L`età dell`imperialismo

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compiuta tra Seicento e Settecento da portoghesi, spagnoli, inglesi e francesi, fino al
1800 gli europei avevano rinunciato a conquistare e sottomettere ampi territori in
altri continenti: l’espansione coloniale si
era limitata a stabilire, in Asia e sulle coste
dell’Africa, sicure basi commerciali e accordi vantaggiosi con le autorità locali. Tra la
fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento
le colonie americane si erano anzi rese autonome, ed erano sorti Stati indipendenti
sia a nord (gli Stati Uniti) che a sud (il Messico, il Brasile, l’Argentina e altri ancora) del
continente americano.
L’età dell’imperialismo
Groenlandia
Alaska
Paesi Bassi
Belgio
Islanda
Canada
Danimarca
Regno
Unito
Impero Russo
Germania
Francia
Stati Uniti
Cuba
Portogallo Spagna
Oceano
Atlantico
Bahama
Tunisia
Marocco
Rio de Oro
Italia
Algeria
Libia
Oceano
Egitto
Puerto Rico
Honduras
Brit.
Oceano
Pacifico
Pacifico
India
Africa Occidentale
Eritrea Yemen
Gambia
Sudan
Guayana Brit.
Francese
Somalia
Britannica
Guayana Oland.
Guayana Franc.
Somalia
Africa
Sierra
Togo
Orientale
Costa
Congo
Leone
Britannica
d'Oro Nigeria
Belga
Africa
Camerun
Orientale
Tedesca
Angola
Rhodesia
Oceano
Africa
Madagascar
Atlantico
Tedesca
del Sud-Ovest
Mozambico
Sudafrica Beciuania
Indocina
Francese
Ceylon
Filippine
Malesia
Indie Orientali Olandesi
Oceano
Indiano
Australia
Nazioni e possedimenti coloniali
Regno Unito
Italia
Spagna
Stati Uniti
Francia
Portogallo
Impero ottomano
Danimarca
Germania
Paesi Bassi
Russia
Belgio
Giappone
Il dominio imperialistico europeo tra Ottocento e Novecento
12.1 1850-1914: l’Europa
conquista l’Africa
Il colonialismo europeo
fino al 1800
Dossier 3 p. 332
Il Cinquecento e il Seicento furono i secoli in
cui il continente europeo cominciò a esercitare la sua influenza su tutto il pianeta: navigatori, conquistatori e missionari raggiunsero
aree sempre più lontane e posero le basi per
la successiva espansione. Nel corso dei secoli
le navi dei mercanti europei scaricarono nei
porti spagnoli, portoghesi, inglesi, olandesi
e francesi quantitativi crescenti di materie
prime provenienti da ogni parte del mondo.
Poi, a seguito della Rivoluzione industriale,
le stesse navi esportarono i prodotti delle
fabbriche nelle Americhe e in Asia. D3
Nel corso dell’Ottocento la situazione
non cambiò: la supremazia economica europea aumentò, i paesi industriali incrementarono continuamente la produzione e
crebbe costantemente anche la superiorità
tecnologica degli europei rispetto a tutti i
popoli della Terra.
Negli ultimi trent’anni del XIX secolo
l’Europa costituiva il centro dell’economia
mondiale, al quale cominciavano ad affiancarsi, come vedremo, solo gli Stati Uniti (in
rapido sviluppo) e il Giappone.
Tuttavia, dopo la grande conquista
dell’America meridionale e settentrionale
Dal colonialismo
all’imperialismo
Nel corso dell’Ottocento, l’espansione europea riprese i caratteri di una vera conquista
territoriale, che aveva come scopo l’assoggettamento politico di intere popolazioni
e lo sfruttamento economico delle regioni
in cui esse abitavano. Tale espansione non
veniva più dunque affidata solo ai missionari e alle compagnie commerciali private,
ma era promossa direttamente dai governi, che ne facevano un obiettivo di potenza
nazionale e si servivano per realizzarla dei
propri eserciti. Gli storici definiscono questa nuova fase dell’espansione occidentale
«imperialismo» perché portò alla nascita
di veri e propri imperi coloniali, costituiti
da immensi territori direttamente amministrati dai governi europei e abitati da schiere
numerose di cittadini provenienti dalla madrepatria in cerca di fortuna. La conquista
di aree sempre più vaste e la sottomissione
di intere popolazioni aveva infatti prima di
tutto motivazioni economiche. Attraverso
la politica imperialistica le potenze industriali raggiungevano tre obiettivi:
regione venivano considerati proprietà
della potenza dominante;
• in secondo luogo, gli europei guadagnavano mercati esclusivi per i prodotti delle
proprie industrie. Nei territori sottomessi era proibito importare merci da paesi
in concorrenza con quello dominante:
nelle colonie inglesi, per esempio, si dovevano acquistare solo prodotti di fabbriche inglesi. Si trattò di un obiettivo tanto
più importante nell’epoca del protezionismo: le capitali europee chiudevano con
alti dazi agli avversari i rispettivi mercati
nazionali, e trovare in altri continenti uno
sbocco alle produzioni della madrepatria
diventava essenziale per la salvezza della
propria economia;
• in terzo luogo, il dominio diretto sulla colonia consentiva agli europei di reclutare
facilmente manodopera a basso costo per
il lavoro manuale nelle grandi piantagioni
e nei commerci, impiegati di basso livello per l’amministrazione locale e soldati
per formare eserciti costituiti da «truppe
coloniali», con le quali garantire il proprio
potere sulle popolazioni sottomesse.
È facile immaginare che tutto ciò avveniva ad esclusivo vantaggio delle potenze
coloniali, con un conseguente e progressivo
impoverimento delle regioni del continente
interessate dal dominio imperialista.
Importanti quanto le motivazioni economiche furono però le motivazioni politiche
e ideologiche. Nella seconda metà dell’Ottocento, la politica di potenza e la competizione tra Stati non degenerò in un grande con-
• in primo luogo, esse esercitavano il pieno
controllo sulle risorse dei paesi amministrati. I conquistatori non si limitavano
più a imporre agli indigeni vantaggiose condizioni per i loro commerci – per
esempio pagando poco i prodotti agricoli
che acquistavano –, ma sfruttavano direttamente le terre, affidandole a proprietari
europei e pagando poco i contadini locali. In altre parole, dal momento in cui
una nuova regione diveniva parte di un
impero coloniale, terreni, miniere, foreste e ogni altra risorsa naturale di quella
Scena di vita dei coloni inglesi in India, 1840 circa.
© Loescher Editore – Torino
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1860
© Loescher Editore – Torino
1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
flitto europeo, ma portò le nazioni europee
a misurarsi nella gara per le colonie. Inoltre
i popoli d’Europa, pur lottando nel teatro
coloniale per affermare reciprocamente
la propria superiorità, ritenevano tutti insieme di essere, come «razza», superiori ai
popoli africani. Erano cioè convinti di dover
svolgere una missione civilizzatrice, per
aiutare le popolazioni africane a uscire dalla presunta arretratezza culturale, sociale
ed economica in cui si trovavano. Anche a
causa di questo pregiudizio razzista, i confini delle colonie furono disegnati dagli europei al tavolo della diplomazia senza alcun
riguardo per la situazione etnica dell’Africa
e per le effettive condizioni e i bisogni delle
popolazioni locali. A
Le principali potenze imperialiste furono
l’Inghilterra e la Francia, ma anche il Belgio, la Germania e l’Italia riuscirono a creare
nel tempo i loro imperi coloniali in Africa.
Protettorati e colonie europee
in Africa
Album p. 310
La nuova fase di conquista si compì prima
di tutto in Africa. Nella seconda metà del
XIX secolo, l’interesse delle potenze europee
per tale continente crebbe costantemente e
portò alla sua quasi totale conquista, soprat-
tutto dopo la scoperta di grandi ricchezze in
materie prime come oro, argento, diamanti,
rame, zinco e stagno.
Vi fu anzitutto una lunga stagione di scoperte geografiche nell’entroterra, animata da una schiera di esploratori capaci di
sfidare i climi sfibranti e l’avversione delle
popolazioni locali. Le loro vicende venivano
seguite con passione in Occidente, per il loro
sapore avventuroso e romantico, per il gusto
del mistero e della scoperta che le accompagnava, per l’interesse scientifico verso luoghi
e genti sconosciuti. I più noti fra essi furono il medico e missionario scozzese David
Livingstone e il giornalista statunitense di
origini gallesi Henry Morton Stanley. Livingstone partì dalla Colonia del Capo, percorse
la regione dello Zambesi e viaggiò per le foreste incontaminate dell’Africa centro-meridionale, attraversandola da una sponda oceanica all’altra. Stanley esplorò la regione del
Congo per incarico del re del Belgio, diventando addirittura il primo governatore della colonia così creata e arricchendosi enormemente. Una volta giunti in regioni dove i
bianchi non erano mai stati visti, essi consideravano normale «prendere possesso» di
quei territori in nome dei loro governi, senza
alcun rispetto per le popolazioni locali.
L’esploratore americano Stanley in Congo durante la spedizione
alla ricerca dell’ esploratore inglese Livingstone, 1890.
Stampa popolare d’epoca che mostra lo storico incontro tra Livingstone e Stanley in Africa.
I domini europei in Africa
Zambia: statua
dell’esploratore
britannico David
Livingstone.
Algeri
Marocco
Madeira (Port.) spagnolo
Tunisia
Marocco
Canarie (Sp.)
Algeria
Rio De Oro
Libia
Isole di
Capo Verde
(Port.)
Africa Occidentale Francese
Gambia
Guinea Port.
Sierra Leone
LIBERIA
Costa
d'Oro
Sao Tomé e Principe (Port.)
1860
Africa
Sudan
Equatoriale Anglo-egiziano Eritrea
Francese
Fashoda
Gibuti
ETIOPIA
Camerun
Congo
Francese
Congo
Belga
Rio Muni
Regno Unito
Angola
Francia
Germania
Uganda
Kenya
Socotra
(R.U.)
Somalia
Britannica
Somalia
Italiana
Is Amiranti
Africa
Orientale
Tedesca
Rhodesia Niassa
del Nord
(R.U.)
Is Aldabra
(R.U.)
Is. Comore (Fr.)
Rhodesia Mozambico
Madagascar
Africa
del Sud
Occidentale Beciuania
Tedesca
Johannesburg
Swaziland
Réunion (Fr.)
Italia
Portogallo
Belgio
Al seguito dei viaggiatori si ponevano presto mercanti e missionari. I primi cercavano
un profitto tramite il commercio, i secondi
speravano di riuscire a convertire le popolazioni africane al cristianesimo. Quando un
paese europeo aveva avviato commerci con
un popolo africano e assicurato il suo sostegno alla diffusione del cristianesimo, si proclamava «protettore» di quella regione. Con
il «protettorato», le autorità indigene mantenevano una certa autonomia e una certa
sovranità sui loro affari interni, lasciando al
paese «protettore» il compito di difendere i
loro confini e di rappresentarle negli affari
internazionali. Quando poi, col tempo, la
penetrazione economica si tramutava in
occupazione territoriale, il protettorato diventava vera e propria colonizzazione. La
colonia perdeva ogni autonomia e la potenza europea si arrogava il diritto di amministrare il popolo conquistato con propri
funzionari e di sfruttare a piacimento le
sue ricchezze. La resistenza degli indigeni
fu vinta spesso con le armi e nacquero così
molte nuove colonie. [Testimonianze  documento 6, p. 320]
Egitto
Nigeria
Togo
Fernando Poo (Sp.)
Spagna
Canale
di Suez
Il Cairo
Ifni (Sp.)
Unione Basutoland
Sudafricana
Maurizio (R.U.)
Città del Capo
La Conferenza di Berlino
e la spartizione dell’Africa
Nel 1869 fu inaugurato il Canale di Suez, un
canale artificiale navigabile situato in Egitto
tra Porto Said, sul Mar Mediterraneo, e Suez,
sul Mar Rosso. La sua apertura permise il
collegamento diretto via acqua tra l’Europa
e l’Asia, senza più dover necessariamente
circumnavigare l’Africa sulla rotta del Capo
di Buona Speranza: grazie al Canale si registrò un forte sviluppo dei commerci tra Europa e Asia lungo la via che costeggiava le
coste orientali africane.
Si trattò di un progresso che stimolò in
modo deciso le politiche di conquista degli
occidentali verso l’Africa, di cui gli europei
possedevano ancora una parte molto limitata. All’epoca, gli inglesi erano insediati
nella punta meridionale del continente,
nella Colonia del Capo, mentre i francesi
possedevano l’Algeria e il Senegal e i portoghesi occupavano l’Angola e il Mozambico.
Dopo il 1880, gli insediamenti europei si
espansero rapidamente e nel giro di quattro
decenni quasi tutta l’Africa cadde in mano
agli europei.
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L’età dell’imperialismo
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
L’età dell’imperialismo
I domini coloniali francesi e britannici
La Conferenza di Berlino in una illustrazione di A. von Rössler.
Canada
Regno
Unito
Francia
Oceano
Bahama
Honduras
Brit.
Atlantico
Tunisia
Marocco
Algeria
Egitto
Gambia Africa Occidentale
Giamaica Guayana Brit.
Francese
Guayana Franc.
Africa
Orientale
Britannica
Oceano
Madagascar
Pacifico
Atlantico
Sudafrica
bey: titolo assunto dai
sovrani di Tunisi e Tripoli.
Ceylon
Pacifico
Indocina
Francese
Malesia
Oceano
Indiano
Rhodesia
Beciuania
Australia
Domini francesi
Gruppo di uomini e donne legati e condotti in
schiavitù da commercianti di schiavi arabi, 1875.
Mahdi: nella tradizione
islamica è «colui che è
ben guidato da Dio».
India
Yemen
Sudan
Somalia
Gibuti
Britannica
Sierra
Leone Costa d'Oro
Nigeria
Oceano
Per primi furono sottomessi la Tunisia e
l’Egitto, rispettivamente nel 1881 e nel 1882.
I due paesi erano nominalmente sotto il dominio ottomano ma sostanzialmente indipendenti. Si erano inoltre fortemente indebitati con le banche europee per finanziare
la modernizzazione interna e la costruzione
di strade, porti e industrie. Fu proprio il pericolo della loro bancarotta a spingere Francia e Inghilterra a intervenire. Parigi prese
a pretesto alcuni incidenti verificatisi alla
frontiera con l’Algeria e inviò un corpo di
spedizione armato a Tunisi, imponendo al
bey il protettorato. Londra fece altrettanto
in Egitto dopo lo scoppio di moti anti-europei ad Alessandria d’Egitto e acquisì in questo modo il controllo economico e militare
dello stesso Canale di Suez.
Subito dopo fu re Leopoldo II del Belgio
a dare corpo a un suo impero personale in
Africa centrale, sottomettendosi l’intera regione del Congo, e proprio le dispute legate
all’avventura belga accesero tra le potenze
europee tensioni che avrebbero potuto sfociare in una guerra. Per cercare di risolvere
tutto con la diplomazia, nel 1884-1885 (su
iniziativa di Bismarck) a Berlino fu convocato un conferenza che doveva mettere ordine tra le ambizioni occidentali sul continente africano. Esso attribuì in via definitiva
il Congo al Belgio e stabilì che l’occupazione
effettiva con truppe e funzionari amministrativi sarebbe stata condizione sufficiente
per l’assegnazione dei territori ancora di-
Oceano
Domini britannici
sponibili. L’espansione europea riprese allora e proseguì inarrestabile.
Gli inglesi si insediarono in Sudan, dove
dovettero combattere fino alla fine dell’Ottocento per stroncare il governo islamico
del Mahdi Mohammed Ahmed, che si opponeva con la forza alla penetrazione e alla
modernizzazione portata dagli occidentali.
Gli stessi britannici si spinsero verso nord
dalla Colonia del Capo e misero le mani anche sul vasto territorio nigeriano e su buona
parte dell’Africa orientale. I francesi fecero
proprio il Marocco, sulle sponde del Mediterraneo, gran parte dell’Africa sahariana e
molti territori costieri nel golfo di Guinea. I
belgi guadagnarono lo sbocco sull’Atlantico
necessario al trasporto e alla commercializzazione delle straordinarie risorse minerarie del Congo. Ai tedeschi toccarono ampie
porzioni dell’Africa centrale e meridionale.
Solo in una fase successiva a queste potenze
si aggiunse l’Italia, con la conquista a fine
Ottocento di Eritrea e Somalia e poi della
Libia, tra 1911 e 1912.
Le decisioni prese a Berlino furono sostanzialmente rispettate e i dissidi tra capitali vennero risolti con accordi diplomatici.
