ARTHUR SCHOPENHAUER

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ARTHUR SCHOPENHAUER
1.- Il mondo come rappresentazione
Nato a Danzica nel 1788, Arthur Schopenhauer studiò a Gottinga con Schulze, seguì a Berlino le lezioni
di Fichte, si laureò a Jena con un saggio Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente
(1813), che rivelava la sua profonda conoscenza del kantismo, letto (sulle orme di Schulze) in chiave
fenomenistico-scettica. Successivamente si consacrò alla stesura di quella che sarà la principale opera
della sua vita: Il mondo come volontà e rappresentazione (1819). La pubblicazione del Mondo non
assicurò peraltro all’autore il successo sperato. Libero docente dal 1820 presso l’università di Berlino,
Schopenhauer vi tenne molti corsi, ma senza mai ottenere la cattedra che desiderava. La scarsa fortuna
accademica aumentò l’isolamento del filosofo, che continuò tuttavia la propria riflessione filosofica,
pubblicando nel 1836 La volontà nella natura e nel 1841
I due problemi fondamentali dell’etica. Nel
nuovo clima intellettuale post-idealistico, quest’ultimo saggio passò tutt’altro che inosservato. Ma il vero
successo arrise al pensatore di Danzica solo con la pubblicazione dei Parerga e Paralipomena (1851),
una singolare miscellanea di brevi trattazioni e saggi di carattere prevalentemente morale (notevoli, in
particolare, gli Aforismi sulla saggezza della vita, scritti con sicura maestria letteraria, profonda
penetrazione psicologica e spesso grande densità speculativa). Si trattava però di un successo tardivo, il
solo possibile a un filosofo dal carattere difficile e su posizioni assai critiche nei confronti dei più diversi
indirizzi teorici: l’idealismo fichtiano e lo storicismo hegeliano, la scuola di Schelling e quella di Herbart.
Morirà a Francoforte nel 1861.
« La mia filosofia — leggiamo nel Mondo come volontà e rappresentazione — muove da quella
kantiana». In effetti Schopenhauer considera Kant, nonostante i « notevoli errori», il pensatore decisivo
dell’età moderna. La sua importanza sta anzitutto nell’avere liberato l’uomo dal mito del realismo: ossia
dalla credenza che le cose abbiano una realtà e un significato indipendenti dal soggetto. L’altro elemento
che Schopenhauer ama nel kantismo — fino a farne il punto di partenza della propria dottrina — è la
distinzione tra fenomeno e noumeno. In realtà Kant aveva collocato i due concetti su piani diversi,
sottolineando (tra l’altro) la completa autosufficienza del primo (il fenomeno) e l’inconoscibilità del
secondo (il noumeno/la cosa in sé). Attraverso una lettura assai personale della Critica della ragion pura
Schopenhauer radicalizza invece la distinzione di cui sopra, facendone un vero e proprio dualismo non
solo gnoseologico ma anche ontologico. La realtà, naturalmente, è una. Ma da una parte v’è il complesso
dei fenomeni, che sono da considerarsi come semplici apparenze, come volti superficiali delle cose.
Dall’altra v’è il noumeno ovvero la dimensione sostanziale delle cose medesime, che sfugge alla
conoscenza intellettuale ma (come vedremo) può essere colta per altra via. Dal primo punto di vista, il
mondo è “rappresentazione”; dal secondo, esso —ossia la sua essenza profonda — è “volontà”.
Nella prima parte della sua opera Schopenhauer esamina i caratteri del mondo in quanto rappresentazione.
Ciò che anzitutto colpisce in essa è la sottolineatura della distanza esistente tra l’uomo e le cose. Se
Schopenhauer respinge, sia il realismo che l’idealismo, è perché entrambi ritengono, sia pure in modi e
per ragioni diverse, che il mondo ha un senso e che il soggetto umano può coglierlo coi propri
strumenti intellettuali. Per Schopenhauer questa duplice convinzione è frutto di illusione o di
presunzione. L’uomo dimentica troppo spesso la propria differenza rispetto alle cose, la propria ignoranza
di quanto accade realmente. A rifletterci bene, siamo circondati da un complesso di dati e di eventi che
sembrano occultare, più che rivelare, la loro ragion d’essere. Dov’è il significato? Qual è la verità del
mondo? Dati ed eventi fenomenici non rispondono. Tutti insieme costituiscono ciò che Schopenhauer,
riprendendo un principio della sua prediletta filosofia indiana, chiama il « velo di Maja ». In altri termini,
la realtà visibile, il mondo fenomenico, è apparenza, illusione. Nulla, a ben guardare, ci garantisce che
quanto esiste o accade non sia un mero sogno.
