L’oratoria L’oratoria antica ■■ Il dibattito pubblico in Grecia Caratteri generali In una cultura, come quella greca, la cui trasmissione fu affidata DOSSIER per secoli all’oralità, la capacità di parlare in pubblico, di persuadere un uditorio e di far prevalere la propria posizione su quella dell’avversario ebbe un ruolo cruciale. Già i poemi omerici danno rilievo ai discorsi tenuti nelle adunanze dei soldati e nei consigli dei capi militari. Nel terzo canto dell’Iliade si sottolinea come Odisseo, pur meno imponente di Menelao nell’aspetto, domini su tutti con la sua straordinaria eloquenza (Iliade III, 216-224). Ma le condizioni per cui l’arte della produzione e dell’esecuzione in pubblico di discorsi si sviluppò nelle forme di un genere letterario in prosa, legato alla prassi giudiziaria e politica, si verificarono soltanto a partire dal V secolo a.C. ed in particolare ad Atene. Dopo il felice esito delle guerre persiane, infatti, e con il consolidarsi delle istituzioni democratiche, Atene divenne teatro di dibattiti pubblici, di scontri tra uomini politici nell’assemblea plenaria dei cittadini, e di controversie giudiziarie nei tribunali popolari. Negli spazi e nelle occasioni offerti dalla pólis democratica, in cui ogni cittadino aveva la possibilità di partecipare attivamente alla vita pubblica ed era chiamato a rispondere delle proprie azioni davanti alla comunità, fiorì la grande oratoria ateniese del V e IV secolo a.C., che fu, non a caso, eminentemente civile. È infatti in base agli ambiti del dibattito pubblico che si distinguono i tre generi dell’oratoria antica, denominati da Aristotele deliberativo, giudiziario ed epidittico. Il podio della Pnice, dove si riuniva l’assemblea popolare di Atene. 342 L’oratoria deliberativa Secondo la definizione di Aristotele, dell’oratoria delibera- tiva fanno parte i discorsi di esortazione e dissuasione, di argomento politico o morale, pronunciati in riunioni private (consigli e rimproveri), o in pubblico. Nella prassi dell’oratoria ateniese il genere deliberativo si sviluppò particolarmente in ambito politico, negli spazi offerti al dibattito pubblico dalle istituzioni democratiche: appartengono infatti ad esso le orazioni che la tradizione antica ci ha tramandato con il nome di demegorie, ossia “discorsi al popolo”, pronunciati dinanzi all’ekklesía, l’assemblea plenaria dei cittadini che, accanto alla Boulé, il consiglio di governo, costituiva il cuore pulsante della pólis democratica. Le riunioni dell’ekklesía avevano luogo in giorni stabiliti sul colle della Pnice e vi avevano accesso tutti i cittadini ateniesi di età adulta. L’assemblea deteneva l’effettivo L’oratoria antica potere decisionale di governo; al vaglio e all’approvazione di questa erano sottoposti i probouléumata, le proposte di legge formulate e redatte dalla Boulé. In questa sede ogni cittadino godeva della piena libertà di parola e, a seguito del dibattito, le decisioni venivano prese per alzata di mano o per scrutinio segreto. I decreti sottoposti al voto dell’ekklesía si riferivano a questioni di diversa natura, dal conferimento di titoli onorifici, alla stipulazione di trattati, da riforme monetarie all’istituzione di nuove magistrature, a misure preventive o punitive per la sicurezza dello stato. Tra i proponenti, a seconda del maggiore o minore impegno dei decreti, vi erano comuni cittadini che prendevano la parola solo occasionalmente, ma anche soggetti impegnati con regolarità nell’attività politica e nel dibattito pubblico. Oratori e politica Quella ateniese fu dunque una democrazia diretta, assembleare, DOSSIER che coinvolgeva tutti i cittadini nel governo della pólis, in cui anche i più umili potevano sentirsi partecipi delle decisioni politiche e responsabili per la comunità. D’altro lato, tuttavia, si profilò ben presto il predominio di personalità dominanti, capaci di orientare e influenzare le opinioni e i voti dell’assemblea popolare proprio per mezzo della loro eloquenza. La capacità di parlare in pubblico e di persuadere un vasto uditorio fu infatti la ragione dell’ampio successo ottenuto da uomini politici di spicco, che furono in primo luogo grandi oratori. Per le sue abilità suasorie e per la sua eloquenza fu noto, primo tra tutti, Pericle, abile politico che per quasi trent’anni nel corso del V secolo a.C. indirizzò la vita pubblica ateniese, guidando la città al vertice della sua grandezza politica, artistica e culturale, ma portandola anche verso il disastroso conflitto contro Sparta, da lui fortemente voluto. Purtroppo, proprio per il carattere pragmatico delle orazioni politiche, destinate ad una sola esecuzione orale, dei suoi discorsi ci è pervenuta testimonianza solo nella rielaborazione letteraria che ne fece lo storico Tucidide, che ben conosceva lo stile oratorio di Pericle per averlo potuto udire di persona. Dopo la morte di Pericle (429 a.C.), e con il dilagare dell’insegnamento sofistico, la politica sempre più divenne appannaggio dei rhétores, oratori di professione, che facevano leva sulla loro eloquenza per allargare il proprio consenso presso un’ekklesía facilmente manipolabile e spesso alla mercé di demagoghi corrotti e assetati di potere. Nel IV secolo a.C., la tendenza alla professionalizzazione della politica si approfondì, portando i rhétores a giocare un ruolo di primo piano nell’assemblea: i più grandi oratori del secolo, Demostene e il suo rivale Eschine, come anche Licurgo, lasciarono un segno decisivo nella gestione politica della pólis, ricoprendo anche cariche istituzionali di rilievo. L’oratoria giudiziaria La fioritura dell’oratoria civile ateniese tra il V e il IV secolo a.C. non si diede solo nelle sedi del confronto politico, ma anche e soprattutto nei tribunali popolari, teatro di azioni legali di varia natura e spazio d’elezione della grande oratoria giudiziaria. Nella Retorica, Aristotele cataloga come appartenenti al genere giudiziario i discorsi di accusa e di difesa tenuti nell’ambito delle controversie processuali (agónes), relativi ad azioni delittuose. Poiché la pratica del genere giudiziario non richiedeva solo capacità suasorie, ma anche una buona conoscenza della dottrina giuridica e degli strumenti legali, si affermò ben presto in quest’ambito una categoria professionale di esperti di diritto, detti logografi. Costoro si incaricavano, dietro compenso, di scrivere orazioni di accusa o di difesa per conto di terzi, che ne avrebbero poi memorizzato il testo per pronunciarlo in tribunale: nel diritto ateniese, infatti, l’iniziativa di intentare un’azione legale e la responsabilità della difesa spettavano ai singoli cittadini, che erano tenuti a farsi portavoci in prima persona della propria causa 343 L’oratoria in tribunale. Pur non godendo di grandi onori per il suo carattere utilitaristico, la remunerativa professione del logografo fu esercitata ad Atene dai più grandi oratori, quali, in primo luogo, Lisia, Demostene e Isocrate. Le orazioni giudiziarie potevano vertere su cause di natura privata o pubblica: nel primo caso si trattava di temi relativi alla tutela dell’individuo, della proprietà e della famiglia, nel secondo, di tutti gli atti considerati nocivi per lo Stato e attinenti alla salvaguardia della costituzione e dell’ordinamento vigente. Proprio perché destinati ai dibattimenti in tribunale e quindi sottoposti alle specifiche esigenze della procedura processuale, i discorsi giudiziari erano ripartiti secondo una struttura piuttosto rigida, che prevedeva quattro parti fondamentali: il proemio, che consisteva nella presentazione dell’oggetto della causa per informare l’uditorio; la narrazione, in cui i fatti erano esposti nel dettaglio e inseriti nella cornice in cui si erano svolti; l’argomentazione, che dava spazio alla discussione propriamente giuridica delle prove e all’interrogatorio dei testimoni; la perorazione, la parte finale dell’orazione, in cui si cercava il coinvolgimento emotivo della giuria, per ottenerne il voto favorevole. L’organizzazione dei processi Il principale organo giuridico ateniese era il tribu- DOSSIER nale dell’Eliea, istituito