Fu così per esempio tra l’Inghilterra e la
Germania: Londra desiderava dare continuità ai suoi domini dall’Egitto al Capo di
Buona Speranza, ma non poté raggiungere
l’obiettivo a causa della presenza tedesca in
Africa orientale. I due paesi si accordarono
nel 1890: in cambio della rinuncia a qualsia-
si pretesa sulla regione occupata da Berlino,
l’Inghilterra ebbe l’isola di Zanzibar, snodo
delle rotte commerciali nell’Oceano Indiano; inoltre, la Germania si impegnò a non
minacciare i possedimenti inglesi nella regione del Nilo. Gravi tensioni si verificarono
anche tra inglesi e francesi: a Fashoda, in
Sudan, nel 1898 soldati delle due potenze
giunsero a un passo dalla guerra; tuttavia, i
francesi, impegnati ad occupare il territorio
dell’alto Nilo, si ritirarono e l’episodio non
degenerò in scontro aperto.
Nel 1914 ormai quasi tutto il continente era sottomesso all’una o all’altra potenza europea. Alle soglie della Prima guerra
mondiale, solo la Liberia e l’Etiopia erano
ancora indipendenti dal controllo straniero.
L’impero inglese era il più vasto: sommando i possedimenti africani a quelli conquistati in altri continenti si estendeva su circa
33 milioni di chilometri quadrati; in quei
decenni, Londra metteva le mani anche su
grandi parti dell’Oceania e l’Australia, destinata in principio a diventare una colonia
penale, divenne il fulcro di floridi traffici
commerciali. Enormemente ampio era pure
l’impero francese. L’intero pianeta era però
nel complesso diviso in zone di influenza tra le diverse grandi potenze, tanto che
appena prima della Grande guerra solo un
quinto della Terra non si trovava sotto il diretto controllo degli europei. [ I NODI DELLA STORIA p. 308]
12.2 L’espansione
europea in Asia
La penetrazione europea
in Asia nell’Ottocento
Come abbiamo visto, a metà dell’Ottocento l’Africa era ancora per gli occidentali un
continente misterioso. Essi erano invece già
penetrati da lungo tempo in Asia, dove molti paesi europei gestivano importanti basi
commerciali e possedevano estesi domini
territoriali.
Gli inglesi occupavano Ceylon (Sri Lanka), Singapore, Hong Kong e altri porti lungo le coste dell’Oceano Indiano e dell’Asia
sud-orientale. Controllavano soprattutto,
attraverso un fitto sistema di scambi, il subcontinente indiano. L’Indonesia, composta
da un vasto arcipelago, era invece in mano
agli olandesi. La cinese Macao e l’indiana
Goa erano appannaggio del Portogallo, ultimi resti di un impero commerciale e territoriale che aveva toccato il suo culmine due
secoli e mezzo prima, mentre la Spagna governava le Filippine. Si trattava insomma di
presenze già poderose, ma dopo la metà del
XIX secolo anche in Asia l’espansionismo
europeo ebbe una decisa accelerazione.
Basta ricordare i casi della Francia e della
Russia.
La Francia fu l’ultima a mettere piede in
Asia e giocò le sue carte nella regione in-
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Nuova
Zelanda
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
docinese. In tappe successive giunse a occupare le aree corrispondenti agli attuali
Vietnam, Cambogia e Laos. La Thailandia
rimase indipendente e svolse le funzioni di
«Stato-cuscinetto» tra i domini di Parigi e la
Birmania, in mano a Londra.
La Russia, invece, allargò i propri confini in due direzioni diverse. In Asia orientale occupò i vastissimi e ricchi territori
della Siberia, spingendosi fino alle sponde
dell’Oceano Pacifico, dove sorse il porto di
Vladivostok, meta finale della ferrovia Transiberiana, inaugurata nel 1904, che partiva
da San Pietroburgo e giungeva in Estremo
Oriente con un percorso di 9000 chilometri.
In Asia centrale, lo zar si spinse fino a includere le nazioni alle pendici del Caucaso meridionale, ai confini con Turchia e Iran. Anche in questo caso i contrasti con la potenza
inglese si risolsero diplomaticamente nel riconoscimento dell’indipendenza dell’Afghanistan e dello stesso Iran, che «isolavano» le
conquiste russe dall’India, possedimento
di Londra. Alle soglie del Novecento, dunque, l’Impero russo si estendeva dall’Europa
all’Asia, coprendone larghe parti.
Come vedremo adesso, più notevoli ancora furono le vicende dell’India, sulla quale l’Inghilterra decise di esercitare un pieno
dominio territoriale, e quelle della Cina, paese che a metà Ottocento era, esattamente
come il Giappone, assai arretrato rispetto
all’Occidente ed esposto ai suoi attacchi.
Ma Cina e Giappone reagirono in modo differente alla penetrazione europea ed ebbero destini radicalmente diversi.
Dossier 3 p. 332
La regina Vittoria con due attendenti indiani.
L’India: dalla Compagnia
delle Indie Orientali alla corona
inglese
L’Inghilterra aveva conquistato la supremazia sull’India alla fine del Settecento, ma
fino alla metà del secolo successivo aveva
rispettato, formalmente, l’autonomia dei
diversi principati in cui era diviso il paese
e affidato i suoi interessi commerciali alla
potente Compagnia delle Indie Orientali.
D3 Nel corso dell’Ottocento, con il pretesto
di garantire la sicurezza dei propri traffici,
la Compagnia aveva assunto il controllo di
vaste regioni nel Nord, spingendosi fino al
Tibet e all’Afghanistan, e nell’Est del paese,
cioè nel Bengala, fino alla Birmania. L’India
era molto popolosa e rappresentava quindi
un mercato di sbocco indispensabile ai prodotti industriali inglesi, mentre a sua volta
Londra importava dalla regione soprattutto
cotone e tè.
L’accresciuto attivismo della Compagnia,
la sempre più pervasiva presenza di mercanti e funzionari inglesi, il tentativo di imporre lingua e costumi britannici, provocarono tuttavia forte resistenza in un’area che,
almeno formalmente, era ancora sottoposta
al controllo della dinastia imperiale Moghul.
Nel 1857, una parte delle stesse truppe coloniali che dipendevano dalla Compagnia si
ribellò. Questa sollevazione fu detta «rivolta dei Sepoys», dal nome dei soldati indiani
arruolati e posti al comando di ufficiali inglesi. Essa interessò tutta l’India centrale e
fu repressa con l’intervento di altre truppe,
provenienti dall’Inghilterra e da aree dell’India già pienamente sottomesse. Domata
la ribellione, il governo inglese ritenne opportuno stabilizzare il proprio dominio sul
subcontinente: di conseguenza, nel 1858 la
Compagnia delle Indie Orientali fu soppressa e l’India passò sotto il diretto controllo
della Corona britannica. L’ultimo sovrano
dell’antica dinastia dei Moghul fu deposto e
al suo posto fu insediato un viceré.
Prudentemente, i viceré britannici non
vollero sovvertire la struttura sociale indiana, ancora basata sulla rigida divisione in
caste, e preferirono cercare il sostegno dei
signori locali, allo scopo essenziale di incassare le imposte e assicurare l’ordine pubblico. L’India venne così pacificata e il precedente controllo dei traffici si trasformò in
uno sfruttamento economico pieno. Emble-
matico dello sfruttamento era il ciclo della
lavorazione del cotone: il tessuto di cotone
esportato dall’India all’Inghilterra tornava
poi in India lavorato per esservi lì rivenduto,
con conseguente e inevitabile deperimento
della manifattura tessile locale.
Nel 1876, la regina Vittoria  assunse il
titolo di «Imperatrice delle Indie», ben giustificato dal dominio sull’immenso subcontinente e dalle ulteriori conquiste della Birmania, della Malesia e di parte del Borneo.
La decadenza dell’Impero
cinese
Per la Cina il XIX secolo fu un’epoca di decadenza. La dinastia Qing governava il paese
dal 1644 e manteneva l’impero in completo
isolamento dal resto del mondo. Il potere
centrale, che amministrava con rigore il territorio grazie ai mandarini, alti funzionari
alle dirette dipendenze del sovrano, non riuscì a modernizzare la società e l’economia
del paese fondata esclusivamente sull’agricoltura. Gran parte della popolazione era
costituita da contadini che vivevano in condizioni di povertà e si ribellavano con frequenza alle autorità.
Gli occidentali premevano da tempo per
penetrare commercialmente nel paese, ma
fino a Ottocento inoltrato furono autorizzati a insediarsi unicamente nel porto meridionale di Canton. Solo nel 1839 le relazioni esterne della Cina ebbero una svolta:
gli inglesi avevano sviluppato un fiorente
commercio d’oppio, proveniente dalle colonie indiane e molto apprezzato dai cinesi. I
Qing si erano opposti alla diffusione di questa merce, vietandola per legge, e ritenevano
diretto responsabile del traffico lo stesso governo di Londra. Il sequestro del carico delle
navi straniere a Canton provocò una guerra
tra la Cina e l’Inghilterra. Il conflitto – la cosiddetta Prima guerra dell’oppio – fu vinto
da questi ultimi, che con la pace ottennero
nel 1842 dall’imperatore la cessione di Hong
Kong e l’apertura al commercio estero di altri quattro porti.
Emerse in questa occasione tutta l’arretratezza tecnologica e militare della Cina.
A partire dal 1850, i Qing fronteggiarono
numerose rivolte interne animate dai contadini che chiedevano una radicale riforma
agraria, e tra 1856 e 1860 dovettero combattere la Seconda guerra dell’oppio, que-
L’assalto delle forze alleate (inglesi e francesi) a Pechino (1860) durante la Seconda guerra dell’oppio.
sta volta contro inglesi e francesi alleati. Lo
scontro si risolse con una nuova sconfitta
per Pechino, che fu costretta ad aprire al
commercio straniero altri porti e addirittura
i fiumi, a tollerare la presenza e l’azione dei
missionari cristiani e allacciare normali relazioni diplomatiche con i paesi occidentali. In breve, l’economia cinese si trovò nelle
mani degli europei e importanti aree della
Cina furono sottoposte al controllo semicoloniale di Inghilterra, Francia e Germania.
La rivolta dei Boxers e la fine
dell’Impero cinese
A partire dal 1860, per favorire lo sviluppo
dei commerci europei in Cina, le potenze
occidentali introdussero nel paese asiatico
una certa modernizzazione. Furono ampliati i porti e costruite strade e ferrovie, mentre
considerevoli capitali stranieri furono investiti per creare fabbriche e banche, anch’esse
controllate dagli europei e dagli americani.
Gli imperatori e la loro corte rimasero
ostili a questo processo: la Cina stava diventando un grande affare per tutti gli stranieri,
e a trarne vantaggio era solamente un’esigua
minoranza di mercanti cinesi che commerciavano con gli europei. Ma non riuscirono
ad opporvisi concretamente e le aree di influenza commerciale delle potenze straniere si ampliarono sempre più. Nell’ultimo
decennio dell’Ottocento, inoltre, anche il
Giappone, sempre più potente, si inserì nella partita coloniale: nel 1894 invase la Corea,
fino ad allora controllata da Pechino. I nip-
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 Tweet Storia p. 358
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1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
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12.3 Gli Stati Uniti
ponici ebbero facilmente la meglio: la Cina
dovette cedere a Tokyo l’isola di Formosa e
rinunciare alla stessa Corea, che al principio
del Novecento sarebbe passata sotto protettorato nipponico.
Di fronte a questa situazione, nel 1899 gli
oppositori al controllo estero si ribellarono
in tutto il paese, nel nome dell’orgoglio nazionalista e delle antiche tradizioni imperiali. La protesta era guidata dagli yihequan,
uomini che coltivavano una forma tradizionale di arte marziale: tale termine significa
infatti «pugno di giustizia e di fratellanza»
e per questo gli insorti vennero dagli inglesi ribattezzati Boxers, ossia «pugilatori». La
«rivolta dei Boxers» ebbe pesanti effetti: le
ferrovie vennero sabotate, molti convertiti
al cristianesimo uccisi e a Pechino le delegazioni diplomatiche occidentali furono assediate, e l’ambasciatore tedesco addirittura
assassinato. Questo costituì il pretesto per
l’intervento in forze delle potenze straniere. Nel 1901, un esercito internazionale (di
cui faceva parte anche un reparto italiano)
entrò nella capitale e costrinse i rivoltosi
alla resa, occupando Pechino.
Indebolita e ormai completamente asservita agli stranieri, la dinastia Qing fu rovesciata
nel 1912 dal movimento nazionalista del Kuomintang che proclamò la repubblica ponendo
fine al millenario Impero cinese: negli anni
successivi tale movimento cercò di difendere
l’autonomia della Cina dagli europei, ma soprattutto dall’aggressione del Giappone.
diventano una potenza
mondiale
L’espansione territoriale verso
occidente
Nel corso dell’Ottocento gli Stati Uniti d’America erano un paese in continua
espansione territoriale verso i vasti e incolti territori dell’Ovest (il così detto Far West)
con una popolazione in crescita e un forte
sviluppo economico.
Lo spostamento dei confini era inarrestabile. Migliaia di immigrati provenienti
dall’Europa venivano spinti dal governo a
cercare terre e fortuna verso ovest (la famosa «conquista del West») nelle vaste praterie
centrali percorse dalle mandrie di bisonti e
abitate da circa un milione di indiani o nei
territori debolmente controllati dal Messico.
I coloni potevano occupare le terre che
avessero raggiunto e trasformarle in aziende agricole di loro proprietà: un sistema di
sfruttamento del territorio sconosciuto invece ai nativi americani della fascia centrale
dell’America del Nord, popolazioni nomadi
che vivevano di caccia seguendo le migrazioni annuali delle mandrie di bisonti.
Questo «spirito di frontiera» travolse ogni
ostacolo: era imperniato sul desiderio di
libertà, sulla speranza di conquistarsi una
vita migliore, su un profondo egualitarismo.
L’Impero cinese all’inizio del Novecento
grande inferiorità numerica e tecnologica,
appartenevano definitivamente al passato.
Tutto il territorio degli attuali Stati Uniti era
ormai proprietà dei conquistatori: i confini
del paese si stendevano infatti dalle vecchie
colonie inglesi sulle coste dell’Atlantico ai
recentissimi territori californiani sulle coste dell’Oceano Pacifico. E la ferrovia e i
pali del telegrafo, simboli della modernità
e di questa straordinaria espansione, congiungevano le due sponde del continente
nordamericano.
E allo stesso tempo sulla convinzione che
ogni mezzo, anche la violenza, fosse lecito
per la realizzazione del sogno del pioniere.
All’inizio dell’Ottocento, il paese si stendeva ancora su una stretta fascia costiera,
affacciata sull’Oceano Atlantico. Nel 1803 il
governo acquistò dalla Francia la Louisiana
e nel 1819 la Spagna cedette a Washington la
Florida. A metà del secolo, in pochi anni al
Messico furono strappati il Texas (1845), la
California (1850) e il Nuovo Messico (1853),
mentre a Nord i coloni bianchi occuparono
senza scrupoli i territori degli indiani massacrandoli o costringendoli alla fame con
il continuo sterminio dei bufali. Ogni territorio acquistava il titolo di Stato e veniva
associato all’Unione quando la popolazione
bianca raggiungeva i 60.000 abitanti. Nacquero così, tra gli altri, l’Ohio (1803), l’Illinois (1818), il Missouri (1821), l’Iowa (1846),
il Minnesota (1858) e l’Oregon (1859). Nel
1860 gli Stati erano diventati oltre 30.
Vi erano ancora vastissimi territori da
occupare nella parte centrale e occidentale del continente, ma era solo questione di
tempo. Nel 1890 la disperata ed impari lotta
degli indiani contro i bianchi poteva dirsi
conclusa con il loro sterminio di massa e
la riduzione dei superstiti a una condizione di miseria nelle «riserve» loro destinate.
Le imprese di capi celebri come Geronimo,
della tribù degli Apache, o Toro Seduto,
della tribù dei Sioux, che avevano fronteggiato l’avanzata dei coloni in condizioni di
Le differenze economiche
tra Nord e Sud del paese
Dalle tredici colonie che si erano rese indipendenti dall’Inghilterra nel 1776, l’Unione
aveva ereditato e sviluppato un sistema produttivo che la divideva in due parti: il Nord
e il Sud, segnati da differenze sempre più
marcate:
• nel Nord stava nascendo una potente
industria, che sfruttava la grande disponibilità di manodopera, fornita dall’immigrazione proveniente dall’Europa, e di
materie prime (legname, carbone e ferro) di cui era ricco il territorio. Negli Stati
settentrionali si sviluppò quindi una borghesia di imprenditori molto dinamica,
che si faceva prestare soldi dalle banche,
costruiva nuove fabbriche ed era in grado di competere con le aziende europee
dando lavoro a migliaia di operai. Per
L’espansione degli Stati Uniti
S
S
I
RUSSIA
A
Alaska
Uriankhai
(alla Russia)
Corea
Qingdao (Germania)
Tibet
Shangai
Ningbo
Fuzhou
Xiamen
Formosa
(al Giappone)
Hong Kong (R.U.)
Macao (Portogallo)
Canton
Guangzhouwan
(Francesi)
Wyoming
(al Giappone)
Port Arthur (Russia)
Weihaiwei (R.U.)
