Febbraio '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Febbraio '10
Numero Febbraio '10
EDITORIALE
Ventotto recensioni (più due segnalazioni in “Dal basso”), un live report e ben undici
interviste: ecco le nude cifre del secondo appuntamento del 2010 con “Fuori dal Mucchio”
online. E, in particolare, è proprio sugli “Incontri” che vorremmo attirare la vostra attenzione:
approfondimenti legati ad alcune delle uscite discografiche più interessanti degli ultimi mesi,
con protagonisti artisti dei generi più disparati, veterani (Technogod, Klaxon) così come
giovani debuttanti di belle speranze (Criminal Jokers, Micol Martinez). Ciò che ne risulta è
una caleidoscopica panoramica sullo stato non soltanto della musica, ma anche della cultura
in Italia e sul purtroppo perenne scontro tra creatività, spazi per metterla in mostra e
mercato.
Approfittiamo di questo spazio anche per ricordare ad artisti, etichette e uffici stampa che i
contatti per farci pervenire le loro produzioni per un’eventuale recensione si possono trovare
seguendo il link “Per invio materiale”, qui a destra se state leggendo queste righe in versione
telematica, oppure all’indirizzo www.ilmucchio.it/fdm_contatti.php se è la versione in PDF
quella che avete sotto gli occhi.
Detto questo, non ci rimane altro che augurarvi come sempre buona lettura e, soprattutto,
buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Criminal Jokers
Francesco Motta (voce e batteria) e Francesco Pellegrini (chitarra) rappresentano due terzi
dei Criminal Jokers, gruppo pisano di poco più che ventenni che, nel brillante esordio
prodotto da Appino degli Zen Circus, trasporta un punk-folk dall'indole stradaiola in territori
pesantemente elettrici e new wave, con ottimi risultati. Li abbiamo intervistati
"This Was Supposed To Be The Future" è un titolo che mi fa venire in mente il più
classico slogan del primo punk, "no future", anche se la vostra chiave di lettura del
futuro è un po’ diversa, consapevole di quanto è accaduto nel trentennio che c'è stato
in mezzo. Mi pare che in comune ci sia comunque una qualche forma di disillusione.
Vi sentite in qualche modo debitori di quella svolta, anche solo a livello attitudinale?
Francesco Motta: Il punk, per come lo intendiamo noi, rappresenta l'aggressività e la voglia
di presentarci nel momento in cui saliamo su di un palco. Questo è sicuramente legato a
tutto quel che abbiamo ascoltato finora, e che non è difficile riconoscere nelle canzoni del
disco, tengo a precisare però che stiamo parlando di un genere che va, per necessità,
vissuto. La credibilità è una cosa fondamentale nelle canzoni e anche i non addetti ai lavori
percepiscono che c'è qualcosa che non va se questa viene a mancare. La disillusione
sicuramente c'è e rappresenta la “nostra” realtà. Rimboccarsi le maniche, suonare, capire
che si deve fare. Ogni volta che siamo in sala prove non ci sono mai neppure cinque minuti
per stare in silenzio e parlare di sogni. Quello lo facciamo a casa nostra. Ci sentiamo debitori
di tanta gente, ma questo spero che conti fino ad un certo punto.
Nascete come progetto acustico, legato ad una certa idea di folk punk, ma il vostro
primo album documenta una svolta elettrica. Che cosa l'ha originata?
FM: Io e il bassista suoniamo insieme da almeno cinque anni. Quando abbiamo iniziato
avevamo una chitarra acustica, un basso ed un rullante. Suonavamo tanto per strada e
pensavamo di conquistare il mondo con quelle tre cose. Col tempo sono cambiate le
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canzoni, abbiamo preso un amplificatore, abbiamo preso un timpano e soprattutto abbiamo
smesso di pensare di conquistare il mondo. Avere una sala prove già vuol dire aver la
possibilità di fare delle canzoni ad un volume molto più alto di quello che puoi avere in casa.
Ecco, da lì in poi sicuramente son cambiate tante cose. E questo è dovuto al fatto di aver
avuto la possibilità di cambiarle. Sono cambiati i nostri ascolti, l'elettricità dei pezzi è una
delle caratteristiche più evidenti del nostro disco.
Ho citato l'attitudine punk, ma nel vostro disco vengono fuori spesso colori e umori
new wave. Ci sono stati particolari input nell'ispirazione dei pezzi da questo punto di
vista? Nomi e dischi ricorrenti nella vostra formazione musicale?
Francesco Pellegrini: con il mio ingresso nel gruppo si è imposta subito, in modo
inequivocabile ed immediato, una nuova chiave di lettura dei brani. In base a quanto recepito
dalle composizioni che mi venivano proposte dal gruppo, il mio arrangiamento dei pezzi è
stato sporco, tagliente, marcio ed immancabilmente new wave . Questo era ciò che avevo in
testa di fare, ho sentito che doveva essere quello il mio ruolo e il mio strumento, la chitarra,
doveva suonare in un determinato modo all'interno della band in quel momento. Ascolti
come Raveonettes, Jesus And Mary Chain, Joy Division sono arrivati durante il percorso.
Ultimamente mi sono innamorato dei Pixies, quelli sì che mi piacciono. Fra l'altro io non
conoscevo assolutamente i Violent Femmes, lo confesso. Probabilmente, adesso il suono di
base che porteremo avanti sarà il medesimo, la nostra ricerca si concentrerà invece sugli
approfondimenti armonici delle canzoni, facendo inoltre attenzione alle dinamiche.
Probabilmente aggiungerò una buona dose di noise, sempre che gli altri me lo permettano.
Che tipo di apporto è stato quello di Appino in sede di produzione? E quello di Max
Stirner?
FP: Il loro ruolo è stato quello di approfondire gli aspetti sonori dei nostri brani,
estremizzando l'attitudine del nostro sound e arricchendolo con le loro conoscenze tecniche
e musicali. Il risultato è stato “This Was Supposed To Be The Future”. 
Di batteristi
che suonano in piedi se ne sono visti più d'uno (al volo mi vengono in mente Moe Tucker e
Bobby Gillespie ai tempi dei Jasus And Mary Chain), ma nel vostro caso il batterista è anche
il cantante... Mi chiedo, come nascono le vostre canzoni, che hanno indubbiamente un
approccio in primo luogo fortemente ritmico?
FM: Si capisce dalle canzoni che non sono io a presentarmi alle prove con un riff di batteria
e a far nascere da lì la canzone che poi canterò. La nostra batteria rispecchia sicuramente
un approccio diverso nella verticalità e nell'accompagnamento delle canzoni, e così il basso
acustico. Molto tempo fa avevamo un batterista. Nel primo concerto che abbiamo fatto il
palco era talmente piccolo che ci potevamo stare solo in tre. Da lì è iniziato tutto. La maggior
parte delle canzoni nascono sul pianoforte (strumento fortemente percussivo e ancor più
melodico e armonico) e, anche se il piano nel disco è completamente assente, è
sicuramente uno degli elementi più importanti in fase di composizione. I due timpani, il
rullante ed il piatto sono diventati a tutti gli effetti la “nostra” batteria. Comprammo anche un
charleston, l'abbiamo prestato e non ho la più pallida idea di chi ce l'abbia.
Contatti: www.myspace.com/thecriminaljokers
Alessandro Besselva Averame
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Acid Brains
Giovanissimi ma con una dozzina di anni di esperienza sulle spalle. Sono gli Acid Brains, un
gruppo attivissimo sul fronte del live e con tante cose da dire, da raccontare, che
propongono una musica arricchita da sonorità forti, piene, e da testi fortemente riflessivi ed
evocativi, con spunti tratti direttamente da esperienze di vita vissuta. Di nuovo sulle scene
con “Do It Better” (Fridge/Goodfellas), disco che ha attirato a sé pareri positivi di critica e
pubblico, gli Acid Brains si raccontano attraverso le parole di Stefano Giambastiani, autore di
testi e musiche.
Acid Brains: un nome che, a mio parere personale, richiama la musica psichedelica e
la controcultura, ma che ricorda anche le tendenze distruttive e la mancanza di
prospettive future che caratterizzano il punk. Ma queste sono solo impressioni. In
realtà come è stato scelto il nome della band?
L’idea è nata tanti anni fa, nel 1997, quando abbiamo iniziato a suonare. È un nome che ho
scelto da giovanissimo, e quando ci penso mi sembra una cazzata, anche se suona bene.
Per capire questo nome dobbiamo pensare alla realtà in cui nascono gli Acid Brains: Lucca
è una città piccola, con una mentalità chiusa che tende ad estraniare il “diverso” e in quel
periodo, quando si vedevano in giro ragazzi in qualche modo “alternativi”, si pensava subito
al disagio giovanile e alla droga. L’espressione “Acid Brains” è un modo per dichiarare la
distanza tra noi e questi pregiudizi, un modo per dire che non vogliamo trovare un
compromesso con questi sterili canoni prestabiliti.
Suonate dal 1997, avete sulle spalle più di un decennio di esperienza. Come si è
evoluto il suono degli Acid Brains in tutti questi anni? Ci sono state delle svolte
epocali nella vostra musica o avete sempre tenuto fede alle “promesse” iniziali?
Non posso negare che da sempre, fin da piccolo, ho sempre amato il noise, l’alternativo e lo
stoner. Personalmente posso dire di avere questi generi nel sangue, per cui gli Acid Brains
sono stati sempre fedeli a queste influenze musicali. Abbiamo all’attivo tre demo e tre dischi
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ufficiali, ma posso dire che dal ’97 al 2000 non si è fatto un cazzo. A partire dal 2000 si è
iniziato a produrre qualcosa di concreto, ma tutto ancora improntato sul punk e il grunge. Poi
siamo cresciuti, e sono arrivate pian piano le contaminazioni con lo stoner, il noise, la
psichedelia e il punk. Devo dire che tra il penultimo e l’ultimo disco c’è stato un netto
miglioramento, soprattutto nei testi, molto più riflessivi e con temi di vita vissuta: “Do It
Better” è ricchissimo di contenuti, c’è ad esempio un brano molto attuale che parla di lavoro
e disoccupazione. Ma anche il genere ha subito nuove evoluzioni, diventando molto più vario
e dinamico: troviamo, ad esempio, il raggae, lo ska, il rockabilly, ma anche influenze punk
stile ’77. I brani cantati in italiano richiamano invece lo stile di Verdena, Teatro degli Orrori e
Marlene Kuntz.
Gli Acid Brains vengono da Lucca, una città della Toscana con un grande patrimonio
artistico. In una piccola realtà, lontana dalle dinamiche culturali di metropoli come
Roma e Milano, che aria si respira in ambito musicale? Come vi muovete a livello
locale?
Te lo dico subito: Lucca è una città chiusa, non a caso ha le mura, e questo la dice tutta... È
piena di gente con soldi e molta arroganza, dove i “diversi”, gli alternativi, i musicisti come
noi vengono spesso emarginati. Noi abbiamo avuto l’accortezza di spostarci subito, perché a
Lucca si fa poco, e abbiamo iniziato a girare tutta l’Italia, suonando soprattutto in Lombardia.
A livello di curriculum quindi non ci possiamo lamentare. Nonostante questo ambiente
chiuso, a Lucca ci sono molti gruppi che hanno fatto strada... La cosa fastidiosa è che i
gruppi di Lucca si sputtanano spesso a vicenda, non c’è collaborazione ma competizione e
invidia. Nonostante questo ci sono senza dubbio molte persone valide... E poi c’è il problema
dei locali: praticamente gli unici locali che valgono qualcosa sono il Velvet e il Brùton. Infine
posso dirti che le uniche città della Toscana vive dal punto di vista musicale sono Pisa e
Firenze, infatti la maggior parte dei gruppi di Lucca suona spesso in queste due città.
Nella vostra musica si respira senza dubbio l’aria di Seattle: siete molto vicini a band
come i Nirvana e i Soundgarden, ma oltre a questi accostamenti, abbastanza ovvi e
inflazionati, quali altre muse ispirano la musica degli Acid Brains?
A questa domanda ho risposto parzialmente prima. Posso aggiungere che ultimamente mi
sono appassionato di elettronica in stile Kraftwerk, ma anche di post punk alla Joy Division.
Mentre in passato venivamo accostati solamente a Nirvana e Soundgarden, con quest’ultimo
disco forse anche i giornalisti si sono accorti di queste nuove influenze.
Più di 170 concerti all’attivo in tutta Italia, leggo sulla vostra biografia. E tra le vostre
collaborazioni live non mancano nomi come Simple Minds e Max Gazzè. Pensate che
un gruppo possa raggiungere il meglio in una performance dal vivo o in studio?
Nei primi tempi preferivamo sicuramente la performance live, ma semplicemente perché
avevamo poca esperienza in studio. Forse con l’ultimo disco siamo riusciti ad apprezzare in
modo più completo l’esperienza della registrazione. In ogni caso... Il live è il live! Sono una
persona molto emotiva, ma sul palco “schizzo completamente di cervello”... forse anche
perché i miei testi sono molto riflessivi e parlano di problemi reali, per cui dal vivo sento di
essere realmente partecipe. Sul palco le sento le emozioni e sono convinto che dal vivo si
riesca a trasmettere di più. Insisto sul discorso dell’emotività perché credo che molti gruppi
attuali parlino solo di stronzate, come la politica... Penso che nel 2010 sia importante parlare
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di qualcosa di più, di qualcosa di più vero e vissuto.
...E poi ci sono i passaggi in radio. Molti giudicano la radio come un mezzo obsoleto,
superato oramai da mezzi nuovi come YouTube e i social network. Come vi collocate
in relazione a questo discorso? La radio ha ancora una posizione di prestigio nella
promozione della musica emergente?
