Arthur Schopenhauer A) Una critica all’idealismo di Hegel, del tutto diversa da quella che caratterizza il materialismo di Marx, e che avrà non minore importanza nello sviluppo della filosofia dell’Ottocento, è rappresentata dalle posizioni di A. Schopenhauer. Egli condivide con l’idealismo la consapevolezza che la realtà assoluta non può essere collocata al di là della sfera soggettiva, e cioè critica altrettanto radicalmente di Hegel ogni impostazione realistica e materialistica. Ma, mentre l’idealismo identifica all’essere assoluto ogni contenuto della coscienza, per Schopenhauer solo una parte o un aspetto di essa corrisponde all’essere in sé: infatti la sfera dell’esperienza sensibile, cioè il mondo materiale è, secondo la sua tesi, semplice Rappresentazione (Vorstellung), ossia realtà fenomenica in senso kantiano - o anche leibniziano - che non lascia apparire la struttura ultima, oggettiva, del mondo. Di Kant, Schopenhauer conserva le forme a-priori della sensibilità (spazio e tempo) più una categoria (la causalità) che riassumerebbe tutte le funzioni dell’Intelletto: ma, appunto, la realtà costituita secondo tali forme è completamente distinta da quella della sfera noumenica. In quanto elemento fra gli altri del mondo fenomenico, l’uomo si scopre, in questa dimensione, totalmente condizionato dai rapporti che legano le cose: come ritiene anche Kant, l’apparire spazio-temporale non mostra la libertà dell’uomo. Ma, mentre per Kant l’affermazione della libertà è ammissibile solo come postulato della Ragion pratica, secondo Schopenhauer esiste una via per la quale possiamo cogliere direttamente questo ed altri aspetti del mondo “noumenico”. Se infatti guardiamo dentro noi stessi, nel profondo della nostra coscienza, scopriamo una realtà che trascende ogni contenuto fenomenico e le stesse strutture spazio-temporali dell’esperienza: la Volontà (Wille), cioè una forza assoluta, universale, che è l’essenza concreta di ogni cosa vivente. Rispetto a questa realtà profonda, il mondo dell’esperienza quotidiana e perfino le leggi della nostra razionalità sono semplici configurazioni di superficie, apparenze illusorie in cui si articola una sorta di gigantesco sogno: “vita e sogni - dice Schopenhauer - sono pagine dello stesso libro”. L’esperienza, invece, della propria energia vitale, dei propri impulsi animali, dei propri sentimenti irrazionali, porta l’uomo a guardare in faccia il vero fondamento di tutto, e a scoprire che si tratta di un principio unico, che opera dietro alle molteplici figure fenomeniche (uomini, animali, piante...): una volta scoperto quel principio dentro di sé, infatti, ogni soggetto lo può cogliere come egualmente presente in tutti gli altri esseri viventi. B) Già Eraclito aveva parlato dell’illusorietà del mondo che il senso comune considera “reale”, ed aveva appunto distinto il sapere del filosofo da quello dei “dormienti”, cioè degli uomini che si fidano dell’opinione. Ma la verità ultima era poi posta, da Eraclito, nell’intramontabile luce del Lógos, cioè di un divino principio razionale (cfr. l’Idea di Hegel). Con la filosofia di Schopenhauer, invece, si arriva ad una frattura assoluta tra razionalità del pensiero ed essenza ultima delle cose, e si apre la strada ad una critica dell’epistéme non meno radicale di quella che sarà portata avanti dal pensiero positivistico o, per certi versi, dal marxismo (anche se avanzata da una prospettiva diversa). Si noti, a questo proposito, che Schopenhauer non presenta le sue tesi come fondate su di una incontrovertibile argomentazione filosofica, ma come ipotesi ampiamente confermate dai fatti che tutti, nella condizione umana, possono sperimentare ogni giorno: dunque, in definitiva, queste tesi devono apparire come una scelta, cioè come una forma - sia pure ampiamente giustificata - di fede1. Con Schopenhauer, del resto, si assiste, per la prima volta nel corso della storia del pensiero moderno, ad una introduzione esplicita in ambito filosofico di elementi caratteristici della religiosità orientale: l’illusorietà dell’esperienza, ad esempio, è ricondotta espressamente alla mâyâ della dottrina induista (cfr. anche Sez. D). C) La Volontà, forza irrazionale in continuo movimento, si attua nei singoli esseri attraverso una molteplicità di impulsi e desideri mai appagati: se ogni desiderio è mancanza (e perciò dolore) il conseguimento dell’oggetto desiderato genera subito insoddisfazione e noia, l’essere vivente non è mai contento di ciò che ha, e appunto così la forza che sta alla base di tutto perpetua sé stessa, non avendo altro fine da realizzare che la propria conservazione. L’uomo è il più evoluto