Idaho
Territori conquistati
dalla dinastia
Qing (Manchu)
dopo il 1650
Territori persi
dopo il 1847
Porti aperti agli stranieri:
nel 1842
dal 1842 al 1911
Territori ceduti
dalla Cina
Area della rivolta
dei Boxers
Utah
California
California
North
Dakota
1850
Arizona
1853
Stati Uniti nel 1775
A
South Dakota
D A
N. Hampshire
Vermont
Massachusetts
Mi
c
New
York
Wisconsin
Territori acquisiti con il trattato di Versailles (1783)
Louisiana ceduta dalla Francia (1803)
Iowa
Rhode
Island
1783
1845
Louisiana
Florida
1819
Aquisizione dal Regno Unito con la convenzione del 1818
Florida ceduta dalla Spagna
Annessione del Texas
Annessione dell’Oregon
California ceduta dal Messico
Territorio ceduto dal Messico
1845 Data di acquisizione dei territori
© Loescher Editore – Torino
1860
Maine
Pennsylvania Connecticut
New Jersey
Ohio
Delaware
L o u i s i a n a Illinois
West
Maryland
1803
Virginia
Colorado
Virginia
Kansas
Kentucky
Missouri
North
Carolina
Tennessee
New
South
Oklahoma Arkansas
Mexico
Carolina
Alabama
Georgia
Mississippi
Te x a s
Nebraska
Nevada
GIAPPONE
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n
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Pechino
Q in g hai
Oregon
A
ta
eso
inn
M
M ong ol i a i nt e r na
Montana
1846
(alla Russia
dal 1900 al 1905
poi giapponese)
Zungaria
(alla Russia)
Xin jian g
Oregon
1867
Manciuria
C
Washington
acquistata
dalla RussiaCANADA
M ong oli a e st e r na
300
Il capo indiano apache Geronimo
con parte della sua tribù.
ana
R U
L’età dell’imperialismo
Indi
4
© Loescher Editore – Torino
1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Gli Stati «sudisti», invece, difendevano la
propria autonomia e le proprie tradizioni
e, vivendo solo dell’esportazioni dei prodotti agricoli, erano assolutamente contrari
all’imposizione di dazi sui commerci esteri.
Difendevano infine l’autonomia dei singoli Stati federati contro il rafforzamento e le
ingerenze del potere centrale, che consideravano una minaccia.
1861-1865: la Guerra
di Secessione
W. Hahn, Mercato in Sansome Street a San Francisco, 1872, Sacramento, Crocker Art Museum.
E. Johnson, Old Kentucky Home-Life in the South, 1859,
New York, Collection of the New York Historical Society.
sostenere lo sviluppo in corso furono costruite e ampliate ferrovie, strade, porti
commerciali e le città divennero grandi e
moderne;
• l’economia del Sud, invece, era sempre
più legata alla produzione agricola, al
ruolo dominante dei grandi proprietari terrieri e allo sfruttamento del lavoro degli schiavi neri. Si coltivavano e si
esportavano grandi quantità di tabacco
e canna da zucchero, ma la produzione
che nel corso del XIX secolo crebbe maggiormente era quella del cotone: mentre
nel 1800 gli Stati Uniti vendettero cotone
all’estero per 5 milioni di dollari, nel 1860
il ricavato fu di ben 121 milioni. Al Sud
mancava una borghesia dinamica simile
a quella del Nord e l’intera gerarchia sociale era fondata sul potere di poche migliaia di grandi famiglie di latifondisti,
che possedevano le terre e guidavano le
istituzioni locali. Si trattava di una vera e
propria minoranza aristocratica, gelosa
della sua ricchezza, del suo potere e delle
sue tradizioni.
La divisione tra nordisti e sudisti in America
Stati del Nord
Stati del Sud
Sviluppo dell’industria (borghesia)
Sviluppo dell’agricoltura
(proprietari terrieri)
La crescita della popolazione
e i diversi orientamenti politici
Dal 1800 al 1860 la popolazione complessiva degli Stati Uniti passò da 5 a 30 milioni
di abitanti: una crescita vertiginosa dovuta
in larga parte al continuo afflusso di immigrati europei, che tuttavia si stabilivano
principalmente negli Stati settentrionali,
dove era più facile trovare lavoro e dove non
esistevano barriere sociali che impedissero
l’ascesa e l’arricchimento degli uomini più
intraprendenti. La popolazione, quindi, aumentava soprattutto al Nord, dove vivevano
quasi esclusivamente bianchi: circa 21 milioni. Negli Stati del Sud la popolazione era
invece costituita dal 60% di bianchi, stimati
in 5 milioni, e dal 40% di neri, che erano in
tutto oltre 4 milioni.
Alle forti differenze nella composizione
della popolazione e nell’economia si accompagnavano anche diverse tendenze politiche. Gli Stati «nordisti» erano favorevoli
a un rafforzamento del potere centrale, che,
secondo loro, doveva essere abbastanza forte da difendere la nascente industria dalla
concorrenza dei Paesi industriali europei.
Erano quindi favorevoli al protezionismo
e all’introduzione di tasse sulle importazioni. Gli Stati del Sud vivevano invece solo di
esportazioni dei prodotti agricoli, che sarebbero state messe a rischio dall’adozione del
protezionismo: si poteva infatti facilmente
prevedere che i mercati esteri si sarebbero
chiusi ai prodotti americani per ritorsione
contro Washington.
I grandi proprietari terrieri del Sud avrebbero voluto introdurre il loro sistema economico, imperniato sulle piantagioni di cotone
lavorate da schiavi, anche nei nuovi Stati che
si andavano formando a Sud-ovest, come il
Texas, il Nuovo Messico e la California. Qui
venivano messe a coltura sempre nuove
terre, che contribuivano in buona misura
alla straordinaria crescita dell’agricoltura
statunitense. A questo progetto si opponevano gli Stati settentrionali, dove la critica
all’ingiusto sfruttamento degli schiavi era
sempre più aspra e dove si pretendeva che
in tutta l’Unione valessero gli stessi diritti
per tutti i cittadini. Gli Stati settentrionali
volevano inoltre che nei nuovi territori del
Sud-ovest fosse applicata l’agricoltura ispirata a criteri capitalistici che prosperava
sulle coste dell’Atlantico. Lo schiavismo, insomma, contrastava fortemente tanto con
la mentalità democratica della popolazione
del Nord quanto con le esigenze di una dinamica economia di mercato, che necessitava
di una manodopera libera di spostarsi. Non
meno importante era infine il parere degli
stessi coltivatori dell’Ovest, che chiedevano
la concessione dell’uso gratuito delle terre
demaniali e che alle colture cotoniere preferivano di gran lunga i cereali, che trovavano
più facilmente collocazione nel ricco mercato delle città costiere settentrionali.
Mentre la tensione tra le due parti del
paese cresceva, le elezioni presidenziali del
1860 furono vinte da Abraham Lincoln, un
avvocato del Kentucky, che divenne il sedicesimo presidente degli Stati Uniti. Egli voleva abolire la schiavitù (benché si mostrasse
molto prudente sull’opportunità di abrogarla subito nell’intero paese) e sosteneva le
esigenze dell’industria del Nord: proprio per
questo aveva ottenuto quasi tutti i suoi voti
negli Stati settentrionali. La sua elezione fu
vista come una minaccia dal Sud, che temeva un rafforzamento del governo centrale e
una diminuzione della propria autonomia.
Il 20 dicembre 1860 la Carolina del Sud
si dichiarò indipendente. In poche settimane altri dieci Stati meridionali si staccarono
dall’Unione e diedero vita a una nuova federazione: gli Stati Confederati d’America,
che ebbero la loro capitale a Richmond, in
Virginia. Si trattava di una «secessione», di
una separazione dal corpo del paese di buona parte del suo territorio, che non venne
accettata dal governo centrale. Le trattative
non approdarono a nulla a causa dell’intransigenza di entrambe le parti: nell’aprile 1861 cominciò una lunga e sanguinosa
guerra civile, la Guerra di Secessione.
Il conflitto fece oltre 600.000 vittime e rimane tuttora la guerra più sanguinosa tra
quelle combattute dagli Stati Uniti nella loro
storia. Particolarmente feroci e violenti furo-
Guerra di Secessione: soldati con il cannone da assedio, 1863 circa, Fort Corcoran, Arlington, Virginia.
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1860
L’età dell’imperialismo
© Loescher Editore – Torino
1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Gli schiavi liberati accolgono
e salutano Abraham Lincoln a
Richmond, Virginia.
no gli scontri tra le fanterie, a causa dell’uso
delle armi più moderne: fucili a ricarica veloce e precisi nel tiro e artiglierie numerose e
potenti. Da principio il Sud resse bene il confronto, perché le sue forze armate erano meglio organizzate di quelle avversarie e il generale Robert Lee, il loro comandante, le guidò
abilmente. Col tempo, però, il Nord riacquistò la prevalenza. La battaglia di Gettysburg,
nel luglio 1863, segnò il punto di svolta, poiché pose fine all’avanzata verso settentrione
delle truppe sudiste. Nell’aprile 1865 i soldati degli Stati del Sud dovettero arrendersi ai
nordisti guidati dal generale Ulysses Grant.
La guerra, che i confederati al principio speravano breve, era infatti diventata una guerra
di logoramento: essi non potevano competere con la potenza industriale, la ricchezza di
materie prime del Nord, e con la sua popolazione molto più numerosa.
Già nel 1862, nel colmo della lotta, Lincoln aveva fatto approvare una legge che
dichiarava liberi tutti gli schiavi del paese
a partire dal 1° gennaio 1863: si trattava del
cosiddetto Proclama dell’Emancipazione.
Egli inoltre stabilì che negli Stati dell’Ovest le
terre demaniali venissero concesse gratuitamente a chi si impegnava a coltivarle. Con la
sconfitta, il Sud dovette accettare l’abolizione della schiavitù, definitivamente stabilita nel 1865 in virtù del XIII emendamento
costituzionale, e la piena sottomissione alle
leggi dell’Unione.
Segregazione razziale, potenza
industriale, melting pot
Pochi giorni dopo la fine del conflitto, il 14
aprile 1865, Lincoln fu assassinato da un
sudista che voleva così vendicare la sconfitta militare degli Stati confederati: era il
segno evidente che le divisioni tra le due
parti degli Stati Uniti continuavano. Al Sud
le condizioni di vita dei neri, ormai divenuti
cittadini americani a pieno titolo, rimasero
ancora molto dure fino alla seconda metà
del Novecento: essi dovettero subire il razzismo dei bianchi e diverse forme di discriminazione all’interno della società (solo per
fare un esempio, erano limitati i diritti allo
studio, al lavoro e alla libera circolazione).
La guerra ebbe tuttavia, nel complesso,
effetti positivi per lo sviluppo economico degli Stati Uniti. Il potere centrale si era
rafforzato e le industrie del Nord godettero
della protezione garantita dai dazi introdotti
sulle merci estere. Le materie prime furono
sempre meglio sfruttate e le fabbriche statunitensi (in particolare nei comparti siderurgico, meccanico, elettrico e petrolifero),
prima furono in grado di rivaleggiare con le
omologhe inglesi e tedesche, poi addirittura le superarono per volumi produttivi. Alla
fine dell’Ottocento gli Stati Uniti erano secondi all’Inghilterra solo per tonnellaggio di
naviglio mercantile varato.
Fu anzi proprio negli Stati Uniti che il
fenomeno dei trust e dei cartelli conobbe
la massima espansione, incarnata da veri
giganti degli affari come i Rockefeller e i
Morgan, famiglie che dominavano rispettivamente il mercato del petrolio e quello
finanziario. D’altro canto, Washington fu
la prima capitale al mondo a emanare una
legislazione in questo campo, allo scopo di
limitare il potere economico e finanziario
delle grandi concentrazioni industriali e
bancarie: si favorivano in tal modo la libera
concorrenza e, indirettamente, gli interessi
dei consumatori.
Negli anni successivi al conflitto, nei nuovi Stati che sorgevano nelle immense praterie dell’Ovest si sviluppò la più progredita e
specializzata agricoltura del mondo, in grado di esportare enormi quantità di cereali in
Europa e in altri continenti.
Il Sud impiegò diverso tempo a riprendersi dalla sconfitta. Con l’abolizione della
schiavitù il suo sistema economico era stato
scardinato e la produzione di cotone crollata. Ma l’introduzione di un’economia capitalistica favorì il diversificarsi delle attività
produttive anche negli Stati ex confederati,
dove accanto all’agricoltura e all’allevamento si svilupparono le prime città con importanti attività commerciali e industriali.
Nel 1869 venne inaugurata la prima ferrovia che congiungeva la costa dell’Oceano
Atlantico con quella dell’Oceano Pacifico,
mentre nel 1900 la rete ferroviaria degli Stati
Uniti era di circa 300.000 chilometri: superava, quindi, quella di tutta l’Europa messa
insieme.
Milioni di immigrati continuarono nel
frattempo a giungere nel paese. Prendeva
così forma il melting pot, il «crogiolo» in cui
si fondevano culture e ambizioni di uomini
e donne provenienti da tutto il mondo. Esso
avrebbe costituito la grande fortuna degli
Stati Uniti, fornendo le risorse umane ne-
cessarie a sostenere l’impetuoso sviluppo
del paese. Nel 1900 la popolazione complessiva superava i 75 milioni di abitanti e
città come New York e Chicago erano ormai
diventate vere e proprie metropoli: al volgere del secolo contavano rispettivamente
3,5 e 1,7 milioni di abitanti e tra i loro edifici
svettavano i primi grattacieli.
Nel suo insieme la società degli Stati Uniti era forse la più democratica al mondo. Il
desiderio di libertà che aveva animato la
lotta delle 13 colonie al tempo dell’indipendenza da Londra si era infatti tradotto,
col tempo, in una democrazia sostanziale,
non limitata dal retaggio di passati feudali
o aristocratici. Come in Inghilterra, la lotta politica era imperniata sul rispetto della
regola dell’alternanza tra partiti di matrice
liberale, l’uno più progressista e l’altro più
moderato: erano rispettivamente il Partito
democratico e il Partito repubblicano. Ancor più che in Inghilterra, era possibile mutare la propria condizione sociale di nascita
e farsi strada nel mondo. Lo stesso proletariato urbano, che cresceva vistosamente a
causa dell’espansione industriale del paese,
non rinunciava a combattere gli aspetti più
negativi del capitalismo rampante e a rivendicare i propri diritti. Nacque così nel 1886
l’American Federation of Labour, la maggiore federazione di sindacati americani,
che difendeva i salariati pur senza abbracciare la lotta di classe che negli stessi anni
caratterizzava il socialismo e il marxismo
europei. Connaturata alla mentalità americana, infatti, e dunque anche agli operai, era
l’idea che nel Grande Paese fosse sempre
possibile – con il giusto impegno – liberarsi
dalle proprie umili origini per ascendere a
una posizione sociale più gratificante.
Tra Ottocento e Novecento, società ed
economia degli Stati Uniti erano insomma
pronte a proiettare il paese sulla scena mondiale da protagonista.
tunitense James Monroe comunicò al mondo l’intenzione di Washington di opporsi a
qualsiasi intromissione europea negli affari
delle Americhe che, sostenne, riguardavano
solo gli americani. Dato il forte sviluppo in
corso degli Stati Uniti, tale messaggio lasciava presagire, come poi in realtà avvenne,
l’estendersi degli interessi statunitensi in
tutta l’area, e prima di tutto degli interessi
commerciali e finanziari. Washington infatti
sostituì rapidamente Londra come partner
privilegiato dei traffici latinoamericani.
Dopo la Guerra di Secessione, il dinamismo statunitense in politica estera riprese
e trovò una svolta alla fine dell’Ottocento.
Nel 1898, gli abitanti di Cuba si ribellarono
al dominio della Spagna, che attuò una violenta repressione. L’affondamento di una
corazzata americana nel porto dell’Avana
portò allo scoppiò di una guerra tra gli Stati
Uniti e il paese iberico, che fu velocemente
sconfitto. Cuba, la cui produzione di canna
da zucchero era gestita proprio dagli Stati
Uniti, diventò una repubblica indipendente sotto la tutela di Washington, che strappò
alla Spagna anche Portorico e soprattutto le
Filippine, impossessandosi così di un’importante testa di ponte nell’Asia sud-orientale. Contemporaneamente, occupò le isole
Hawaii, in pieno Oceano Pacifico.
Tale fase di attivismo in campo estero
ebbe culmine con l’apertura nel 1914 del
Canale di Panama, che metteva in comunicazione Atlantico e Pacifico. Gli Stati favorirono l’indipendenza del popolo panamense
dalla Colombia e anche Panama divenne una
repubblica sotto la tutela statunitense. Naturalmente, gli americani assunsero anche
il pieno controllo del Canale. Washington,
che aveva nel frattempo varato una flotta da
La politica estera
degli Stati Uniti
In effetti, gli Stati Uniti avevano già da tempo
sviluppato una loro politica estera piuttosto attiva e imperniata quasi esclusivamente sul continente americano. La cosiddetta
«dottrina Monroe» risaliva infatti al 1823,
nel pieno delle rivoluzioni latinoamericane:
nel dicembre di quell’anno il presidente sta-
Guerra ispano-americana del 1898 per Cuba.