Se ti devo dire la verità, fosse per me tornerei alla cassetta! Ovviamente dipende dal tipo di
radio: se ti passando alcune radio, e sappiamo quali sono le radio che contano, è
sicuramente molto importante, se sono altre a dedicarti attenzione non fa poi grande
differenza. Posso dirti comunque che io sono un amante della radio... Quindi sarò sempre a
favore di questo mezzo.
E ora passiamo al nuovo disco, “Do It Better”. Il titolo è una sfida o una
dichiarazione? Raccontatemi come è nato questo progetto e quali sono i primi
feedback da pubblico e critica.
Il disco ha origine da un lungo percorso personale, che va dall’abisso più assoluto fino alla
rinascita... Che in realtà si è rivelata un falsa rinascita. C’è stata quindi una nuova caduta e
poi un’altra rinascita. Alla fine di questo ciclo esistenziale c’è una persona che è cresciuta e
che a volte si prende in giro e a volte urla... Penso spesso che sarebbe bello se le persone
fossero ancora capaci ad amare, ed è un pensiero che arriva dopo tutta una serie di eventi
negativi della mia vita. Quello che ho fatto, per “Do It Better” è stato prendere questa
esperienza, metterla in musica e poi metterci su un disco. Come dicevo prima, nel disco c’è
anche una forte riflessione sulla situazione dell’Italia attuale, in particolare sulla questione
del lavoro: oggi ci prendono in giro, non abbiamo un futuro garantito, esiste il problema delle
pensioni... Nel disco c’è molto di questo, ma anche molta ironia.
I vostri pezzi sono cantati per la maggior parte in inglese e alcuni giornalisti hanno
scritto che l’italiano non si addice alla vostra musica. La scelta di esprimervi in una
lingua che non è la vostra è presente fin dall’inizio della vostra esperienza musicale o
arriva successivamente, dopo “tentativi ed errori”?
Nei primi tempi i nostri pezzi erano tutti in inglese, proprio per una scelta stilistica.
Successivamente abbiamo sperimentato l’italiano. Sull’ultimo disco sono uscite sette
recensioni, quattro dicono che rendiamo sia in inglese che in italiano, mentre tre dicono che
siamo più bravi con l’inglese. I pareri mi sembrano quindi molto equilibrati, vedremo cosa
succederà con i prossimi lavori...
Parliamo un po’ del futuro degli Acid Brains. Mi dicevi di un nuovo video se non
sbaglio...
In cantiere c’è parecchia roba... Il disco sta andando molto bene, e ha già attirato
l’attenzione di un po’ di riviste di settore. Ti posso dire che a breve uscirà il video di “Me, You
And The Working Class”, il pezzo più incazzata del disco, un miscuglio di punk, indie ecc. Il
video è stato girato il 7 novembre da Saverio Luzzo, regista che lavora per Rock Tv e MTV,
che ha lavorato per Rezophonic, The Fire e molti altri, e che ha vinto “The best independent
videoclip” al MEI. L’uscita è prevista per gli inizi di febbraio, ma ovviamente le date non
dipendono da noi. In ogni caso per gli Acid Brains questa è un’occasione molto importante...
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Contatti: www.myspace.com/acidbrains
Federica Cardia
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Aidoru
La parola Aidoru (rigorosamente da pronunciare accentando la prima vocale) viene da
lontano, direttamente dalla terra del Sol Levante, il Giappone, dov’è utilizzata per dire la
parola inglese “Idol”, idolo, che qui definisce quelle star, che, giunte giovanissime all’apice
del successo, sono poi dimenticate subito dopo. Ha deciso di farne il suo brand di virtù
programmatica la giovane band che proviene da un altro levante, quello della prolifica riviera
romagnola, precisamente Cesena il luogo di nascita anagrafica e artistica del gruppo degli
Aidoru. Dario Giovannini, Diego Sapignoli, Michele Bertoni e Mirko Abbondanza i
componenti che fin da giovanissimi si sono riuniti per dedicarsi alla musica. Prima come
Konfettura, per poi arrivare all’alba di un nuovo millennio all’incarnazione degli Aidoru. È
stato per loro un decennio ricco di soddisfazioni e di sorprese artistiche quello che è partito
nel 2000, vedendo nel 2001 l’uscita del loro primo album da Aidoru, “...Cinque piccoli pezzi
per gruppo con titolo...”, che ha catturato l’attenzione di critica e di pubblico. Lasciandosi
contaminare da generi e da esperienze, come quella importantissima col teatro, hanno da
poco fatto uscire il loro nuovo album, “Songs – Landscapes” (Trovarobato/Audioglobe):
improvvise aperture di sola strumentazione che vanno a definire nuovi territori dell’anima. In
attesa della loro tournée che andrà a toccare Roma con due appuntamenti (il 17 febbraio al
Beba do Samba con la loro interpretazione del “Tierkreis” di Stockhausen e il 18 all’Angelo
Mai per “Songs – Landscapes”), abbiamo incontrato Dario Giovannini, come lui si definisce,
“elemento propulsivo” del gruppo, soprattutto perché ha avuto la testa più dura per
continuare.
Avete fatto parecchia strada, anche musicale, per arrivare al vostro nuovo album.
Nascendo tanti anni fa come Konfettura...
Konfettura, rigorosamente con la kappa (ride, Ndr). Era una cosa che andava di moda. Era
il periodo punk, in cui si trasformava con k la c. Pensa alla parola “anarkia”... Non c’è stato
un motivo particolare per sceglierlo. C’era la c, e bastava... Facevamo punk rock, come
modelli i Nofx, i Green Day, tanto per capirci. C’erano molti cloni a quei tempi. Avevamo
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13-14 anni quando abbiamo iniziato.
E mantenendo la stessa formazione siete diventati Aidoru. Che è successo?
Siamo cresciuti, e dato che il nostro genere era completamente cambiato, abbiamo deciso
di cambiare nome e di ripartire da zero. Dai 14 ai 20 anni cambi totalmente. Prima sei
schiavo degli amici, dei giri, delle mode, ma piano piano assumi una tua personalità. Da una
cosa spontanea e molto più infantile è nato qualcosa di più consapevole. Rimanendo
sempre noi. Solitamente si cambia formazione restando con lo stesso nome...
Tra le vostre esperienze c’è anche quella importante con il Teatro Valdoca.
A 21 anni circa abbiamo iniziato a lavorare con la Valdoca. Prima abbiamo utilizzato i testi di
Mariangela (Gualtieri, poetessa e fondatrice della compagnia con Cesare Ronconi, Ndr) con
le nostre musiche. È venuta a un nostro concerto, e ci ha proposto di fare un lavoro
assieme. Poco dopo, nel 2005, è iniziata l’esperienza dell’Officina Valdoca (luogo formativo
creato dalla Valdoca, Ndr), il contatto con attori e artisti: fa tutto parte di un percorso di
crescita, che ora porterà a qualcosa di ulteriore. Siamo diventati grandi.
Crescita che ha prodotto ottimi frutti, visto il vostro “Songs – Landscapes”. E che
non potrà che sorprenderci per il futuro. Siete ancora giovani...
Io per esempio ho 30 anni suonati. E per i canoni italiani posso essere considerato ancora
un giovane artista...
È un album strumentale, che contiene atmosfere dal profondo fascino, che ti
avvolgono e ti conducono in un’altra dimensione. Creando proprio nuovi paesaggi...
È strano, ma proprio un festival come Itinerario Festival (organizzato da Aidoru
Associazione da cinque anni, e che quest’anno si svolgerà a settembre sempre a Cesena,
Ndr) ha influenzato molto quest’album. La volontà del festival è proprio studiare tutti gli
aspetti che legano il paesaggio urbano e quello naturale, le forme d’arte con il paesaggio e
l’architettura. Dal punto di vista musicale, pensare il paesaggio come struttura formale, è una
cosa per noi davvero rivoluzionaria. Abbiamo abbandonato le strutture canoniche della
canzone classica, cercando qualcosa che fosse più vicino a un paesaggio, luogo dove
l’uomo può trovare la massima pace contemplativa, che è una pace attiva... Il paesaggio ha
uno schema armonico, ma non logico, capace di liberarti la testa.
C’è stata una ragione particolare per realizzare un album solo strumentale?
Innanzitutto il fatto che debba esserci per forza una voce e un testo da cantare è un
retaggio culturale della nostra epoca. Ed è un problema molto italiano, essendo vittime di
due secoli di egemonia operistica. Non c’è tantissimo fermento in un meccanismo che
congela qualsiasi forma... Se ci fai caso, all’estero la musica strumentale è una cosa molto
naturale, e i musicisti da sempre hanno scritto indifferentemente sia con voce che senza.
Vedi Mozart, tanto per citarne uno... Abbiamo deciso semplicemente di fare, dopo un album
dove c’erano musica e testi (“...13 piccoli singoli radiofonici...”, uscito cinque anni fa, Ndr),
uno strumentale, che raccogliesse le nostre esperienze di questi anni. È come se fossimo
andati in pellegrinaggio, e fossimo ritornati, carichi di novità - come la nascita del Progetto
Marquez - nel fulcro della nostra vita artistica.
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Una nuova tappa del vostro personale percorso, dunque, che vedrà a ottobre la
pubblicazione della vostra interpretazione del “Tierkreis” (Zodiac) di Stockhausen
(Trovarobato/Audioglobe).
È un progetto specifico, per cui abbiamo ricevuto una commissione, arrivato in un momento
in cui c’erano le prerogative per farlo. Il bello è che lo stesso Stockhausen ha lasciato una
partitura e delle indicazioni, che danno una profonda libertà di esecuzione, a qualsiasi tipo di
formazione. E la nostra attualmente è quella tipica, per noi, di una band rock: batteria, due
chitarre, un basso, e l’utilizzo di mille altre cose che caratterizzano il nostro suono: da
giocattoli, utensili da cucina, a tastiere, vibrafono, glockenspiel. Al debutto al Teatro Bonci di
Cesena, un teatro classico, eravamo disposti come un quartetto d’archi. Aspettiamo di
poterlo proporre in luoghi sempre più diversi per sperimentare nuove possibilità sonore e di
esecuzione.
Contatti: www.aidoru.org
Giacomo d’Alelio
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Klaxon
Da una persona che ha vissuto, per davvero, il punk ti aspetteresti niente di più che
schiettezza e sincerità, e manco a dirlo il botta e risposta con Lorenzo Tovoli, chitarra e voce
dei Klaxon, è permeato di tutto questo. Del resto è anche il comune denominatore con la loro
ultima prova discografica, “Brutti, sporchi e cattivi” (Raged), che costituisce l’oggetto
privilegiato (e anche la scusa, ad essere sinceri) per quanto qui sotto riportato. Vita vera, nel
senso più rivoluzionario di questi due termini.
Finalmente! Sei anni per un disco... Come mai? Le vostre vite vi avevano rubato al
punk rock?
Assolutamente no, in questi anni abbiamo continuato a suonare e suonare per noi non
significa solo fare prove dischi o concerti. Ma farlo continuando a vivere le nostre vite.
Abbiamo vissuto la nostra vita di lavoratori, padri di famiglia. E poi comunque non siamo stati
mai un gruppo da un disco l'anno. Non perché fossimo a corto di argomenti, anzi, ma perché
appunto traiamo gli spunti per i nostri brani sempre dal nostro vissuto.
Come sono venuti fuori i pezzi? Immagino che le cose da dire, visto anche il tempo
intercorso dalla prova precedente, fossero parecchie; come s'è svolta la selezione dei
brani?
Abbiamo scelto semplicemente le migliori tra una rosa di trenta canzoni, cercando di
selezionare quelle che a nostro parere avrebbero poi rappresentato meglio tutto quello che
sono i Klaxon di oggi. Queste canzoni, e spero che questo si sia compreso, infatti
rispecchiano un gruppo non uniformato ai target che vanno tanto di moda oggi. In qualche
modo ci piace sempre pensare a noi come ad un gruppo porta bandiera di uno stile non
allineato. Uno stile in cui per fortuna non siamo gli unici.
Mi piace pensare che a guidarvi nella musica sia un po' la stella polare dei Clash. Ti
piace l'idea? Attualmente riesci a trovare un po' di quell'urgenza - che è anche la
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vostra! - in gruppi attuali? Hai dei nomi da farci?
Ovviamente anche a noi piace pensare ai Clash come dei fari, sia politicamente che
musicalmente. I Klaxon poi otre che dai Clash sono influenzati da altri stili e pensieri, legati
alla società italiana. Altri esempi di band simili a noi e che credo sentano le nostre stesse
urgenze? Difficile fare i nomi, sicuramente però potrei citare gruppi come Banda Bassotti,
Linea, Gang, Nabat. Gente che mantiene alta la bandiera del dissenso. Speriamo di
condividere con loro tanti altri anni di musica e politica.
Avete davvero "divorziato" dalla vostra città? Tutta questa "polvere" di cui canti sta
facendo danni anche nella capitale? Quali sono secondo voi le vere emergenze sociali
di questo paese?
C'è solo un'emergenza a mio parere in Italia, ovvero quella di non spersonalizzare la società
con ideali sbagliati e falsi propinati in continuazione dai mass media. Purtroppo a questo
gioco partecipano anche quelli che dovrebbero opporsi e cioè la sinistra italiana. Ovviamente
Roma, che oltre ad essere la nostra città è anche la Capitale, è attrice privilegiata in questo
gioco. E' tutto sotto gli occhi dei romani. Noi siamo romani. E continueremo a soffiare
sempre su questa polvere.
Pensate che un disco come "Brutti, sporchi e cattivi" si rivolga di più ai "ragazzi"
della vostra età, parli alle nuove generazioni oppure questo genere e questi testi
parlano a tutti indifferentemente?
La risposta è sempre sotto i nostri occhi. Quando suoniamo dal vivo, c'è gente di ogni età.