da Solone e composto di seimila giudici (dikastái) estratti a sorte tra i cittadini di età superiore ai trent’anni, senza distinzione di classe e di censo, che non avessero debiti verso il tesoro pubblico. L’Eliea si riuniva di volta in volta in sezioni separate, dette dicasteri, i cui giudici e casi di competenza venivano estratti a sorte il giorno stesso. Come si è già accennato, parte lesa e accusati, al processo, dovevano parlare in prima persona, a meno che non rientrassero nella categoria degli “incapaci”, che includeva donne, minori, schiavi e stranieri, rappresentati legalmente da un cittadino di diritto, detto prostátes. Era possibile inoltre, in alcuni casi, ottenere dai giudici l’autorizzazione a farsi aiutare oppure farsi sostituire del tutto da un amico o un parente più abile nel parlare. Le sedute dei dicasteri cominciavano di buon mattino in un settore ad esse riservato nell’agorá e in ogni sessione era giudicata più di una causa. I giudici ascoltavano in silenzio i discorsi delle parti e alla fine del dibattimento emettevano il verdetto con una votazione a scrutinio segreto e stabilivano la pena, che poteva essere comminata a loro discrezione o in base a una normativa preesistente. Il sistema giudiziario ateniese dava a ogni cittadino la libertà di intentare una causa contro chiunque si fosse macchiato di atti lesivi nei confronti della comunità o di un singolo individuo. Ma il carattere fondamentalmente democratico di questo principio si deteriorò nel tempo dando luogo alla comparsa di accusatori di professione, i cosiddetti sicofanti, che esercitavano il lucroso mestiere della denuncia e potevano ottenere la metà della multa pagata dall’imputato se questi non cedeva prima al ricatto. L’oratoria epidittica Il terzo genere di oratoria, catalogato da Aristotele come epi- dittico o dimostrativo, ha per oggetto la lode o il biasimo. Come suggerisce l’etimologia del termine, dal verbo epidéiknymi che significa “illustrare, dimostrare”, lo scopo dei discorsi epidittici è quello di mettere in luce o confutare la virtù e l’eccellenza di un personaggio, reale o appartenente all’immaginario mitico. L’oratoria epidittica comprende diversi tipi di discorsi corrispondenti alle varie forme dell’elogio: –il panegirico (dal gr. panégyris “adunanza popolare”), in origine orazione celebrativa destinata a feste solenni, quali i giochi olimpici o le altre grandi feste panelleniche. Nell’oratoria di età imperiale, il panegirico divenne forma ufficiale di elogio del princeps, come il Panegyricus Traiano Imperatori di Plinio il Giovane ( p. 436). 344 L’oratoria antica –l’encomio, canto in lode di uomini, originariamente eseguito in versi nei banchetti e in occasione di vittorie agonali. Come forma di esercitazione retorica in prosa su temi e personaggi del mito, fiorì specialmente ad opera di Gorgia e Isocrate. –l’epitafio, elogio funebre, discorso celebrativo in onore di persone defunte. A Pericle dobbiamo il celebre discorso per i caduti nel primo anno nel conflitto peloponnesiaco, riportato da Tucidide nelle Storie (II, 34-46); in genere la città commissionava a grandi oratori la composizione di un epitafio e anche Lisia e Demostene ebbero questo onore. Nel IV secolo a.C., principalmente nell’opera di Isocrate, l’oratoria epidittica fu strumento per la divulgazione di concetti filosofici e di ideali politici di ampio respiro. ■■ L’oratoria greca del V secolo L’influsso della sofistica Se, come si è sottolineato, lo sviluppo dell’oratoria in DOSSIER Atene è contemporaneo al consolidamento della democrazia, non va trascurato l’influsso che su di essa ebbero le dottrine dei sofisti, precettori itineranti, professionisti della conoscenza, che furono i primi maestri di retorica, l’arte della parola. I primi professori della disciplina furono Corace e Tisia, logografi di Siracusa, che nel 467 a.C., liberata la città dalla tirannide, si diedero ad insegnare ai loro concittadini, impegnati nei processi di proprietà, un metodo teorico per esprimersi in pubblico con successo. Dalla Sicilia l’insegnamento sofistico passò rapidamente ad Atene per influsso dello ionico Protagora di Abdera, e di Gorgia di Lentini, non lontana da Siracusa. Essi trovarono qui un ambiente adatto a recepire i contenuti della loro dottrina, rivolta principalmente ai giovani rampolli dell’alta società, desiderosi di farsi strada in politica. Dietro lauto compenso, i sofisti insegnavano ai giovani le tecniche logico-argomentative necessarie per parlare in pubblico e far prevalere la propria ragione su quella dell’avversario, non tanto perché più forte, ma perché meglio argomentata. Di stampo sofistico è anche l’idea che su ogni questione sia possibile costruire discorsi opposti e far trionfare il meno probabile, grazie ad un uso sapiente della parola, svincolata da qualunque dimensione etica del suo contenuto. L’influsso dei sofisti sull’oratoria del V secolo è evidente, se non altro, nei discorsi di uomini politici e capi di stato riportati, secondo il principio della verosimiglianza, nelle Storie di Tucidide: nella struttura per coppie antitetiche (dissói lógoi) e nel livello formale essi riproducono infatti il modello sofistico di argomentazione. Antifonte e Andocide Non è forse un caso che il più antico tra gli oratori ateniesi di cui abbiamo notizia, Antifonte, sia stato a lungo confuso con l’omonimo sofista. Nato attorno al 480 a.C. nel demo attico di Ramnunte, Antifonte partecipò, nel corso della guerra del Peloponneso, alla restaurazione oligarchica del 411 e fu in seguito accusato di aver venduto la patria agli Spartani e per questo processato e giustiziato. Secondo la tradizione, egli fu maestro di Tucidide che ne tesse un sentito elogio per le virtù umane e di oratore, affermando che la sua opera più bella è il discorso pronunciato in difesa della propria vita. Di Antifonte ci è nota l’attività di logografo esperto in orazioni giudiziarie, di cui ci sono pervenuti alcuni esempi scritti tra il 420 e il 413 a.C. in uno stile nitido e in pura lingua attica. Il più lungo e famoso dei discorsi giudiziari di Antifonte è Sull’uccisione di Erode, scritto in difesa di un giovane di Mitilene, accusato di aver ucciso il vecchio Erode di cui si era persa traccia durante un viaggio per mare. Singolari, per l’affinità con l’oratoria sofistica, sono le cosiddette Tetralogie che ci sono pervenute sotto il nome di Antifonte: si tratta di tre esercitazioni scolastiche, prive di nome e rife- 345 L’oratoria rimenti a dati concreti, in ciascuna delle quali si alternano due brevi discorsi di accusa e due di difesa in riferimento a una causa criminale. Anche le vicende biografiche di Andocide si intrecciarono con i burrascosi eventi della guerra del Peloponneso. Nato intorno al 440 a.C. da nobile famiglia ateniese, prese parte alla vita politica della città, ma nel 415 fu coinvolto, insieme ad Alcibiade, nel processo per la mutilazione delle Erme. A seguito di ciò scelse l’esilio volontario a Cipro, dove si arricchì con il commercio, senza tuttavia desistere dal desiderio di tornare in patria, cosa che si realizzò solo dopo la caduta dei Trenta Tiranni, con l’amnistia del 403. Di Andocide possediamo una serie di orazioni composte in propria difesa. La prima, Sul proprio ritorno, costituisce un accorato appello all’assemblea dei cittadini per la revoca dell’esilio. Più nota è l’orazione Sui misteri che Andocide compose quando, nel 399, fu accusato di asébeia, empietà, per aver assistito ai misteri di Eleusi nonostante l’impurità a lui derivata dalla precedente condanna. Il risultato fu un discorso vigoroso ed espressivo, anche se privo delle finezze dell’oratore di mestiere, che pure gli valse l’assoluzione e il recupero di un certo credito politico: sappiamo infatti che nel 392 fu ambasciatore a Sparta e che per l’occasione scrisse un’orazione intitolata Sulla pace con Sparta. Lisia Con Lisia si inaugura il periodo alto dell’oratoria ateniese. Influenzato dalla DOSSIER sofistica ed esperto di tecnica giuridica, questo autore fece scuola presso gli antichi, che ne ammirarono non solo la perizia