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1860
L’età dell’imperialismo
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
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Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
guerra non inferiore a quella inglese, si poneva a questo punto come interlocutore autorevole delle maggiori potenze europee in
campo internazionale. A sancire tale nuova
prestigiosa condizione, appena pochi anni
dopo, gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in
soccorso delle stesse democrazie europee,
nella Prima guerra mondiale.
La rivoluzione messicana
shogun: capo militare
feudale (corrispondente
al grado di generale)
cui era delegato
il governo del paese.
xenofobia: avversione
per gli stranieri e in
generale per tutto ciò
che è straniero.
Il generale Emiliano Zapata.
Per il profondo influsso che ebbe sulle vicende politiche del continente latinoamericano,
merita un cenno la rivoluzione messicana.
Agli albori del XX secolo, il Messico era governato da Porfirio Diaz, dittatore del paese
senza quasi interruzione dal 1876. Diaz aveva promosso lo sviluppo economico messicano con l’aiuto dei capitali stranieri, ma la
sua politica spregiudicata aveva favorito la
diffusione di una massiccia corruzione tra
le classi dirigenti e gli amministratori dello
Stato. Inoltre, egli non aveva intaccato il sistema latifondistico di origine coloniale: una
ristretta oligarchia terriera viveva quindi in
condizioni di grande benessere a spese della maggioranza della popolazione, costituita
dai peones, contadini poveri e sfruttati.
Nell’autunno del 1911 Diaz fu cacciato, ma il Messico piombò in una lunga e
tormentata guerra civile, che ebbe diversi
protagonisti. Il liberale Francisco Madero,
cui andava il merito della caduta del dittatore e che rappresentava le forze progressiste più moderate, desiderose di una
graduale democratizzazione della vita del
paese, fu assassinato nel 1913. Il generale
Adolfo Huerta, impadronitosi del potere e
messosi a capo di un regime reazionario, fu
a sua volta cacciato e la presidenza andò a
Venustiano Carranza, che nel 1917 promulgò una Costituzione di impronta democratica, sociale e anticlericale. Intanto, il paese
era sconvolto dalle rivolte contadine, guidate da capibanda leggendari come Emiliano Zapata e Francisco «Pancho» Villa:
essi lottavano per il varo di una radicale riforma agraria. Solo negli anni Venti del Novecento, e dopo oltre un milione di morti,
il Messico trovò una relativa pace: accadde
grazie al presidente Álvaro Obregón, che
avviò la redistribuzione delle terre ai contadini. Nacque allora il Messico moderno,
fragile ma duratura democrazia del continente latinoamericano.
12.4 La rapida ascesa
del Giappone
Il risveglio del Giappone
e la restaurazione Meiji
A metà dell’Ottocento, il Giappone rappresentava per gli occidentali – al pari della
Cina – un profondo mistero. La penetrazione dei mercanti e degli evangelizzatori europei nell’arcipelago nipponico risaliva al Cinquecento, ma già nel 1614 lo shogun Ieyasu
Tokugawa aveva promulgato un decreto di
espulsione di tutti i missionari cristiani, cui
aveva fatto seguito una violenta persecuzione dei seguaci della religione venuta da
ovest. A partire dal 1640, gli unici europei
cui gli shogun concessero di intrattenere
relazioni commerciali con il Giappone furono gli olandesi, i quali peraltro non potevano sbarcare sul territorio nipponico vero
e proprio e rimanevano confinati nell’isola
artificiale di Deshima, nella rada di Nagasaki. Per circa due secoli, dunque, il Giappone
rimase completamente chiuso a qualsiasi
influenza esterna.
L’apertura al resto del mondo avvenne
verso la metà dell’Ottocento, per opera di
due avvenimenti.
Il primo fu la ripresa della pressione
occidentale affinché il paese si aprisse ai
contatti esterni. Tentativi di penetrazione
commerciale furono compiuti dagli inglesi
già nel 1808 e dai russi nel 1811, ma vennero respinti. Sempre più difficile fu resistere
dopo la vittoria europea contro la Cina nelle
Guerre dell’oppio; ogni difesa cadde infine
nel 1854, quando il commodoro Matthew
Perry della marina degli Stati Uniti puntò i
suoi cannoni contro le coste dell’arcipelago. Washington ottenne allora il trattato di
Kanagawa, con cui il Giappone consentì ad
aprire alle navi americane i porti di Shimoda e Hakodate. Negli anni successivi e sulla
scorta di altrettanti accordi commerciali,
diversi scali furono aperti alle navi occidentali, non solo americane ma anche europee,
mentre i consoli delle potenze mondiali si
insediavano nella capitale nipponica.
La nuova penetrazione straniera scatenò violente rivolte xenofobe e innescò il
secondo degli avvenimenti cui abbiamo
accennato: la restaurazione imperiale del
1868. In quell’anno il regime degli shogun,
responsabili di aver firmato con gli occidentali i «trattati ineguali» , fu abbattuto
e gli imperatori riacquistarono tutte le loro
prerogative con la dinastia Meiji. I nuovi
sovrani conquistarono il trono proprio impegnandosi a difendere il Giappone contro i «barbari» stranieri, nel nome del culto
geloso delle tradizioni e dell’indipendenza
nipponiche, e spostarono la capitale a Tokyo. Essi per primi si rendevano conto della
necessità di aprire il paese all’esterno e ricevere il meglio del progresso portato dall’occidente: solo un Giappone in grado di competere con gli europei sul piano economico
e militare sarebbe stato infatti in grado di
difendersi e mantenersi autonomo. Proprio
allo scopo di modernizzare il paese furono
allora adottati importanti provvedimenti
che rapidamente innalzarono la potenza
nipponica a rango mondiale.
Modernizzazione economica
e ascesa internazionale
Nel 1871 il feudalesimo venne abolito per
legge e i vecchi possessi terrieri furono riuniti in prefetture sottoposte al rigido controllo della capitale, mentre i loro proprietari venivano cooptati nella nuova struttura
amministrativa statale.
Anche i sistemi monetario e fiscale furono semplificati e uniformati alle norme
emanate dalla capitale. Nel 1872 fu resa obbligatoria l’istruzione elementare per tutti i
bambini e nello stesso anno le prime linee
ferroviarie e telegrafiche si diramarono da
Tokyo, conoscendo uno sviluppo immediato in tutto l’arcipelago. Missioni di studio
furono inviate in Europa e negli Stati Uniti
per apprenderne le tecnologie, si acquistarono i brevetti occidentali e si pagarono gli
esperti inglesi, tedeschi e francesi per lunghi soggiorni d’insegnamento in Giappone,
mentre veniva favorito in ogni modo anche
l’afflusso dei capitali stranieri. Questo sforzo enorme aveva lo scopo di avviare il paese sulla strada dell’industrializzazione, da
affiancare all’agricoltura, imperniata sulla
coltivazione del riso e da sempre fiorente.
Le fabbriche, massicciamente sostenute
dall’investimento dei capitali statali, crebbero per numero e produzione, soprattutto
nei comparti siderurgico, tessile e meccanico, dando vita a una vera e propria rivoluzione economica. E nuovo prestigio sociale
acquistò la borghesia mercantile e imprenditoriale, che nel Giappone del feudalesimo
aveva sempre giocato un ruolo marginale e che era tuttora assai modesta: solo in
questa fase di progresso accelerato trovò
l’occasione per crescere sensibilmente. Ad
essa si unirono inoltre molti esponenti della
vecchia classe dirigente terriera, che riversarono sul nuovo investimento industriale i
capitali accumulati nel tempo con la gestione dei suoli. Nel 1889 entrò infine in vigore
una Costituzione che, seppure conservando
grandi poteri all’imperatore, introduceva il
regime parlamentare.
Al principio degli anni Settanta il Giappone istituì la coscrizione obbligatoria,
base per la creazione di un grande e potente esercito nazionale, che comprendeva nelle sue file moltissimi samurai. Questi
guerrieri avevano improntato di sé la storia
giapponese dei secoli passati e trovarono
adesso una nuova collocazione, portando
nell’esercito il proprio senso dell’onore,
della disciplina, del sacrificio estremo in
obbedienza all’autorità. In effetti, le forze
armate nipponiche divennero in breve le
prime dell’Estremo Oriente asiatico, come
attestò nel 1894 la guerra con la Cina per
il protettorato della Corea, vinta facilmente
dai giapponesi. Nel 1901 essi parteciparono
a fianco degli europei alla repressione della
rivolta dei Boxers in Cina, ottenendo un importante riconoscimento del proprio ruolo
internazionale. La definitiva «consacrazione» a grande potenza giunse appena pochi
anni dopo, in occasione della guerra che
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306
1860
L’età dell’imperialismo
Stampa giapponese rappresentante
Perry (al centro) ed altri ufficiali
della marina americana durante
una dichiarazione ufficiale.
trattati ineguali:
particolari concessioni
economiche (ad esempio
esenzioni dal pagamento
di dogane, diritto di
essere giudicati dalle
proprie autorità nazionali
anche in caso di reati
commessi in territorio
giapponese, ecc.) che
umiliavano il Giappone
e ne limitavano
la sovranità.
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1864 Abolizione della schiavitù negli Stati Uniti
1866 Prima legge sul lavoro minorile in Italia
1876 Bell e Grey brevettano il telefono
1897 Invenzione dell’aspirina
1914
307
4
12
Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Guerra russo-giapponese: la città portuale di Yokohama
addobbata per festeggiare la vittoria a Tsushima, 1905.
oppose Giappone e Russia per la contesa
sul territorio cinese della Manciuria, già in
buona parte occupato dall’esercito di San
Pietroburgo. La guerra russo-giapponese
del 1904-1905 svelò infatti al mondo, con
grande sorpresa dell’Occidente, l’assoluta
superiorità militare di Tokyo sull’impero zarista, che fu sconfitto sia a terra, a Mukden,
che in mare, nella grande battaglia navale
di Tsushima. Lo zar Nicola II fu costretto
a rinunciare alla Manciuria, che da allora
cadde sotto l’influenza politica ed economica nipponica, a cedere parte dell’isola di
Sakhalin e a riconoscere il protettorato del
Giappone sulla Corea, che poi nel 1910 fu
annessa da Tokyo.
Solo mezzo secolo prima, il Giappone era
ancora completamente chiuso al mondo,
immerso nel feudalesimo, immobile socialmente e politicamente. Ora era uno Stato
moderno, dotato di una società dinamica,
di un’economia ricca e di una forza militare
sorprendente: obiettivi raggiunti senza peraltro perdere il senso della propria identità
nazionale, saldamente radicata negli abitanti dell’arcipelago. Tutto ciò faceva del Giappone, a inizio del Novecento, uno dei grandi
protagonisti della politica planetaria.
1839-1860
Gli europei si assicurano il
controllo commerciale sulla Cina
1854
Gli Stati Uniti impongono al
Giappone l’apertura ai commerci
internazionali
1858
La corona britannica assume
il controllo diretto dell’India
1861-1865
Guerra di Secessione americana
Il colonialismo europeo in Africa fu una delle pagine più brutali,
forse la peggiore, dell’intera storia del XIX secolo. Se si guarda la
carta politica dell’Africa è facile comprendere il disinteresse verso le popolazioni locali che caratterizzò l’avventura coloniale europea. I confini tra gli Stati, al contrario di quello che era successo normalmente per le nazioni europee, non seguono frontiere
naturali (catene montuose, fiumi, ecc.) o un disegno irregolare
prodottosi storicamente a seguito di complessi avvenimenti politici e culturali. I confini delle nuove colonie europee nel «continente nero» vennero tracciati con il righello, in occasione di
incontri diplomatici come la Conferenza di Berlino, da individui
ignari della storia, della cultura e, spesso, della geografia di quel
territorio. Popoli legati da antichissimi legami etnici furono divisi
per sempre in nazioni differenti. Al contrario, etnie in tradizionale
competizione furono obbligate a dividere il proprio destino in entità nazionali totalmente artificiali e insensate.
L’Africa rappresentava l’ultimo continente sconosciuto del mondo. La curiosità per le esplorazioni di uomini come Stanley e
Livingstone vennero sostituite, ben presto, dal puro desiderio
di aggiudicarsi le parti migliori di un territorio ancora vergine.
308
© Loescher Editore – Torino
Inglesi e francesi, potendo già contare su solidi avamposti,
riuscirono ad assicurarsi la maggior parte delle colonie. Ma
anche piccole nazioni come il Belgio riuscirono a ottenere il
controllo di territori immensi come il bacino del fiume Congo.
Non mancarono i delusi. Prima di tutto i tedeschi, per i quali le poche colonie ottenute si rivelarono sempre un motivo di
rancore profondo. Anche l’Italia aspirava a un ruolo di potenza
coloniale, ma i suoi primi tentativi nell’Africa orientale, negli
anni Novanta, si rivelarono un disastro. Tutte queste manovre
erano inoltre sostenute dalla convinzione, diffusa in ogni strato
della società, che gli europei fossero i portatori di una civiltà
superiore. Non diverso era stato l’atteggiamento che francesi e
inglesi avevano riversato in Asia, dove pure il confronto avveniva
con realtà statuali antichissime e di grandissima tradizione. Fu
tuttavia l’Africa il continente che più subì la ferocia del colonialismo europeo tardo ottocentesco. Gli europei che vi si recarono
percorsero un viaggio che li avrebbe portati, volendo usare il
titolo di un celebre romanzo di Joseph Conrad, al centro del
«cuore di tenebra». Una tenebra di cui loro, in grande parte,
erano i massimi responsabili.
1 Durante l’Ottocento il dominio commerciale delle potenze europee si
trasforma in imperialismo. Dall’inizio dell’Ottocento, le potenze europee cominciarono ad amministrare direttamente territori sempre più ampi, fino a conquistare quasi tutto il mondo. Il colonialismo di marca commerciale si trasformò dunque
in imperialismo di stampo politico e militare. La costruzione di grandi imperi
coloniali era vantaggiosa per tre ragioni principali: permetteva ai nuovi dominatori
di sfruttare direttamente le risorse dei paesi conquistati, costringeva le popolazioni
locali ad acquistare i prodotti delle industrie nazionali europee e forniva manodopera
a basso costo, funzionari di basso rango per l’amministrazione e truppe coloniali. A
queste motivazioni si aggiungeva la convinzione degli europei di essere portatori di
una cultura superiore e di avere, quindi, la missione di civilizzare il mondo.
2 L’occupazione dell’Africa avviene velocemente e la Conferenza di Berlino
stabilisce i criteri di occupazione e spartizione del continente. L’espansione europea in Africa fu molto rapida, dapprima grazie all’azione di esploratori
e missionari, poi con l’intervento delle truppe militari e dei funzionari governativi.
Inghilterra, Francia e Germania, soprattutto, imposero il proprio controllo su regioni
immense. Nel 1869 venne inaugurato il Canale di Suez, volano ai traffici tra Europa
e Asia. Nel 1884-1885 la Conferenza di Berlino definì le controversie tra potenze
europee e stabilì che la semplice occupazione di un territorio ne convalidava il possesso da parte della potenza occupante. Nel 1914, alle soglie della Prima guerra
mondiale, quasi tutta l’Africa era ormai sottomessa.
3 1868
Restaurazione imperiale in
Giappone: dinastia Meiji
I NODI DELLA STORIA
Quali furono le caratteristiche del colonialismo di fine Ottocento?
L’età dell’imperialismo
1869
Apertura del Canale di Suez
1884-1885
Conferenza di Berlino
1894
Il Giappone strappa la Corea
al dominio cinese
1904-1905
Guerra russo-giapponese
Le potenze d’Europa occupano anche vaste aree dell’Asia. Anche in Asia gli
europei si impadronirono di vaste aree. La Francia mise le mani sulla penisola
indocinese e la Russia si espanse verso il Caucaso e l’Estremo Oriente. Nel 1858 il
governo britannico dichiarò il subcontinente indiano un possesso della corona. Nel
corso del secolo, anche l’Impero cinese fu preda degli europei. Questi svilupparono i loro commerci, in particolare gli scambi di oppio, e imposero la propria supremazia. L’insofferenza contro gli stranieri culminò nella rivolta dei Boxers d’inizio
Novecento, che si rivelò però inutile: al volgere del secolo, buona parte del territorio
cinese era soggetta al controllo economico delle potenze occidentali.
4 Per gli Stati Uniti l’Ottocento è un secolo di piena espansione e dopo la
Guerra di Secessione il paese entra in una fase di impressionante sviluppo.