Al di là di questa tesi estrema, ciò che preme maggiormente a Schopenhauer è un discorso di tipo
ontologico-gnoseologico riassumibile nei punti seguenti. Le cose sono di per sé prive di fondamento e
di ragione. L’uomo ha fatto da sempre assegnamento su di esse per capire il mondo: invece è lui stesso
che, pur senza produrle (come voleva l’idealismo), è il solo punto di riferimento del loro essere e del
loro senso. All’orgoglioso realismo del sapere moderno Schopenhauer risponde che il mondo esiste non
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come totalità significante autonoma, ma come dispersione di cose — anzi, di mere « rappresentazioni »
— il cui significato e valore dipendono dal soggetto (cioè dall'uomo e, in ultima analisi, dalla sua
volontà):
« Il mondo è mia rappresentazione» — questa è una verità che vale in rapporto a ciascun essere vivente e
conoscente… Per lui diventa allora chiaro e ben certo ch’egli non conosce né il sole né la terra, ma
appena un occhio che vede un sole ... che il mondo da cui è circondato non esiste se non come
rappresentazione, vale a dire sempre e dappertutto in rapporto a un altro, a colui che rappresenta ... tutto
ciò che esiste per la conoscenza — dunque questo mondo intero — è solamente oggetto in relazione a un
soggetto, intuizione di chi intuisce; in una parola, rappresentazione. (Il mondo come volontà e
rappresentazione)
Detto in altri termini non è il mondo in se stesso ad avere un senso ed un significato, ma è l’uomo che
vuole dare un significato al mondo, è l’uomo che lo interpreta come cosa dotata di senso. Mentre per il
realismo il mondo delle cose ha un significato ed un senso che l’uomo può cogliere attraverso
l’esperienza, mentre per l’idealismo non si dà distinzione tra pensiero e realtà, tra razionale e reale, per
Schopenhauer uomo e mondo, soggetto e oggetto, sono realtà distinte , separate ed estranee. La
conoscenza quindi non coglie i caratteri puri-essenziali delle cose, bensì si limita a rispondere agli
interessi empirico-concreti degli uomini. Ma questo mondo che la conoscenza umana mostra come
insieme ordinato di fenomeni è solo apparenza, risposta appunto ad un bisogno pratico, “umano” , di
ordine e regolarità. Rappresentazione, appunto, e quindi, in questo, senso mera interpretazione del
soggetto conoscente o, in parole ancora più radicali, illusione, “velo di Maja” che cela ben altra verità.
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2.- La conoscenza filosofica e il mondo come volontà
Kant, lo sappiamo, aveva fatto coincidere la conoscenza col sapere scientifico; e siccome questo non può
oltrepassare la sfera dei fenomeni aveva negato all’uomo la possibilità di trascendere tale sfera. Schopenhauer non è d’accordo. Come non accorgersi che l’essere umano sa guardare al di là dei fenomeni
sensibili, e che ciò produce un aumento di conoscenza — anche se non di scienza in senso stretto? Inoltre,
l’uomo non appare privo di uno strumento in grado di consentirgli una conoscenza di tipo meta-empirico.
Tale strumento esiste, ed è l’intuizione; e la filosofia è in grado di impiegarlo per conoscere ciò che né i
sensi né le procedure scientifiche possono cogliere.
Malgrado l’intuizione, troveremmo peraltro ben poco se l’uomo fosse solo un soggetto elaboratore di
rappresentazioni. Senonché l’essere umano non è solo questo: è anche corporeità. E analizzando il
proprio corpo, l’uomo scopre (intuisce) che il gioco di impulsi e di motivi che vi si agita dentro
rinvia a qualcosa che ha un volto e un nome preciso: la volontà. Scopre, anzi, che l’intero suo corpo è
« volontà oggettivata ». Solo la volontà « gli dà la chiave per spiegare il suo proprio fenomeno, gli
manifesta il senso, gli mostra l’intimo congegno del suo essere, del suo agire, dei suoi movimenti».