compositiva, ma anche la purezza linguistica, l’eleganza e la vivacità espressiva. Nato ad Atene da padre siracusano attorno alla metà del V secolo a.C., Lisia passò parte della sua giovinezza a Turii, in Magna Grecia, ove perfezionò la sua formazione retorica. Tornato ad Atene, subì nel 404 a.C. un violento attacco da parte del regime oligarchico dei Trenta che, con un fragile pretesto politico, requisì il suo patrimonio di famiglia, costituito dalla fiorente fabbrica di scudi ereditata dal padre, e mise a morte il fratello Polemarco. È a questo drammatico episodio che si riferisce l’orazione Contro Eratostene, uno dei Trenta Tiranni, che Lisia, tornato in patria nel 403 con la restaurazione democratica, accusò di aver provocato la morte del fratello. Nonostante l’abbattimento del regime oligarchico, l’oratore, che ad Atene era un meteco, un forestiero che godeva della residenza e di pochi altri diritti, non poté riprendere possesso dei beni di famiglia e, per vivere, fu costretto a esercitare l’attività di logografo sino al 380 a.C., data a cui risale l’ultima notizia che possediamo su di lui. Delle trenta orazioni che ci sono giunte per intero, la maggior parte sono state scritte su commissione per i processi di altri. Nei discorsi giudiziari composti nella sua attività di logografo, Lisia dispiega una notevole abilità nel ricalcare i toni e la personalità dei suoi clienti delineandone un ritratto vivido e credibile, capace di cattivare la simpatia dei giudici: è la cosiddetta etopéa, la qualità principale dell’arte di Lisia, duttile e variegata, capace di adattarsi a una molteplicità di voci e tipi umani. Così è ad esempio nell’orazione Per l’invalido scritta per un bizzarro soggetto di bassa cultura e condizione sociale che difende il proprio diritto a non vedersi revocare ‘l’obolo’, un sussidio giornaliero dispensato ai portatori di infermità fisica. Mirabile per l’efficacia narrativa e l’acuta rappresentazione dei personaggi è anche il discorso Per l’uccisione di Eratostene composto in difesa di un marito offeso nell’onore, che espone in tribunale le ragioni per cui ha ucciso l’amante della moglie. Lisia compose anche orazioni appartenenti al genere epidittico, come l’Olimpico, panegirico scritto in occasione delle Olimpiadi del 388, che costituisce un accorato appello a tutti i Greci alla fratellanza e all’odio comune verso la tirannide, in particolare quella di Dionisio I di Siracusa. La tradizione attribuisce a Lisia anche la composizione dell’Epitafio per i caduti nella guerra di Corinto (395-386 a.C.). 346 L’oratoria antica ■■ L’oratoria greca del IV secolo “L’arte del dire” nel mutato contesto storico Dopo la tragica conclusione della Isocrate L’oratore e maestro di retorica Isocrate è una delle figure più significative dell’epoca di incertezza e di crisi dei valori che precedette l’egemonia macedone. All’instabilità della situazione politica, alla complessità delle relazioni sociali e all’evidente declino della pólis, Isocrate infatti oppose la ricerca di un valore superiore, quello della parola composta secondo armonia e razionalità. Isocrate visse ad Atene tra il 436 e il 338 a.C. ed esercitò per un certo periodo la professione, ben retribuita, di logografo, ma il corpo centrale della sua produzione è da ricondurre all’attività svolta all’interno della sua scuola di eloquenza. Due discorsi in particolare illustrano l’ideale isocrateo di retorica: l’orazione Contro i Sofisti, vero e proprio manifesto programmatico del suo impegno didattico visto in netta contrapposizione con le vane dispute verbali praticate dai sofisti; e quella Sullo scambio, un’accorata difesa del proprio magistero e della superiore funzione educativa dell’eloquenza per la collettività e in particolare per i giovani. Ma fu nel genere epidittico che Isocrate toccò l’apice della sua arte, facendosi portavoce di ideali politici e riflessioni sull’attualità. Tematica ricorrente è la celebrazione di Atene e della sua antica eccellenza, come mostrano tanto l’Areopagitico, dedicato al tribunale dell’Areopago, il più antico tribunale di Atene, della cui autorità morale e civile Isocrate auspica il ripristino, quanto il Panatenaico, che Isocrate compose poco prima di morire, intessendo un’appassionata celebrazione del glorioso passato di Atene contrapposto al deplorabile presente. L’idea della centralità politica e culturale di Atene nel mondo greco è ribadita nel Panegirico, in cui Isocrate propone la formazione di una lega di stati ellenici sotto la guida e l’egemonia della città. Ma la speranza che Atene potesse farsi promotrice dell’indipendenza ellenica sfumò ben presto e nel 346 a.C. fu composto il Filippo, discorso dedicato al sovrano macedone, che Isocrate indica come unica figura autorevole capace di unificare la Grecia e di darle la stabilità politica che non ha mai conosciuto. Demostene. Copia romana da un originale greco del III secolo a.C. (Roma, Musei Vaticani). Demostene Se Isocrate, con la sua apertura all’egemonia di Filippo, anticipò in qualche modo gli eventi futuri, Demostene fu strenuo assertore dell’autonomia delle póleis greche, difesa con appassionato vigore nel corso della sua attività poli- 347 DOSSIER guerra del Peloponneso, Atene perse definitivamente l’egemonia che, nel V secolo, aveva esercitato sull’Egeo grazie alla potente flotta. Il declino dell’imperialismo ateniese mise in luce la fragilità del particolarismo politico greco e, nel corso della prima metà del IV secolo, le grandi potenze di Sparta e di Tebe si contesero la supremazia, senza tuttavia ottenere successi definitivi. Fu un nemico ben più temibile, Filippo II, re di Macedonia, a sancire il termine dell’indipendenza per le città greche (338 a.C.). L’egemonia macedone si consolidò con Alessandro, figlio e successore di Filippo, che, alla propria morte, nel 323 a.C., lasciò in eredità ai suoi successori un enorme impero. Il IV secolo fu dunque un’epoca di fermento e di conflitti, di incertezza e di instabilità politica, in cui si affermarono valori e istanze diversi da quelli che avevano determinato l’ascesa della sofistica e dei primi oratori ad Atene. Ciononostante l’oratoria, in particolare quella politica, proliferò ed ebbe un notevole impulso, grazie anche a personaggi di spicco, protagonisti del dibattito pubblico, che si distinsero ed emersero sulla scena cittadina facendo leva sulla loro eloquenza. Ad Atene, Isocrate nel 390 a.C. fondò la prima scuola di retorica, che ebbe un grande successo: l’arte del dire si affermò come unica sapienza utile in una realtà di giorno in giorno più mutevole e sfuggente. DOSSIER L’oratoria Eschine. Copia romana da un originale greco del IV secolo a.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). tica e professionale. Nato ad Atene nel 384-383 a.C., esordì in tribunale in età precoce. Alla professione di logografo e oratore giudiziario, che Demostene esercitò per anni, vanno ascritte alcune orazioni che risentono fortemente del vivido realismo lisiano. Di autenticità dubbia è invece la Contro Neera, discorso di accusa contro una prostituta di Corinto denunciata per usurpazione dei diritti civili, che costituisce un interessante documento sulla condizione femminile nell’Atene di età classica. Ma la fama di Demostene presso i posteri è legata principalmente alla sua produzione nel campo dell’oratoria deliberativa: a partire dal 351 a.C., data in cui fu composta la Prima Filippica, l’oratore si dedicò con energica risoluzione a contrastare le mire di Filippo, il re macedone, che costituiva una seria minaccia per l’autonomia delle póleis greche. Nell’intento di scuotere dal torpore e dall’inerzia i suoi concittadini e indurli a intervenire in difesa di Olinto, presa d’assedio da Filippo, egli scrisse le tre orazioni Olintiache, ma Atene si mosse troppo tardi e la città fu rasa al suolo. Se il re macedone fu il grande antagonista di Demostene sulla scena internazionale, Eschine, oratore e figura di spicco del partito filo-macedone, lo fu in campo cittadino: nel discorso Sull’ambasceria corrotta, di cui ci è pervenuta anche l’omonima difesa di