Vediamo ragazzi, giovani, coetanei, o amici più grandi. Per cui la risposta non può che
essere scontata: a tutti quanti. Non credo sia un fatto legato all’età, quanto ad un certo modo
di “sentire” e vedere la realtà, e la musica.
Quando avete iniziato, ma anche solo fino al vostro penultimo disco, il mondo
musicale era radicalmente diverso; riuscite a trovarvi a vostro agio anche in questo
agitato 2010? Era meglio l'Uonna Club o le webzine e MySpace?
Per i Klaxon ed i gruppi a noi simili al di là d tutto non c'è tutta questa differenza. Perché non
siamo il gruppo alternativo pieno di buoni propositi sia musicali che intellettuali che cambia
repentinamente politica al seguito di logiche di mercato assurde, trovandosi poi sui palchi più
disparati, vedi Sanremo ad esempio, a blaterare pietose giustificazioni verso i fan della prima
ora. Potrei farti anche una lista di chi si comporta in questo modo, ma preferisco lasciar
perdere. Noi suoniamo oggi come allora, e pensiamo e diciamo sempre quello che vogliamo.
Questa libertà è il nostro orgoglio. Lo era all'Uonna nell'80 ed è lo stesso anche adesso su
MySpace o in ogni altro “luogo” virtuale. Viva la tecnologia.
Contatti: www.myspace.com/klaxon100celle
Giorgio Sala
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Micol Martinez
“Copenhagen” (Discipline/Venus) è l’esordio discografico dell’eclettica Micol Martinez, dove
deviazioni stilistiche al servizio di un’elegantissima visione d’insieme, testi suggestivi e una
voce in bilico fra canto e recitazione si miscelano con ottimi risultati. Abbiamo approfondito.
Quando hai iniziato a scrivere canzoni? Qual è stato il percorso che ti ha condotta a
diventare songwriter?
Ho iniziato a scrivere canzoni da ragazzina. Scrivere è sempre stato molto naturale, ma ero
troppo timida per fare ascoltare le mie “composizioni” a qualcuno. Da adolescente, quindi, ho
preferito suonare la chitarra in un gruppo di cover dei Cure o partecipare ad altri progetti nel
ruolo di tastierista. In seguito, ho iniziato un percorso con mio fratello: forte della sua
presenza, le mie canzoni sono uscite dalle mura della mia camera. Ma è solo quando ho
finito di studiare teatro che mi sono sentita libera di espormi completamente.
Che cosa ti ha trasmesso l’esperienza nelle vesti di DJ? Quali sono i tuoi gusti, le tue
principali influenze musicali?
Fare la DJ per me è divertimento, oltre che fonte di sostentamento. Certamente ho dei
paletti imposti a volte dalla direzione del locale, altre dal pubblico. La selezione musicale non
è libera come pensavo fosse. Cerco di mettere brani che comunque amo, che considero di
qualità. Ho vissuto in pieno gli anni 90 che si trascinavano dietro gli 80, per cui sono
cresciuta a suon di dEUS, Sonic Youth, Cure, Nick Cave, Joy Division, Smiths o Pixies e,
come tanti, ho ripercorso tutta la storia del rock partendo dagli anni 50 con Bo Diddley,
proseguendo con Rolling Stones, Kinks, Doors, Stooges, Patti Smith, Jimi Hendrix, Clash e
Ramones (che ho avuto la fortuna di vedere in concerto). Amo molto le voci femminili: tra
queste, PJ Harvey, Fiona Apple, Beth Gibbons, Lisa Gerrard dei Dead Can Dance e figure
storiche come Janis Joplin ed Ella Fitzgerald.
Che direzione volevi intraprendere con il tuo album d’esordio? Quali obiettivi ti eri
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posta?
L’unico obiettivo che mi sono posta è stato fare un lavoro di qualità. Né una parola di un
testo né una melodia sono state lasciate al caso. Il mio approccio con la scrittura è naturale
e immediato. Le canzoni sembrano nascere magicamente da sole, ma il successivo lavoro di
rifinitura è importante tanto quanto la scrittura stessa. È necessario avere senso critico per
buttare ciò che non si reputa ottimo. Il margine di miglioramento è infinito. Cosa
fondamentale, a mio avviso, è non smettere mai di scrivere. Cito il giornalista e scrittore Dino
Buzzati, mio mentore in tal senso: “Scrivi, ti prego. Due righe sole, almeno, anche se l’animo
è sconvolto e i nervi non tengono più. Ma ogni giorno. A denti stretti, magari delle cretinate
senza senso, ma scrivi. [...] Comunque, questo è il tuo mestiere, che non ti sei scelto tu ma ti
è venuto dalla sorte, solo questa è la porta da cui, se mai, potrai trovare scampo. Scrivi,
scrivi. Alla fine, fra tonnellate di carta da buttare via, una riga si potrà salvare. (Forse)”.
Perché hai scelto proprio “Copenhagen” come titolo?
“Copenhagen” è il titolo di uno dei brani contenuti nel disco. È una città che non ho mai
visitato, e dove, nonostante questo, ho fatto vivere una storia. Nel momento in cui si scrive
un testo, un racconto o un libro, ciò che si racconta diventa reale a prescindere dai dati di
partenza. Copenhagen è un luogo-non luogo, il luogo da cui attingo per scrivere, un luogo
che diventa reale “con” lo scrivere. Potrebbe essere Barcellona, Berlino, Parigi, L’isola che
non c’è. Poco importa. Copenhagen è per me emozione, sentimento o pensiero che diviene
reale, quasi palpabile.
Nel disco ti concentri unicamente sul canto, ma suoni anche la chitarra e il
pianoforte. Come hai affrontato la prova del microfono?
La prova del microfono è stata superata facilmente, anche grazie ai miei studi teatrali. Per
quanto riguarda gli strumenti: perché suonare la chitarra, se nella stessa stanza ci sono
Cesare Basile e Luca Recchia? Sapevo che avrebbero dato il meglio e così è stato.
Come è avvenuto l’incontro con Basile? Le affinità sonore erano pregresse oppure è
intervenuto nella fase degli arrangiamenti?
Conosco Cesare da tempo, siamo amici. Ho sempre amato molto il suo sound. Ho voluto
che fosse lui a produrre il disco. Sapevo che avrei potuto lasciare completamente i brani
nelle sue mani. Cesare ha colto la natura di ogni canzone. C’è una coincidenza perfetta tra
scrittura e produzione artistica. Ha fatto un lavoro splendido, che ho seguito costantemente,
lasciandogli, in piena fiducia, tutta la libertà che era necessaria.
L’album vanta un parterre straordinario di musicisti: oltre a Basile, troviamo tra gli
altri Enrico Gabrielli, Rodrigo D’Erasmo e Roberto Dell’Era. Come sono stati coinvolti
nel progetto?
Cesare, che ha condotto il lavoro, li ha chiamati per collaborare e hanno accettato subito.
Roberto è un mio caro amico e prima di entrare in studio io stessa avevo chiesto a Enrico di
partecipare. È avvenuto tutto in modo molto naturale.
In “Copenhagen” mi hanno colpita soprattutto la ricchezza della strumentazione e la
raffinatezza del sound. Si spazia con classe dal rock al folk o alla ballata cantautorale,
dalle ritmiche sostenute all’intimismo. Come ha preso forma il tutto?
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Devo ringraziare il team di persone che ha lavorato al progetto. Ognuno ha portato qualcosa
di sé, non solo Enrico, Roberto e Rodrigo, ma anche Luca Recchia (che ha partecipato alla
produzione artistica), Guido Andreani e lo stesso Cesare. La canzone indica “come”
dovrebbe essere vestita. Cesare e collaboratori hanno colto nel segno.
Dall’altra parte, emerge una grande attenzione rivolta ai testi. Quanto ti sei dedicata
alla limatura delle parole?
Il “raffinare”, come già dicevo, è cosa fondamentale. Ho scritto moltissimo e buttato
moltissimo. I testi del disco sono il risultato della mia selezione. Mi auguro che le parole che
uso, i concetti espressi, le immagini evocate portino le persone a pensare, o a mettersi in
discussione, a vedere la realtà in un modo differente, o semplicemente a emozionarsi o a
rispecchiarcisi.
Una delle canzoni che senz’altro ha fatto e farà parlare maggiormente è “Testamento
biologico”, ispirata al caso di Eluana Englaro e dedicata a un argomento delicato
come l’eutanasia. Da dove nasce l’esigenza di toccare un tasto simile? La sensibilità
con cui è affrontato il tema dovrebbe essere d’insegnamento per i vari Povia
nazionali...
Inizialmente una persona mi aveva chiesto di trattare il tema. Di fatto, però, alla base c’era
una mia esigenza emotiva. Ho seguito il caso di Eluana come tutti e mi ha toccata
profondamente. Il brano è nato davvero in tre minuti. Quasi senza coscienza. Ora mi rendo
conto che una canzone può essere un piccolo elemento in più al servizio di una battaglia in
cui credo. E ne sono felice.
Molte artiste rimarcano tuttora una maggiore difficoltà nel farsi strada in ambito
musicale, ma ci sono parecchie figure femminili che stanno tornando a imporsi sulla
scena.
Per una donna è innegabilmente più difficile farsi strada nell’ambito musicale. Purtroppo, e
non è per provocazione che lo dico, vige ancora un forte maschilismo nell’ambiente. Nel mio
percorso, per una serie di motivi e per le persone specifiche con cui ho lavorato, non ho
vissuto questo problema, ma esiste. Sì, ci sono molte figure femminili che si impongono sulla
scena - mi viene in mente la brava Airìn - e mi auguro che siano sempre di più.
Hai studiato recitazione e ti sei cimentata come attrice sia al teatro che al cinema. È
un campo che continua ad affascinarti e in cui tornerai a proporti?
Se mi capiterà, sì. La mia passione principale però rimane la musica, a cui voglio dedicare
tutte le energie disponibili.
Tra le altre attività, hai flirtato persino con la pittura. Si tratta, in pratica, di una
curiosità artistica a 360 gradi, confermata per certi versi anche dal coinvolgimento di
Robert Herzig nella realizzazione del libretto. Come gestisci i tuoi differenti interessi?
Segui una scala di priorità?
Sì, c’è una scala di priorità. Al primo posto c’è la mia musica. Ma amo miscelare le cose. I
disegni di Robert nel booklet sono diventati parte delle canzoni stesse. Il mio approccio al
canto è più recitativo che altro. Non amo i virtuosismi vocali. Credo che la voce debba
essere uno strumento per dare vita alla parola. Il legame è inscindibile.
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Con che tipo di formazione ti presenterai sul palco e cosa ci dobbiamo aspettare?
I concerti partiranno a marzo. La formazione sarà snella: basso, batteria, chitarra, e io alla
seconda chitarra e al piano. Spero anche, e credo avverrà, che in qualche occasione le
persone che hanno lavorato al disco parteciperanno ad alcuni live (con Cesare è accaduto
spesso). Comunque, ci saranno certamente Alessio Russo e Alberto Turra. Non vedo l’ora di
cominciare...
Contatti: www.myspace.com/micolmartinez
Elena Raugei
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Miura
C’è stato un tempo in cui i Miura, nati nel da una costola dei disciolti Timoria, erano vittime forse inconsapevoli - dei retaggi del grunge: infatti il loro esordio “In testa”, era figlio di quel
suono aggressivo e melodico. Poi con il successivo “Croci” è arrivata la consapevolezza di
possedere i mezzi svincolarsi da certi stereotipi a favore di un rock pensato e pensante,
focalizzata al meglio con il recente “3” (Prismopaco/Venus), dove la voce di Max Tordini
segue ondeggiante e vitale la traccia della chitarra di Killa, mentre la sezione ritmica di
Marcello Todde (basso) e Diego Galeri (batteria) alimenta un sentiero che incrocia post-rock
e rimandi psichedelici. Ed è Diego il nostro interlocutore, che ci racconta perché questi sono
anni buoni per le band underground, ma spiega anche che parlare e scrivere di rock in
termini di ribellione è forse fuori tempo massimo.
La biografia parla di album della svolta. Ci sono certamente molti cambiamenti
rispetto al recente passato, ma è una cosa voluta o il mutamento è arrivato da solo e
voi l’avete semplicemente accolto? E quanto ha influito il lavoro del nuovo produttore
artistico Giacomo Fiorenza?
Si è trattato di un percorso in parte naturale e in parte voluto, siamo musicisti e persone
molto curiose e ci piace confrontarci e farci contaminare da tutto ciò che ci passa vicino. Sin
dalla fase di scrittura abbiamo capito che i brani nuovi stavano prendendo una direzione
diversa da quanto fatto fino ad allora e quando si è trattato di decidere a chi affidare la
produzione artistica abbiamo voluto spingere sull’acceleratore e Giacomo era la persona
giusta, il suo background è parecchio diverso dal nostro e per questo le sinergie sono state
molto intense. Direi che il suo lavoro in studio oltre che molto stimolante è stato
fondamentale per mettere a fuoco la nuova dimensione.
In generale mi intrigano molto le dinamiche compositive. Quindi ti chiedo, non senza
curiosità: in che modo lavorate in studio, i ruoli sono ben definiti su chi e cosa può
decidere o vige una certa democrazia. L’ultima parola spetta a...?
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In studio l’ultima parola è spettata a Giacomo, sono convinto che nella fase di lavorazione di
un album sia determinante rispettare i ruoli, l’autore passa mesi in sala prove, notti insonni a
cercare la giusta frase o il passaggio armonico migliore, ma quando il brano è finito e si
decide di affidarlo ad un produttore artistico in qualche modo si passa il testimone. Giacomo
inoltre è molto creativo, ha bisogno di margine per esprimersi. Con questo non voglio dire
che nessuno abbia potuto interferire, piuttosto c’è stata una grande collaborazione mediata
dalla fiducia reciproca, insomma una situazione ideale. In fase di scrittura invece le cose
succedono diversamente, ognuno lavora alle proprie idee in autonomia e successivamente
ci si lavora assieme in sala prove. Io e Killa scriviamo in questo modo da parecchi anni e
abbiamo raggiunto un equilibrio che funziona, ma non c’è uno schema fisso, diciamo che
tutto il processo di scrittura è molto spontaneo, “chi ha da dire dice”, ma forse l’esperienza è
l’unico elemento che in qualche modo determina una scala di valori all’interno della band,
ma ognuno ha ben chiaro il proprio ruolo e così funziona tutto molto bene.