L’uomo comprende così che il proprio corpo gli è dato in due modi diversi: in « superficie » come
fenomeno ovvero rappresentazione; in « essenza » ossia come noumeno, come volontà.
Successivamente egli accerta che anche gli altri uomini sono un nesso di rappresentazione e di volontà.
Infine, generalizzando, perviene a concludere che la volontà è la « cosa in sé » di tutti i fenomeni
naturali
Che cos’è la volontà per Schopenhauer?
Schopehauer usa il termine volontà non nel senso di intenzione cosciente, volere razionale, ma, al
contrario, nel senso di impulso, energia, forza irrazionale, volere che è fine a se stesso e non è quindi
diretto al conseguimento di qualche scopo razionalmente determinato.. “Willie zum leben” afferma
Schopenhauer, cioè volontà di vivere e quindi forza cieca, brama, desiderio, oscura e terribile energia
del mondo, che si obiettiva in forme sempre diverse e disposte secondo una scala di complessità
crescente. Se infatti nella materia inorganica essa appare in modo inconsapevole, nel regno animale e via,
via nelle altre forme viventi essa si mostra in forme sempre più crescenti fino al culmine dell’uomo dove
appunto giunge alla piena consapevolezza di se stessa. Simile alla libido freudiana, la volontà non
obbedisce né alla guida della ragione, né alle prescrizioni della morale. Opposta al fenomeno essa appare
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quindi inconscia, sottratta allo spazio ed al tempo e pertanto unica, eterna ed infinita, senza causa,
priva di scopo senza direzione.
3 L’analisi dell’esistenza umana: il pessimismo
La conseguenza di tale metafisica è il pessimismo. Se la volontà si configura infatti come brama,
desiderio e cieco impulso da essa non può non promanare che uno stato di continuo bisogno, una
condizione di vuoto, di assenza e di mancanza che, in ultima analisi, si manifesta come sofferenza e
dolore. Questo vale per tutti gli esseri, ma in particolare per l'uomo, dove, come si è detto la volontà
giunge alla sua autocoscienza.
L’uomo è, per Schopenhauer, « il più bisognoso degli esseri ». Egli « manca » costituivamente,
ontologicamente di qualcosa. Di conseguenza, tutto il suo agire si esprime nella forma dolorosa del
continuo desiderio, dell’insaziabile ricerca. « Volere e aspirare » sembra essere la formula base della vita
umana. Ma, data la « mancanza » di cui s’è detto, nulla soddisfa, riempie completamente l’uomo. Se
qualche volta un appagamento momentaneo placa il desiderio, cessa del pari anche il relativo piacere.
L'appagamento anzi, dice Schopehauer, assomiglia all'elemosina che "gettata al mendicante, prolunga
oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento".
L’uomo dunque non ha vie d’uscita, « la sua vita oscilla come un pendolo, di qua e di là tra il dolore e
la noia»: il dolore del bisogno inappagabile, del tendere senza sosta a qualcosa di diverso; la noia connessa all’incapacità di non saper riempire adeguatamente la vuota esistenza. Se ciò è anche solo in parte
vero, l’essere e l’operare umano non paiono possedere alcun significato, alcuna giustificazione
convincente.
Nella misura in cui la società non è che una somma di individui, anche l’azione collettiva è priva di un
significato plausibile e fondato. Per quanto riguarda la storia, Schopenhauer demolisce senza pietà la fede
(così ampiamente diffusa presso i suoi contemporanei) nell’esistenza di una logica e di un progresso
oggettivo delle vicende umane. In verità il cammino dell’umanità non ha una direzione, una crescita che
lo giustifichi. La vita storica è anch’essa simile a un orologio caricato sempre di nuovo « per ancora una
volta ripetere, frase per frase, battuta per battuta, con variazioni insignificanti, la stessa musica già infinite
volte suonata ».