Eschine, Demostene lo accusa apertamente di essersi lasciato corrompere da Filippo in occasione dell’ambasceria inviata da Atene nel 348 a.C. alla corte di Macedonia. Requisitorie contro il sovrano macedone sono anche la Seconda e la Terza Filippica, mentre la Quarta è probabilmente spuria. Per il suo strenuo impegno in nome dell’indipendenza di Atene e dell’Ellade, Demostene ricevette l’onorevole incarico di scrivere l’Epitafio per i caduti nella battaglia di Cheronea e, nel 336 a.C., Ctesifonte propose di tributargli l’onore della corona d’oro per merito nei confronti della città. Ma la proposta non piacque a Eschine che, nella Contro Ctesifonte, mosse contro di essa un’accusa di illegalità: la risposta di Demostene è contenuta nell’orazione Per la corona. È questa un capolavoro di oratoria, in cui, con lo stile vigoroso e ricco di tensione emotiva che gli è caratteristico, Demostene difende il suo operato ripercorrendo le tappe della sua carriera politica e dell’amaro declino della grandezza di Atene. Coinvolto, negli ultimi anni della sua vita, in un torbido affare di corruzione, nel 322 a.C. si diede volontariamente la morte nel tempio di Poseidone a Calauria dove si era rifugiato per sfuggire al generale macedone Antipatro. Eschine e Iperide Eschine, contemporaneo e fiero oppositore di Demostene, nacque attorno al 390 a.C. ad Atene. In politica entrò inizialmente con posizioni ostili al Macedone, ma a seguito dell’ambasceria del 348 a.C., sembrò mutare opinione: da questo episodio scattò l’accusa di corruzione mossa contro di lui da Demostene. La difesa di Eschine è contenuta nelle due orazioni Contro Timarco, il prestanome che lo aveva citato in giudizio per conto di Demostene, e Per l’ambasceria corrotta, discorso con il quale riuscì a farsi scagionare totalmente dalle accuse. Il carattere di Eschine oratore risalta appieno nella Contro Ctesifonte, orazione scritta in occasione del processo per il conferimento della corona d’oro a Demostene: il rigore dell’analisi politica e la profonda conoscenza della dottrina giuridica fanno di lui un oratore di livello e un lucido osservatore della realtà contemporanea, cui mancò tuttavia il vigore idealistico proprio di Demostene, l’appassionata adesione all’utopia di una Grecia libera dal conquistatore straniero. Nella causa per la corona, Eschine riportò una fragorosa disfatta a seguito della quale dovette andare 348 L’oratoria antica in esilio. Secondo la tradizione, che ignora l’anno della sua morte, egli si sarebbe rifugiato in Asia Minore e in seguito a Rodi, ove esercitò la professione di maestro di retorica. Allo stesso periodo risale anche l’attività di Iperide, oratore la cui opera ci è nota soltanto grazie ad alcuni fortunati ritrovamenti papiracei. Nato da famiglia facoltosa, condusse una vita agiata e dedita ai piaceri, eppure non tradì mai il coerente ideale politico per cui lottò a fianco di Demostene per l’indipendenza delle città greche. Di Iperide ci rimangono sei orazioni conservate per intero. Alcune di queste appartengono al genere giudiziario, come la Contro Atenogene, il cui protagonista è un rozzo proprietario terriero che, invaghitosi di uno schiavo, si lascia coinvolgere in una torbida truffa. Il tocco leggero di Iperide, il tono ironico e le vivide descrizioni di personaggi ed eventi, fanno di questo discorso uno spassoso quadro della società del tempo. Tra le orazioni giudiziarie ricordiamo anche quella Per Licofrone, in riferimento a un processo per adulterio, e quella Per Euxenippo, su un responso oracolare concernente alcune porzioni di terra sacra donate da Filippo agli Ateniesi. L’unico discorso epidittico pervenutoci di Iperide è l’Epitafio per i caduti nella guerra lamiaca, una rivolta contro l’egemonia macedone scoppiata alla morte di Alessandro, capeggiata da Demostene. Gli oratori minori Secondo il canone alessandrino, rientrano nel novero degli “eccel- DOSSIER lenti oratori ateniesi” anche Iseo, Licurgo e Dinarco, tutti e tre del IV secolo. Iseo, nato a Calcide in Eubea, era un meteco ed esercitò la professione di logografo, occupandosi in particolar modo di cause relative al diritto ereditario. Di questo autore ci sono pervenute undici orazioni, oltre a un lungo frammento che fa riferimento a un processo per il diritto di cittadinanza ateniese: si tratta del discorso Per Eufileto. Le orazioni di Iseo rivelano un’estrema competenza in campo giuridico, chiarezza nelle ricostruzioni storiche e nello stile, mancano tuttavia dell’abilità di Lisia o di Iperide nel caratterizzare con realismo personaggi e situazioni, ricadendo talvolta in un monotono tecnicismo. Uomo politico di spessore e appassionato oratore del partito anti-macedone, Licurgo nacque nel 390 a.C. ad Atene. Fu amministratore delle finanze pubbliche e per suo impulso la flotta ateniese fu incrementata, furono costruiti nuovi edifici, tra cui il primo teatro di Dioniso in pietra, e fu redatto un testo ufficiale dei tre grandi tragici. Di Licurgo ci rimane un’unica orazione, la Contro Leocare, un disertore della battaglia di Cheronea che, tornato ad Atene dopo alcuni anni, sperava di passare inosservato: l’accusa di alto tradimento alla patria risuona tra le righe di questo discorso dai toni appassionati e dallo stile drammatico, ricco di citazioni poetiche, ma l’assenza di una legislazione precisa sul reato di diserzione valse a Leocare l’assoluzione. Dinarco di Corinto è l’ultimo degli oratori del canone ellenistico: ad Atene svolse principalmente l’attività di logografo e poté ricoprire un ruolo politico di un certo livello solo con la dominazione macedone. Ciò che resta della sua opera rivela un oratore non brillante, dai toni aspri e polemici, con cui spesso supplisce alla mancanza di rigore argomentativo. ■■ Evoluzioni dell’oratoria greca L’importanza delle scuole Con la fine del IV secolo e l’istaurazione del dominio macedone in Grecia si assiste al declino della grande oratoria civile. Tuttavia se l’arte del dire, la retorica, che si forgiò sull’esempio degli illustri oratori ateniesi del V e del IV secolo, assunse una funzione cruciale nella cultura e nell’educazione greca sino a inoltrata epoca imperiale, fu anche grazie alle teorizzazioni dei grandi maestri e delle 349 L’oratoria DOSSIER scuole filosofiche che fiorirono in età ellenistica. Il primo trattato sistematico sul tema è la Retorica di Aristotele che pose le basi dell’eloquenza, esponendo e catalogando i procedimenti logici e le tecniche argomentative che devono presiedere all’elaborazione dei discorsi. Dopo il contributo di Aristotele, la retorica si radicò nelle scuole e, nel corso del III secolo, proliferarono manuali tecnici (téchnai) ispirati alla dottrina aristotelica e a quella di Ermagora di Temno (II secolo a.C.), fortemente orientata sulla prassi oratoria giudiziaria. Nell’ambito delle scuole si approfondì, nei secoli, anche il dibattito sullo stile (léxis) e sugli aspetti formali dell’espressione, che influenzò in particolar modo l’oratoria latina. Dalla metà del I secolo a.C. si profilarono due correnti opposte che facevano capo rispettivamente ad Apollodoro di Pergamo, sostenitore di una concezione razionale dell’eloquenza, basata sui fatti e sulla logica, e a Teodoro di Gadara, che propugnava invece la libertà d’ispirazione e il ricorso a elementi emozionali e patetici, atti a rendere persuasivo il discorso. La polemica tra i seguaci dei due maestri si imperniò su due opposte tendenze stilistiche: il cosiddetto asianesimo, ispirato allo stile ornato e ampolloso dell’oratore ionico Egesia di Magnesia (III secolo a.C.), e l’atticismo, che propugnava invece un ritorno al modello di purezza linguistica e formale degli autori attici e di Lisia in particolare. I maggiori esponenti della corrente atticista furono Dionigi di Alicarnasso che, in età augustea, compose un trattato Sugli oratori antichi, esaltando lo stile di Lisia, e Cecilio di Calacte contro cui si rivolge polemicamente l’autore anonimo dello scritto di stilistica e retorica Sul sublime. La seconda sofistica e la spettacolarizzazione dell’eloquenza In epoca imperiale la