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Articolo La fermentazione alcolica

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Iolanda Rosi e Giovanna Giovani
Dipartimento di Biotecnologie Agrarie, Sezione di Tecnologie Alimentari,
Via Donizetti, 6, 50144 Firenze
La scoperta degli agenti della fermentazione alcolica
Fare il vino è un processo semplice: cellule appartenenti al genere Saccharomyces
consumano lo zucchero del mosto d’uva o di altri frutti e lo trasformano in parti,
approssimativamente uguali, di alcol e di anidride carbonica. Sono le cellule che noi
chiamiamo comunemente lieviti i reali winemakers!
Non abbiamo la minima idea di dove fu prodotto per la prima volta il vino, né chi lo
scoprì, ma il risultato doveva essere stato positivo, visto che gli uomini lavorarono
alacremente per replicare ciò che, con tutta probabilità, avvenne in modo casuale.
Sicuramente i primi uomini sapevano che l’uva poteva essere utilizzata in tre modi:
come tale, sottoforma di succo o essiccata. L’uva come tale non si conservava per
troppo tempo e il succo d’uva durava solo un po’ più a lungo. Possiamo supporre che i
primi vini furono ottenuti lasciando fermentare inavvertitamente del succo d’uva
contenuto in una giara d’argilla, in un otre o in qualche altro recipiente, così come
possiamo supporre che l’odore di tale succo, inizialmente poco gradevole, sia diventato
più piacevole nel corso della fermentazione. Comunque il fatto che destò interesse fu
che il liquido risultante dalla trasformazione fermentativa si conservava più a lungo
rispetto al succo d’uva e da allora la fermentazione fu ricercata come metodo di
conservazione. L’effetto dell’alcol fu probabilmente scoperto quando un povero assetato
bevve così tanto succo fermentato, che si ubriacò. Ma questa è tutta un’ altra storia! Per
lungo tempo l’importanza della fermentazione fu legata unicamente al suo effetto
conservante.
Che i lieviti fossero coinvolti in tale processo rimase sconosciuto fino a diverse migliaia
di anni più tardi.
Nel 1680, Antonie van Leeuwenhoek, naturalista olandese inventore del microscopio,
descrisse per la prima volta, osservando una goccia di mosto e di birra in fermentazione,
dei corpi globulari, talvolta ovali o sferici, a cui dette il nome di “animalcula”. Il
significato di questa scoperta non venne pienamente compreso per almeno altri 150
anni, sino al momento in cui si cominciò a mettere in relazione la presenza di questi
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corpi sferici o globulari con la fermentazione. Non fu prima del 1835 che il francese
Charles Cagniard De La Tour e il tedesco Theodor Schwann, indipendentemente,
osservando, questa volta con microscopi molto più potenti, i depositi rimasti nei
fermentatori della birra, notarono organismi unicellulari che si stavano moltiplicando
per gemmazione proprio sotto i loro occhi. Ad essi dobbiamo la prima descrizione
precisa ed esauriente del lievito, formato da cellule rotonde o ovolari, di aspetto interno
granuloso, circondato da membrana, capace di riprodursi per gemmazione e per spore,
caratterizzato dalla proprietà di decomporre lo zucchero con la formazione di alcol
etilico. Ma la vera rivoluzione enologica inizia nel 1860 con Louis Pasteur e la scoperta
degli agenti della fermentazione alcolica: egli fu il primo a sostenere con fermezza ed
autorità la necessità di un “germe” vivente, definito e specifico, per lo svolgimento della
fermentazione. Pasteur non scoprì i lieviti, ma la relazione che esiste tra la presenza di
questi fermenti viventi e la trasformazione degli zuccheri. La fermentazione è un
processo vitale, ed è condotta dai lieviti, funghi microscopici unicellulari che
decompongono gli zuccheri in alcol e anidride carbonica. Pasteur scoprì qualcosa di
realmente sorprendente sui lieviti: essi potevano vivere senza ossigeno. Da questo
concluse: “la fermentazione è la vita senza ossigeno”. Questo non è vero, ovviamente,
poiché sappiamo che i lieviti fermentano meglio in presenza di ossigeno, ma Pasteur
riconobbe questa possibilità quando nessuno l’aveva fatto prima. Da questo momento in
poi si assistette ad un continuo fiorire di studi sulla microflora presente sulle uve e nei
mosti di diverse parti del mondo.