Una canzone come “Andiamoci piano con le emozioni” è fantastica sin dal titolo e
con quel suo avanzare limpido, ma deciso è forse la sintesi dei nuovi Miura, rock
deciso, ma spillato su armonie che profumano quasi di post-rock. Quanta importanza
date alle parole nelle vostre canzoni e quando cedono in termini di metrica, per
trovare spazio nella musica?
Credo che i testi abbiano acquisito molta più importanza nell’equilibrio degli elementi che
caratterizzano oggi la nostra musica. E anche questo è un sintomo di cambiamento. I
cantautori non sono mai stati “nelle mie corde”, ma ultimamente sto ascoltando molto artisti
che non emozionano solo con l’energia e le distorsioni ma anche con le parole. Tuttavia il
nostro approccio alla scrittura non è cambiato, scriviamo i testi sulle musiche che hanno già
forma compiuta, dunque in qualche modo il testo si plasma sulla musica, ma per le nuove
canzoni più di una volta è successo di dover cambiare una melodia perché il testo non
funzionava. La musica conserva comunque una grande importanza, in sala prove e in studio
la ricerca sugli arrangiamenti e sul suono è stata maniacale così come la scelta della
strumentazione da utilizzare. Siamo pur sempre una rock band e forse il prossimo disco sarà
solo strumentale...!
Credo che in questo marasma che è la discografia del nuovo millennio, il grande
vantaggio per i gruppi è che possono decidere di che morte morire, tanto il successo
o qualcosa di simile, arriverà solo attraverso contenitori pittoreschi (per non dire
altro), quindi tanto vale fare solamente ciò che piace. I Miura credono che c’è ancora
una spiraglio di visibilità vera, per chi non accetta i compromessi?
Sono convinto che chi non accetta compromessi non sia alla ricerca di visibilità e sono
altrettanto convinto che sia la strada migliore per lasciare il segno. Per esperienza so che
rincorrere il passaggio televisivo o radiofonico nella maggioranza dei casi genera nell’artista
frustrazione e perdita d’identità. Quando poi va bene, e succede davvero a pochi, il
successo mediatico dura l’arco di qualche mese e poi c’è il buio. La visibilità vera oggi è
rappresentata dai counters delle visioni su YouTube e degli ascolti di MySpace, dai rumors
sulla rete e dalla gente che va ai concerti. Sono questi gli indici di popolarità a cui bisogna
fare riferimento, del resto la rete è ancora libera e per tale rappresenta il pensiero libero di
chi ne fa uso. La musica che ci vendono i media di massa è solo quella da consumo
immediato e come tale viene consumata senza essere minimamente assimilata. Dunque
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direi che oggi sì ci sono ancora spiragli per una visibilità vera, ma si possono intravederli
anche tenendo la tv spenta.
L’attività dal vivo è basilare oggi per conquistare un po’ di visibilità. Come pensate di
dare spinta a questo nuovo album? Ci sono possibilità di tornare a lavorare per il
teatro, per dare un seguito all’ottimo esperimento teatro/musica “Niente più niente al
mondo”. La letteratura, il cinema e l’arte in generale, quanto influenzano il vostro
essere artisti?
Stiamo facendo un po’ di date in giro per l’Italia, è un lavoro in divenire, non abbiamo
un’agenzia che se ne occupa ma gestiamo tutto in autonomia, un po’ per scelta un po’
perché fino ad oggi non abbiamo trovato nessuno che ci potesse dare quello di cui abbiamo
bisogno, anche se per il momento non abbiamo in previsione altre collaborazioni trasversali
come quella fatta per “Niente Più Niente Al Mondo” non escludiamo di farne altre se ce ne
sarà l’occasione e gli stimoli giusti. Nel cassetto ci sono un po’ di progetti, vedremo nei
prossimi mesi a cosa dare la precedenza. Direi che tutto ciò che è alimentato dalla creatività
stimola e influisce sulle nostre vite. Personalmente più del cinema sono influenzato dalla
letteratura, soprattutto contemporanea, ma mi appassionano anche l’architettura, il design e
le arti figurative in genere. Mi piacciono gli artisti che cambiano le regole, che in qualche
modo sono di rottura, ognuno di noi ha le proprie inclinazioni e tutto confluisce nella nostra
musica.
Diego hai dato vita anche ad un’etichetta discografica, la Prismopaco per cui escono
appunto i Miura. Una scelta fatta per guidare al meglio la tua band o vuoi offrire spazi
anche ad altri gruppi?
Prismopaco è nata due anni fa perché volevo avere la possibilità di pubblicare ciò che mi
piace in totale libertà e naturalmente anche i Miura, ma non solo. Nel 2008 è uscito il primo
album degli STOOP (Stoopid Monkeys In The House) e i primi di Marzo del 2010 uscirà
l’esordio dei Kitsch (“Mentre tutto collassa”) che ho anche prodotto artisticamente. Poche
cose, ma di qualità. Mi piace considerare Prismopaco come un’etichetta d’avviamento,
seleziono solo le band/artisti che mi piacciono e cerco di dare loro la possibilità di fare il
primo passo, non avendo grandi budget né strutture alle spalle cerco di fare il possibile
affinché la musica che reputo di qualità abbia un proprio spazio e una prima opportunità per
essere ascoltata.
Ho letto dei Miura, come di una nuova band, ma alcuni di voi, sono nel giro da
venticinque anni. Pensi (pensate) di essere ancora un musicista per i giovani o
adesso ti rivolgi anche ad un pubblico più ampio? Senza giri di parole, esiste ancora il
rock, per quello che era una volta, ribellione e cambiamento?
Difficile dirlo mi reputo un musicista maturo, con parecchia esperienza alle spalle, ma non
vetusto, ritengo di avere ancora molto da dire e da fare. Scriviamo e suoniamo
principalmente quello che piace a noi, senza porci troppe domande sul target a cui vogliamo
rivolgerci, se poi piace anche ai giovani ci fa piacere, mi sembra però che la nostra musica
sia parecchio distante dal gusto estetico dei diciottenni di oggi. La musica rock oggi esiste
certamente, ma non incarna più gli ideali di ribellione e cambiamento, non ci sono più i
presupposti perché sia così, ma questo non deve per forza essere una caratteristica
negativa, credo che la musica rock oggi abbia picchi d’espressione notevoli e in alcuni casi
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una forte identità, ma chi si atteggia a rocker maledetto e trasgressivo oggi è anacronistico e
in taluni casi fa venir da ridere più che affascinare.
Contatti: www.miuramusic.com
Gianni Della Cioppa
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Norman
Uscito qualche mese fa, per la Fosbury, il primo album dei Norman è fresco e solare, ma
anche malinconico, e questo all’interno di di ciascuna delle sue canzoni, “costruite” ad arte e
sentimento dal cantante e chitarrista Massimiliano Bredariol, che ha messo insieme le forze,
riunito gli amici musicisti per mettere in ordine i tempi, il gusto, la memoria e lo spirito. Ne
parliamo proprio con Max.
"La rivolta dei bambini blu" è l'esordio dei Norman, ma tutti voi che componete il
gruppo avete portato al gruppo qualcosa dal vostro passato musicale.
I Norman sono un animale strano. Veniamo tutti da esperienze molto diverse: io sono un
cantante chitarrista, il cui primo strumento è la batteria; Pappo (il batterista) viene dal
crossover (suonava nei Full Effect con Nick Manzan e Tommy Mantelli da poco nuove leve
de Il Teatro Degli Orrori); Matteo suonava il basso in un power-trio acidissimo; Zaffa è un
tastierista il cui primo strumento è il basso e Redy, prima di entrare nei Norman, aveva
suonato solo in qualche cover band. Questo è un aspetto che mi piace molto e che
contribuisce in modo determinante al far si che le nostre canzoni pur nella loro semplicità
mantengano una componente un po' storta.
Quando avete cominciato a comporre le canzoni, qual era il vostro intento? Come vi
"raccontavate" tra di voi doveva essere la musica dei Norman?
Ho cominciato da solo nel 2002 quando i Norman erano nient'altro che un'idea nella mia
testa. A ben vedere la band è nata in funzione delle canzoni, siamo partiti come trio e man
mano che i pezzi chiedevano nuove sonorità, abbiamo allargato la formazione fino ad
arrivare all'attuale quintetto.
Meglio scrivere parole che diventano canzoni o musiche a cui far combaciare con
estro creativo la voce?
Raramente le parole arrivano prima della musica, non sono una persona che scrive per
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passione. Le parole arrivano per la necessità di cantare, per accompagnare il fragore delle
chitarre o la quiete del piano. Spesso però arrivano prima i titoli, era da anni che volevo
scrivere un pezzo che si chiamasse “Rasoterra” e che sapevo che questo disco si sarebbe
intitolato “La rivolta dei bambini blu”. Le parole sono dei giochi ad incastro per me.
Per le cose che canti e come le canti, provochi e ricordi un certo bisogno di
appartenenza ad un mondo fatato e solare, ma anche malinconico, struggente e
scuro. Sei intenso in entrambi in sensi della bilancia, ma sei talmente "mescolato" che
nessuna di queste canzoni ha un solo umore. Cosa ne pensi?
Credo di essere una persona profondamente umorale e lunatica in cui sono ben presenti le
componenti di cui parli. Mi sforzo di governare questa cosa cercando di mantenere un
atteggiamento aperto e disteso nei confronti degli altri esseri umani. Le canzoni non mi
permettono di fingere, sono la mia vera casa, non c'è niente di falso lì dentro, sono l'unica
cosa che ho, quindi credo siano una fotografia abbastanza fedele della mia persona.
L'espressione musicale che ad esempio in "Blunedì" da fitta fitta si ingrossa oppure
in "Quattordici" si allarga, spazia e vola, come la create?
Sono entrambe canzoni fatte da quattro accordi semplici. La semplicità della scrittura porta
necessariamente a infinite possibilità d’arrangiamento. “Blunedì” nella mia testa doveva
essere un pezzo acustico con interventi minimi di altri strumenti, ma alla fine è diventata un
imponente pezzo pinkfloydiano. “Quattordici” è nata da un miracoloso loop che si è
incastrato per sbaglio nel mio pedale del delay. Spesso la scrittura è un processo meno
romantico di quanto si pensi. Come creiamo la nostra espressione musicale? Direi per
tentativi ed errori.
C’è una canzone, contenuta nel disco, che non vorresti aver mai scritto perché
adesso ti fa male cantarla?
Quando scrivo, quasi mai so di cosa sto parlando. “Quattordici” e “M.i.n.a” sono due canzoni
che mi hanno mostrato il loro vero significato solo nell'ultimo anno e per motivi diversissimi.
Questo non mi impedisce di cantarle, ma ogni volta devo impegnarmi a non farmi travolgere
dall'ondata emotiva che portano.
Questo è un progetto solista con i tuoi amici che sembrano legati a te da un vincolo
sentimentale. Come sei riuscito a mantenere l'intimità del disco, la luce soffusa con
un gruppo ben presente?
Ho la fortuna di suonare con delle persone davvero speciali a cui voglio un gran bene.
Nonostante io sia l'autore dei pezzi, questo non è un progetto solista: i Norman sono una
band a tutti gli effetti. Il disco suona come suona perché tutti hanno collaborato attivamente e
ci hanno messo del loro. Non ho mai desiderato diventare l'ennesimo cantautore
ipersensibile che è troppo emozionato per allacciarsi le scarpe.
Chi ha contribuito alla buona riuscita del disco?
Il lavoro di Max Trisotto (fonico e co-produttore) è stato fondamentale, ci ha aiutato a
mettere a fuoco le idee e a plasmare il suono che avevamo in testa. Non essendo navigati
professionisti, la sua bravura è stata anche quella di trasformare in azioni le nostre
indicazioni un po' romantiche del tipo: “Max, questa strofa dovrebbe spaventare un po' di
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più” oppure “Max non è che questa chitarra potrebbe suonare un po' più glaciale?”. Altro
aiuto fondamentale è arrivato da Alberto Montesarchio, già mio collega in Artemoltobuffa,
che ci ha dato una mano nella registrazione delle tastiere. Riguardo la copertina una
menzione la meritano pure Eleonora Rossi che ci ha permesso di usare le sue bellissime
foto e Paolo “Pix” Carraro, ex chitarrista dei Valentina Dorme e grafico di fiducia della
Fosbury Records.
Dove avete registrato e com'è andata?
Il disco è stato cotto a fuoco lento. Le batterie e alcune chitarre le abbiamo riprese in uno
studio di Padova con Max Trisotto e con lui nei mesi successivi abbiamo registrato nei ritagli
di tempo le altre canzoni, un po' dove capitava. Ci abbiamo messo quasi un anno per
arrivare ai mix definitivi. Fare le cose in tempi molto dilatati ti dà la possibilità di riflettere
bene su quello che fai, ma rischia di farti perdere il contatto con quello che stai registrando.
Per il prossimo disco ci piacerebbe provare a lavorare con continuità e per un periodo molto
breve.
Come strutturerete il live?
Ci è stato detto che nei nostri live alcuni pezzi “suonano” meglio. Forse riusciamo a far
risaltare la componente nervosa che nel disco è un po' sacrificata. La scaletta è composta
dalle dieci canzoni del disco più un paio di nuovi pezzi e la cover di “Falling Down” di Tom
Waits con la quale ultimamente ci piace giocare.