Per tornare all’individuo, bisogna anche notare che, assai più spesso di quanto non si ammetta, egli per
primo considera la vita un peso insopportabile. La vita è solo una faticosa « battaglia per l’esistenza», con
la « certezza della sconfitta finale ». Tale sconfitta ha per Schopenhauer un nome e un volto preciso: è la
morte. La morte, in effetti, viene ineludibilmente per tutti. Nessuna conquista, nessun piacere può far
dimenticare questo terribile traguardo. La morte è infatti strettamente intrecciata alla vita. Ogni atto è una
sorta di compromesso, di equilibrio instabile tra questi due poli estremi dell’essere umano. La vita è solo
« una morte rinviata»: ma, alla fine, « la morte deve vincere ». Anche le acute riflessioni
schopenhaueriane sul tempo e il suo fluire, sull’inesorabile trascorrere e consumarsi delle cose conducono
alle stesse conclusioni. Il tempo è l’essenza costitutiva dell’uomo, e lo struttura in modo da condannarlo a
una costante ‘perdita’ culminante da ultimo nella morte. L’analisi schopenhaueriana dell’essere umano ha
avuto risonanze vastissime. La tematica dell’essenza ontologicamente ‘mancante’, ‘in-compiuta’
dell’uomo è la base della filosofia esistenzialistica, da Heidegger a Sartre. Il motivo della vita come
bisogno profondo, come sorgente di desiderio ritorna, a tacer d’altro, nell’opera di Freud — che non a
caso ha espresso in più luoghi i propri debiti nei confronti di Schopenhauer. La riflessione sul dolore e
sulla noia ha anticipato di molti anni (insieme a quella di Leopardi, peraltro meno noto a livello europeo)
considerazioni talora sorprendentemente analoghe di poeti e scrittori francesi, tedeschi, russi.
4.- Le forme di liberazione dalla volontà
All’inizio del paragrafo precedente si è visto che per Schopenhauer l’uomo è infelice per la propria
dipendenza dalla volontà. Essa lo rende infatti individualistico e « interessato », incapace appunto per ciò
di conciliarsi con gli altri esseri, di comprendere/contemplare il senso profondo delle cose, di vivere un’
esistenza libera da bisogni e desideri terreni. Date queste premesse, non ci stupiremo che un’ampia
sezione del Mondo come volontà e rappresentazione sia dedicata alla ricerca dei modi in cui l’uomo può
affrancarsi dalla propria determinatezza, dalla propria dipendenza dai fenomeni e, ancor più radicalmente,
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dalla volontà che pulsa dentro di lui.
Va subito detto che Schopenhauer esclude il suicidio. Il suicidio infatti non è una via di liberazione dal
dolore e dalla volontà. L'uomo che si uccide infatti nega la vita e non la volontà, anzi, contrariamente a
quanto di può pensare, il suicidio è un'affermazione della volontà. In secondo luogo il suicidio sopprime
certamente l'individuo ma lascia tuttavia intatta la cosa in sé, la volontà, che si ripete nelle altre
manifestazioni individuali.
La soluzione insomma non è nella negazione della vita ma nella più ampia liberazione dalla volontà. Su
questa strada, tre sembrano essere le vie praticabili pur non intendendo ciò come un itinerario dialettico o
comunque processualmente connesso:
4.1.- L'arte
Il primo di questi modi è l'arte
L’arte è per Schopenhauer la sola funzione teoretico-spirituale che libera l’uomo dalla propria
individualità. Essa produce infatti una sorta di annullamento, in virtù del quale « si è consapevoli non più
di se stessi, ma solo degli oggetti intuiti ». In tal modo riusciamo a distanziarci dai nostri bisogni e dai
nostri interessi: insomma, dalla volontà che ci alimenta ma anche ci ‘determina’. Affrancati dal nostro
essere particolare, siamo in grado di guardare la realtà in modo nuovo. Questa nuova visione dei
fenomeni è anzi il dono più specifico e prezioso dell’arte. Grazie ad essa ci è possibile spogliare anche le
cose dal loro « principio di individuazione » (spazio e tempo) , dal loro carattere effimero — e
contemplare in esse l’universale, l’idea (nell'arte non vediamo/contempliamo questo amore, questa
guerra, questa afflizione, ma l'Amore, la Guerra, il Dolore …). L’arte allontana insomma l’uomo
dall’imperfezione del mondo, aprendogli per un momento una nuova e felicitante dimensione dell’essere.
