso (oggi Budrum, ca. 350 a.C.), impegnandosi
particolarmente nei bassorilievi e scolpendo il lato est della struttura. Diresse,
inoltre, i lavori per la costruzione del nuovo edificio del Tempio di Atena Alea a
Tegea, in Arcadia, dove lavorò personalmente sui frontoni. Gli sono attribuiti diversi
edifici che facevano parte del Tempio dei Grandi Dei di Samotracia.
Scopas fu l'inventore dello stile patetico, così chiamato per il pathos (il sentimento),
ben definito dall'espressione dolente con cui egli era solito caratterizzare il volto
delle proprie statue.
Prassitele (IV sec a.C.): fu uno scultore greco nato ad Atene tra il 400 a.C. e il 395 a.C da Kephisodotos
il Vecchio, ed attivo tra il 375 ed il 326 a.C., anno della sua morte. Prassitele fu
autore di opere memorabili, prevalentemente in bronzo, materiale che preferiva al
marmo. Nicia lavorò più volte per lui applicando sulla superficie del marmo una
speciale cera colorata (gànosis) che conferiva particolare vitalita e realismo alle sue
statue. La peculiarità dell'arte prassitelica sta nella dolcezza del modellato delle sue
statue, caratterizzate da una sorta di malinconia, pigrizia ed abbandono. I suoi
personaggi non sono più i saldi ed equilibrati eroi del passato, ma dèi giovani, sfiniti,
umanizzati.
Il baricentro della figura si sposta su un lato, mettendo la figura rappresentata in
una posizione di riposo. In molti casi, l'eroe o il dio è appoggiato ad un tronco o ad
una colonna, come se non avesse più le forze per sostenersi da solo (anche se, in
realtà, puntelli di questo tipo si resero spesso indispensabili per ragioni strutturali
nelle statue in marmo).
L’Afrodite Cnidia o Afrodite Anadiomene è la più celebre delle sculture di
Prassitele ed una delle sua prime opere, eseguita intorno al 360 a.C.
Secondo Plinio, la statua era destinata agli abitanti di Coo che però la rifiutarono a
causa della sua nudità. Fu dunque trasportata a Cnido, dove fu esposta nel naos di
un piccolo tempio dotato di due aperture lungo lo stesso asse, o forse presso un
tempietto monoptero.
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L’Afrodite Cnidia è uno dei più antichi nudi del mondo antico, ma anche di
un’occasione per rappresentare una dea in atteggiamenti intimi e personali. La
statua ebbe subito una fama notevole e fu ampiamente venerata: Plinio il vecchio
racconta addirittura di un nobile giovane che si innamorò della scultura.
La sua nudità fu dunque un elemento voluto di seduzione, accentuato dalla
lucentezza delle superfici del marmo e dalle forme morbide e femminili del corpo
che si muovono nello spazio disegnando un profilo sinuoso. Afrodite è infatti colta
nel momento in cui, apprestandosi al bagno, lascia cadere con la mano sinistra la
veste su una hydrìa (anfora) che le sta a fianco: veste e vaso fanno in realtà da
supporto esterno alla statua, che può così ruotare leggermente in avanti e verso
sinistra.In un gesto di istintività e di noncurante pudicizia – come se fosse stata
sorpresa in quella posa da un estraneo – la mano destra è portata a coprire il pube.
L’Apollo Sauroktònos è invece una statua che rappresenta il giovane Apollo
nell’atto di uccidere una lucertola. Quello che qui viene sottolineato è il potere
curativo di Apollo, anche se l’atmosfera è dominata da un senso di gioco e di scherzo
che preclude all’ellenismo. Di questa statua sono note due copie in marmo di età
romana, conservate una al Museo del Louvre ed una ai Musei Vaticani; l’unica copia
in bronzo conservatasi si trova invece a Cleveland.
Nell’Hermes con Dioniso, Prassitele mostra Hermes mentre si riposa e fa giocare
il bambino, forse con un grappolo d’uva. In sintonia con il clima del tempo, le due
divinità sono rappresentate in un atteggiamento dolce e confidenziale. La scelta
stessa di raffigurare Hermes (protettore dei mercanti e ispiratore di sogni degli
uomini) e Dioniso (dio del vino, dello stordimento e dell’euforia da lui prodotti) è
indicativa della precisa volontà di avvicinare gli dei alla realtà e alle passioni più
semplici, più comuni e meno impegnative. In questa statua c’è da notare l’accurata
levigazione del marmo e la morbida trattazione dei particolari anatomici.