Gli Stati Uniti erano un paese sempre più ricco, la popolazione aumentava e a Ovest
nascevano continuamente nuovi Stati. L’Unione, tuttavia, soffriva di pesanti differenze tra il Nord, con un’economia industriale e favorevole al rafforzamento del potere
centrale, e il Sud, con un’economia agricola basata sullo sfruttamento degli schiavi e
geloso della propria autonomia. Nel 1860, dopo l’elezione a presidente di Abraham
Lincoln, tra Nord e Sud scoppiò un terribile conflitto (la Guerra di Secessione) che
si concluse nel 1865 con la vittoria del Nord. Si aprì allora la fase del definitivo sviluppo industriale e militare degli Stati Uniti, che al principio del Novecento era ormai
una delle prime potenze mondiali.
5 Dopo la restaurazione della dinastia Meiji, il Giappone avvia una fase di
industrializzazione e di rafforzamento militare che la rende una grande
potenza. Alla metà dell’Ottocento il Giappone era completamente isolato dal mondo.
Ad aprirlo alle influenze esterne furono le pressioni commerciali e militari delle potenze occidentali. L’arcipelago nipponico non cadde però sotto il controllo economico dei
governi imperialisti. Nel 1868 la dinastia imperiale Meiji venne restaurata. I sovrani
avviarono la rapida industrializzazione e il rafforzamento dell’esercito. Alla fine dell’Ottocento il Giappone era una temibile potenza economica e militare in grado di sconfiggere la Cina e la Russia in due guerre per il possesso di vaste regioni in Oriente.
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4
12
Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Le scienze sociali e la rappresentazione
dell’altro
L’età dell’imperialismo
Razzismo e imperialismo
Tanto la frenologia quanto la fisiognomica contribuirono a
definire il moderno concetto di razza. In questo modo la convinzione nell’irriducibile diversità delle razze umane, e dunque degli individui che le componevano, trovava la conferma
di queste pseudoscienze. Di qui scaturirono forme di razzismo che trovarono un ampio campo d’applicazione attraverso l’espansione coloniale in Africa e in Asia e attraverso il
confronto e lo scontro con i popoli colonizzati. Non è un caso
quindi se l’età degli imperialismi, nella seconda metà del XIX
secolo, coincise con una crescente ostilità e una deliberata
violenza contro le «razze» considerate inferiori.
Nella seconda metà dell’Ottocento si diffusero forme sempre più aperte e radicali di razzismo, che divennero
una delle ideologie di movimenti politici nazionalisti, imperialisti e autoritari. All’interno di contesti europei
sempre più segnati dall’insicurezza individuale e collettiva, causata da gravi crisi economiche e da trasformazioni sociali epocali, il confronto con l’altro, con il diverso, con l’emarginato si fece sempre più difficile, e
oggetto di crescenti tensioni. In molti casi il razzismo si intrecciò strettamente con l’antisemitismo, ossia con
l’odio per l’ebreo. Sia il razzismo sia l’antisemitismo pretendevano di fondarsi sulla scienza. Si trattava in realtà
di pseudoscienze, fondate su assunti non dimostrati. Tuttavia, molte correnti della cultura europea, fin dal XVIII
secolo e con maggior vigore nel XIX secolo, avevano teorizzato le differenze tra esseri umani e tra razze.
La frenologia
Disegni del 1868 che rappresentano l’evoluzione del teschio dalle scimmie all’uomo.
Il teschio dell’uomo di colore ha la mascella molto più pronunciata di quello dello
scimpanzé per dare l’impressione che gli africani siano più primitivi delle scimmie.
Fin dal XVIII secolo, un nuovo genere di scienze cercò di determinare la natura umana e di comprenderne il funzionamento. In
particolare, la frenologia si proponeva di indagare, attraverso la
misurazione dei crani umani e lo studio delle loro diverse «regioni»
interne, la personalità dei singoli individui. Il suo inventore fu il medico tedesco Franz Joseph Gall.
La fisiognomica
Carta frenologica: disegno che rappresenta le varie
facoltà mentali localizzate nella corteccia cerebrale.
Non diversamente, la fisiognomica, che era stata inventata da Johann
Kaspar Lavater nel XVIII secolo, cercava di stabilire connessioni organiche
tra le qualità fisiche, psichiche e intellettuali degli esseri umani. In particolare, Lavater aveva la pretesa di collegare direttamente l’aspetto fisico di
un volto ai caratteri psichici e intellettuali di un individuo. La fisiognomica
fu ripresa e sviluppata soprattutto dall’antropologo e criminologo italiano
Cesare Lombroso. Egli riconosceva nei tratti peculiari dei volti di alcuni
criminali le ragioni ultime del loro atto criminoso.
L’antisemitismo
In Europa, nel contesto dei nazionalismi e degli imperialismi di fine
Ottocento, il razzismo alimentò forme di intolleranza e discriminazione
che, intrecciandosi con la tradizione antigiudaica cristiana, si rivolsero
prioritariamente contro gli ebrei. Gli ebrei erano raffigurati attraverso
stereotipi che ne denunciavano i presunti caratteri distintivi sul piano
fisico e sul piano sociale: la tendenza alla speculazione finanziaria e
quella alla cospirazione anti-nazionale. Di qui derivarono violentissime campagne antisemite che, dalla Russia alla Francia, coinvolsero
molta parte d’Europa. In quest’epoca furono gettati i presupposti dell’antisemitismo nazista, che si sarebbe diffuso in Germania dopo la
Prima guerra mondiale.
«Fisiognomie di delinquenti»,
tavola da L’uomo delinquente
di Cesare Lombroso.
«Crani di delinquenti», tavola
da L’uomo delinquente,
di Cesare Lombroso.
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«Ebrei non desiderati»: avviso
in una taverna di Corbach in Prussia.
L’ebreo errante, con il cerchio giallo sul petto, imposto nel XVI secolo in Austria.
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4
12
Verso il Novecento: sviluppo industriale, politica di potenza e imperialismo
Ragiona sul tempo e sullo spazio
Impara il significato
1
4
ATTIVITÀ
2
Osserva la cartina a p. 292 e rispondi alle domande: quali sono le tre maggiori potenze che si spartiscono
l’Africa? E quali quelle che si spartiscono l’Asia?
1 Nel
su iniziativa di Bismarck, a Berlino si svolge una conferenza per mettere ordine tra le ambizioni
occidentali sull’Africa
2 Nel
scoppia in India la «rivolta dei Sepoys», soldati indiani al servizio degli inglesi
3 Nel
il XIII emendamento costituzionale abolisce la schiavitù
4 Nel
l’Inghilterra vince la Prima guerra dell’oppio contro la Cina, ottenendo Hong Kong e l’apertura al
commercio estero di altri quattro porti
5 Il 14 luglio
Lincoln viene assassinato da un sudista
6 Nel
scoppia la «rivolta dei Boxers», in difesa dell’orgoglio nazionalista e delle antiche tradizioni imperiali
7 Tra il
e il
è combattuta la guerra di Secessione
8 Nel
ha inizio la lunga guerra civile messicana
9 Nel
il presidente Monroe dichiara che gli Stati Uniti non avrebbero tollerato alcuna intromissione delle
potenze europee negli affari delle Americhe
10 Nel
Giappone e Russia combattono la guerra per la contesa sul territorio cinese della Manciuria
11 Nel
il movimento nazionalista del Kuomintang rovescia la dinastia Qing e proclama la repubblica ponendo
fine al millenario Impero cinese
12 Nel
il Giappone invade la Corea
Scrivi quale significato assumono i seguenti concetti nel periodo dell’imperialismo.
1
2
3
4
5
6
7
8
Completa le frasi scrivendo l’anno esatto in cui accade l’evento, poi distingui con tre colori diversi gli eventi che
riguardano l’Europa, quelli che si verificano in Asia e quelli che coinvolgono le Americhe.
5
L’età dell’imperialismo
Pregiudizio razzista
Bey
Colonia penale
Subcontinente
Pioniere
Riserva (indiana)
Naviglio mercantile
Commodoro
Prova a riflettere sul significato di «melting pot», fenomeno che caratterizza gli Stati Uniti a partire dalla seconda metà
dell’Ottocento: pensi che sia un fenomeno attuale?
Osserva, rifletti e rispondi alle domande
6
Osserva la mappa concettuale relativa all’imperialismo. Poi rispondi alle domande.
Le caratteristiche fondamentali dell’imperialismo
Esplora il macrotema
3
Completa il testo.
A partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, le grandi potenze europee intraprendono una corsa all’espansione coloniale che mira a instaurare un dominio diretto sui territori di Africa e (1)
. Tale
espansione prende il nome di (2)
ed è motivata principalmente dalla politica di potenza
degli Stati europei; essa inoltre è resa possibile dalla superiorità tecnologica di questi ultimi.
Nel corso della metà dell’Ottocento l’interesse per il continente africano cresce enormemente e porta alla sua quasi totale conquista, soprattutto dopo la scoperta di grandi ricchezze in (3)
prime. I contrasti nati tra le potenze occidentali (in particolare Inghilterra, Francia, Germania, Italia
e Belgio) per il controllo del territorio vengono placati con il congresso di (4)
indetto da
Bismarck: le decisioni sulla spartizione del continente sono rispettate e i dissidi tra le capitali vengono
risolti con accordi diplomatici. Dopo l’Ottocento anche in Asia l’espansionismo subisce una decisa accelerazione, soprattutto da parte di Francia e Russia; l’Inghilterra, inoltre, decide di trasformare il proprio dominio commerciale in dominio territoriale: la Compagnia delle Indie Orientali viene soppressa e
l’(5)
passa sotto il diretto controllo della Corona britannica.
La penetrazione europea coinvolge anche Cina e Giappone, da sempre caratterizzati da un (6)
dal resto del mondo, i quali però rispondono in modo diverso alla penetrazione straniera e hanno destini
radicalmente diversi. In seguito alla sconfitta nella Seconda guerra dell’ (7)
la Cina è costretta
ad aprire i porti al commercio straniero e ad allacciare relazioni diplomatiche con i paesi occidentali, nonché a subire la modernizzazione del paese imposta dagli europei. In Giappone, invece, l’apertura avviene
per opera di due avvenimenti: la ripresa della pressione occidentale e la restaurazione imperiale; il regime
degli shogun, infatti, viene abbattuto e gli (8)
riacquistano le loro prerogative impegnandosi
a difendere il paese contro i «barbari» stranieri. Nondimeno, essi avviano una modernizzazione economica che farà del Giappone uno dei protagonisti della scena internazionale.
Ben presto però, la gara (9)
tra le potenze imperialistiche porterà a riacutizzare le tensioni
internazionali e le rivalità tra i paesi, fino allo scoppio del primo conflitto mondiale.
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Mostra quello che sai
7
1 In che cosa si differenzia l’imperialismo dal colonialismo ottocentesco?
2 Dal punto di vista ideologico, quale sistema di credenze alimenta
il fenomeno dell’imperialismo?
3 Dal punto di vista economico, quali vantaggi presenta l’imperialismo?
Osserva le immagini a p. 296: per quale motivo sono state accostate queste due raffigurazioni? Quale messaggio
vogliono comunicare?
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Documenti
Stato di diritto
Lo Stato di diritto si affermò a partire dal XVIII secolo con la riflessione culturale degli illuministi e con le rivoluzioni politiche che caratterizzarono l’Occidente. In quella espressione si racchiudono sia la tradizione anglosassone del Rule of law, cioè del «governo della legge», sia l’elaborazione dei giuristi tedeschi a conclusione del
XIX secolo e in particolare del giurista Georg Jellinek: Stato di diritto è appunto la traduzione letterale del tedesco
Rechts («diritto») staat («Stato»).
Partendo dall’assunto che nessuno, neppure il sovrano, è sciolto dall’obbligo di rispettare le leggi, lo Stato di
diritto segna il superamento dell’assolutismo e la nascita dello Stato moderno, il cui fondamento risiede nell’insieme delle persone che occupano lo spazio entro il quale si svolge la sua attività. Da sudditi si diviene, in linea
generale, cittadini, titolari di una sovranità che trova nella legge limiti e modi di espressione.
L’evoluzione dello Stato di diritto è differente a seconda delle peculiarità storiche dei diversi paesi. In un primo
tempo, in quello cioè della sua teorizzazione, la formula Stato di diritto intendeva assolvere a una funzione stabilizzatrice, affermando innanzitutto il principio dello Stato sovrano, che escludeva quindi sia gli antichi soggetti
(i re) sia quelli che sarebbero emersi nel corso nel XX secolo, cioè le masse. In questo senso, lo Stato di diritto
è un prerequisito fondamentale di un sistema democratico, sebbene la sua codificazione sia avvenuta in un
contesto storico che non prevedeva la democratizzazione. Anzi, l’avere individuato nello Stato o, come nel caso
inglese, nel Parlamento, il titolare della sovranità si poneva in alternativa sia alla realtà dell’Antico regime sia al
potere popolare emerso la prima volta con la rivoluzione.
Da questo punto di vista, la discontinuità si realizzò in conseguenza degli effetti devastanti della Grande guerra e della formazione, sulle ceneri degli antichi imperi, di repubbliche, come quella tedesca di Weimar, aventi le
fondamenta in un potere costituente risiedente nel popolo. Si andava così formando lo Stato democratico, che
si fonda sul principio del popolo sovrano. Ne conseguono il riconoscimento della piena capacità politica di tutte
le cittadine e di tutti i cittadini adulti e quindi l’affermazione del suffragio universale. Questa evoluzione dello
Stato di diritto in Stato democratico si è accompagnata storicamente anche alla caratterizzazione di quest’ultimo
come Stato sociale, che realizza le condizioni, in un sistema di libertà, per restringere le distanze economiche e
di opportunità tra i cittadini.
I requisiti che noi oggi attribuiamo allo Stato di diritto sono i seguenti: 1) il principio di legalità dell’amministrazione pubblica, cioè il suo operare nel rispetto della legge generale e attraverso la sua applicazione da parte di giudici
indipendenti; 2) la condizione di parità dei cittadini di fronte alla legge e nella sua applicazione; 3) una gerarchia
che assegna alla Costituzione una preminenza e le cui norme informano di sé tutta la legislazione e, conseguentemente, le decisioni. Non a caso, sul modello della Costituzione americana, anche nell’Europa continentale le
Costituzioni hanno previsto la presenza di una Corte costituzionale (in Italia è regolata dagli articoli 134-137); 4) la
separazione dei poteri tra legislativo, esecutivo e giudiziario (in Italia si è affermata compiutamente soltanto con
la Costituzione repubblicana); 5) il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo.
Il concetto di Stato di diritto segna la nascita dello Stato moderno: esso indica un organismo politico che fonda la sua
legittimità non sul potere arbitrario del sovrano, ma su una costituzione che tutela i diritti fondamentali del cittadino e
stabilisce la distribuzione del potere fra i vari apparati di governo. Lo Stato di diritto nacque sul finire del XVIII secolo,
in seguito alle Rivoluzioni inglese e francese, dal superamento dell’assolutismo e si perfezionò grazie al contributo del
pensiero liberale e democratico.
1 La separazione dei poteri è il presupposto per la creazione di una società in cui i diritti e i doveri siano distribuiti equamente:
quando è nato questo principio, che sta alla base dello Stato di diritto?
2 Sulla base di quello che hai letto, fai qualche esempio di Stato che non si può definire «Stato di diritto».
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1.Lo Stato di diritto teorizzato da Kant
Le teorie dei Lumi provenienti dalla Francia trovarono terreno fertile nella Prussia governata da Federico II, che tentò di realizzare un
esperimento di «assolutismo illuminato». Egli promosse una riforma della giustizia, con l’elaborazione di un nuovo codice (detto Corpus
Fridericianum, 1748) che abolì la tortura, introdusse l’indipendenza dei giudici e concesse la libertà di culto e di opinione. Le idee della
Rivoluzione francese esercitarono grande fascino anche sul filosofo Immanuel Kant che nella Critica della ragion pratica (1788) teorizzò la
superiorità della «legge morale» in ogni individuo. Per lui la politica era subordinata al diritto e quest’ultimo alla morale.
Lo Stato che Kant teorizza nei suoi
scritti politico-giuridici non è uno
Stato esistente o che sia mai esistito
nella realtà storica. Esso è piuttosto
uno Stato ideale, è lo Stato come
dovrebbe essere, per essere conforme ai principi della ragione. […]
Vediamo dunque tanto i fondamenti quanto la concreta articolazione
dello Stato kantiano. Lo stato civile, in quanto stato giuridico, deve
essere fondato, secondo il filosofo,
sui seguenti principi a priori: 1) la
libertà di ogni membro della società
in quanto uomo; 2) l’uguaglianza di
esso con ogni altro, in quanto suddito; 3) l’indipendenza di ogni mem-
bro di un corpo comune, in quanto
cittadino. Che tali principi siano a
priori significa che essi sono leggi
o regole in base alle quali soltanto è
possibile lo Stato secondo i dettami
della pura ragione. In altre parole,
lo stato civile è uno stato giuridico
solo e soltanto se presuppone tali
principi della ragione e si conforma
ad essi. Del principio della libertà
dell’individuo in quanto uomo Kant
dà la seguente formulazione: «nessuno mi può costringere ad essere
felice a suo modo (come cioè egli si
immagina il benessere degli altri uomini), ma ognuno può ricercare la
sua felicità per la via che a lui sembra
buona, purché non rechi pregiudizio
alla libertà degli altri di tendere allo
stesso scopo». […] Si tratta, come si
vede, di un principio che noi oggi
possiamo definire schiettamente
liberale, in quanto esso mira a salvaguardare una larga sfera d’azione
dell’individuo nella sua vita sociale
e privata, al riparo dalle pretese e
dalle intrusioni dei pubblici poteri. Senza la possibilità di seguire le
proprie inclinazioni, di soddisfare
i propri gusti, di manifestare il proprio carattere e di adottare lo stile di
vita ad esso conforme, l’individuo è
completamente asservito.