Essa gli dona l’esperienza liberante catartica del permanere contro quella del divenire, dell’eterno contro
quella del transeunte, della purezza contro quella dell’interesse. Tra le forme artistiche che Schopenhauer
considera più ricche e ‘liberanti’ vi sono la tragedia e la musica. Quest’ultima allontana più di ogni altra
l’uomo dal mondo fenomenico, facendogli attingere l’essenza profonda delle cose. D’altra parte l’arte non
« redime » il mondo dal suo male profondo, non consente una contemplazione permanente distaccata e
disinteressata del mondo.
4.2.- L'etica
Occorre aggredire la sofferenza esistenziale alle sue stesse radici: liberare, cioè, la vita dalla volontà. E
questo lo si ottiene non già attraverso la contemplazione/conoscenza disinteressata fruita
momentaneamente attraverso l'esperienza artisica, bensì attraverso la vita pratica: quella vita pratica sulla
quale riflette appunto l’etica.
L'etica è l'impegno nel mondo che spinge l'uomo a superare l'egoismo che costituisce l'ingiustizia in
nome dell'amore del prossimo. L'etica, cioè l'impegno disinteressato al bene, non nasce, per
Schopenhauer da un'obbedienza al dovere morale, ma, al contrario, dal sentimento di pietà che la
sofferenza altrui genera in noi. E' da questa empatia che scaturisce anzitutto la prima dimensione del
comportamento etico ovvero la giustiziala quale consiste nel non fare il male, vale a dire una condotta
esistenziale che annulla la volontà di vivere in quanto esaltazione della forza e sopraffazione, e scopre
invece la dignità e il valore degli altri individui. Un grado più alto dell'etica e copnseguentemente di
autonegazione della volontà si realizza in secondo luogo nell’amore/carità inteso come ‘compassione’. In
esso l’uomo, considerando il destino dell’altro uomo come uguale al proprio, oltrepassa la propria natura
individuale ed entra in una sfera di purezza e disinteresse, caratterizzata dalla capacità del sacrificio.
L'amore/carità è pratica disinteressata del bene, non quindi eros (amore egoistico e possessivo) ma agàpe
cioè amore fraterno e oblativo.
4.3.- L'ascesi
Ma il comportamento che nega più radicalmente d’ogni altro l’individualità e la volontà dell’uomo è
quello ascetico. Nell’ascesi la volontà cancella ogni affermazione di sé negando o sopprimendo tutte le
forme ‘positive’ di vita, tutte le determinazioni individualizzanti dell’esistenza, e trasformandosi infine in
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quella che Schopenhauer chiama la « nolontà » (ossia il riflesso speculare — ma opposto, negativo —
della volontà). L’ascesi è castità e rassegnazione, indifferenza e sacrificio. Quello ascetico si configura,
in ultima analisi, non tanto come un atto quanto come uno stato: lo stato di chi ha annullato in se
medesimo ogni pulsione vitale, di chi si è distaccato dall’ordine degli eventi mondani. Nella sua
stagione aurea, il pensiero cristiano aveva potuto celebrare la ‘pienezza’ della vita ascetica. Schopenhauer
conclude invece la sua opera con un’interpretazione assai diversa e inquietante del culmine dell’ascesi. La
soppressione finalmente completa dell’impulso vitale produce infatti, a suo avviso, nulla meno che
l’annullamento totale del mondo. Pervenuto alla perfezione della « nolontà », l’uomo scopre che il
traguardo della propria compiuta autonegazione non gli dona la fruizione dell’essere (la contemplazione
immedesimazione con l'Assoluto, con Dio … si pensi alla coscienza infelice di Hegel o alla grande
tradizione del misticismo cristiano) ma la contemplazione del nulla. In effetti, l’annullamento della
volontà implica anche l’annullamento sia della funzione rappresentativa dell’uomo, e dunque della sua
capacità di percepire i fenomeni mondani, sia della cieca forza che governava la realtà naturale.
“Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo. Davanti a noi non resta invero che il
nulla ... Per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata, questo nostro universo tanto
reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee è — il nulla. “ (Il mondo come volontà e rappresentazione)
Così nel 1819, parallelamente alla celebrazione hegeliana della pienezza e della sensatezza dell’Essere
come dispiegamento del Logos nella Storia, faceva il suo ingresso nel teatro della filosofia occidentale
questa nuova figura a-razionale e a-storica del Nulla, destinata non meno dell’altra a sollecitare e a
stimolare il pensiero dell’uomo moderno.
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