pratica oratoria e l’eloquenza conobbero una straordinaria fioritura come fatti di cultura e di intrattenimento collettivo. Un interesse generalizzato per la retorica e per il potere persuasivo della parola si sviluppò in particolar modo nel II secolo d.C., nell’ambito di un movimento, denominato seconda sofistica, che raccolse avvocati, maestri di retorica e oratori itineranti. I nuovi sofisti si esibivano per un pubblico selezionato e di cultura elevata, declamando orazioni di studiata eleganza precedentemente composte, come anche per più vaste platee, improvvisando discorsi che si rifacevano a un repertorio stilistico e tematico più o meno originale. In questo contesto, l’oratoria, svincolata dalle grandi tematiche civili e dalle istanze politiche e giudiziarie del V e IV secolo a.C., assunse i caratteri spettacolari dell’esibizione pubblica. Uno degli esponenti più significativi della seconda sofistica fu Dione di Prusa, detto Crisostomo (“bocca d’oro”) per la formidabile eloquenza: filosofo e conferenziere alla corte imperiale, fu autore di numerosi discorsi di carattere parenetico, ossia esortativo, e di esercitazioni retoriche di modello sofistico su tematiche mitologiche. La seconda sofistica influenzò anche l’opera di due personalità di più esteso rilievo letterario, quali Luciano (120-180 ca d.C.) che, in età giovanile, si cimentò in esercitazioni retoriche e declamazioni, tra cui ricordiamo in particolare il curioso Elogio della mosca, appartenente al genere dell’encomio paradossale noto già a Dione di Prusa, ed Elio Aristide (129-189 d.C.), conferenziere di successo e profondo ammiratore dello stile di Isocrate, di cui prese le difese nell’orazione Sulla retorica, e che imitò nel Panatenaico. I retori di lingua greca nell’età tardo-antica Nel IV secolo d.C., dopo un periodo di declino, le scuole di retorica ripresero vigore come centri di divulgazione della cultura classica, in un mondo ormai quasi interamente cristianizzato. Il magistero dei letterati e retori greci, spesso pagani, si trasmise ai grandi diffusori e apologisti della religione cristiana, che poterono giovarsi del supporto culturale ed erudito della tradizione greca classica nella loro opera di difesa e divulgazione del nuovo credo. Nella 350 L’oratoria antica scuola aperta dal retore Imerio ad Atene nel 368 d.C. studiarono infatti i padri della chiesa Gregorio Nazianzeno e Basilio di Cesarea, e lo stesso Libanio, autore di un Discorso funebre per Giuliano nonché di un’orazione In difesa dei templi contro il fanatismo religioso degli integralisti cristiani, fu precettore di retorica di Gregorio, Basilio e Giovanni Crisostomo. Di argomento religioso e pagano sono anche due degli otto discorsi che ci sono stati tramandati dell’imperatore Giuliano (331-363 d.C.), allievo di Libanio e letterato di livello. L’ultimo grande retore greco del IV secolo fu Sinesio (370-413 d.C.), nativo di Cirene, nell’Africa settentrionale, fine erudito e dotto conoscitore degli autori classici. A Sinesio sono da attribuire l’orazione epidittica Sul regno dedicata al giovane imperatore Arcadio, e l’Encomio della calvizie sul genere dell’encomio paradossale già praticato da Dione di Prusa e Luciano. ■■ L’oratoria latina Il problema delle fonti: il predominio di Cicerone Lo studio dell’oratoria romana DOSSIER è fortemente penalizzato dalla perdita quasi totale di testimonianze, in particolare di quelle risalenti all’età più arcaica della repubblica. Questa penuria di documenti scritti, che costituisce una lacuna gravissima per gli studiosi di civiltà e cultura latina, si spiega con il carattere fortemente pragmatico del genere, legato a finalità pratiche e a circostanze immediate: sino a Cicerone, infatti, l’oratoria si mantenne per lo più nella sfera dell’oralità, nello statuto instabile e precario del non scritto. Fu lo stesso Arpinate ad affidare intenzionalmente per la prima volta alla scrittura la sopravvivenza delle sue orazioni e, nel contempo, a conferire al genere una dimensione letteraria, rievocandone i primi sviluppi e i protagonisti di età repubblicana nel Brutus, un dialogo di argomento retorico. La riluttanza dei primi oratori latini a fornire una stesura scritta dei loro discorsi e l’impostazione di carattere eminentemente pratico che l’oratoria ebbe a Roma sin dalle sue prime origini furono inoltre di ostacolo, a differenza di quanto accadde in Grecia con i sofisti, allo sviluppo della retorica, ovvero di un pensiero teorico sull’arte del dire, passaggio che si ebbe più avanti con l’influenza e la diffusione dei manuali di retorica greci. L’oratoria deliberativa Al possesso di una soddisfacente capacità persuasiva e di una sviluppata eloquenza era vincolato, anche nella Roma antica, il successo politico. I personaggi della nobilitas senatoriale, i soli che sino al III secolo a.C. di fatto avevano accesso alla carriera politica e a un’educazione superiore, avevano numerose opportunità per emergere nella vita pubblica e rivelare le loro abilità oratorie. Il genere deliberativo si sviluppò nei dibattiti tenuti in senato, il centro dell’amministrazione repubblicana, e nelle contiones, i comizi pubblici, con cui i capi delle diverse fazioni politiche si rivolgevano a più vaste assemblee per ottenerne il voto o per mettersi in mostra contro i propri avversari. In origine il senato era composto di trecento membri scelti tra i patres dei clan gentilizi, ma dopo che vi furono ammessi anche membri di famiglie plebee, i conscripti, e i magistrati uscenti di carica, il numero dei suoi componenti arrivò a triplicarsi. Le sedute del senato potevano essere convocate solo da un magistrato munito di imperium, ovvero un console o un pretore, e in esse venivano espressi pareri e decisioni (senatus consulta) che potevano riferirsi alla nomina del dittatore, all’assegnazione delle provinciae ai magistrati, all’amministrazione delle spese (tra cui anche quelle militari) e dei tributi, alle dichiarazioni di guerra e alla L’Arringatore. Il patrizio Aule Meteli nell’atto di chiedere l’attenzione della folla. Fine II secolo a.C. (Napoli, Museo Archeologico Nazionale). 351 L’oratoria stipulazione di trattati di pace. I senatori avevano inoltre la facoltà, in particolari condizioni, di invalidare leggi e decisioni comiziali. La riunione di tutta la cittadinanza, divisa per classi di censo e in centurie, si aveva nei comizi detti centuriati, che avevano il potere di approvare o respingere, senza possibilità di intervento, le proposte, in materia di legge e di politica interna ed estera, avanzate dal magistrato autore della convocazione. Questa doveva avvenire con ventiquattro giorni di anticipo, periodo in cui le proposte da votare venivano esposte in pubblico e discusse in riunioni private. Questi stessi meccanismi valevano anche per l’assemblea delle famiglie plebee, il concilium plebis, che annualmente eleggeva i tribuni e gli edili della plebe, e il cui voto (detto plebiscito), a partire dal 287 a.C., con la lex Hortensia, ebbe valore per l’intera cittadinanza. L’oratoria giudiziaria Oggetto dell’oratoria giudiziaria latina erano tanto i iudicia DOSSIER privata, azioni legali non concernenti l’intera comunità, ma singoli individui, quanto i iudicia publica, cause di interesse collettivo la cui giurisdizione, nella prima età repubblicana, era di competenza esclusiva delle assemblee popolari: i comizi centuriati giudicavano i delitti capitali, e i concilia plebis i reati punibili con ammende pecuniarie. I iudicia privata prevedevano una prima fase (in iure) di carattere tecnico-giuridico per la definizione del danno supposto, e una seconda (in iudicio) in cui si dava spazio agli interventi oratori: in entrambi i momenti della procedura i litiganti erano spesso costretti a ricorrere al patrocinio di esperti di diritto, in grado di dettare con precisione la formula giuridica relativa al reato in questione e di riuscire persuasivi nella fase in iudicio. A differenza di quanto accadeva per i logografi in Grecia, i patroni seguivano l’imputato durante tutto il percorso dibattimentale e appartenevano invariabilmente