Contatti: www.myspace.com/nnormann
Francesca Ognibene
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Susanna Parigi
Spiegare perché Susanna Parigi, artista (cantante, pianista, autrice e manipolatrice di
parole), con un curriculum ricco, variegato e pieno di cose sostanziose e di qualità, sia
ancora chiusa nel cono d’ombra destinato a quelli “bravi, ma...”, rimane assolutamente un
misero. Dopo il diploma in pianoforte al conservatorio, muove i primi passi nel 1987, tre anni
dopo è addirittura in RAI con Carlo Massarini nel programma “Tam Tam Village” e poi con
Mino D’Amato in “Sognando Sognando”, successivamente la troviamo come corista con
Cocciante, Baglioni, poi tantissime apparizioni in dischi, programmi radio e televisivi e nel
1995 il debutto come solista. Sembra quindi l’inevitabile approdo ad una carriera di primo
piano, ma nonostante premi e riconoscimenti, Susanna Parigi non riesce ad emergere come
meriterebbe. Una storia comune a molti altri artisti di talento, ma in questo caso il danno è
immenso, perché siamo al cospetto di un’artista veramente straordinaria, dalle molteplici
influenze, dotata di una voce emozionante e versatile e in possesso di una scrittura che
coniuga come pochi tradizione e modernariato, come dimostrano al meglio il terzo album “In
differenze” che si avvale anche del contributo del filosofo Umberto Galimberti e l’ultimo
“L’insulto delle parole” (Promo Music/Edel), che sin dal titolo non dovrebbe lasciarci
disinteressati. Conoscere meglio Susanna Parigi; che con la sua vena ironica e dissacrante,
tipicamente toscana, non si è certo risparmiata; è stato quindi un dovere morale a cui il
Mucchio non si è potuto sottrarre.
Negli extra del tuo unico DVD “In differenze, In concerto” del 2006, ci sono dei video
che documentano delle tue apparizione televisivi, anche in programmi importanti della
RAI, poi ad un certo punto sei scomparsa. C’è un motivo preciso, ti sai dare una
spiegazione?
Certo. È stata una scelta precisa. Potevo continuare a lavorare per la televisione o come
turnista, ma ho preferito dedicarmi completamente alla composizione. Penso anche che
partecipare ai tour in giro per il mondo è bello per un certo periodo, è formativo, ma a lungo
andare toglie spazio alla tua vita privata o alla tua vita in generale. Sono stata la prima
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pianista in Italia a suonare nei tour di musica cosiddetta leggera, ma fin dall’inizio ero
determinata a fare altro e a impormi di smettere dopo aver acquisito l’esperienza che mi
serviva. Se ti fai prendere dal meccanismo non ne esci più. Riguardo invece la televisione, o
la fai a certi livelli e quindi in trasmissioni che rispetti (molto poche devo dire), oppure meglio
non comparire in una corrida che tende a omologare qualsiasi cosa ci entra dentro.
Trovo che hai una tua personalità ben definita, ma quali sono i modelli artistici, non
solo musicali, su cui ti sei formata ed oggi hai un punto di riferimento, un punto di
arrivo a cui ambisci? E se si perché?
Ascolto davvero di tutto, anche musica che sembrerebbe molto distante dal mio mondo.
Credo si trovi “roba buona” dappertutto. Leggo molta poesia. Avere dei riferimenti e artisti
che ti piacciono da morire penso sia sacrosanto, ma ho da sempre cercato di trovare una
mia strada, sia compositiva che vocale. Credo faccia parte anche del mio carattere; pur
ammirando o amando addirittura qualcuno, cerco di mantenere sempre le distanze in modo
da non esserne plagiata. Per me è troppo importante l’indipendenza di pensiero, anche se,
ad essere sinceri, siamo tutti immersi in questo magma di informazioni che per forza ti
attraversa e vai a sapere quanto di tutto questo, pur applicando la resistenza, ti si appiccica
addosso. Forse è proprio questa la mia più grande ambizione: riuscire, nella fatica costante,
a mantenermi il più possibile “pulita”.
La tua musica è una sintesi armoniosa tra istinto e ricerca, come se si liberassero
due elementi allo stesso tempo, sviluppati da un linguaggio alcune volte antico altre
moderno, un dualismo che si esprime anche nella tua vocalità. Questo desiderio di
muoversi su due binari paralleli è una cosa naturale e la percepisci o è solo una mia
sensazione?
È complessa la risposta alla tua domanda. Cercherò di essere breve. Per quanto riguarda la
musica, mi è più facile affidare tutto all’istinto anche nella ricerca e nello studio di anni.
Riguardo invece i testi, durante questa elaborazione di un linguaggio totalmente femminile,
per il quale non avevo grossi riferimenti in Italia, mantenere l’equilibrio tra il rispetto per le
parole e la ricerca, e nello stesso tempo la fedeltà all’idea originale, è stato un impegno
costante. Tu parli anche di antico e moderno e mi fai un grande complimento perché è
davvero voluto e se si avverte, vuol dire che qualcosa di quello che cercavo, sono riuscita a
trasmetterlo. Non so dire se una parte del mio linguaggio sia effettivamente moderna, forse
lo è proprio perché, come dicevo prima, è un linguaggio poco sperimentato. C’è molta
differenza tra la scrittura maschile e quella femminile. Riguardo il passato, invece, ritengo
che la memoria sia un alimento prezioso e la capacità di ripensare la vita, tutta la vita, e
l’attenzione alla storia, sia in un certo senso una forma di giustizia. E’ difficile da spiegare.
Amo ascoltare i vecchi. Sono libri viventi. Amo la musica che arriva da lontano, ma per
ascoltarla credo occorra molto silenzio.
“Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi...
assisto, per privilegio d’anagrafe,
dall’orlo estremo di qualche età
sepolta... E...mi aggiro
più moderno di ogni moderno
a cercare fratelli che non sono più” P.P. Pasolini
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Alla fine del tuo nuovo album c’è una traccia video con interventi di vari artisti, tra cui
anche Lella Costa e Corrado Augias, personaggi televisivi di spicco e quindi per me
aumenta il mistero della tua mancata visibilità. Insomma sono convinto che la tua
musica necessiti solo di essere diffusa, poi arriverebbe ovunque e lo conferma il fatto
che chi ti incontra, poi non ti abbandona più . Secondo te, quanta responsabilità
hanno questi tempi di Grandi Fratelli e X Factor vari o pensi che ci siano stati anche
errori nella gestione del tuo percorso artistico?
Sarebbe riduttivo parlare di me soltanto. Viviamo in un paese di corruzione, inciucietti,
mafiette dove certo non vince il talento. Ma questo è ben più grave quando riguarda la
distruzione della nostra terra, la gestione di un ospedale o la vita degli operai. Io sono niente
in mezzo a tutto questo.
Nel tuo disco precedente “In differenze” parli di tuo padre, con le sue mani sporche
di fatica, ma pulite dal lavoro, mentre in questo nuovo ascoltiamo tua madre che canta
l’intro di “La canzone dei vecchi amanti”, rifacimento di Jacques Brel. È un tuo
ringraziamento personale a due persone ovviamente importanti per te o c’è anche un
rendere omaggio alla famiglia e magari a valori solidi in generale?
Non credo per niente nel rispetto per forza di autorità o figure tradizionali, se non c’è merito.
Credo anche di essere abbastanza obiettiva nel ritenere che mio padre fosse una brava
persona e basta. Se non fosse stata una brava persona, pur essendo mio padre, non gli
avrei certo dedicato una canzone. Dispiace a tutti quando muore un padre, ma questo dolore
diventa meno personale e più universale quando a morire è una brava persona. I miei
genitori mi hanno permesso con grandi sacrifici di studiare e nonostante la loro mancanza di
mezzi culturali, mi hanno permesso di essere libera. Ho inserito invece la voce di mia madre
come intro a “La canzone dei vecchi amanti”, proprio perché è antica e sporca e proviene da
un mondo contadino a cui sono molto affezionata.
In altre interviste hai definito molto critica la situazione dell’informazione in Italia, e
anche l’intrattenimento in tutte le sue forme, sembra far di tutto per violentare la
parola, ma secondo te c’è una via di uscita da questa bruttezza? Davvero tutto è
legato solo alla ricerca di un applauso, come canti nella canzone omonima?
Non sono un sociologo né un filosofo e non azzardo risposte. Solo ipotesi. Per ridare senso
alle parole occorre parlare poco. Occorre tempo per pensarle. Tutto questo è antitetico al
mondo televisivo e radiofonico di oggi. Fossi un politico e avessi forza di agire, abolirei
totalmente le chiacchiere e programmerei teatro, musica, cinema, documentari. Gente che
fa, non gente che dice. Penso però che occorrerebbero anni per recuperare il baratro in cui
ci troviamo e non vedo alcuna volontà.
Sei un’artista versatile, che può esibirsi da sola con il pianoforte, con una band o
come un’orchestra o come nell’ultimo album con un quartetto d’archi. Voglia di nuove
forme espressive o un’opzione in più per proporsi dal vivo? E la tua attività
concertistica come procede?
Mi piace sperimentare anche se mi affeziono molto ai miei musicisti ed è meraviglioso
quando si condividono certi valori e siamo così affiatati sul palco che ci percepiamo anche
senza guardarci. Stiamo organizzando un tour intanto per Roma, Milano, Firenze, Bologna.
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Poi vedremo.
Contatti: www.susannaparigi.it
Gianni Della Cioppa
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Technogod
Lo spessore non si inventa. E Technogod non è una sigla che, nel suo battagliero piccolo,
ha rappresentato una delle avanguardie assolute della scena musicale italiana (nelle scelte
stilistiche, nella capacità di farsi conoscere fuori dalla bambagia domestica) per caso. Un
progetto che, pur tra pause e fatiche, è arrivato al 2010 vivo e pulsante. Un progetto portato
avanti da persone che hanno molto da dire. Ne parliamo con Y:dk.
Sono vent’anni: ormai fa abbastanza impressione... Come ci si ritrova a festeggiare
un ventennale per un progetto che ha sempre avuto una visione “futurologica” nel
suo DNA?
Technogod era ed è tutt’ora formata da un gruppo di musicisti con gusti ibridi e
bastardizzati. Un gruppo che non ha mai avuto una denominazione particolare anche se
ancora adesso veniamo definiti come “industrial”, cosa che trovo davvero incomprensibile.
Nei nostri pezzi troverai infatti dal dub all’elettronica, dal funk al rock – non siamo mai riusciti
ad appartenere ad un filone specifico tipo, che so, “electrogoth”... Anche se avremmo voluto
farne parte, di una scena specifica, perché ci sarebbe servito molto da un punto di vista di
carriera. Invece siamo sempre stati liberi e totalmente indipendenti da flussi, tendenze,
scene, spingendoci a vivere vent’anni in solitudine. Più che essere futuribili, abbiamo sempre
cercato un nostro suono personale, con eventuali riferimenti certo, ma comunque qualcosa
che fosse nostro, senza scadenze di tempo. Un disco come “2000 Below Zero”, pubblicato
nel 1996, sta in piedi ancora adesso: non è vecchio né obsoleto, è se stesso.
Il 2010, così come è realmente, assomiglia a quello che immaginavi sarebbe stato,
quando cominciaste nel 1990? Intendo sia in senso sociale, che in senso
limitatamente musicale.
Domandona! Cercherò di essere più conciso possibile, evitandoti una analisi
culturalpoliticosociale degli ultimi vent’anni. Da un punto di vista politico mi sembra che nulla
sia cambiato, oppure che tutto è cambiato per rimanere uguale. I politici sono più o meno gli
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stesso, magari nel tempo hanno solo cambiato partito, e lentamente e subdolamente si
stanno riabilitando furfanti come Craxi e ancor peggio Mussolini. Vedo la gente molto meno
attenta ad una progressiva e strisciante propaganda, una vera e propria communication
strategy. Perché nulla succede per caso, tutto è sempre e comunque voluto e pianificato
dalle forze politiche e dagli organi di disinformazione che loro controllano; ma questo lo si
dimentica, non si ha più memoria storica... perché si è troppo occupati a tirare avanti. In
questi vent’anni ho visto lo tsunami di Internet invadere ogni angolo della nostra esistenza.
Vari siti in giro per il mondo mettevano a disposizione lo scaricamento gratuito del nostro
“Pain Trnt Ment” un mese prima dell’uscita ufficiale del disco. Bene, Technogod è una band
indipendente. L’indipendenza vuol dire che da un punto di vista produttivo ci autogestiamo.
Abbiamo investito e fatto tanti sacrifici per poter mantenere il controllo sulla nostra musica e
per poter essere proprietari della nostra arte: se qualcuno decide di mettere la nostra musica
in rete senza nemmeno consultarci e chiederci un parere, vuol dire che tutto quello per cui
ho lottato è del tutto futile. Internet, per quanto mi riguarda, sta soffocando la musica
indipendente, non la sta aiutando (come invece si dice tanto spesso). Ogni mese falliscono
decine di etichette e distributori indipendente che volevano investire nella musica alternativa
per farla crescere... Paradossalmente, ho visto in questi vent’anni la scena musicale
indipendente italiana crescere e maturare malgrado non ci siano più spazi dove sonare né
CD da vendere per rientrare delle spese.
Quali sono i rimpianti maggiori – se ce ne sono – per quanto riguarda le fortune del
progetto Technogod?