Le ricerche microbiologiche sui mosti italiani hanno avuto inizio negli anni ‘30 con il
lavoro di De Rossi (1935), cui hanno fatto seguito, negli anni compresi tra il 1935 e il
1960, numerose ricerche sistematiche incentrate sulla ecologia dei lieviti vinari, intesa
come identificazione della flora blastomicetica delle uve, dei mosti in fermentazione e
dei vini appena ottenuti, in regioni, aree, zone e microclimi differenti. Le indagini
dell’ecologia dei mosti in fermentazione hanno prodotto una quantità enorme di dati,
relativi alla quasi totalità delle zone vitivinicole conosciute. Tutte queste ricerche
portarono comunque alla comune evidenza che nei mosti in fermentazione erano
presenti inizialmente cellule di lievito di forma apiculata e, dopo qualche giorno, cellule
di forma globosa-ovale e ellittica, che nel procedere della fermentazione prendevano il
completo sopravvento e portavano a termine la fermentazione. Questi risultati non
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furono altro che la conferma di quanto osservato agli inizi del secolo da MüllerThurgau, a cui fu subito chiaro che le specie del genere Kloeckera, caratterizzate da
cellule a forma di limone (apiculate) e capaci di tollerare quantità limitate di etanolo nel
mezzo, sono ampiamente predominanti nei mosti ottenuti da poche ore. Dopo un giorno
o due, queste forme vengono rapidamente sostituite dalla specie Saccharomyces
cerevisiae, che possiede cellule più grandi ed ovali-ellittiche e che resiste a
concentrazioni molto maggiori di etanolo.
Cellule di lieviti apiculati
(Kloeckera apiculata, X400)
Cellule di lieviti ellittici
(S. cerevisiae, X400)
Per quanto riguarda la Toscana, riferendoci sempre al periodo suddetto, sono da
sottolineare i lavori condotti da Castelli (1939), Verona (1947), Florenzano (1949),
Capriotti (1956), sulla definizione dei lieviti presenti nei mosti del Chianti Classico, dei
Colli senesi e dei Colli fiorentini. Un settore particolare di indagine sull’ecologia dei
mosti fu affrontato da Florenzano, che, nel periodo compreso tra il 1946 e il 1952,
eseguì una serie di indagini microbiologiche sui lieviti presenti nei mosti toscani da
“governo” (Florenzano, 1952). La pratica del governo ha radici lontane, già agli inizi
del 1800 Cosimo Ridolfi, in una memoria sulla preparazione dei vini toscani
(Ciuffoletti, 2006), faceva menzione di questa pratica da usare per migliorare i vini
deboli, scipiti ed aspri. Riportando quanto scritto su: “La nuova enologia di P.G.
Garoglio, (1963):
“La pratica del governo non è che un caso speciale di rifermentazione che
consiste nel fornire al vino nuovo, subito dopo la fermentazione
tumultuosa, una certa percentuale di uva scelta, per qualità e colore, e
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conservata con vari mezzi, indi schiccolata, ammostata e fatta entrare
precedentemente in fermentazione in piccoli recipienti a mo’ di lievito, per
poi essere aggiunta in proporzione dal 3 al 10%, al vino nuovo. Questa
aggiunta aveva lo scopo di farlo entrare in una nuova, lenta
fermentazione, in seguito alla quale si formano piccole quantità di alcole,
glicerina, acido succinico, acido lattico. Si affina il gusto del prodotto
che acquista il cosiddetto frizzante caratteristico dei vini da pasto toscani
e la cui beva e rotondità è tanto apprezzata dal commercio”.