alla nobiltà senatoria che, come si è detto, deteneva una sorta di monopolio sul diritto. Nei iudicia publica l’iniziativa dell’accusa spettava esclusivamente a magistrati come questori, tribuni della plebe ed edili. Nel corso del processo erano previste tre riunioni dibattimentali durante le quali il magistrato presentava le ragioni dell’accusa, l’imputato, o il suo patrono, sosteneva la difesa, infine venivano ascoltati i testimoni. In una quarta riunione, a circa un mese di distanza, avevano luogo le operazioni di voto nell’assemblea popolare: era questa l’occasione per ampi discorsi alla collettività, a cui veniva esposto il caso dando spazio agli elementi patetici e facendo leva sul coinvolgimento emotivo dell’uditorio. Sia nelle cause pubbliche che in quelle private era dunque fondamentale il ricorso ai patroni, sia per la loro esperienza della legge ed abilità oratoria, sia per la protezione che, grazie all’autorità e alla visibilità del loro status, potevano fornire al cliens. L’oratoria epidittica La necessità, per la classe dirigente romana, la nobilitas, di giustificare il suo ruolo all’interno della società e accentuare il proprio prestigio, determinò lo sviluppo precoce dell’oratoria epidittica, in particolare nella forma encomiastica della laudatio funebre, discorso di elogio reso ai defunti delle grandi famiglie nobiliari. Nei funerali privati la laudatio veniva pronunciata davanti all’assemblea del popolo da un parente prossimo del morto, ma nel caso della commemorazione di personaggi pubblici, spesso erano chiamati a parlare dinanzi ai rostri magistrati estranei alla famiglia. In tutti e due i casi l’orazione funebre assumeva i caratteri di una celebrazione pubblica, non solo del defunto, ma anche del casato di appartenenza. Di conseguenza questi discorsi venivano trascritti e conservati negli archivi familiari e, a partire dal II secolo a.C., furono ampiamente divulgati per perpetuare la gloria e la popolarità della gens. Accanto ai discorsi che si tenevano davanti all’esercito in armi, quella delle laudationes fu una delle forme più durature del genere epidittico latino. 352 L’oratoria antica In età imperiale si sviluppò in particolare la tipologia dell’actio gratiarum, orazione di ringraziamento agli dei e all’imperatore per la nomina a console pronunciata davanti al senato, di cui un celebre esempio è il già menzionato Panegyricus Traiano imperatori di Plinio il Giovane. In generale, tuttavia, a parte le diverse forme di discorsi encomiastici applicate di volta in volta ai detentori del potere politico, l’epidittica latina, stando alle testimonianze, ebbe scarso rilievo e fu un genere minore rispetto all’oratoria deliberativa e giudiziaria. ■■ L’oratoria repubblicana Catone e la tradizione greca Primo personaggio di spicco dell’eloquenza latina fu, DOSSIER a giudizio di Cicerone, Marco Porcio Catone (234-149 a.C.), che per tutta la vita fu impegnato nell’attività politica come in quella di oratore. Dei discorsi di Catone ci rimangono alcuni frammenti, come la Pro Rhodiensibus, pronunciata in favore dell’indipendenza di Rodi, l’orazione De sumptu suo, in difesa di se stesso e in risposta all’accusa di aver adottato negli ultimi anni della sua esistenza un tenore di vita eccessivamente lussuoso, e la De falsis pugnis, implacabile requisitoria contro Quinto Minucio Termo, per gli atroci delitti commessi, in qualità di console, nella guerra contro i Liguri (193 a.C.). Le orazioni di Catone presentano, per la prima volta nella storia dell’oratoria latina, a detta di Cicerone, l’uso di traslati ed espressioni figurate che non solo ne individuano il livello di elaborazione formale, sulla scorta dei trattati di retorica greci, ma ne presuppongono anche una stesura scritta. La concezione catoniana di retorica, stigmatizzata nel passo dei Praecepta ad filium, “domina l’argomento, le parole verranno da sé” (rem tene, verba sequentur), sembra tuttavia privilegiare, per l’oratore, la padronanza dei contenuti sulla forma e lo stile. Il modello di austerità propugnato dal Censore contro la penetrazione nella cultura romana delle lettere e dei costumi greci, è dunque applicato anche all’oratoria, ambito che, secondo Catone, andrebbe preservato dall’arte retorica di matrice ellenistica. Le modifiche del sistema giudiziario A partire dalla seconda metà del II secolo a.C., cominciarono ad emergere oratori la cui affermazione era dovuta alla loro preparazione e abilità retorica più che al prestigio e alla visibilità della famiglia di provenienza. A ciò si accompagnò una trasformazione del sistema giudiziario romano, che giunse a compimento con le riforme di Gaio Gracco. Ad affiancare l’attività giuridica dei comizi, vennero introdotte, nel corso del II secolo, delle speciali commissioni d’inchiesta (quaestiones) nominate dal senato o dai tribuni della plebe per delitti commessi da magistrati in carica e per la repressione di manifestazioni collettive che costituissero una minaccia per la sicurezza e l’autorità dello stato. Con il tempo queste commissioni si costituirono come tribunali permanenti (quaestiones perpetuae) che emettevano le sanzioni mediante scrutinio segreto, per limitare, almeno in parte, il controllo attuato dall’oligarchia senatoria. Decisiva in questo senso fu la lex Acilia repetundarum del 122 a.C., che per la prima volta puniva come reato penale di diritto pubblico il crimen de repetundis, ovvero il delitto di concussione di cui spesso si macchiavano i magistrati preposti al governo delle province. La legge, proposta dal collega di Gaio Gracco nel tribunato, affidava il controllo delle giurie prevalentemente al ceto equestre, sottraendolo così al senato, e dava inoltre la possibilità alle parti lese di presentare l’accusa senza ricorrere all’intermediazione dei patroni che, come si è detto, appartenevano ancora, nella maggior parte dei casi, all’oligarchia senatoria. Le riforme introdotte dai Gracchi erano dirette a mutare il sistema giudiziario romano e la pro- 353 L’oratoria cedura processuale in favore dei ceti popolari, con il preciso obiettivo di limitare il potere della classe senatoria, e per questo finirono anche con l’incidere sull’esercizio e sull’organizzazione dell’oratoria romana. L’età dei Gracchi Nel periodo, contrassegnato da agitazioni e aspri conflitti, che DOSSIER va dalle riforme di Tiberio (133 a.C.) e Gaio Gracco (123-121 a.C.) sino alla guerra sociale (90-88 a.C.) l’oratoria civile conobbe a Roma una straordinaria fioritura. Scipione Emiliano, uomo politico e influente patrocinatore della “cerchia degli Scipioni”, fu oratore di una certa levatura; di lui Cicerone sottolinea la gravitas, carattere da ricondurre alla sua posizione sociale più che alla qualità letteraria dei suoi discorsi. I pochi passi delle sue orazioni che ci sono pervenuti denotano un’ampia conoscenza dell’oratoria greca nonché delle tecniche retoriche dei manuali ellenistici. A testimonianza della polemica contro i Gracchi condotta dall’Emiliano, ci resta un frammento di un’orazione in cui si accusa la legge giudiziaria di Tiberio di demagogia e si paventa il pericolo che deriva per la società romana dall’allontanamento dal mos maiorum. Alla solenne eloquenza di Scipione Emiliano, Cicerone contrappone lo stile lieve e pacato dell’amico Gaio Lelio, di cui ci è pervenuto un frammento tratto dalla laudatio funebre per la morte improvvisa dell’Emiliano (129 a.C.). Se delle orazioni di Tiberio Gracco non si è conservato nulla, ampiamente attestata è invece l’oratoria di Gaio Gracco “di cui nessuno – secondo Cicerone – fu più pienamente e riccamente dotato di eloquenza”: il ritmo e la varietà di toni della sua prosa era capace di produrre uno straordinario effetto di persuasione sull’uditorio. La sua opera è citata più volte da Gellio, studioso arcaista del II secolo d.C., che riporta frammenti di discorsi tenuti dinanzi al popolo e nel foro, come l’orazione De legibus promulgatis in cui Gaio difende la legge sull’estensione dei diritti civili a tutti gli italici, vittime di violenze e sopraffazioni da parte dei magistrati romani. Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso I decenni successivi alle riforme dei Gracchi, l’ultimo ventennio del II secolo e il primo quarto del I sec. a.C., videro l’ascesa politica di due insigni oratori: Marco Antonio e Lucio Licinio Crasso, che Cicerone scelse come protagonisti del De oratore. Dell’eloquenza di Marco Antonio, celebre per la gestualità ricca di pathos (actio) con cui sottolineava i passaggi più importanti dei suoi discorsi, non rimane alcuna testimonianza diretta, mentre brevi estratti dei discorsi di Lucio Licinio Crasso sono conservati da Cicerone che ne fu diretto testimone. L’orazione più celebre di Licinio Crasso è quella pronunciata in difesa di Manius Curius in riferimento a una controversia di diritto ereditario. In essa, all’interpretazione puntuale della legge, difesa dal noto patronus avversario Quinto Muzio Scevola, giurista e pontefice, l’oratore Crasso contrappone una visione del diritto meno rigida, più aperta e versatile, che anticipa gli sviluppi successivi dell’eloquenza romana. A Lucio Licinio Crasso e al collega nella censura Gneo Domizio Enobarbo, va attribuito anche l’editto che, nel 92 a.C., ordinò la chiusura della scuola di retorica di Plozio Gallo, di orientamento filograccano e più accessibile ai nuovi ceti emergenti. L’ingiunzione emessa dai due censori va vista come atto di difesa dei privilegi della nobilitas, che guardava con preoccupazione un centro nel quale si sarebbero formati capi di parte popolare ben versati nell’arte retorica. In questa scuola si formò probabilmente l’autore ignoto della Rhetorica ad Herennium, un manuale ricco di precetti e raccomandazioni pratiche per la stesura di discorsi di ambito forense, che, come il ciceroniano De inventione, ebbe il merito principale di coniare un lessico della retorica latina sulla scorta delle teorie e dei manuali tecnici greci di età ellenistica. 354 L’oratoria antica Il dibattito sullo stile: asianesimo e atticismo Nel corso del I secolo a.C. attecchì a Roma il dibattito sullo stile, mutuato dalla tradizione greca, che oppose seguaci dell’asianesimo, amanti delle forme sublimi e magniloquenti, della prosa poetica e artificiosa, ed esponenti della corrente atticista che, individuando in Cicerone il loro antagonista, prediligevano allo stile di questi la semplicità linguistica e la chiarezza espositiva improntata sul modello di Lisia. Le figure più significative dell’asianesimo romano furono Publio Sulpicio Rufo, di cui non ci resta alcuna testimonianza scritta, e Quinto Ortensio Ortalo, che esordì nel foro nel 95 ed esercitò l’attività oratoria sino al 50 a.C, anno della sua morte: l’influsso di Ortalo è particolarmente evidente sullo stile giovanile di Cicerone, che fu suo avversario, nel 70, nella causa contro Verre. Fra gli atticisti si segnalarono in particolare il cesaricida Marco Bruto e Gaio Licinio Calvo (82-47 a.C.), amico di Catullo e, per un certo periodo, rivale dell’Arpinate nel foro. L’eloquenza di Calvo, pur contrassegnata da una sintassi concisa e da un’espressione limpida, aliena da qualunque ricorso al patetico, risulta ugualmente incisiva e vibrante, secondo il giudizio, tra gli altri, di Quintiliano, tanto che gli antichi ne accostarono lo stile a quello di Demostene. legate alle vicende politiche che agitarono gli ultimi decenni della repubblica, dall’età sillana sino all’ascesa del giovane Ottaviano. Nato nel 106 a.C. ad Arpino, nel Lazio, da famiglia agiata, ma non aristocratica, studiò retorica e filosofia a Roma, ove nell’80 a.C. difese Sesto Roscio accusato di parricidio da alcuni protetti di Silla: l’orazione Pro Roscio Amerino, che risente ancora dello stile asiano in voga all’epoca, rivela tutto il talento ciceroniano nel dipingere vividi quadri dei personaggi. Dopo il successo della difesa di Roscio, nel 75 a.C., ricoprì la carica di questore in Sicilia, distinguendosi per oculatezza e onestà, tanto che su incarico dei Siciliani sostenne l’accusa contro l’exgovernatore Verre, che era stato un rapace sfruttatore e un pessimo amministratore. Il processo si celebrò nel 70 a.C. e, a seguito della prima delle Actiones in Verrem, l’unica pronunciata da Cicerone in tribunale, l’ex-governatore prese la via della fuga. Sin dalle prime prove, l’oratoria di Cicerone si distinse per l’alto impegno civile e politico, basato su un ideale di concordia tra il ceto equestre, da cui proveniva, e l’aristocrazia senatoria, la cosiddetta concordia ordinum. Completate le tappe del cursus honorum, l’homo novus Cicerone giunse nel 63 a.C. al consolato, nel corso del quale si trovò ad affrontare la congiura ordita da Catilina per impadronirsi dello stato: nelle quattro orazioni Catilinarie Cicerone sventò le trame dei congiurati che furono mandati a morte senza processo. In seguito all’impresa, per cui ricevette il titolo onorifico di pater patriae, la sorte politica di Cicerone conobbe un rapido declino dovuto alla formazione del primo triumvirato tra Cesare, Pompeo e Crasso e nel 58 a.C. fu costretto all’esilio. Richiamato a Roma nel 56 a.C., si batté, nella Pro Sestio, per un nuovo progetto di restaurazione dei valori repubblicani, nel nome di una concordia omnium bonorum, ideale di armonia e cooperazione tra i ceti abbienti della popolazione, che non approvavano l’ascesa di singole personalità dominanti e il progressivo indebolimento delle prerogative del senato. Tra gli acerrimi nemici di Cicerone vi era il tribuno della plebe Clodio, contro cui sono dirette la Pro Caelio, che offre anche uno spaccato della società romana e della gioventù del tempo in toni satirici e pungenti, e la Pro Milone, Schema delle parti della retorica tratto da una pagina della “Rhetorica ad Herennium”. Manoscritto del XIII secolo (Chantilly, Musée Condé). 355 DOSSIER Cicerone oratore La vita e l’attività oratoria di Cicerone sono indissolubilmente L’oratoria discorso in difesa di Milone, accusato dell’omicidio di Clodio in un violento scontro tra bande. Dopo la morte di Cesare, l’oratore individuò in Antonio un nuovo avversario politico e, deciso a indurre il senato a dichiarargli guerra in quanto nemico della patria e attentatore delle istituzioni repubblicane, compose le orazioni che lui stesso scherzosamente definì Filippiche, ad imitazione del vigoroso attacco sferrato da Demostene, nelle orazioni omonime, contro Filippo di Macedonia in difesa della libertà dell’Ellade. Il progetto politico di Cicerone naufragò quando Ottaviano, sottraendosi alla protezione del senato, strinse con Antonio e Lepido un patto di alleanza, il triumvirato rei publicae constituendae; questo determinò la fine dell’oratore: colto dai sicari di Antonio presso Formia, nel 43 a.C., Cicerone, in fuga da Roma, fu ucciso. Cicerone maestro di retorica Cicerone raccolse dunque felicemente l’eredità della DOSSIER grande oratoria civile e giudiziaria ateniese, ma si dedicò anche, dopo gli anni dell’esilio, agli studi di retorica, che non costituì mai per lui una dottrina meramente tecnica ed erudita, ma una forma di sapienza al servizio dell’attività politica. Al De inventione, trattato giovanile non concluso, fece seguito il De oratore, composto nel 55, nella forma del dialogo di stampo platonico. Cicerone illustra qui la sua tesi sulla sapientia dell’orator, che deve combinarsi all’impegno politico e civile a favore dei boni, ovvero dei ceti abbienti e della classe senatoria. La tematica del ritratto dell’oratore ideale è ripresa nell’Orator (46 a.C.), ove è esposta la teoria dei fini dell’oratoria, ovvero il probare (dimostrare la tesi con argomenti stringenti), il delectare (produrre un piacevole effetto estetico con le parole) e il flectere (fare ricorso a elementi emotivi o patetici per ottenere il favore del pubblico), cui devono conformarsi rispettivamente, lo stile umile, il medio e l’elevato. Al dibattito sullo stile è dedicato il Brutus, in cui Cicerone traccia una storia dell’oratoria romana, con finezza e acume critico, rievocando anche i principali passaggi della sua carriera: il superamento della polemica tra asiani e atticisti è individuato nella scelta di un’eloquenza che adotti di volta in volta registri diversi, nella cui versatilità risiede il successo dell’oratore. Questo tipo di oratoria trova il suo modello ideale in Demostene, che Cicerone assume a figura esemplare di un modo di esprimersi eclettico e fuori dagli schemi. L’oratore ateniese è preso a modello di eccellenza retorica anche nel breve trattato dedicato allo scontro tra Eschine e Demostene nella vicenda per la corona: il De optimo genere oratorum. Cicerone pronuncia in senato la prima “Catilinaria”. Affresco di Cesare Maccari, 1880 (Roma, Palazzo Madama). 