Rimpianti pochi. È ovvio che Technogod per provare a fare un salto di qualità e provare ad
aspirare ad un circuito più grosso avrebbe avuto bisogno di un manager in gamba e super
scafato che ci avesse seguito nei primi anni. Dopo la prima uscita con la Nation Records
inglese si capiva che la band stava producendo un suono che piaceva al mercato inglese;
bisognava trasferirsi a Londra per sfruttare l’onda... Spostarci lì avrebbe provocato dei seri
scompensi, ma forse la band avrebbe un altro profilo. Nel 1994, dopo la tournée europea
con i Consolidated, in Germania il nostro disco aveva venduto novecento copie in due
settimane: se qualcuno ci avesse spinto a tornare a fare un tour tedesco subito le cose
sarebbero state diverse, invece abbiamo intrapreso un tour organizzato da Arezzo Wave On
The Rocks e ci siamo sparati nei coglioni... Fra l’altro Arezzo Wave non si è mai degnata di
invitarci ad un loro festival, puzzoni! Eravamo inesperti, ci serviva una guida con una visione
più ampia.
Come si diceva, Internet ha cambiato le regole del gioco, per quanto riguarda la
scena musicale. Ti pare che anche i media specializzati si siano evoluti di pari passo,
adeguandosi ai tempi?
Internet non ha modificato le regole del gioco, secondo me. Le regole sono rimaste sempre
le stesse, ma non c’è più nessuno ad imporle. Il mercato si è semplicemente allargato a tal
punto da essere assolutamente ingestibile. Paradossalmente, c’è un grande ritorno fra le
vecchie e nuove generazioni del vinile. Gente che compra i dischi solo in vinile. Etichettine
che pubblicano solo dei sette polllici. Il ritorno all’analogico proprio quando c’è la
deflagrazione del digitale fa sorridere... Se non ci fosse stato il digitale, non ci sarebbe
l’MP3. La musica ridotta a dati ha portato al delirio attuale. In tutto questo, mi sembra che i
media facciano quello che possono, provando ad essere maggiormente snelli e flessibili
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nell’inventarsi nuovi accorgimenti. La rete come fonte d’informazione però dovrebbe
adeguarsi alle regole basilari del giornalismo. Ad esempio, le notizie vanno verificate. Io
continuo a comprare il giornale cartaceo ogni mattina, e continuerò a farlo. Leggermi il
giornale con calma è uno di quei lussi a cui non voglio rinunciare; così come passare i miei
pomeriggi in un negozietto dischi ad ascoltare qualcosa di nuovo e parlare di musica con il
gestore del negozio, queste cose internet non te le può sostituire, te le può solo eliminare.
Venendo a “Pain Trnt Ment”: qual è stata la molla che lo ha fatto nascere?
Voglia di fare un po’ di casino, voglia di tornare a cantare certe tematiche, e poi LCD
Soundsystem e tutta quella che scena che rimetteva un po’ di funk-wave nella minestra.
Quali sono le cose che avete voluto fare e soprattutto quali quelle che non avete
voluto fare al momento di scriverlo, suonarlo e registrarlo?
Abbiamo fatto esattamente quello che ci pareva, senza né limiti né remore. Abbiamo iniziato
a fare dei pezzi sperimentando e provando varie soluzioni senza porci troppi problemi.
Rock’n’roll!
Il lavoro è stato accolto meglio o peggio di quanto vi aspettavate?
Devo essere sincero: spesso e volentieri ho troppe aspettative dagli ascoltatori. Spero
sempre che entrino pienamente in sintonia con quello che facciamo e colgano ogni piccolo
riferimento o tematiche dei testi – rimanendo spesso deluso...
Vi sentite, oggi come oggi, più vicini alla scena tradizionalmente rock incentrata sui
live set, o a quella elettronica imparentata col concetto di clubbing?
Purtroppo siamo, come al solito, una via di mezzo. Però dal vivo ci sentiamo più rock. Sì,
l’energia è definitivamente più rock... ma si può ballare!
Programmi per il futuro?
Non intendiamo aspettare altri otto anni per fare un altro disco di Technogod. Vorrei finirne
uno nuovo entro il 2010. Abbiamo già iniziato a buttare giù le prime timide idee. Nel futuro
più imminente, vorrei riuscire a fare tanti concerti: cosa che sembra veramente difficile, vista
una certa diffidenza nei nostri confronti. Ma siamo dei bravi ragazzi, suvvia!
Contatti: www.myspace.com/technogodtackat
Damir Ivic
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The Strange Flowers
I pisani Strange Flowers iniziano la loro carriera nei primi anni novanta con “Me And The
Eggman”. Suonano un rock psichedelico e britannico con punte di garage e tinte paisley.
“Vagina Mother” (Go Down/Audioglobe) è la loro ultima creazione, registrata con la
supervisione di Federico Guglielmi.
“Vagina Mother” è il quinto album in una ventina d'anni. Come cambia il modo di
scrivere musica mentre nel frattempo scienza e tecnica fanno passi da gigante?
Si può scrivere musica in molti modi, e la tecnologia può aiutare o condizionare la scrittura.
Ma in senso stretto il nostro modo di scrivere non è cambiato. Le canzoni nascono senza
alcun supporto tecnologico. C’è un tizio che strimpella una chitarra e a seconda dell’umore
può capitare di riconoscere una canzone nuova in quello che sta strimpellando. La
tecnologia viene dopo, noi ne cogliamo alcuni aspetti utili ma con un prezzo da pagare. Oggi
una canzone nuova diventa un provino con tanto di arrangiamento in poche ore, gli altri
posso ascoltarla e impararla in tempo reale. C’è un enorme guadagno di tempo, anche se si
perde un pezzetto di anima: una volta la sala prove era il laboratorio, oggi è un luogo di
finalizzazione e, benché il risultato non ne risenta, il nostro cuore un pochino sanguina.
Le chitarre suonano ancora sporche e vintage. Ma il senso di fare un disco, in quanto
oggetto fisico e vendibile, com’è cambiato in vent'anni?
Per noi un disco è come un libro, un oggetto da maneggiare e custodire, contenuto e
contenitore. Chi lo realizza ha in mente un unicum di musica e grafica inscindibili. Mette le
canzoni in un ordine che abbia un senso di consecuzione e che rifletta la sensibilità con cui
sono state scritte. Sceglie una copertina e dei caratteri che siano complementari rispetto alla
musica. Per noi un disco è un disco, non dei file su internet e, al di là degli aspetti economici,
troviamo veramente triste che un album possa essere smembrato a discrezione di chi
naviga. Nostro malgrado, come musicisti, siamo costretti ad adeguarci pena la
sopravvivenza. Comunque, per quanto li si possa amare, i dischi stanno diventando sempre
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più degli oggetti vintage, un po’ come i nostri strumenti e i loro suoni. Noi amiamo quei suoni
e non abbiamo altro modo di ottenerli se non con quegli strumenti. Siamo felici che, a
giudicare dalla tua domanda, l’aspetto sia stato colto, perché ci teniamo molto. Non abbiamo
nulla contro sonorità diverse e, insomma, non siamo dei coatti del vintage e siamo aperti ad
altre soluzioni se utili, ma questi sono i suoni che ci piacciono e che sono più vicini a noi.
Così come ci piacciono i vecchi, cari, ingombranti, polverosi dischi in vinile.
Qual è il concetto che sta dietro all'album? Titolo e copertina rimandano alla
fecondità e al parto.
In realtà l’unico brano davvero vicino al concetto di procreazione è “Blue Mothers”, con un
video abbastanza esplicativo realizzato da Giulia Altobelli con la tecnica del found footage e
che viene proiettato durante i nostri live; da non confondere con il video ufficiale, che è
invece “A Rose in Your Mouth”, sempre di Giulia. Il vero collante dell’album è un’idea di
procreazione come rinnovamento, un’idea che è in qualche modo presente in ogni canzone.
Volevamo un disco che pur partendo da una base 60’s fosse collocabile nella nostra epoca.
Mentre lavoravamo alle canzoni e durante le ore trascorse in furgone tra una data e l’altra,
parlando del possibile titolo dell’album uno di noi ha proposto quello, pensando alla vagina
come a una specie di stargate attraverso cui inizia una trasformazione che porta a una
nascita e a un rinnovamento. I figli di questa fecondazione potrebbero essere le nostre
canzoni. Scrivere una nuova canzone è in fondo un modo per lavarsi l’anima, per liberarsi di
qualcosa, per rinascere e anche per morire un po’.
Federico Guglielmi, oltre a essere il grande capo da queste parti, ha lavorato in
passato con gente come Not Moving, Magic Potion e Fasten Belt. Come ci si trova,
con lui, dentro e fuori lo studio?
Federico ha una visione molto ampia della musica. È per questo che abbiamo pensato a lui
come alla persona che potesse aiutarci nel rinnovamento di cui parlavamo. Il nostro rapporto
è di mutua stima e rispetto, oltre che di amicizia. Federico è un produttore impeccabile, pur
essendo stato lontano dal banco del mixer per oltre 15 anni. Ha lasciato che ci esprimessimo
secondo la nostra indole, senza cercare di adulterare il nostro stile e il nostro modo di
suonare, limitandosi a darci consigli sugli arrangiamenti. Nella fase di post-produzione è
intervenuto maggiormente, e come suona il disco lo dobbiamo a lui, a lui e a Paolo Pierelli di
Point Of View, che l’ha aiutato come fonico pur essendo anch’egli un noto produttore.
Abbiamo un ottimo ricordo delle session e dell’atmosfera che si era creata. Faremo
senz’altro tesoro dell’esperienza vissuta con Federico e Paolo.
Suonate rock di derivazione psichedelica e nel disco inserite uno stravolgimento di
un pezzo di Madonna, “Hollywood”.
“Hollywood” è una canzone che ci piace e che si prestava alla reinterpretazione in un
contesto musicale diverso. Ma c’è dell’altro. Il mondo della musica indipendente, con tutti i
suoi pregi, è pieno di preconcetti, come, ad esempio, l’atteggiamento oscillante nei confronti
del progressive. Non amiamo molto i preconcetti, abbiamo pensato che una cover di
Madonna fosse un buon modo per lanciare un messaggio forse provocatorio ma in realtà
molto semplice, cioè che qualsiasi cosa dovrebbe essere giudicata fuori dal suo contesto e
valutata per quello che è, indipendentemente da chi l’abbia fatta. Non a caso “Hollywood” è
l’unico singolo di Madonna a non aver raggiunto le top charts americane.
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“Polvere” è il primo pezzo in italiano della vostra carriera, e anche l'unico del disco in
lingua madre. Perché inserire un solo pezzo in italiano in un disco in lingua inglese?
“Polvere” è nata in italiano d’istinto ed è stata probabilmente la conseguenza delle influenze
del periodo in cui ascoltavamo molto (sempre in furgone) “Hai paura del buio?” e “Non è per
sempre”. In qualche modo è una specie di omaggio, un atto di stima e apprezzamento per il
rock italiano e per gli Afterhours di quel periodo, con qualche elemento beat vicino al nostro
stile consueto. Proprio per questo che si tratta di un episodio isolato nell’album, tant’è che
“Polvere” appare in “Vagina Mother” solo come bonus track, mentre nella track list ufficiale
c’è la traduzione in inglese “Powder Tears”.


E d'ora in poi come sarà il vostro rapporto con l’italiano?

Qui entriamo in un campo minato. Da sempre veniamo criticati per cantare esclusivamente
in inglese. In realtà siamo abbastanza aperti e non escludiamo niente per il futuro, anche se
è improbabile una trasformazione simile. La lingua della nostra musica è sempre stata
l’inglese e facciamo un po’ di fatica ad immaginare gli Strange Flowers interamente in
italiano. Vogliamo però cogliere l’occasione per dire ai detrattori del rock in lingua inglese
prodotto in Italia che se fosse giusto essere linguisticamente vicini alle proprie origini,
dovrebbe essere giusto esserlo anche musicalmente. E poiché la musica italiana non può
evidentemente comprendere solo pizzica, tarantella etc. ci auguriamo che anche la musica
italiana in lingua inglese possa avere la considerazione che merita.


Pisani come gli Zen Circus, peraltro passati recentemente all'italiano.
Sembra che la vostra terra trasudi rock'n'roll.
È un fenomeno sorprendente, sicuramente non semplice da spiegare. Negli anni 80,
quando Pisa era una città piuttosto depressa, forse aveva a che fare con la noia. Non hai
niente da fare quindi ti inventi qualcosa. In fondo Dylan Thomas era di Cardiff, e se siete mai
stati a Cardiff capirete perfettamente cosa significa “la vita o la vivi o la scrivi”. Pisa, ora, è
diventata una città ben più viva. Forse tutto è nato per caso e i più piccoli hanno
semplicemente imitato lo spirito dei più grandi. Noi abbiamo avuto l’esempio dei grandissimi
Birdmen Of Alcatraz. Poi la notte di Natale del ’94 noi “anziani” suonavamo in un Circolo
ARCI che ora non esiste più. Tra il pubblico c’erano tre ragazzini estasiati con cui abbiamo
parlato alla fine del concerto. Oggi si chiamano Zen Circus.
Nel comunicato stampa dite che “Vagina Mother” è un punto d'arrivo. Cosa vi riserva
il futuro?
Ogni punto di arrivo diventa un punto di partenza quando tutto è finito. Oggi c’è “Vagina
Mother” e c’è la promozione del disco che andrà avanti fino ad autunno inoltrato a suon di
date, culi di piombo da furgone, gioie e dolori. Dopo “Vagina Mother” sarà il punto di
partenza per qualcosa di nuovo, un altro rinnovamento forse, oppure un ritorno alle origini.
Non lo sappiamo ancora. Stiamo cominciando ad abbozzare qualche nuova canzone e
probabilmente nel 2011 qualcosa di nuovo prenderà forma. E ci sembrerà un nuovo punto di
arrivo.
Contatti: www.strangeflowers.net
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Marco Manicardi
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Verner
Verner ovvero Gianandrea Esposito, ci racconta il suo debutto “Il mio vestito” appena uscito
per la neonata La Pupilla Records di Bologna di cui egli stesso regge le fila. Troviamo una
persona piacevole che racconta il suo progetto come fosse il suo respiro, l’equilibrio del suo
battito cardiaco. Impossibile ascoltarlo e rimanere indifferenti alla sua sensibilità musicale sia
nelle liriche che nella melodia, e ci piace scoprire che sottovoce prestava il suo primo
cantare agli amici.