degli esseri viventi, ed è perciò quello che più è soggetto al dolore: la sua continua insoddisfazione è vissuta come difetto insuperabile, come colpa, ed è questo il senso profondo di quello che il cristianesimo chiama il “peccato originale”2. Non ha senso, dunque, parlare di “progresso” dell’umanità: ogni conseguimento dell’uomo è ancora illusione, sogno; nessun disegno armonico guida la storia, il mondo è un “teatro delle vanità” in cui recitano sempre le stesse maschere. Il radicale pessimismo di Schopenhauer è una delle forme più significative di reazione, da parte di certa cultura romantica, all’ottimismo hegeliano, ma anche all’ottimismo di stampo positivistico che, nella prima metà dell’Ottocento, si diffonde nella cultura borghese (Kierkegaard sarà un altro grande portavoce delle ragioni del disagio, nei confronti della fiducia nel progresso scientifico e sociale). D’altra parte, già a partire dalla metà del secolo XIX, anche la filosofia di Schopenhauer conosce una certa diffusione fra le classi dominanti, che di essa assumono in particolare gli aspetti conservatori: infatti, secondo questa filosofia l’uomo non ha assolutamente la possibilità di cambiare il mondo: il genio non consiste nella prassi ma nella contemplazione; l’unica possibile fuga dal dolore sta nella capacità di capirne i meccanismi e di oltrepassare definitivamente la sfera fenomenica guardando in faccia, anzitutto, l’essenza della Volontà. Del tutto inutile, invece, è il semplice rifiuto di vivere espresso dal suicidio: vita e morte sono infatti, a pari titolo, momenti di un’unica vicenda che si svolge al di là della sorte dei singoli esseri viventi (le figure superficiali del gioco), e che perpetua in altri esseri l’esistenza del dolore. 1 In questa direzione si muoverà poi Nietzsche, per molti aspetti discepolo di Schopenhauer, formulando le sua dottrine dell’eterno ritorno o dell’Übermensch, non come verità epistemicamente fondabili, ma come principi in cui si deve, si vuole credere: l’uomo ha allora il compito di creare la propria verità. Si tenga tuttavia presente che già Hume aveva rilevato come, partendo dai dati dell’esperienza, è possibile approdare solo a “credenze”. 2 Questo tema sarà sviluppato, se pure in un’ottica diversa, da un altro grande critico dell’idealismo: S. Kierkegaard. 2 D) Una prima, anche se precaria, via di liberazione è invece costituita dalla dimensione estetica: l’arte è contemplazione delle Idee, cioè dei modelli eterni delle cose materiali che esistono al di là dello spazio e del tempo: nella loro visione si placa temporaneamente l’affannoso gioco del desiderio. L’arte suprema è la musica, perché in essa l’uomo può cogliere non una singola idea, ma il principio unificante di tutte le idee: il flusso dinamico della Volontà.3 Ma la contemplazione estetica si realizza compiutamente solo per brevi istanti, dopo di che il ciclo della vita riprende come prima: per sradicare stabilmente il desiderio, e quindi il dolore che ne segue, l’uomo deve scoprire la sfera etica, che nel suo grado più alto è esperienza della compassione, cioè consapevolezza dell’universalità del dolore unita al riconoscimento di sé in tutti gli altri esseri viventi: la compassione, afferma Schopenhauer, è il vero contenuto della vita morale (contro la “formalità” dell’etica kantiana): la sua concreta manifestazione è qualcosa che sfugge alle categorie della razionalità e si presenta come “il grande mistero dell’etica”. Tuttavia resta ancora un ultimo passo da compiere, sulla strada della liberazione: dopo aver colto l’universalità del dolore ed aver trasceso l’egoismo individuale, l’estinzione definitiva del desiderio si attua nell’ascesi, cioè nel trascendimento dello stesso principio metafisico che lo fondava: la Volontà si rovescia infine in “Noluntas”, e l’uomo scopre una dimensione ulteriore, al di là di ogni realtà definibile concettualmente (cfr. il nirvâna dell’induismo e del buddhismo): un “Nulla” rispetto al mondo che conosciamo e alla stessa Volontà che lo muove, ma rispetto al quale, dice Schopenhauer, è proprio il nostro universo con i suoi infiniti mondi ad apparire come “nulla”4. 3 Per Hegel, invece, la poesia è superiore alla musica: nel linguaggio poetico si mostra più chiaramente l’essenza razionale dell’oggetto. 4 Cfr. Plotino (l’ Uno è “al di sopra dell’essere”) o la “teologia negativa” (ad es. di Meister Eckhart) che identifica Dio al “nulla”, proponendo quindi un “concetto depotenziato del nulla”, dove il “nulla” non è l’assoluta mancanza di realtà: nel pensiero contemporaneo, Heidegger e Sartre riprendono, trasferendola in ambito non religioso, questa concezione. 3