Lisippo di Sicione ( 390/385 a.C. – dopo il 306 a.C): Lisippo fu un artista molto prolifico che alcune
fonti stimano in circa millecinquecento statue, la maggior parte delle quali in
bronzo: molte furono realizzate per celebrare degli atleti vincitori delle Olimpiadi,
come nel caso delle numerose quadrighe in marmo ed in bronzo. Negli ultimi anni
della sua vita, eresse a Taranto una statua di Zeus alta circa diciassette metri in cui il
dio era raffigurato in posizione eretta nell'atto di scagliare una folgore, vicino ad un
pilastro sormontato da un'aquila.
Di questo immensa produzione – realizzata a Sicione, Olimpia, Corinto, Rodi, Delfi,
Atene, Roma e Taranto – purtroppo, non rimangono che copie di età romana.
Il Kairos – realizzata da Lisippo come insegna del suo studio di Rodi – ci rimane
una descrizione dal sofista Callistrato. Raffigurava un adolescente con le ali ai piedi,
il ciuffo in fronte e i capelli rasi alla nuca, ritto sulla punta dei piedi al di sopra di una
sfera e con rasoio nella mano destra. Il kairos fu inteso come la personificazione del
momento opportuno offerto dal fato e le ali ai piedi erano intese a sottolineare il
carattere fuggente delle occasioni. Una copia bidimensionale è conservata nel Museo
di Torino e in quello di Traù.
La statua dell'Apoxyómenos raffigura un giovane atleta nell'atto di detergersi il
corpo con uno strigile (serviva per eliminare l'eccesso di sudore, polvere e olio che gli
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atleti usavano spalmarsi addosso prima delle gare di lotta). L'atleta fu volutamente
raffigurato in un momento successivo alla competizione, in un atto che accomuna
vincitore e vinto. Le fonti romane ricordano che all’età di Tiberio la statua
dell’Apoxyomenos (assieme a quella di un leone giacente) fu reimpiegata per
abbellire ed ornare le Terme di Agrippa. Nell’800, nel vicolo delle palme (poi
ribattezzato “vicolo dell’atleta”) fu scoperta una delle migliori copie
dell’Apoxyomenos lisippeo, realizzata in età claudia e oggi conservata nei Musei
Vaticani.
Lisippo ritrasse Socrate ma soprattutto Alessandro nell'atto e nel gesto
coraggioso di cacciare un leone, in combattimento ed in varie pose eroiche, a volte a
in pose ed atteggiamenti divinizzati. Con queste sue rappresentazioni artistiche,
Lisippo creò così un nuovo stile: quello del ritratto fisionomico e individuale che,
riproducendo l'aspetto esteriore del soggetto, ne suggeriva anche le implicazioni
psicologiche ed emotive.
Lisippo costruì nella ritrattistica, un canone che durò fino all'epoca medievale,
quello del sovrano colto in apoteosi, in colloquio con la divinità. Accanto al ritratto
di Alessandro, Lisippo eseguì vari altri ritratti, come quelli di Efestione di Pite di
Abolera, di Esopo, di Prossilia e soprattutto di Socrate.
L’Eracle Farnese è una copia romana, firmata dall'ateniese Glýkon, di un modello
bronzeo attribuito a Lisippo ed oggi perduto. La statua rappresenta il protagonista
delle "dodici fatiche" colto in un insolito atteggiamento, di riposo: dopo aver
prelevato dal giardino delle Esperidi i pomi d'oro, che tiene nella mano destra
portata dietro la schiena, l'eroe, barbuto e nudo, con il capo reclino sul petto e lo
sguardo rivolto in basso, appoggia il corpo dalla poderosa muscolatura sulla clava
coperta dalla pelle di leone, lasciandovi ricadere quasi con abbandono il braccio
sinistro. In netto contrasto con l'immagine tradizionale dell'eroe, la statua di Napoli
ci mostra un Ercole pensoso ed introspettivo che, quasi dimentico del suo successo,
sembra volerne nascondere le prove. Rinvenuta nel 1546 priva della metà inferiore
delle gambe, la statua fu restaurata dallo scultore Guglielmo Della Porta, allievo di
Michelangelo. L'attribuzione a Lisippo dell'originale greco che ha ispirato la replica
romana è oggi generalmente accettata.
Letture consigliate:
- G.Becatti, L'arte nell'età classica, IV ed., Firenze, Sansoni 1980.
- G.Bejor-M.Castoldi-C.Lambrugo, Arte greca, Mondadori Università, Milano 2008.
- J. Charbonneaux, R. Martin, F. Villard, La Grecia arcaica; La Grecia classica; La Grecia ellenistica
(3 voll.), Milano, Bur, 1988.
- J.G.Pedley, Arte e archeologia greca, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2005.
- J.Boardman, Storia dei vasi greci, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Roma 2004.
- I Greci in Occidente, a cura di G.Pugliese Carratelli, Catalogo della Mostra Venezia 1996, Milano.
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