356 L’oratoria antica ■■ L’età imperiale La Roma augustea Nel corso della seconda metà del I secolo a.C., con la dittatura DOSSIER di Cesare e in seguito con l’assunzione al potere da parte di Ottaviano, mutarono le condizioni politiche e sociali che avevano determinato il primo sviluppo della grande oratoria repubblicana. Ottaviano concentrava nelle sue mani l’autorità e il potere un tempo detenuti dal senato, ormai succube della sua volontà, e le assemblee popolari si riunivano ora soltanto su sua convocazione: l’oratoria deliberativa, di interesse politico e civile, veniva così a perdere il suo significato originario, diventando monopolio esclusivo del princeps. Meno intaccata dall’avvento del principato fu l’oratoria giudiziaria: soltanto negli ultimi anni della sua vita, infatti, Augusto apportò lievi modifiche al sistema penale romano trasferendo al senato, più facilmente controllabile delle quaestiones, gran parte della giurisdizione criminale. Questo tipo di oratoria, che nella prima metà del I secolo a.C. era stata un mezzo di affermazione per patroni non appartenenti al ceto senatorio, si svuotò tuttavia della sua valenza politica: nel clima di concordia civile instauratosi con Augusto, i processi politici persero di significato e il princeps divenne unico garante della buona amministrazione dell’impero, a Roma e nelle province. Un quadro dei caratteri e dei protagonisti dell’oratoria dell’epoca ci è offerto dall’opera Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores di Seneca il Vecchio che, nato in età repubblicana, nel 50 a.C., accompagnò gli sviluppi del principato sino a Tiberio. Tra gli oratori del periodo spiccano, oltre ad Augusto, l’unico ad avere il potere di arringare vaste folle, Asinio Pollione, il cui stile rigoroso e asciutto ricordava i modi della corrente atticista, Valerio Messalla Corvino, già menzionato da Cicerone nel Brutus come oratore dotato di uno straordinario talento, integrità morale e sapienza, e Tito Labieno, le cui opere furono date alle fiamme per la forte avversione che egli nutriva per il regime augusteo. Delle loro orazioni non ci è pervenuto altro che qualche frammento di tradizione indiretta e le valutazioni degli storici di età successiva. Un fenomeno che ci è invece ampiamente testimoniato è il diffondersi della moda delle declamationes, esercizi scolastici di preparazione all’oratoria in voga già all’epoca di Cicerone. In età augustea, le declamationes assunsero la forma della pubblica esibizione coinvolgendo non solo giovani aspiranti oratori, ma anche adulti e maestri di retorica che nell’esercizio fittizio della loro eloquenza potevano far mostra di bravura. Come già detto, i tipi di esercizi ci sono illustrati da Seneca il Vecchio: le controversiae, appartenenti al genere giudiziario, mettevano in scena cause costruite ad hoc sulla base del diritto romano o di quello greco, dibattute da posizioni contrapposte, mentre le suasoriae, di genere deliberativo, erano discorsi indirizzati a persuadere o a distogliere personaggi storici o del mito dal compiere una determinata azione. Lo stile impiegato nelle declamationes, artefatto e volto a stupire e a dilettare l’uditorio mediante un uso smodato di figure retoriche e altri espedienti tipici del linguaggio poetico, finì con il ripercuotersi sull’oratoria forense, come sottolinea Seneca il Vecchio in una delle sue Controversiae: “Chi prepara una declamazione non pensa a vincere, ma a piacere. […] Cerca con ogni mezzo il successo per sé e non per la causa. E una volta preso questo vizio, i declamatori se lo portano dietro anche nel foro, dove trascurano l’essenziale per battute brillanti”. Il declino dell’eloquenza Il I secolo d.C. sancì contemporaneamente una straor- dinaria espansione della retorica, nel campo delle lettere come in quello dell’educazione, e il declino delle forme e degli spazi dedicati alla pratica oratoria. Il genere epidittico si specializzò nei modi dell’encomio al princeps e del panegirico; l’oratoria 357 L’oratoria deliberativa, ormai svuotata di senso in senato, ebbe uno spazio maggiore all’interno del dibattito che si svolgeva nel consilium principis, la cerchia di amici e consiglieri imperiali; anche il genere giudiziario, che si era mantenuto vitale durante il principato, subì una rapida decadenza dovuta alla diffusione della delazione, fenomeno particolarmente diffuso tra gli strati modesti della popolazione. I delatores, a cui la legislazione imperiale garantiva un quarto dei beni sequestrati alle loro vittime, divennero strumento istituzionale per eliminare gli oppositori al regime. La corruzione dell’eloquenza fu tema di dibattito tra gli intellettuali dell’epoca, che ne sottolinearono in particolare l’aspetto della degenerazione morale. Una soluzione in termini tecnici al problema pare invece profilarsi nella Institutio oratoria di Quintiliano, che delinea un programma complessivo e rigoroso di formazione culturale e morale, in grado di risvegliare una reazione classicista allo stile corrotto e degenerato dell’epoca. Gli ultimi oratori latini Al dibattito sulla corrupta eloquentia partecipò anche Tacito DOSSIER (55-117 d.C.), autore di un Dialogus de oratoribus, e lui stesso celebrato oratore. Purtroppo dei suoi discorsi non ci resta una sola parola, ma Plinio il Giovane lo definì “il più eloquente dei panegiristi” mettendo in luce l’alta levatura della sua oratoria, aliena da sterili artifici formali volti a divertire l’uditorio. Autore di orazioni fu anche lo stesso Plinio il Giovane, la cui eloquenza giudiziaria è andata completamente perduta; si è salvato invece per intero il suo Panegyricus Traiano imperatori, rielaborazione letteraria del discorso rivolto a Traiano in senato per la nomina a consul suffectus. Nel corso del II secolo d.C. la tendenza a fare della pratica oratoria un fatto di letteratura si accentuò nella figura di Marco Cornelio Frontone, il massimo oratore del tempo, maestro di retorica di Marco Aurelio e Lucio Vero. Delle orazioni di Frontone ci sono rimasti alcuni frammenti relativi al genere epidittico della gratiarum actio, ovvero il ringraziamento al senato, e del panegirico, caratterizzati da uno stile grandioso e sublime, e un lungo passaggio tratto da un discorso deliberativo, il De testamentis marinis. L’evoluzione in senso letterario dell’oratoria è ormai compiuta attorno alla metà del II secolo, quando si fa particolarmente sentire a Roma l’influsso della seconda sofistica, che concepisce l’eloquenza come pura esibizione di virtuosismo, intessuta di artifici retorici e di immagini brillanti, allo scopo di suscitare il plauso dell’uditorio. Il massimo rappresentante latino di questo tipo di eloquenza fu Apuleio, oratore epidittico e conferenziere alla moda che trasse fama e lauti guadagni dalle recitationes declamate nei salotti dell’alta società e in occasioni ufficiali. Oggi, tuttavia, la fama di Apuleio oratore è legata all’unico suo discorso giudiziario pervenutoci: la Pro se de magia o Apologia, pronunciata tra il 158 e il 159 a.C. per difendersi dalle accuse di pratica dell’arte magiaca. Lo stile di Apuleio si avvicina qui a quello delle orazioni giudiziarie di Cicerone, la Pro Caelio in particolar modo, di cui l’oratore mutua l’ironia e i toni satirici del linguaggio. Con l’opera di Apuleio tramontò la grande oratoria latina che si eclissò nella crisi del III secolo, per poi rinascere, nel IV, ormai priva del grandioso vigore delle origini, avvilita nelle forme consunte della routine giudiziaria o come mera adulazione. 358