A. Andreatta, A.E. Baldini, Il pensiero politico dell’età moderna. Da Machiavelli a Kant, Torino, UTET, 1999
2.Lo Stato di diritto sovranazionale come strumento per ottenere una pace duratura
Secondo Kant nello stato naturale di «selvaggia libertà» gli uomini sono in perenne antagonismo tra loro; una volta però che si associano
(cioè danno vita a una società) passano alla condizione di «legalità politica e giuridica», incarnata dallo Stato di diritto.
Se per diritto internazionale si intende il diritto alla guerra (poiché dovrebbe essere il diritto di determinare ciò che è giusto non secondo leggi
esterne universalmente valide, che
limitano la libertà di ciascuno, ma
secondo massime unilaterali, per
mezzo della forza), esso non significa propriamente nulla. Si dovrebbe
infatti intendere nel senso che uomini che pensano in tal modo hanno la
sorte che si meritano, se si distruggono a vicenda e cercano così la pace
eterna nella vasta fossa che copre coi
loro autori tutti gli orrori della violenza. Per gli Stati che stanno tra loro
in rapporto reciproco non vi è altra
maniera razionale per uscire dallo
stato naturale senza leggi, che è stato
di guerra, se non rinunziare, come i
singoli individui, alla loro selvaggia
libertà (senza leggi), sottomettersi a
leggi pubbliche coattive e formare
uno Stato di popoli (civitas gentium),
che si estenda sempre di più, fino ad
abbracciare da ultimo tutti i popoli
della terra. Me poiché essi, secondo
la loro idea del diritto internazionale, non vogliono affatto questo e
rigettano in ipotesis ciò che in tesi è
giusto, così, in luogo dell’idea positiva di una repubblica universale, perché non tutto debba andar perduto,
fanno ricorso al surrogato negativo
di una “lega” permanente e sempre
più estesa, che ponga al riparo dalla guerra e arresti il torrente delle
tendenze ostili contrarie al diritto,
ma col continuo pericolo della sua
rottura. […] Il diritto cosmopolitico
dev’essere limitato alle condizioni
di una universale ospitalità. Si tratta
di diritto e quindi ospitalità significa
il diritto di uno straniero che arriva
sul territorio di un altro Stato di non
essere da questo trattato ostilmente.
Può essere allontanato, se ciò può
farsi senza suo danno, ma, fino a che
dal canto suo si comporta pacificamente, non si deve agire ostilmente
contro di lui.
I. Kant, Per la pace perpetua, in C. Malandrino, Profilo antologico del pensiero politico. Da Machiavelli all’Unione Europea, Roma, Carocci, 2003
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Documenti
Dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo
alla democrazia pluralista
«I Rappresentanti del Popolo Francese, costituiti in Assemblea Nazionale, considerando che l’ignoranza, l’oblio o
il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e della corruzione dei governi, hanno stabilito di esporre, in una solenne dichiarazione, i diritti naturali, inalienabili e sacri dell’uomo, affinché questa
dichiarazione, costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale, rammenti loro incessantemente i loro
diritti e i loro doveri; affinché maggior rispetto ritraggano gli atti del potere legislativo e quelli del potere esecutivo
dal poter essere in ogni istanza paragonati con il fine di ogni istituzione politica; affinché i reclami dei cittadini,
fondati da ora innanzi su dei principi semplici ed incontestabili, abbiano sempre per risultato il mantenimento della
Costituzione e la felicità di tutti».
Così incominciava la Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 che segnava l’inizio di un nuovo
mondo, in cui la politica assumeva, al pari di ogni altro aspetto della società, una dimensione includente. Si poneva obiettivi ambiziosi e ricchi di contenuto, come, per esempio, l’aspirazione della «felicità per tutti». Quel «tutti»
riguardava la borghesia in ascesa, ma alla felicità, cioè alla piena cittadinanza, avrebbero progressivamente aspirato masse sempre più vaste di esseri umani, che uscivano dalla dipendenza e dalla servitù. Gli atti formali della
fase iniziale della Rivoluzione francese, che scoppiò due anni dopo l’approvazione della Costituzione degli Stati
Uniti, contenevano il senso delle trasformazioni che, nei due secoli successivi, avrebbero profondamente mutato
il mondo e avviato un processo di unificazione del globo.
Dopo la Restaurazione, mentre il continente americano vedeva diffondersi i movimenti che nel primo decennio
del XIX secolo avrebbero condotto le parti centrali e meridionali all’indipendenza, in Europa parve auspicabile un
ritorno al passato. In realtà il 1848 mostrò che i presupposti della Rivoluzione francese erano imprescindibili: la
domanda di democrazia politica e sociale si stava generalizzando nel cuore del vecchio continente. Costituzione, suffragio, tutela del lavoro furono tutte rivendicazioni che dilagarono dalla Francia ai vecchi imperi.
La Prima guerra mondiale liquidò le ultime tracce dell’Ancien régime e condusse all’affermazione delle società
di massa e quindi alla ricerca degli istituti che ne agevolassero il governo: democrazia, socialismo, comunismo,
fascismo furono le principali risposte. Il periodo tra le due guerre – che lo storico inglese Eric J. Hobsbawm ha
definito l’«età della catastrofe» –, fu attraversato da un conflitto ideologico tra le differenti risposte ai dilemmi
posti delle emergenti società di massa. In questo senso, i fascismi costituirono, pur con strumenti squisitamente
moderni, la ricerca di una protezione e di un riparo dalle sfide della modernità.
La Seconda guerra mondiale, sotto questo profilo, con il costituirsi di un’alleanza antifascista dei paesi di democrazia liberale (Stati Uniti, Regno Unito, Francia) con l’Unione Sovietica fu anche un’alleanza degli eredi dei principi della Rivoluzione francese contro i continuatori di quanti avevano cercato di avversarne l’affermazione.
La Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789 venne varata in Francia il 26 agosto del 1789. Tale documento ha ispirato numerose carte costituzionali e il suo contenuto ha rappresentato uno dei più alti riconoscimenti della
libertà e dignità umana. All’indomani della presa della Bastiglia, l’Assemblea nazionale costituente decise di assegnare
a una speciale commissione di cinque membri il compito di stilare una Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
da inserire nella futura Costituzione: tale documento attuò uno sconvolgimento radicale della società. Gran parte del suo
contenuto è confluito nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo adottata dalle Nazioni Unite nel 1948.
1 Nelle varie Dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino scritte dal Settecento ad oggi il riconoscimento del valore della
persona e la salvaguardia della sua esistenza rappresentano concetti basilari. Come si spiega allora che in tante nazioni sia
ancora prevista la pena di morte?
2 Ancora oggi persone che provengono da terre lontane sono costrette, anche da noi, a lavorare per pochi soldi, in condizioni
disumane, senza alcun diritto: cosa pensi di tale situazione?
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1.Il dibattito che precedette l’emanazione della Dichiarazione
Nella storia del pensiero politico la Rivoluzione francese ha provocato una cesura tra le teorie legate all’Ancien régime e quelle connesse con i nuovi ideali civili sociali e progressivi. Le carte costituzionali e le dichiarazioni realizzate in quel periodo furono precedute
da accesi e appassionati dibattiti che ebbero, tra i protagonisti, l’abate di Chartres Emmanuel Joseph Sieyès. Riflettendo su cosa
fosse il «Terzo Stato» (cioè la maggior parte del popolo francese) arrivò a queste conclusioni: «che cos’è il Terzo Stato? Tutto. Cosa è
stato finora nell’organizzazione politica? Niente. Cosa chiede? Di diventare qualcosa!»
Chi dunque oserebbe dire che il Terzo Stato non ha in sé tutto ciò che
occorre per formare una nazione
completa? Esso è un uomo forte e
robusto con un braccio ancora in
catene. Se si eliminasse l’ordine
privilegiato, la nazione non sarebbe qualcosa di meno, ma qualcosa
di più. Oggi che cos’è il Terzo Stato?
Tutto, ma un tutto libero e fiorente. Nulla può procedere senza di
lui, tutto andrebbe molto meglio
senza gli altri. Non basta però aver
mostrato che i privilegiati, lungi
dall’essere utili alla nazione, possono solo indebolirla e nuocerle;
occorre anche provare che l’ordine
dei nobili non trova posto nell’organizzazione sociale, che esso non
solo è un peso per la nazione ma
non potrebbe nemmeno farne parte. In primo luogo, non è possibile,
fra tutti gli elementi della nazione,
ritrovare o collocare la casta dei nobili. […] Che cos’è una nazione? Un
corpo di associati che vive sotto una
legge comune ed è rappresentato
da uno stesso legislativo. Poiché ha
privilegi, dispense, persino diritti
separati dai diritti del corpo generale dei cittadini, l’ordine nobiliare
esce dall’ordine e dalla legge comuni. I suoi diritti civili ne fanno già un
popolo separato nella grande na-
zione, di un vero «imperium in imperio». Esso esercita a parte anche
i propri diritti politici ed ha propri
rappresentanti, che non ricevono
nessuna procura dal popolo. Il corpo dei suoi deputati siede a parte; e
quand’anche si riunisse in una stessa aula con i deputati dei semplici
cittadini, non è meno vero che la
sua rappresentanza rimarrebbe essenzialmente distinta e a sé stante:
essa è estranea alla nazione sia per
il suo fondamento, in quanto il suo
mandato non viene dal popolo, sia
per il suo oggetto, che consiste nel
difendere non l’interesse generale,
ma l’interesse particolare.
E.-J. Sieyès, Saggio sui privilegi, in Che cos’è il Terzo Stato?, Roma, Editori Riuniti, 1972
2.La lotta per il riconoscimento dei diritti fondamentali in età contemporanea: Nelson Mandela
Arrestato nel 1963 per la sua opposizione al regime dell’apartheid (cioè la segregazione razziale dei neri), Nelson Mandela venne incarcerato e restò in prigione per 27 anni. Dopo aver ricevuto il Premio Nobel per la pace nel 1993 è diventato il simbolo di coloro che ancora
oggi, in varie parti del mondo, lottano per il riconoscimento dei diritti fondamentali.
Dopo 27 anni di detenzione, Mandela è libero l’11 febbraio 1990. Da
quel momento la storia del Sudafrica si mette a correre in fretta. Nel
’91 il leggendario Nelson comincia a
negoziare la fine dell’apartheid. Nel
’93 divide con Frederik Willem de
Klerk, il suo interlocutore bianco, il
Nobel per la pace. Il 9 maggio 1994
Mandela viene eletto presidente. A
sei mesi dall’evento che sconvolge
le coordinate politiche sudafricane
compare «Il lungo cammino verso
la liberta»: l’autobiografia. […] Ai
giovani entrati nell’età virile uno dei
capi dell’etnia rivolge un discorso:
«Noi sudafricani neri siamo un po-
polo soggiogato. Siamo schiavi nella nostra terra». Più tardi Nelson si
troverà alle prese con la discriminazione razziale, ma l’uomo rinchiuso
in carcere per buona parte della sua
vita non cederà mai alla tentazione
dell’odio, proprio qui risiede il suo
grande spessore umano e civile.
Negli stralci anticipati dallo Spiegel
Mandela racconta alcuni episodi
assai significativi. Dopo gli studi di
diritto, il giovane lavora nell’amministrazione di una compagnia mineraria. Una segretaria bianca gli dice:
«qui non ci sono barriere di razza, se
vuole può prendere il the con noi».
Ma per Nelson e un collega nero una
barriera è rimasta: le due tazze a
loro riservate. Ostentatamente, l’altro ignora le tazze nuove e ne prende
una a caso fra quelle dei bianchi. Lui
non vuole far torto al collega né alle
segretarie: così preferisce rinunciare
al the. Altro episodio: una dattilografa bianca scrive sotto dettatura di
Nelson quando arriva un visitatore.
Lei si interrompe, prende un po’ di
soldi dalla borsa e li porge a Mandela: «vammi a comprare uno shampoo». Lui capisce: la ragazza non
può mostrarsi in un ruolo subordinato rispetto a un nero. E obbedisce:
«Andai a prenderle lo shampoo».
A. Venturi, «Corriere della Sera», 15 novembre 1994
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Testimonianze
Documento 1
Testimonianze
Documento 3
Gli statuti della Prima Internazionale (capitolo 9)
La Prima internazionale nacque a Londra nel 1864 e i suoi statuti furono approvati nel congresso del settembre 1866, a Ginevra.
Ispirati da Marx, dichiaravano esplicitamente che il fine dell’associazione era riunire le forze operaie di tutti i paesi per rovesciare
l’ordinamento sociale esistente, scalzando il padronato in favore del proletariato. Le divisioni tra le diverse anime dell’Internazionale
vanificarono però ben presto questo ambizioso obiettivo: la sinistra europea non tollerava ancora una guida unitaria.
Considerando,
che l’emancipazione della classe
operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi;
che la lotta della classe operaia per
l’emancipazione non deve tendere a
costituire nuovi privilegi e monopoli
di classe, ma a stabilire per tutti diritti e doveri eguali e ad annientare ogni
predominio di classe;
che la soggezione economica del lavoratore nei confronti dei detentori dei
mezzi di lavoro, cioè delle fonti della
vita, è la causa prima della schiavitù
in tutte le sue forme, di ogni miseria
sociale, di ogni pregiudizio spirituale
e di ogni dipendenza politica;
che l’emancipazione economica della classe operaia è di conseguenza
il grande scopo al quale ogni movimento politico è subordinato come
mezzo;
che tutti i tentativi rivolti a questo
scopo fino ad oggi sono falliti per
mancanza di solidarietà tra le diverse
branche di lavoro di ogni paese e per
l’assenza di un’unione fraterna fra
le classi lavoratrici dei diversi paesi;
[…]
per queste ragioni i sottoscritti membri del comitato […] hanno preso le
misure necessarie per fondare l’Associazione internazionale dei lavoratori.
Dichiarano che questa associazione internazionale e tutte le società e
gli individui che vi aderiscono riconosceranno come regole della loro
condotta tra loro e nei confronti di
tutti gli uomini, senza distinzioni di
colore, di fede o di nazionalità: verità,
giustizia, moralità.
Considerano come un dovere per
ogni individuo richiedere, non soltanto per se stesso, ma per tutti, i
diritti dell’uomo e del cittadino. Nessun diritto senza doveri, nessun dovere senza diritti.
Bismarck spiega perché manipolò il «dispaccio di Ems» (capitolo 10)
Nelle sue memorie, l’ex cancelliere Bismarck raccontò come e per quali motivi aveva manipolato il testo del «dispaccio di Ems».
Conscio dell’importanza dell’opinione pubblica nello spingere i governi a intraprendere la guerra, egli tagliò semplicemente la parte
finale del comunicato. Nella sua forma originale, esso diceva che i negoziati sarebbero continuati a Berlino; nella sua nuova forma,
dava l’impressione che i tedeschi rifiutassero recisamente ogni dialogo. L’effetto freddamente previsto da Bismarck si avverò: Napoleone III dichiarò guerra a Guglielmo I.
Feci uso dell’autorizzazione reale […]
di pubblicare il contenuto del telegramma e, mediante cancellature,
senza aggiungere o mutare parola,
[…] ridussi il telegramma […]. La differenza di effetto che il testo abbreviato del dispaccio di Ems produceva in
confronto di quello che avrebbe prodotto l’originale non era il risultato di
parole più vivaci, ma della forma; la
quale faceva apparire questa comunicazione come decisiva, mentre la
redazione di Abeken [Christian von
Abeken, consigliere personale del re di
Prussia Guglielmo I] sarebbe apparsa
solamente come un brano di un nego-
in G.M. Bravo, La Prima Internazionale. Storia documentaria, Roma, Editori Riuniti, 1978
Documento 2
Doveri dei proletari e dei padroni secondo la Rerum novarum (capitolo 9)
La Rerum novarum fu emanata da Leone XIII nel 1891 e suscitò grande scandalo negli ambienti cattolici più tradizionalisti. Il papa
ebbe infatti il coraggio di portare alla luce e trattare dottrinalmente la questione operaia, da tempo al centro del dibattito politico
e culturale europeo. Nell’enciclica il pontefice rimarcava la distanza della Chiesa tanto dalle crudezze del liberismo senza regole
quanto dal socialismo ateo e negatore della proprietà privata. Ma ammetteva la giustezza di molte rivendicazioni dei lavoratori ed
esortava gli stessi credenti cattolici a operare per rapporti sociali più equi.