I risultati degli studi microbiologici di Florenzano mostrarono che nei mosti da governo,
esaminati al momento in cui erano pronti per l’innesto nei vini, era presente una flora
blastomicetica caratterizzata dall’assenza degli apiculati e dalla presenza prevalente dei
lieviti appartenenti alla specie Candida pulcherrima, (oggi Metschnikowia
pulcherrima), e in misura minore dai lieviti ellittici (Saccharomyces) e da lieviti
appartenenti al genere Brettanomyces, un quadro microbiologico ben diverso quindi, da
quello riscontrato nei mosti, sia appena ottenuti, sia al termine della fermentazione
tumultuosa.
Ecologia dei lieviti vinari
È ormai ampiamente accertato che le uve sono la fonte principale di entrata dei lieviti
nella cantina. Nelle uve immature la densità di popolazione dei lieviti è molto bassa,
potendo oscillare da 10 – 103 ufc/g. Quando l’uva è matura, quindi al momento della
raccolta, la popolazione è sempre più elevata e può raggiungere valori di 104 – 106
ufc/g. I lieviti presenti sulle uve non mature appartengono al genere Rhodotorula,
Criptococcus, Candida (e anche alla specie Aureobasidium pullulans, che è una forma
lievito-simile). Tutti questi lieviti hanno un metabolismo essenzialmente ossidativo,
tendono quindi a scomparire, non appena inizia la fermentazione. Nelle uve mature,
accanto a queste specie, sono dominanti i lieviti apiculati, Kloeckera apiculata e la sua
forma perfetta (sporigena) Hanseniaspora uvarum, con la presenza non occasionale
della specie Metschnikowia pulcherrima. Nel caso in cui le uve siano danneggiate, e
quindi parte del succo della bacca fuoriesca sulla superficie, la popolazione microbica
aumenta di numero e di diversità. Infatti è possibile riscontrare una popolazione di
lieviti maggiore di 106 ufc/g, costituita essenzialmente da apiculati, Candida,
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Metschnikowia, ma anche da Saccharomyces e Zigosaccharomyces. Il lievito vinario per
eccellenza, Saccharomyces cerevisiae è stato trovato raramente (o in numero molto
basso) sulle bacche sane. La difficoltà di isolare Saccharomyces dalle bacche d’uva
probabilmente riflette la sua preferenza per ambienti ad elevato contenuto zuccherino,
come il mosto d’uva.
La fermentazione alcolica è il processo principale attraverso il quale i lieviti
contribuiscono positivamente alle caratteristiche sensoriali del vino (Fleet, 2003).
Questo contributo può avvenire tramite diversi meccanismi: utilizzando i costituenti del
mosto, producendo etanolo ed altri solventi che facilitano l’estrazione di alcune classi di
composti presenti nelle parti insolubili dell’uva; producendo enzimi che trasformano i
componenti neutri dell’uva in componenti attivi dell’aroma; producendo molte centinaia
di metaboliti secondari, attivi per l’aroma, (come acidi, alcoli, esteri, aldeidi, chetoni,
composti volatili dello zolfo); attraverso la degradazione autolitica delle cellule morte.
Queste reazioni, in particolare la produzione dei metaboliti secondari, variano con la
specie e con il ceppo di lievito. Così l’unicità e l’individualità, che il contributo dei
lieviti determina sulle caratteristiche sensoriali del vino, dipende dall’ecologia
microbica durante il processo fermentativo e dai molti fattori che la influenzano.
Studi finalizzati a definire l’ecologia dei mosti in fermentazione hanno ormai mostrato,
in maniera inequivocabile, che essa rappresenta un ecosistema complesso che coinvolge
la crescita interattiva e le attività biochimiche di una miscela di specie e di ceppi di
lieviti diversi. Questi lieviti hanno origine dalla microflora presente sulle uve, da quella
presente nell’ambiente cantina (aria, insetti, attrezzature) e da colture starter, se usate. In
generale, la fermentazione in qualunque latitudine ed in qualunque mosto, è sempre
iniziata da lieviti apiculati (Kloeckera e Hanseniaspora) e, in misura minore, da altri
lieviti collettivamente chiamati non-Saccharomyces quali Metschnikowia, Candida e
Pichia, che derivano essenzialmente dalle uve. I lieviti apiculati possono raggiungere
livelli di 106 – 107 ufc/ml, ma il loro declino inizia quando Saccharomyces cerevisiae
diviene dominante (107 – 108 ufc/ml). Infatti, a causa della loro ridotta alcol tolleranza,
vengono sostituiti, nel corso della fermentazione del mosto, più o meno completamente
da lieviti ellittici appartenenti alla specie S. cerevisiae, che, meno numerosa sulle
bacche d’uva, è invece diffusa nell’ambiente cantina. Questa specie è quella che meglio
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si adatta a crescere nel mosto, grazie al suo metabolismo fermentativo, che gli permette
di moltiplicarsi anche in condizioni di anaerobiosi.