Come ti sei avvicinato alla musica?
A undici anni mio padre mi ha iscritto a delle lezioni di chitarra classica che poi col tempo mi
sono tornate molto utili. Ho poi avuto una lunghissima parentesi da rockettaro, quindi tutto il
contrario di quello che avevo studiato.
E qual è stato il primo momento veramente importante in cui ti sentito veramente
coinvolto in questo progetto tuo personale?
I tempi sono stati così lunghi e graduali che è difficile trovare un momento. Penso che
presto si sia creato un luogo mio, per vivere delle cose in cui potermi riconoscere, in cui
potevo tornare, in cui scrivere le mie cose e guardarmi allo specchio, ma guardare anche
fuori. La mia insegnante di canto a volte diceva che la passione per la musica può essere
paragonata all’avere un cane nel senso che tu torni a casa e anche se sei stato il peggiore
della vita quel giorno ti accoglie sempre. Per esempio “Indifferente” è un pezzo che ho scritto
mentre ero in compagnia del mio amico Federico e stavo improvvisando. Lui era in bagno a
lavarsi i denti e quando è uscito mi ha chiesto di chi fosse la canzone cha aveva sentito,
perché l’aveva trovata molto bella. E quando gli ho detto che stavo improvvisando ha preso
un walkman in mano e mi ha registrato mentre ri-suonavo la canzone. E quella è stata la
prima bozza di “Indifferente”. Dopodiché ci ho lavorato tantissimo. Lo specifico perché in
cinque minuti sviluppo solo l’idea, ovviamente.
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Queste canzoni sono nate nello stesso periodo?
No. In qualche modo io ci vedo varie fasi, piuttosto che una fotografia di un particolare
periodo della mia vita o comunque delle cose che mi succedevano attorno, perché ho
cercato di non avere una sguardo eccessivamente introspettivo, quindi per questo forse
cerco qualche differenza stilistica, sono proprio fasi differenti in cui ascoltavo cose disparate
e avevo magari una sensibilità diversa.
Quando si scrive in italiano, spesso, si mette in gioco se stessi. Tu come hai
affrontato questi tuoi testi?
All’inizio vivevo questa cosa in modo molto drammatico, nel senso che le canzoni le cantavo
solo agli amici e sottovoce tanto che mi dicevamo: “ma ce la vuoi far sentire o no questa
canzone?” Col gruppo del liceo ci chiedevamo se la musica suonasse meglio in inglese o in
italiano. In realtà sono due musicalità differenti, usare l’italiano o l’inglese è come scegliere
tra la chitarra classica o quella acustica. Sono timbriche differenti. Per molto tempo sono
stato abbastanza intimidito perché sentivo che suonare le canzoni era mettersi un po’ a
nudo, esporsi anche al ridicolo, però in realtà è anche questo il divertente dello scrivere
canzoni. E suonare davanti alle persone in generale è il momento della verità perché capisci,
se in qualche modo il pezzo ha una sua ragione d’essere.
Il disco è uscito per una nuova etichetta, la Pupilla Records.
Si, nata da un rapporto di amicizia con Giovanni Ferrara con cui ho condiviso i tempi
dell’università a Bologna e abbiamo deciso visti i tempi lunghi dei contatti con le etichette
indipendenti. Qualche interessamento c’è stato, ma alla fine c’era la necessità da parte mia
di cominciare di fare uscire questo disco e di farlo girare e quindi abbiamo deciso di far
nascere questa piccola etichetta.
Cosa significa per te, cantare, comporre e suonare?
Un sacco di cose. Prima di tutto è un dare ossigeno a una parte della propria personalità,
poi è un modo per cercare di condividere le cose. In qualche modo io non la vedo come un
modo di dare ma come un modo di ricevere. Suonare ti permette di entrare in contatto con
persone e di scambiare e mostrare una parte del tuo mondo in modo abbastanza diretto,
mentre invece altrimenti faresti fatica a farlo. Un posto dove comunque tenere al caldo le
contraddizioni senza cercare una soluzione. E dove indicare un punto e dire io lì ci vedo
quello e magari voi potete vederci la stessa cosa o qualcosa di diverso però magari per il
momento guardiamo lo stesso.
Quando vivi il tuo quotidiano ti capita di dire: “questa cosa potrei scriverla, potrei
metterla in una canzone” o quando scrivi scavi nella tua memoria con la memoria
alterata dal tempo?
Cerco sempre di non mettere troppa intenzionalità. Non ho mai pensato di scrivere una
canzone su questo o su quell’altro, se molto colpito da una cosa cerco di riversarlo nella
canzone perché credo che un’eccessiva intenzionalità, possa portare a cose troppe razionali
e si avverte la pesantezza del messaggio che si vuole mandare piuttosto che farlo arrivare
più spontaneamente.
Tu quando canti sembri fragile ed insicuro e invece quando si ascoltano con
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attenzione le tue parole si denota una certa forza. Ti sei fatto una bella corazza?
Questa cosa mi fa piacere che la voce veicoli una certa insicurezza e una fragilità che è una
cosa che mi appartiene. In passato sono stato tentato dal fare cantare canzoni da altri
cantanti con voci molto più potenti però non mi sembrava che venisse fuori il progetto o forse
per una questione di narcisismo.
Dove hai registrato il disco?
L’ho registrato all’Alpha Dept. Studio di Bologna con la produzione artistica di Giacomo
Fiorenza, sebbene il disco sia autoprodotto, registrare lì mi ha permesso di avere un disco
che suonasse in modo pop ma non appiattito com’è inteso dalle radio mainstream, quindi
quelle sonorità molto compresse, un po’ piatte, volevo ci fosse un certo calore una certa
naturalezza nei suoni. E così è stato.
Dentro al disco ci sono altri musicisti che hanno suonato con te.
Si. C’è Saverio Quadro il batterista con cui ho suonato parecchi anni, e poi Alessandro Lo
Mele che suona il basso elettrico per il disco mentre prima dal vivo suonava il contrabbasso
per queste canzoni. Adesso sto iniziando nuove collaborazioni anche dal vivo. Mi sto
ritrovando a suonare molto spesso con un bassista molto bravo Stefano Simonetta che nel
disco non c’è. Sto entrando anche nell’ottica di istaurare delle collaborazioni locali, come si
fa nel jazz trovando collaboratori diversi per ogni città.
Contatti: www.verner.it
Francesca Ognibene
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2Pigeons
Land
La Fabbrica
Dopo l’omonimo EP del 2008, “Land” è il primo album sulla lunga distanza per i 2Pigeons,
ovvero Chiara Castello (voce dalle notevoli potenzialità e stravaganti percussioni) e Kole
Laca (piano, Rhodes, synth, effetti e cori). Il duo milanese si muove fra elettronica
coinvolgente e sperimentazioni ricercatissime, plasmando una mutante, complessa
forma-canzone - dai testi, in inglese, decisamente sopra la media - che fugge ogni
prevedibilità flirtando con drum & bass, trip hop, jazz e attitudine rock. Mixato da Giulio
Ragno Favero, il lavoro si svela ascolto dopo ascolto e vanta diverse frecce al proprio arco:
si parte non a caso con l’irresistibile “Biko”, dove il sax fa da contrappunto a un ritornello
killer (“My reign is the Biko / È un posto strafico / I protect the Biko / Dal cantiere nemico!”).
Ma si prosegue altrettanto bene con “Boing 737” (Björk a spasso in territori Nine Inch Nails),
“I-Land” (Amanda Palmer che si traveste da Diamanda Galás, per poi tramutarsi in
Laurie Anderson), le estese “Fairuz” e “You Don’t”, lo scioglilingua ipnotico di “Open Doors”
o le atmosfere alla Portishead di “The River”. Insomma, c’è il coraggio di provare a uscire dai
binari prestabiliti, di osare in termini di strutture atipiche e sound contemporaneo,
proponendo una formula al tempo stesso accessibile ed estremamente sfaccettata. Non ci si
troverà all’interno di un’autentica terra di nessuno, ma si tracciano senz’altro dei confini
personali volando sulle proprie ali. Scusate se è poco.
Contatti: www.myspace.com/2twopigeons
Elena Raugei
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Be Maledetto Now!
Abisso del passato
Boring Machines
I Be Maledetto Now! sono i cugini Andrea e Marco Giotto; i quali, pur essendo impegnati
con i rispettivi progetti (Nihil Is Me, Maledetto e Squadra Omega per il primo, peraltro già
chitarrista dei With Love; Be Invisible Now! per il secondo), di tanto in tanto amano unire le
forze per creare musica insieme. Dopo una cassetta pubblicata nel 2006, ecco che ora il duo
torna in pista con “Abisso del passato”, opera interessante e ambiziosa fin dal formato: è
infatti divisa in due parti, la prima disponibile soltanto su vinile o in download (gratuito, dal
sito www.otouv.org), la seconda in CD. Ovvero, il medium con cui il rock e suoi derivati sono
nati, quello che è stato il suo successore (non volendo considerare le musicassette) e il più
moderno MP3. Un ponte gettato tra il passato e il futuro, quindi, per una proposta che allo
stesso tempo è tremendamente moderna negli scenari che dipinge, ma si appoggia su una
strumentazione classica, per lo più composta da sintetizzatori analogici. Le lunghe
composizioni che formano l’album sono infatti all’insegna di una sorta di ambient mutante e
inquietante, che rilegge con una sensibilità tutta moderna la lezione del lato più elettronico e
cosmico del krautrock, in un viaggio attraverso rovine post-industriali e oscuri paesaggi
fantascientifici. Bordoni sinistri, tappeti di elettronica vintage, loop che avvolgono ipnotici e
sonorità liquide: ecco gli ingredienti di un lavoro non facile, che immagina il domani con gli
occhi e i mezzi di ieri e, nel farlo, dipinge l’attualità meglio di qualsiasi trend.
Contatti: www.boringmachines.it
Aurelio Pasini
Pagina 41
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Numero Febbraio '10
Captain Mantell
Rest In Space
Irma
Cosa resterà degli anni 80, se lo chiedeva Raf. Cosa resterà di questo primo decennio del
duemila, invece? Intanto ecco una risposta secca: un sacco, ma veramente un sacco di
gruppi che hanno mischiato rock ed elettronica, un tocco di electro di qua, una spolveratina
punk-funk di là. Di tutti questi gruppi, pochi sono realmente inverecondi, visto che il livello di
base si è decisamente innalzato, ma altrettanto pochi sono quelli che potrebbero
sopravvivere alla memoria, restando sulla breccia anche una volta passata ‘sta sbornia
collettiva per cui i Soulwax sono i nuovi Beatles. Pur se “Rest In Space” non ci convince
appieno, pensiamo che i Captain Mantell potrebbero rientrare in questa ristretta élite. Sì,
qualche possibilità c’è. Un po’ perché sono stati abbastanza fra i primi a percorrere il filone,
quindi molto meno di altri sono tacciabili di essere “wagon jumper”, un po’ perché hanno una
consistenza – a livello non solo di suoni ma anche di convinzione – che altri non hanno. Altri,
infatti, lo capisci che fiutano il vento e da lì decidono dove andare, nel caso invece dei
trevigiani c’è una professionalità di base, chiaro segnale di come il progetto sia pensato e
rifinito, amorevolmente accudito insomma. Mancano dei riff realmente geniali e/o innovativi
per fare il definitivo salto di qualità, forse anche un po’ di coraggio in più al momento di
scegliere gli arrangiamenti; ma sono critiche che valgono come il migliore dei complimenti.
Se non credessimo in loro, non le faremmo, ci accontenteremmo di una pacifica pacca sulla
spalla, “Sì, sì, siete bravi, bel disco, bel disco... Prossimo? A chi tocca?”.
Contatti: www.myspace.com/captainmantell
Damir Ivic
Pagina 42
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Numero Febbraio '10
Cockoo
La teoria degli atomi

CNI
Suono pulitissimo in bilico tra hard, pop, wave e noise, poche esitazioni nella scrittura, una
produzione (Max Zanotti) capace di far brillare i brani anche oltre i loro reali meriti. Il disco
d'esordio degli astigiani Cockoo è un ottimo esempio di rock ad ampio spettro pieno di
lustrini, lavorato e abbastanza furbo da unire ballate cameristiche come la conclusiva
“Fenice” a sussulti emo-prog che giocano con certa epica elettrica alla Negramaro/Muse.
Niente di male, ci mancherebbe, considerato anche il fatto che la band se la cava
egregiamente quando si tratta di ostentare tecnica e buone intenzioni. Il problema, semmai,
è di chi in questi undici spaccati vorrebbe vedere qualcosa di più di un pugno di brani
meritevoli di traghettare il classico teenager verso le rive rassicuranti e colorate dell'MTV di
turno. Ci si accorge allora che nonostante una cornice formale ricercata e curatissima, tutto
suona estremamente prevedibile – o per lo meno fin troppo ragionato - e funzionale
all'effetto déjà vu che si vorrebbe suscitare in chi ascolta, testi compresi. Poco peso,
insomma, oltre la facciata catchy - si salvano forse i Tiromancino vagamente jazzati di
“Senza far rumore” - e quasi nessuna parentesi che spicchi dopo i tre o quattro ascolti di
rigore: conferma ulteriore della media caratura di un prodotto che fatica a mostrare
un'originalità reale.
Contatti: www.myspace.com/cocKoo
Fabrizio Zampighi
Pagina 43
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Numero Febbraio '10
Dioniso Folk Band
I testardi fiori della speranza
Aiutatichediot'aiuta Records
Legare con un filo rosso Woody Guthrie, l'impegno per i diritti umani, il cantautorato italiano
dei Bubola e dei De André, il Sudamerica e le sue suggestioni, l'Irlanda dei tin whistle, dei
bozouki e delle fisarmoniche è il sogno di più di una band combat folk di questa penisola, lo
diamo per certo. Perlomeno dai tempi dell'apparizione dei Modena City Ramblers nel 1994.