Siccome nel corpo umano le varie
membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento
che chiamasi simmetria; così volle natura che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi [padronato e proletariato], e ne risultasse
l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto
dell’altra; né il capitale senza il lavoro,
né il lavoro può stare senza il capitale.
La concordia fa la bellezza e l’ordine
delle cose. […]
E primieramente tutto l’insegnamento cristiano, di cui è interprete
e custode la Chiesa, è potentissimo
a conciliare e mettere in accordo fra
loro i ricchi e i proletari ricordando
agli uni e agli altri i mutui doveri, incominciando da quelli che impone
giustizia. Obblighi di giustizia, quanto
al proletariato e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo
equità fu pattuita; non recar danno
alla roba, né offesa alla persona dei
padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né
mai trasformarla in ammutinamento;
non mescolarsi con uomini malvagi,
promettitori di cose grandi, senz’al-
tro frutto che d’inutili pentimenti e di
perdite rovinose. Dei capitalisti poi e
dei padroni sono questi i doveri: non
tenere gli operai in luogo di schiavi;
rispettare in essi la dignità dell’umana persona, nobilitata dal carattere
cristiano. […] È obbligo perciò dei
padroni […] non alienarlo [l’operaio]
dallo spirito di famiglia e dall’amor di
risparmio, non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti
coll’età e col sesso. Principalissimo
poi tra i loro doveri è dare a ciascuno
la giusta mercede.
ziato in aria e da continuarsi a Berlino.
Letta ai miei ospiti la redazione condensata in tal modo, Moltke [Helmut
von Moltke, capo di Stato maggiore
dell’esercito prussiano] osservò: «Così
ha un altro suono: prima era quello di
una ritirata; ora quello di una fanfara
che risponde a una sfida». Io spiegai:
«Se questo testo, il quale non contiene né cambiamenti né aggiunte al telegramma, ed è conforme all’incarico
datomi da Sua Maestà, lo comunico
subito e non solo alle gazzette, ma anche telegraficamente a tutte le nostre
ambasciate, prima di mezzanotte sarà
noto a Parigi e farà quivi l’impressione
del panno rosso sul toro francese, non
pure a causa del contenuto, ma anche
del come è divulgato. Noi dobbiamo
battere se non vogliamo far la parte
di chi senza lotta è battuto. Ma l’esito
dipende pure in modo essenziale dalle impressioni che produrrà presso di
noi e presso altri l’origine della guerra; importa che noi siamo gli assaliti, e
l’arroganza e l’irascibilità dei Francesi
ci serviranno in questo, se noi, con
pubblicità europea, per quanto ci è
possibile senza il portavoce del Parlamento, annunziamo che impavidi
facciamo fronte alle minacce della
Francia».
O. von Bismarck, Pensieri e ricordi, Milano, Treves, 1922
Documento 4
Gli effetti contraddittori dell’emancipazione dei servi della gleba in Russia (capitolo 10)
L’emancipazione dei servi della gleba produsse in Russia effetti contraddittori. I contadini ebbero la libertà personale, ma a prezzo di
un gravoso sacrificio economico. I nobili persero gli antichi privilegi feudali, ricevendo in compenso indennizzi spesso sproporzionati
al valore effettivo delle terre cedute ai coltivatori. Soprattutto, il movimento dei capitali mise finalmente in moto energie imprenditoriali ancora nascoste. Fu allora che prese avvio la ritardata industrializzazione del paese. Rileva tutto questo nelle sue memorie il
principe Pëtr A. Kropotkin, di famiglia nobile e poi importante esponente dell’anarchismo russo.
[Ai contadini era] perfettamente
chiaro quanto sarebbe stato difficile
mettere insieme l’imposta di riscatto
per la terra, che in realtà costituiva un
indennizzo per la nobiltà per i perduti servizi feudali. Ma apprezzavano
tanto la liberazione dal servizio della
gleba da accettare […] anche opprimenti pesi economici […]. Allorché,
quindici mesi dopo l’emancipazione,
io ebbi agio di vedere i nostri contadini di Nikol’skoe, ne restai meravigliato. Essi conservavano l’innata
bonarietà e mitezza, ma ogni traccia
d’umile soggezione era scomparsa.
Parlavano ai padroni come a loro
pari, come se non vi fossero mai stati
rapporti diversi; e tra essi si trovavano anche persone capaci di difendere i propri diritti. […].
Per molti signori la liberazione dei
servi della gleba costituì un ottimo
affare. Per esempio, terreni che mio
padre, in previsione dell’emancipazione, aveva comperati pezzo
per pezzo a undici rubli l’acro, ora
nell’assegnazione ai contadini vennero calcolati a quaranta rubli, cioè
tre volte e mezzo il prezzo del mercato […].
Dopo la soppressione della servitù
della gleba, s’aprirono molte nuove
vie, per le quali si poteva pervenire
ad accumulare patrimoni, e la gen-
te si accalcò in questi canali. Si pose
mano con fretta febbrile alla costruzione di ferrovie; la nobiltà s’affollò
alle banche private di nuova creazione per assumere ipoteche; i nuovi
notai privati ed avvocati acquistarono grandi entrate; le società per
azioni si moltiplicarono con rapidità
strabiliante e i loro fondatori fecero
fior di quattrini. Persone che prima
erano vissute in campagna del piccolo reddito d’una tenuta coltivata da
un centinaio di servi della gleba, […]
giunsero ad avere ora dei patrimoni,
o rendite annue, che al tempo della
servitù della gleba avevano goduto
soltanto i magnati terrieri.
P.A. Kropotkin, Memorie di un rivoluzionario, in V. Gitermann, Storia della Russia, Firenze, La Nuova Italia, 1963
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Interpretazioni
Testimonianze
Documento 5
Cavour spiega il principio «libera Chiesa in libero Stato» (capitolo 11)
Il conte di Cavour morì parecchi anni prima dell’entrata dei bersaglieri a Roma e dell’annessione della Città Eterna al Regno d’Italia.
Per diversi decenni, tuttavia, i governi italiani praticarono nei confronti del papato la politica da lui stesso impostata sul principio
«libera Chiesa in libero Stato». Cosa esso significasse è spiegato da queste note, redatte da Cavour pochi mesi prima della sua scomparsa per i diplomatici incaricati di trattare con Pio IX. Egli chiedeva al papa di rinunciare al potere temporale e consentire quindi
la completa unificazione della penisola. E gli garantiva in cambio un’assoluta libertà in campo spirituale, certo superiore a quella
concessa da molti sovrani europei, abituati a intromettersi continuamente nelle scelte della Chiesa.
Il popolo italiano è profondamente
cattolico. La storia dimostra che nessun scisma poté mai metter vaste radici in Italia […].
Questa perfetta omogeneità delle
popolazioni italiane sotto il rapporto religioso dimostra che, quando
venisse a cessare in Italia il funesto
dissidio esistente fra la Chiesa e lo
Stato, il clero non avrebbe a temere
che alcuna rivalità, alcuna influenza
opposta alla religione cattolica combattesse o limitasse l’esercizio legittimo dell’azione che naturalmente gli
compete. L’Italia è quindi la terra in
cui la libertà produrrebbe effetti più
favorevoli agli interessi della Chiesa,
il campo destinato dalla Provvidenza
all’applicazione del principio libera
Chiesa in libero Stato. […]
Non v’ha dunque che un modo di
fondare sopra solide basi l’indipendenza completa ed effettiva del papato e della Chiesa: è il rinunciare
al potere temporale e dichiarare,
col Vangelo, che il regno della Santa
Sede non è circoscritto da condizioni di tempo né di spazio. Parimenti
non v’ha che un governo, quello di
re Vittorio Emanuele, il quale possa e voglia farsi strumento di questa
gloriosa trasformazione del papato.
Gli altri governi europei non accorderanno mai alla Chiesa quella com-
pleta libertà d’azione cui essa ha diritto: non avendo alcun compenso a
chiederle, alcun vantaggio ad ottenere da questo atto di giustizia, essi non
s’indurranno giammai a rinunciare
a privilegi, di cui si mostrarono finora gelosissimi difensori. Re Vittorio
Emanuele per contro si glorierebbe
d’inaugurare per primo da Roma il
sistema della completa indipendenza della Chiesa; e, solo quando egli ne
avesse dato l’esempio, gli altri principi sarebbero costretti dalla pubblica
opinione a smettere ogni egoistica
preoccupazione ed a lasciare alla
Chiesa quell’impero dell’anima che
alla Chiesa si compete.
La stazione ferroviaria è il simbolo della modernità (capitolo 9)
Se il Novecento è stato il secolo dell’aeronautica, l’Ottocento fu certamente il secolo della ferrovia, che rivoluzionò il sistema dei trasporti. Il treno accorciò drasticamente le distanze tra località diverse, abbattendo i tempi di percorrenza e facilitando lo spostamento
di merci e persone. I traffici crebbero, con effetti economici straordinari. Molto cambiò però anche in altri campi. Per esempio, nelle
abitudini dei viaggiatori. O nell’architettura e nell’urbanistica: le antiche stazioni di posta furono sostituite dalle stazioni ferroviarie.
Con modalità e conseguenze largamente impreviste, come spiega lo storico Wolfgang Schivelbusch.
Il traffico preindustriale interurbano
era legato allo spazio del territorio
che attraversava. E tale rimaneva anche dopo aver raggiunto la propria
destinazione: la città. Il rapporto tra
la diligenza e la città era esattamente
uguale a quello tra la diligenza e gli
spazi aperti. I suoi locali di transito,
le stazioni della posta, si trovavano
nel centro delle città e di regola facevano parte della locanda che da essi
prendeva nome («Della posta»), una
costruzione che ben poco si differenziava dalle case vicine. L’integrazione
nella vita urbana era perfetta.
A questo stretto rapporto pose fine
la ferrovia. I suoi luoghi di sosta – le
stazioni ferroviarie – stanno alle antiche stazioni di posta come il treno
sta alla carrozza e la linea dei binari
alla strada normale: sono qualcosa di
fondamentalmente nuovo. La stazione ferroviaria non è parte integrante
delle città, come risulta evidente già
dalla sua ubicazione all’esterno delle
mura, e ne rimane a lungo la strana
appendice. Ben presto, i quartieri
urbani che confinano direttamente
con essa vengono bollati come «industriali» e «proletari». Diventano la
zona malfamata della stazione […].
La stazione passeggeri delle grandi
città è caratterizzata da una curiosa
bipartizione: la stazione vera e pro-
pria, cioè la tettoia in ferro e vetro,
e l’atrio in muratura, la prima rivolta verso lo spazio aperto, la seconda verso la città. Tale divisione in
due settori assai diversi, felicemente definiti […] «per metà fabbrica,
per metà palazzo», rappresenta una
novità nella storia dell’architettura.
[…] A partire dalla metà del secolo,
la stazione segna la fisionomia delle
grandi città europee […]. La stazione
agisce dunque come una chiusa. La
sua funzione è quella di conciliare
due tipi molto diversi di traffico, lo
spazio del traffico della città e quello
della ferrovia.
W. Schivelbusch, Storia dei viaggi in ferrovia, Torino, Einaudi, 1988
C. Cavour, Carteggi. La questione romana negli anni 1860-1861, Bologna, Zanichelli, 1929
Documento 6
La crisi agricola causa dell’emigrazione europea (capitolo 9)
Civilizzare i popoli primitivi è il «fardello del Bianco» (capitolo 12)
Rudyard Kipling, uno dei più famosi letterati britannici tra Ottocento e Novecento, nacque a Bombay nel 1865 e fu un perfetto conoscitore dell’ambiente coloniale. Compose The White Man’s Burden («Il fardello dell’uomo bianco») nel 1899 e in esso compendiò le
opinioni degli europei sui popoli di Africa e Asia. Opinioni che a noi oggi sembrano stereotipi razzisti ma che all’epoca erano sincere e
comuni convinzioni: il bianco aveva il dovere di civilizzare i primitivi abitatori dei continenti colonizzati, anche se spesso tale missione
non veniva adeguatamente ricompensata. Riproduciamo quattro significative strofe della celebre poesia.
Addossatevi il fardello del Bianco –
Mandate i migliori della vostra razza –
Andate, costringete i vostri figli all’esilio
Per servire ai bisogni dei sottoposti;
Per custodire in pesante assetto
Gente irrequieta e sfrenata –
Popoli truci, da poco soggetti,
Mezzo demoni e mezzo bambini.
Addossatevi il fardello del Bianco –
Le barbare guerre della pace –
Riempite la bocca della Carestia
E fate cessare la malattia;
E quando più la meta è vicina,
Il fine per altri perseguito,
Osservate l’Ignavia e la Follia pagana
ridurre al nulla tutta la vostra speranza. […]
Addossatevi il fardello del Bianco –
Resistere con pazienza,
Celare la minaccia del terrore
E frenare l’esibizione dell’orgoglio;
In parole semplici e chiare,
Cento volte rese evidenti,
Per cercare il vantaggio altrui,
E produrre l’altrui guadagno.
Addossatevi il fardello del Bianco –
E cogliete la sua antica ricompensa:
Le accuse di chi fate progredire,
L’odio di chi tutelate –
Il grido della masse che attirate
(Ah, lentamente!) verso la luce:
«Perché ci avete tolto dalla schiavitù,
La nostra amata notte egiziana?»
La «grande depressione» iniziata nel 1873 fu causa diretta dell’impennata migratoria europea di fine Ottocento. La crisi economica
ebbe infatti risvolti particolarmente pesanti nelle regioni e nei Paesi incapaci di fronteggiare con successo la concorrenza dei prodotti agricoli a basso costo provenienti da Stati Uniti, Russia e Australia. Dove non si riuscì a riconvertire l’agricoltura per renderla
più competitiva e dove non bastò il protezionismo di marca governativa, l’unica possibilità di sopravvivenza era partire. Fu così che
milioni di europei lasciarono le campagne del continente per cercare fortuna nel Nuovo Mondo.
Negli anni Ottanta una gran massa di
cereali era disponibile a basso prezzo sui mercati europei proveniente
dalla Russia, dall’Australia, ma soprattutto dalle fertili pianure degli
Stati Uniti […]. Le ferrovie e le grandi
navi a vapore erano pronte a trasportare tonnellate e tonnellate di grano
nelle regioni europee dove la densità
di popolazione e il livello del reddito
ne consentivano l’acquisto. Offerta e
domanda si incontravano, ma le conseguenze economiche e sociali erano
sconvolgenti. Il prezzo del frumento
in Europa crollò. […] Gli anni Ottanta
furono perciò gli anni della crisi agra-
ria, che soprattutto colpì quei paesi dove la produttività agricola era
bassa […]. Una rapida riconversione
dell’agricoltura si imponeva. […]
Il risanamento e la trasformazione
dell’agricoltura italiana […] incontrarono un ostacolo gravissimo nelle
condizioni di miseria e nell’arretratezza economica e sociale di alcune
regioni, e in particolare del Mezzogiorno. […] La crescita demografica
delle regioni meridionali, in mancanza di altre attività produttive, gravava
sulle limitate risorse di una povera
agricoltura. Il caso italiano, in particolare il flusso migratorio transoce-
anico alimentato dalle regioni meridionali, consente di accennare ad un
altro degli aspetti caratterizzanti del
periodo 1870-1914: l’emigrazione di
massa […]. L’Europa esportava merci, uomini, capitali, servizi: merci,
capitali, servizi dai paesi più ricchi,
forza-lavoro dai paesi più poveri. […]
La possibilità di facili trasporti […]
creò per un certo periodo una vera e
propria complementarità tra offerta
e domanda di lavoro. Solo la tratta
degli schiavi può, per alcuni aspetti,
essere paragonata a questo grande
movimento di massa […].
P. Villani, L’età contemporanea, Bologna, Il Mulino, 1993
J.R. Kypling, Poesie, Milano, Mursia, 1981
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Interpretazioni
Interpretazioni
Dalla guerra nascono il Reich tedesco e la Terza Repubblica francese
(capitolo 10)
Dopo il conflitto austro-prussiano del 1866, divenne evidente la prevalenza della Prussia tra i popoli di lingua tedesca. Sotto la guida
di Berlino era sul punto di costituirsi un nuovo e grande impero nell’Europa centrale: si trattava di una prospettiva che la Francia,
sicura dei suoi mezzi e del suo ruolo di potenza continentale egemone, non poteva assolutamente accettare. Fortissimo fu dunque
lo shock dopo la sconfitta di Sedan. Avvenne così che dalla guerra del 1870-1871 nacquero addirittura due nuovi Stati: la Terza Repubblica francese e il Reich tedesco. La violenza che li aveva generati sarebbe però ricaduta su di essi nella catastrofe della Prima
guerra mondiale.