Altri lieviti non-Saccharomyces: Schizosaccharomyces, Zygosaccharomyces,
Brettanomyces/Dekkera, Saccharomycodes, caratterizzati da elevata alcol tolleranza,
possono essere ritrovati durante la fermentazione e conservazione del vino,
rappresentando spesso un serio problema per la sua qualità.
Un esempio della biodiversità della popolazione di lieviti presente nel corso della
fermentazione spontanea di mosti di uve Sangiovese può essere desunto da uno studio
condotto presso 17 cantine dell’areale del Chianti ( Figura 1) (Rosi et al., 2000). I lieviti
apiculati sono stati ritrovati a livelli variabili fino al 7° giorno di fermentazione, mentre
gli altri lieviti non-Saccharomyces sono stati trovati durante tutto il corso della
fermentazione. Nell’ambito dei lieviti non-Saccharomyces quelli appartenenti al genere
Candida e Pichia sono stati rilevati in 16 cantine su 17, seguiti da lieviti appartenenti ai
generi Metschnikowia (8 cantine su 17) e Brettanomyces (5 cantine su 17). Solo in una
cantina sono stati trovati lieviti appartenenti ai generi Schizosaccharomyces e
Saccharomycodes.
Accanto alla successione di diverse specie di lievito, è ormai ampiamente documentato,
grazie all’introduzione di metodi di biologia molecolare, che la fermentazione
spontanea di un mosto d'uva può essere condotta da più ceppi di S. cerevisiae. Questa
situazione di coesistenza è generalmente presente durante l'intero processo
fermentativo, di conseguenza diversi ceppi sono attivi simultaneamente, ma alla fine del
processo uno o due ceppi predominano (Querol et al., 1992). Oggi è accertato che, a
parità di condizioni ambientali, il ceppo di lievito che domina la fermentazione del
mosto è il fattore più importante nel definire il profilo chimico e sensoriale del vino.
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Figura 1. Distribuzione della popolazione di lieviti Saccharomyces, apiculati e nonSaccharomyces durante il processo fermentativo di 17 cantine dell’areale del Chianti
(vendemmia 1997).
10
2 giorni di fermentazione
10
8
log ufc/ml
log ufc/ml
8
6
4
4
2
0
0
Sacch.
Apiculati
non-Sacch.
Sacch.
15 giorni di fermentazione
10
Apiculati
non-Sacch.
30 giorni di fermentazione
8
log ufc/ml
8
log ufc/ml
6
2
10
7 giorni di fermentazione
6
4
6
4
2
2
0
0
Sacch.
Apiculati
non-Sacch.
Sacch.
Apiculati
non-Sacch.
Crescita ed attività del lievito nel mosto
Il mosto rappresenta un ottimo substrato per la crescita dei lieviti. Il glucosio e il
fruttosio costituiscono una fonte di carbonio e di energia largamente sufficiente per
permettere la loro crescita, solo nel caso di uve surmature la concentrazione zuccherina
può esercitare un effetto inibente per il lievito. Durante lo svolgimento della
fermentazione alcolica il metabolismo e la crescita del lievito è regolato da due fattori:
la concentrazione di glucosio e di ossigeno. Già in presenza di una concentrazione di
glucosio compresa tra 0,2 e 1 g/l (secondo il ceppo), la maggior parte delle reazioni
della respirazione sono inibite (effetto Crabtree o effetto glucosio), per cui il lievito può
solo fermentare gli zuccheri. Tuttavia, per assicurare la crescita del lievito, tracce di
ossigeno sono necessarie, non tanto per cambiare il metabolismo da fermentativo ad
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ossidativo, ma per permettere la sintesi di steroli e di acidi grassi insaturi a lunga catena.