Rimaneva tuttavia ancora aperto un
conto: quello con la Francia napoleonica. […] L’Imperatore, […] non ebbe
la saggezza di sottrarsi al vortice della
guerra, come egli avrebbe pur potuto
fare per molto tempo. Da una parte,
infatti, gli eventi decisivi erano tutti
accaduti nel 1866; dall’altra tuttavia
Berlino, proprio in considerazione di
Parigi, non aveva assunto le insegne
esteriori della nuova potenza, il titolo di Imperatore e la denominazione
Impero tedesco. […]
Il punto centrale divenne il veto
francese all’unità prussiano-tedesca
[…]. La guerra, preparata con grande
sangue freddo dalla Prussia sul piano diplomatico e su quello militare,
impetuosamente e retoricamente
celebrata dalla Francia, non fu decisa
dalle sanguinose battaglie a cavallo
in Lorena e neppure dalle cariche di
Wörth e di Weissenburg in Alsazia. A
Sedan l’Imperatore e l’esercito principale francesi furono strategicamente accerchiati. Imperatore e Impero erano così perduti per la Francia
e guadagnati per la Prussia.
Con la capitolazione di Sedan la guerra
tuttavia non cessò, ma piuttosto deragliò. La Repubblica francese, anziché
capitolare, si batté a oltranza sulla Loi-
ra e difese Parigi. I tedeschi insistettero sull’annessione dell’Alsazia e della
Lorena, gli obbiettivi sognati nel 1813
dai nazionalisti tedeschi del sud, e su
enormi riparazioni di guerra. Alla fine,
e questa fu la terza guerra che si combatté in una sola, il popolo di Parigi si
sollevò con la Comune sia contro il governo borghese di Versailles sia contro
gli assedianti tedeschi. L’ultimo atto si
svolse nella forma di una guerra civile
francese. Due grandi potenze, la Francia della Terza Repubblica e il Reich
tedesco, nacquero dai dolori della
guerra e sarebbero tramontate in dolori ancora maggiori.
L’incapacità degli italiani di scrivere e parlare nella lingua patria (capitolo 11)
Negli anni immediatamente post unitari, sapevano scrivere e parlare italiano non più di 600.000 individui su circa 25 milioni di
abitanti del regno: appena il 2,5% della popolazione. È questa la conclusione cui giunge il linguista Tullio De Mauro. Anche tanti che
avevano la licenza elementare, infatti, perdevano confidenza con la lingua patria perché interrompevano gli studi e perché nessuno
attorno a loro la parlava. Uniche eccezioni, per ragioni storiche, la Toscana e Roma. L’Italia era dunque da costruire, prima di tutto,
attorno a questo mattone fondamentale: la conoscenza della lingua comune.
Al momento dell’unificazione la
popolazione italiana era per quasi
l’80% priva della possibilità di venire
a contatto con l’uso scritto dell’italiano, ossia, per l’assenza dell’uso
orale, dell’italiano senz’altra specificazione. Sarebbe tuttavia un errore
attribuire la possibilità di conoscere
l’italiano al restante 20% della popolazione […]. Coloro cui toccava nel
1861 la qualifica di non analfabeti
erano lontani in genere da un possesso reale della capacità di leggere e
scrivere. […]
Insegnanti, dirigenti scolastici e uomini d’ogni parte politica concordavano nel ritenere che la semplice
foni» (o, a dire meglio, gli «italografi»)
erano poco meno dell’uno per cento.
Per quanto sia già infima, tale percentuale è eccessiva rispetto all’effettiva realtà […]. Adottando tuttavia
criteri di grande larghezza, si può
concludere che negli anni dell’unificazione coloro che fuori di Roma
e della Toscana erano giunti ad apprendere l’italiano erano circa l’8 per
mille della popolazione […]. Altro era
il caso di Firenze (con le restanti città
toscane) e di Roma: […] in Toscana
e a Roma i dialetti locali erano particolarmente vicini nella struttura fonologica, morfologica e lessicale alla
lingua comune.
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Bari, Laterza, 1963
M. Stürmer, I confini della potenza. L’incontro dei tedeschi con la storia, Bologna, Il Mulino, 1996
La straordinaria novità dei boulevards parigini (capitolo 10)
Novità e caratteri dell’imperialismo ottocentesco (capitolo 12)
Ridisegnare la città, per molti motivi diversi: economici, igienico-sanitari, militari, di prestigio. Questo fu l’obiettivo di Napoleone III e
del prefetto Haussmann nello sventrare il cuore di Parigi e nel ricostruirlo da capo. Servendosi prima di tutto dei boulevards: lunghi,
larghi e incredibilmente spaziosi viali alberati, qualcosa che nessuna città europea aveva mai visto in precedenza. Furono proprio i
boulevards e la ristrutturazione urbanistica di Parigi tra i maggiori lasciti del Secondo Impero francese all’Europa contemporanea.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, l’evento più importante della storia mondiale fu il fenomeno che abbiamo chiamato
«imperialismo». Per comprenderne l’ampiezza, basta ricordare alcuni dati. Nel 1914, i domini dell’Inghilterra si estendevano su oltre
33 milioni di chilometri quadrati e 394 milioni di sudditi. Nello stesso anno, i possedimenti francesi comprendevano 10 milioni di
chilometri quadrati e 55 milioni di abitanti. In quel medesimo periodo crebbero le colonie anche di Russia, Germania, Belgio e Italia.
Lo storico Rosario Villari elenca i fattori che furono alla base della competizione coloniale.
I nuovi boulevards avrebbero permesso di scorrere attraverso il centro
cittadino e di spostarsi rapidamente
da un capo all’altro della città […].
Avrebbero, inoltre, spazzato via le
viuzze dei quartieri poveri e aperto
uno «spazio vitale» fra strati di tenebre e di una congestione soffocante.
Avrebbero straordinariamente favorito l’espansione del commercio
locale […]. Avrebbero pacificato le
masse occupando decine di migliaia
di lavoratori […] in opere pubbliche
a lungo termine che, a loro volta,
avrebbero prodotto migliaia di altri posti di lavoro nel settore privato. Avrebbero creato, infine, lunghi
ed ampi corridoi in cui le truppe e
l’artiglieria si sarebbero mosse efficacemente contro future barricate e
insurrezioni popolari. […].
La nuova opera di ricostruzione comportò la demolizione di centinaia di
edifici, privò di un tetto migliaia e
migliaia di persone, sconvolse interi
quartieri sopravvissuti allo scorrere
dei secoli, ma per la prima volta nella
storia dischiuse il cuore della città a
tutti i suoi abitanti. […]. I boulevards
di Napoleone e Haussmann posero le
nuove basi […] per l’aggregazione di
una enorme quantità di persone. A livello della strada erano fiancheggiati da piccole imprese e negozietti di
tutti i generi, con ogni angolo cintato
per ristoranti e caffè con marciapiedi
a terrazzo. […] I marciapiedi di Haussmann erano, al pari dei boulevards,
prodigiosamente ampi […]. Vennero
istituite le isole pedonali. Vennero
progettati ampi scorci panoramici a
perdita d’occhio, con file d’alberi in
prospettiva e monumenti alle estremità dei boulevards […]. Tutte queste
caratteristiche contribuirono a fare
della nuova Parigi uno spettacolo
straordinariamente seducente. […]
Negli anni dal 1880 al 1890, il modello haussmanniano era universalmente considerato il modello ideale
di urbanistica moderna.
M. Berman, L’esperienza della modernità, Bologna, Il Mulino, 1985
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istruzione elementare fosse insufficiente a garantire un duraturo possesso della condizione di non analfabeta. […] Nei primi anni dopo l’Unità
[…] un reale contatto con la lingua
comune e la sua effettiva e definitiva
acquisizione erano riservati soltanto
a coloro che, dopo le scuole elementari, continuavano per qualche anno
gli studi. Nel 1862-1863 l’istruzione
postelementare veniva impartita
all’8,9 per mille della popolazione in
età tra gli 11 e i 18 anni. Si potrebbe
dunque concludere che attraverso la
scuola la conoscenza dell’italiano era
garantita a questa percentuale della
popolazione e, quindi, che gli «italo-
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L’imperialismo fu […] un fenomeno nuovo, diverso dal colonialismo
dell’antichità e dei primi secoli dell’età
moderna. La spinta fondamentale derivò dalla ricerca di nuove zone d’impiego del capitale eccedente oltre che
dalla necessità […] di accaparrarsi
fonti di materie prime e sbocchi di
mercato. […]. Il dominio politico apparve come la migliore garanzia degli
investimenti e dell’attività economica
delle grandi potenze negli immensi
territori sottosviluppati del continente
africano e dell’Asia.
A questa spinta fondamentale si collegarono anche altri motivi, di natura
politica, sociale ed ideologica. L’eccesso di popolazione fu allora assunto come una delle principali giustificazioni della politica imperialista. Il
possesso di colonie avrebbe dovuto
assicurare l’emigrazione della popolazione eccedente in territori sotto la
stessa autorità politica e fornire alla
madrepatria la possibilità di un incremento economico adeguato al movimento demografico. […] Il nuovo
sistema coloniale, infine, non mutò i
rapporti di lavoro nelle madrepatrie: la
politica imperialistica scongiurò temporaneamente, in alcuni paesi, l’esasperazione dei conflitti di classe, ma
nello stesso tempo […] allargò enormemente, con l’inclusione dei popoli
dei paesi sottosviluppati, la massa di
manodopera che era sotto il dominio
del capitale. […]
I presupposti ideologici delle tendenze imperialiste […] trovarono larga risonanza nella cultura europea. Il tema
principale era l’affermazione della superiorità di determinate razze e nazioni nei confronti di altri popoli della terra. Poiché questi ultimi erano incapaci
di utilizzare le ricchezze dei loro paesi,
le nazioni «superiori» rivendicavano il
pieno diritto di impadronirsene.
R. Villari, Mille anni di storia. Dalla città medievale all’unità dell’Europa, Roma-Bari, Laterza, 2001
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Unità 4 • Verso il Novecento
Verso la Prima prova: saggio breve
Verso la Terza prova: trattazione sintetica di argomenti
1 Leggi attentamente i seguenti documenti: il primo è un’accusa di Crispi che rimprovera ai socialisti di aver manovrato
2 Scrivi una breve trattazione (dieci/quindici righe) dei seguenti argomenti.
i Fasci dei lavoratori siciliani, mentre il secondo è la testimonianza di un colonnello reduce di Adua. Partendo da questi
due testi, scrivi una breve trattazione che metta in luce le caratteristiche della politica di Crispi, sia di quella interna,
sia di quella coloniale.
1 Le conseguenze economiche della seconda rivoluzione industriale.
2 L’emigrazione dall’Europa al Nuovo Mondo a cavallo tra Ottocento e Novecento.
3 La nascita dei partiti degli operai.
Il problema sociale non è quello che falsi apostoli predicano alle masse inconsce ed ignoranti, ma quello che tutti
(nessun partito escluso) meditiamo con ansia affannosa, affinché, cessata ogni distinzione di classe, tutti in Italia
siano liberi cittadini.
Si è gettato nell’animo della plebe il concetto che la proprietà sia male posseduta dai borghesi. Avrei capito la discussione di una tale tesi nel secolo XVIII, ed anche nel principio dell’attuale. Ma, abolito il feudo […], divenuta libera la
proprietà […], resi facili gli acquisti, può dirsi realmente oggi che i possessori delle terre non le tengano per diritto
proprio e legittimo? Ora, infondere nell’animo delle plebi che il possesso degli attuali proprietari sia violento, che
esse abbiano diritto alla divisione delle terre, importa lo stesso che alimentare il pensiero del delitto. Fortunatamente
l’idea non si è generalizzata. E male si era scelta, a codesta propaganda, la Sicilia, dove il concetto della famiglia, il
sentimento della autonomia personale sono profondi e non possono essere scossi in nessun modo.
E qui viene, seguendo il corso della discussione, un altro quesito: può darsi realmente che i moti siciliani siano derivati dalla miseria? Basta guardare un po’ ai Comuni dove i moti scoppiano, per poter essere di contrario avviso. La
provincia di Trapani è una delle più agiate. Se percorrete quella provincia, voi non troverete un mendico per le strade.
Venendo poi da quella provincia verso Palermo, troverete lo stesso benessere. Partinico, Monreale, Parco, Misilmeri,
Belmonte, Comuni dove scoppiarono i moti, hanno sufficiente agiatezza, e, quello che è di più, sono Comuni dove la
proprietà è molto divisa. In questi Comuni non ci sono latifondi, o almeno sono molto lontani.
Ma donde vennero dunque questi moti, e chi li provocò? Non possiamo nasconderlo, e nessuno lo potrà nascondere:
furono essi l’effetto di una cospirazione continua, insistente e talvolta violenta, che ci avrebbe portato a lutti maggiori, se il Governo non fosse arrivato a tempo ad impedirla.
E. Anchieri, Antologia storico-diplomatica, Milano, ISPI, 1941
Le mie parole potranno suonare sgradite, ma non mi perito di proferirle poiché al di sopra, molto al di sopra, delle
persone vi è la patria. Qui non parlo né a corrispondenti di giornali, né a pubblico, qui siamo in famiglia. La franchezza, anche se rude, è virtù di soldato. Nascondere le piaghe non è curarle […].
Allorché mi recai in Africa non ero anti-africanista, nel significato comunemente dato a questa parola; tuttavia tanti
entusiasmi, forse irragionevoli, certo non ragionati, mi lasciavano freddo e mi davano da riflettere. Fui quindi lietissimo che l’occasione mi si offrisse di sollevare il velo che copriva la novella Iside. Sollevatolo, provai più disgusto che
delusione.
L’Italia, non ricca, aveva voluto darsi il lusso di una colonia; ma nella scelta non era stata illuminata dalla buona stella
che, pur tante volte, le era stata guida fedele. Andammo ad imbatterci nel popolo più guerriero d’Africa, e nella terra
più povera e meno ospitale. […]
È opportuno e utile rimanere oggi in Africa? Non sta a me il rispondere a questa domanda; né voglio farlo. Gli africanisti interessati, che a bella posta fanno e hanno fatto di tutto per traviare a loro profitto l’opinione pubblica, procurando di confondere la questione coloniale coll’onore della bandiera e col patriottismo – cose assolutamente distinte
– non esiterebbero a darvi una risposta. A me pare che correremmo rischio di mettere davvero a repentaglio l’onore
della bandiera in Europa qualora, per ostinarci a non riconoscere un errore commesso, proseguiremo a sottrarre
all’esercito tante forze vive, in uomini ed in denaro, quanto ne assorbirebbero quelle aride sabbie.
Il mio pensiero intimo è, ormai, a tutti voi manifesto, e mi conforta il convincimento che non da pochi sia condiviso.
Se volevamo estendere ed affermare il nostro dominio africano dovevamo farlo a ragion veduta, con mezzi adeguati,
ed in tempo opportuno. Oggi mi par tardi […].
U. Brusati, Conferenza agli ufficiali del presidio di Torino del 1° marzo 1897, testo conservato presso il Museo del Risorgimento di Milano
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4 Le caratteristiche fondamentali del cancellierato di Bismarck.
5 Le caratteristiche dell’impero di Napoleone III.
Verso il Colloquio orale: preparazione dell’argomento a scelta
3 Costruisci una mappa concettuale sulle cause e le caratteristiche della Guerra di Secessione (capitolo 12).
Verso il Colloquio orale: guida all’esposizione orale
4 Facendo riferimento alla traccia fornita qui di seguito, prepara una breve esposizione sull’imperialismo (capitolo 12),
che potrai poi esporre oralmente.
Nazionalismo à Revanscismo à Politica di potenza à Guerra
à Gara coloniale in Africa e Asia
Colonialismo à Imperialismo
Missionari e compagnie commerciali à Basi commerciali e accordi
con le autorità locali à Potenze europee à Controllo territoriale con
funzionari europei
Motivazioni economiche
Sfruttamento del territorio à Controllo delle risorse à Soldati,
impiegati e manodopera
Arricchimento delle potenze europee e
impoverimento delle regioni interessate
dal dominio imperialista
Politiche protezionistiche in Europa à Sbocchi per i prodotti delle
industrie nazionali
Motivazioni politiche e ideologiche
Pregiudizio razzista à Civiltà superiori à Missione civilizzatrice
Africa
Scoperte geografiche à Esplorazioni (David Livingstone e Henry Morton
Stanley) à Avvio commerci e diffusione del cristianesimo à Ricchezze
territoriali e apertura del Canale di Suez à Protettorati à Colonie
Asia
India à Compagnia delle Indie Orientali à «Rivolta dei Sepoys»
à Dominio diretto della corona inglese à Regina Vittoria assume il
titolo di «Imperatrice delle Indie» à Ciclo della lavorazione del cotone
come emblema dello sfruttamento
Rivalità tra le potenze per l’occupazione
deI territori à Bismarck e la Conferenza
di Berlino à Spartizione dell’Africa
Competizione economica à Competizione
politica à Rivalità e tensioni internazionali
Cina à Guerra dell’oppio à Isolamento dal resto del mondo
à Apertura ai commerci stranieri à Modernizzazione imposta
à «Rivolta dei Boxers» à Intervento esercito internazionale
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