Questi lipidi sono costituenti fondamentali della membrana plasmatica, poiché
assicurano la vitalità delle cellule e permettono al lievito di conservare più a lungo la
propria attività fermentativa. Per questi composti è stato coniato il termine “fattori di
sopravvivenza” (Lafon-Lafourcade et al., 1997). Ossigenare il mosto nelle prime fasi
della fermentazione, o meglio alla fine della crescita esponenziale dei lieviti, è un modo
per garantire la conclusione della fermentazione.
La componente azotata dei mosti è rappresentata da ioni ammonio, aminoacidi, piccoli
peptidi, proteine. I lieviti utilizzano preferenzialmente ioni ammonio e aminoacidi
(azoto prontamente assimilabile) per formare nuove cellule, per incrementare la velocità
fermentativa, per formare composti volatili quali alcol superiori, aldeidi, chetoacidi ed
esteri, che hanno una notevole influenza sull’aroma del vino.
Altri costituenti del mosto, come vitamine, lipidi, colloidi hanno un ruolo non
trascurabile sulla velocità di fermentazione e sulla crescita del lievito.
Alcune pratiche tecnologiche: l’addizione di anidride solforosa e i pretrattamenti di
chiarificazione dei mosti derivanti da uve bianche tendono a ridurre la popolazione
iniziale di lieviti, con conseguenze sull’attività fermentativa della popolazione
blastomicetica.
La temperatura è uno dei fattori che più influenza la crescita del lievito, la sua
sopravvivenza in mezzo alcolico e, quindi, la sua attività fermentativa. Al di sopra di
35 °C, i rischi di un arresto di fermentazione sono elevati. Un compromesso tra le
necessità biologiche del lievito e quelle enologiche, legate alla qualità del vino, situa la
temperatura di fermentazione tra 15 e 32 °C.
Il lievito oltre ad alcol etilico ed anidride carbonica forma durante la fermentazione
alcolica tutta una serie di composti, definiti prodotti secondari della fermentazione, che
contribuiscono a definire il quadro aromatico ed il profilo sensoriale del vino. Questi
prodotti secondari sono rappresentati da numerose molecole quali il glicerolo, l’acido
acetico, l’acido succinico, alcol superiori, esteri, composti solforati etc. che sono
prodotti in quantità diversa in funzione del tipo e del ceppo di lievito e delle condizioni
di fermentazione.
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I lieviti selezionati
Non sempre i lieviti naturalmente associati alle bacche d’uva e alle attrezzature di
cantina (lieviti autoctoni) sono in grado di garantire un decorso regolare della
fermentazione. Infatti la quantità di cellule e la composizione (biodiversità) della
microflora autoctona possono variare di anno in anno. Ciò può comportare
l’ottenimento di vini con caratteri qualitativi che non sempre corrispondono alle
aspettative del produttore. Per questa ragione l’utilizzo di colture selezionate di S.
cerevisiae è divenuta, nel corso degli ultimi trenta anni, una pratica enologica sempre
più consolidata.
Con il termine “selezione” si intende il reperimento o la costruzione di soggetti idonei
allo svolgimento di una determinata funzione. Nel caso dei lieviti per enologia, la scelta
della specie più idonea per la selezione è molto semplice. Si tratta di S. cerevisiae cioè il
lievito più vigoroso, più adattabile alle varie condizioni, con il più alto grado di
variabilità per numerosi caratteri, più alcoligeno e infine, dotato di una migliore purezza
fermentativa. Sulla base di quanto indicato da Giudici e Zambonelli (1992) i caratteri
che deve possedere una coltura selezionata possono essere suddivisi in due gruppi:
caratteri tecnologici e di qualità. I caratteri tecnologici (potere fermentativo, vigore
fermentativo, resistenza all’anidride solforosa, modalità di sviluppo, carattere killer)
sono quelli che permettono di tenere sotto controllo l’andamento della fermentazione e
di renderla prevedibile e programmabile. I caratteri di qualità sono quelli legati alla
produzione di composti secondari o minoritari della fermentazione (alcol superiori,
esteri, composti solforati, acido acetico..) e di composti che derivano da modificazioni o
conversione dei costituenti dei mosti operate da attività enzimatiche idrolitiche (βglucosidasi, esterasi, proteasi), espresse dal ceppo di lievito durante la fermentazione
alcolica. Un carattere di selezione, recentemente preso in considerazione, riguarda la
capacità di rilasciare polisaccaridi di origine parietale durante la fermentazione alcolica
(Rosi et al., 2000). Queste macromolecole infatti hanno mostrato diversi effetti positivi
sulla qualità del vino: stimolazione della fermentazione malolattica, aumento della
stabilità del colore e diminuzione dell’astringenza nei vini rossi, regolazione della
volatilità delle sostanze responsabili dell’aroma, effetto protettore nei riguardi delle
precipitazione tartariche e proteiche del vino.
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Le prime prove di utilizzo di specie e di ceppi particolari di lievito per i processi
fermentativi si possono far risalire alla fine del 1800, con i lavori di Christian Hansen
per la selezione e modalità di uso del lievito per la birra. Quasi parallelamente, seppur
sfasati di qualche anno, iniziarono i primi tentativi di utilizzazione di lieviti selezionati
per la vinificazione. Il primo ad effettuare una fermentazione in purezza fu il francese
Duclaux nel 1887, ma le esperienze a cui si fa risalire la nascita del concetto di lievito
selezionato per l’enologia sono quelle di Müller-Thurgau nel 1894. In Italia ed in
particolare in Toscana si deve a Napoleone Passerini (1900), docente presso la Scuola
agraria di Scandicci (Firenze), l’introduzione di lieviti selezionati nella pratica di
vinificazione; tali lieviti furono messi in commercio dall’Istituto Zimotecnico di
Scandicci, che tuttora produce e commercializza lieviti selezionati. Tuttavia è solo
intorno agli anni ‘70 che si assiste ad un utilizzo più generalizzato di colture selezionate,
grazie soprattutto all’introduzione di lieviti selezionati sottoforma secco-attiva (LSA).
Questi preparati sono caratterizzati da un’ampia praticità d’impiego e garantiscono un
rapido avvio ed un miglior controllo della fermentazione. Attualmente la Toscana si
pone al quinto posto per consumo di questi starter microbici dopo il Veneto, la Puglia,
la Sicilia e l’Emilia Romagna (Tabella 1).
Tabella 1. Consumo di lieviti selezionati sottoforma secco attiva in Italia (dati relativi
al 2003. Fonte esperti del settore)
Dose media di LSA
Regione
Consumo annuo (t)
utilizzata (g) per hl di
vino
Veneto
100
13
Puglia
60
8
Sicilia
60
9
Emilia Romagna
55
11
Toscana
50
20
Piemonte
40
18
Friuli
30
25
10
Tra i diversi ceppi di S. cerevisiae (circa 70) sottoforma di LSA disponibili sul mercato,
due ceppi sono stati selezionati da mosti ottenuti da uve toscane: uno, ceppo BM45, a
seguito di uno studio condotto nel 1992 dal Consorzio del vino Brunello di Montalcino
e dall’Università di Siena (Dipartimento di Biologia Molecolare) (Coratza et al., 1992);
l’altro, ceppo BLC83, a seguito di uno studio durato 5 anni (1997-2002) (Rosi et al.
2004), e conclusosi con la brevettazione del ceppo (Rosi e Polsinelli, 2003), ha visto la
collaborazione di alcune istituzioni pubbliche e aziende vitivinicole del comprensorio
del Chianti, con l’Università di Firenze (Dipartimenti di Biotecnologie Agrarie e di
Biologia Animale e Genetica).
Un altro prodotto scaturito da questo progetto di studio è una collezione di lieviti vinari
toscani. Tale collezione comprende più di 1200 ceppi autoctoni di S. cerevisiae, isolati
da mosti di uve Sangiovese in fermentazione spontanea. La biodiversità esistente
all’interno di questa collezione può essere un utile strumento di studio per individuare
quei ceppi che siano in grado di enfatizzare le peculiarità territoriali e varietali del vino.
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