Dal volerlo fare al farlo con eleganza ed efficacia ci passa in mezzo l'Oceano, naturalmente,
e non è sicuramente un terreno facile da percorrere, con tutte quelle trappole e il costante
rischio di cadere nel fossato della retorica. In questo senso, la napoletana Dioniso Folk
Band, formatasi una manciata di anni fa nella periferia settentrionale di Napoli, si situa in una
più che discreta via mediana, senza rimanere ancorata alle sole buone intenzioni (che, come
sappiamo, lastricano intere autostrade transcontinentali) né raggiungendo le vette di un
genere che, d'altra parte, ha già abbondantemente dato. Va detto comunque che il sestetto
ha un particolare gusto per la sobrietà e per l'eclettismo delle soluzioni, oltre che un buon
ventaglio di ascolti variegati da buttare in mezzo, una indole che se ne esce fuori grazie
anche alla presenza di ospiti (tra cui Marzouk Mejri, collaboratore di Daniele Sepe ed
Eugenio Bennato). Su tutto, al di là di un repertorio abbastanza solido, salta all'orecchio, ad
indicare l'indole istrionica dei musicisti, una bella versione de “La Badoglieide” che, nel suo
sfocato formato a bassa fedeltà, sembra provenire da un altro spazio e da un altro tempo.
Contatti: www.myspace.com/dionisofolkband
Alessandro Besselva Averame
Pagina 44
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Numero Febbraio '10
DonSettimo
Notte di mamma
Malintenti/Jestrai
Giusto un paio d’anni fa non avevamo lesinato superlativi nel parlare dell’esordio omonimo
dei DonSettimo, affascinati dal suo impasto rugginoso e arso sotto il sole di Sicilia di
Calexico, Cesare Basile e Tom Waits. Non vi sono molte tracce dei primi in “Notte di
mamma”, seguito di quel felice debutto, mentre il secondo è ancora una volta presente in
veste di strumentista e produttore e il terzo rimane uno dei principali punti di riferimento
dell’ensemble guidato da Settimo Serradifico. Un modello talora ingombrante, quello del roco
cantautore di Pomona, che per fortuna non occupa interamente lo spettro sonoro del disco,
in cui l’incedere caracollante di certi passaggi viene interrotto da fragorose esplosioni
elettriche, mentre altrove le tessiture acustiche si intrecciano con tastiere e percussioni con
risultati avvolgenti e fascinosi. Tutto questo mentre la scrittura sembra essersi immersa
sempre di più nella tradizione siciliana, da un punto di vista non soltanto linguistico ma
anche sonoro, e i testi procedono per mezzo di una giustapposizione impressionistica di
immagini e quadretti a mezza via tra l’inquietante e il grottesco – a tratti si scorge in filigrana
la sagoma di Vinicio Capossela – in grado di colpire e lasciare esterrefatti al tempo stesso.
Per certi versi più estremo del lavoro precedente, ma per quel che ci riguarda altrettanto
riuscito. Non si può più parlare di una promessa, quindi, ma di una bella realtà. A patto,
naturalmente, di superare lo scoglio di una copertina non esattamente invitante...
Contatti: www.myspace.com/donsettimo
Aurelio Pasini
Pagina 45
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Numero Febbraio '10
Entourage
Prisma
Seahorse/Fridge
Ai messinesi Entourage, trio all'esordio con questo “Prisma”, perdoniamo l'incursione
pseudo-grunge di “Boom”, che ci pare davvero fuori tempo massimo, con quelle chitarre che
spingono in direzione crossover e soprattutto con quegli accordi in minore sentiti e risentiti
ad nauseam già a metà anni '90, e le già più interessanti ma non meno prevedibili
“Supercar” e “Age”, quest'ultima più linearmente hard rock. Sì, perché il resto del disco si
muove su terreni molto più interessanti e personali, navigando in direzione di un rock cantato
in italiano che non disdegna i muri di chitarre ma sa delineare traiettorie più delicate,
immergendosi in un pop di buona fattura, intimista ma non sdolcinato. Ecco, volendo
semplificare diremmo che, ai nostri, le cose migliori vengono quando uniformano un poco le
dinamiche e si applicano al formato della ballata, e in questo senso “Lettere Moderne”, il
brano di apertura, è un ottimo biglietto da visita. C'è una sincera disperazione, in quella
canzone dilatata e riflessiva, che ritorna altre volte lungo la scaletta, nella successiva “Verve”
e in una “Filosofale” un po' dalle parti di Benvegnù, e che costituisce, ci sembra, la cifra
stilistica più adatta ad una band promettente, solamente con idee non ancora del tutto a
fuoco.
Contatti: www.entouragepark.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 46
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Numero Febbraio '10
Evy Arnesano
Tipa ideale
Heavylight
Già tastierista e corista reggae/ska per band come Radici nel Cemento o Nidi d’Arac, Evy
Arnesano arriva a pubblicare il suo primo album da solista con l’autoprodotto “Tipa ideale”,
registrato nel corso di otto mesi e stampato in mille copie. La songwriter di origini pugliesi,
che si occupa in prima persona di musiche, arrangiamenti e testi, abbina due tendenze
opposte e complementari in canzoni orecchiabili e sbarazzine: da una parte l’utilizzo delle
programmazioni e dei moderni mezzi di comunicazione (espresso persino con il duo di
elettronica strumentale Lord Sinclair e con l’attività di blogger), dall’altra l’amore per le
composizioni degli anni Sessanta/Settanta e la riscoperta della tradizione italiana, compresa
la sfera delle colonne sonore d’autore. Le melodie vocali si sovrappongono a una giocosa
intelaiatura sonora, mentre i numerosi collaboratori chiamati a intervenire si distribuiscono
fra chitarra, basso, batteria, percussioni e fiati. Rimandi blaxploitaion e swing affiorano qua e
là, lungo una scaletta articolata in tredici episodi per quasi un’ora di durata (un paio di brani,
“Il mio vicino” e la title track, sono riproposte in chiusura e in versioni differenti, improntante
rispettivamente al jazz e alla bossa nova). Si va dalla programmatica “Samba pa mi”
all’appiccicosa “Non era tanto male” o alle dilatazioni di “Ieri per sempre”. Non tutto è riuscito
e l’originalità è per forza di cose relativa alla luce dei generi di riferimento, ma la
piacevolezza è assicurata.
Contatti: www.myspace.com/evyline
Elena Raugei
Pagina 47
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Numero Febbraio '10
Il Vortice
Dodici gradi di grigio
Imakerecords/CNI
È sufficiente il primo ascolto per capire che questo trio con base a Napoli non è uno dei tanti
gruppi privo di radici che si affaccia nel panorama rock italiano. Infatti la sicurezza con cui
affronta le dodici tracce di questo album è indice di una maturità che va ben oltre la media
nazionale. Guidati dal chitarrista/cantante Michele De Finis, gli Il Vortice vantano un album di
esordio nel 2004 “Le cose da evitare”, che riceve il plauso della critica e viene promosso con
numerosi concerti ed apparizioni importanti, a seguire un EP autoprodotto “Paradigmi del
distacco”, che diventa il viatico per accasarsi con la Imakerecords, madrina di questo “Dodici
gradi di grigio”, che sin dal titolo sembra voler scandire tutte le nuance della musica del
gruppo. Un sound che ha strutture ritmiche che chiamano in causa la solidità degli Helmet e
di certe sonorità cervellotiche di Fugazi e Don Caballero, espresse al meglio in “Inlamina” e
“La struttura del vuoto”, ma quando si accende il riff incrociato di “Occhiodipesce” appare lo
spettro degli Skunk Anansie e di certi Isis. A rendere però unici gli Il Vortice contribuisce
molto la voce del leader, che ha un’espressione ampia e si incunea intensa e teatrale nella
coltre di elettricità, con parole che mescolano istinto e ragione (penso alla poesia musicata di
“Beautiful Sadness”), come l’efficacia globale di “Dodici gradi di grigio”, una personale
sorpresa in un movimento rock tricolore che, anche se fatica a varcare lo scoglio
dell’underground, fortunatamente non manca di produrre musica di qualità.
Contatti: www.ilvortice.net
Gianni Della Cioppa
Pagina 48
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Numero Febbraio '10
Johnny Grieco
Affanno d’artista
Le Silure d’Europe/Snaps
“Affanno d’artista”, nuovo disco in proprio del leader dei Dirty Actions – nonché fumettista e
agitatore culturale – Gianfranco “Johnny” Grieco, riprende il riscorso iniziato circa un anno fa
con la sua precedente fatica da solista, l’EP “I’m Cool”, muovendosi ancora una volta in
ambiti prettamente elettronici. Non si tratta però di musica da ballo, anche se le ritmiche
molto spesso sono veloci e potenti, né di ambient (eccezione parziale fatta per lo
strumentale “Provvisorio”), bensì di una sorta di rock post-industriale che, dietro a una forma
sintetica, cela un cuore in tutto e per tutto umano. Se dunque il gioco è retto da tastiere,
sintetizzatori, effetti e drum-machine, il piglio è quello tipico del rock’n’roll meno
accomodante e più minaccioso, visto che gli scenari sonori sono sempre parecchio
inquietanti e cupi. Un contesto perfetto per la voce del titolare – responsabile, peraltro,
anche della scrittura e dell’esecuzione delle parti musicali – che declama storie di ordinario
disagio, ma anche di sesso e arte, servendosi a volte di un inglese parecchio crudo ma
citando anche Piero Manzoni, Pier Paolo Pasolini e Filippo Tommaso Marinetti, in un mix
stimolante tanto per le orecchie quanto per il cervello, e al tempo stesso estremamente fisico
e viscerale. A completare il piatto, due cover coraggiose come “Rape Me” dei Nirvana (per
voce e archi sintetici) e “Ziggy Stardust” di David Bowie (strisciante, cibernetica e privata di
ogni lustrino glam). Detto che forse il minutaggio poteva essere leggermente asciugato,
trattasi di un lavoro lontano dai compromessi oltre che di notevole spessore e, perché no,
fascino, ennesima creazione di un artista vero e tutt’altro che in affanno.
Contatti: www.myspace.com/johnnygrieco
Aurelio Pasini
Pagina 49
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Numero Febbraio '10
Mammooth
Back In Gum Palace
Forward Music Italy/Goodfellas
Ancora una proposta proveniente dalla romana Forward Music che si fa un po' a fatica ad
inserire in una categoria precisa: come nel caso dei concittadini Fjieri (anche qui, restiamo
nella Capitale), l'ensemble guidato dal cantante e chitarrista Riccardo Bertini non punta alla
coerenza ma lancia ponti tra epoche e atmosfere, ampliando la struttura delle canzoni in più
direzioni, un approccio di base che si potrebbe definire art rock e che sfocia in fughe tra
l'hard rock e i Pink Floyd di David Gilmour (“Sketches Of A Personal War”, ipotesi
interessante di un progressive aggiornato e appena un po' patinato ma comunque elegante),
in spazi ampi elettro-ambient scanditi da una cassa metronomica (“Key 6”, alla lunga
davvero un po' troppo dispersiva), in ballate prevalentemente acustiche e molto classiche,
radiofoniche ma non troppo (“Gone”), in aree quasi chill out (“Vincent”, che ospita la tromba
dell'amico attore Claudio Santamaria) e in più che apprezzabili tentativi di replicare in modo
credibile al sofisticato pop dei Blue Nile (“My Left Hand”), mantenendo sempre un aplomb di
fondo che è poi la cifra stilistica che attraversa l'intera scaletta del disco. Forse, l'unico limite
di questo album è dato dalla davvero eccessiva assenza di una coesione di fondo, visto che
la scrittura è di buon livello e i suoni, al netto di qualche soluzione un poco datata, sono
curati in modo eccellente.
Contatti: www.mammooth.net
Alessandro Besselva Averame
Pagina 50
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Numero Febbraio '10
Mamuthones
Sator

Boring Machines
Che i Mamuthones dell'ex Jennifer Gentle Alessio Gastaldello fossero una realtà sui
generis, lo si era già capito un paio di anni fa quando uscì quel “The First Born” (A Silent
Place, 2008) condiviso al cinquanta percento con Fabio Orsi. Già allora si parlava di
paesaggi sonori dilatati caratterizzati da una forte matrice immaginifica. “Sator” non fa che
confermare quanto di buono – e squisitamente obliquo – si era già ascoltato in quel disco,
con otto nuovi movimenti – perché definirli brani sarebbe riduttivo – ancestrali e fuori dal
tempo, ipnotici e oscuri. Psichedelia debordante che ha la sacralità di un rito sciamanico e le
tessiture di un ambient terreno, inchiodate mani e piedi a una spiritualità pagana che
incontra il krautrock più sepolcrale. Nella pratica, vengono in mente i Popol Vuh di Florian
Fricke – andate a riascoltarvi “In den Gärten Pharaos” e capirete –, da cui Gastaldello
riprende profondità, inquietudini e onirismi per miscelarli a un vortice di droni al rallentatore.
Il risultato è un esplorazione del subconscio che può vantare un controllo totale, oltre a una
definizione perfetta di immagini, parabole e voci. Un trip in piena regola che ribadisce il
notevole potenziale del gruppo/one man band veneto, inserendolo a pieno titolo e al pari
della trinità Jennifer Gentle, Slumberwood e Father Murphy in quel calderone lisergico che è
attualmente il – questa volta davvero – ricco Nord-Est.
Contatti: www.myspace.com/themamuthones
Fabrizio Zampighi
Pagina 51
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Numero Febbraio '10
Margareth
White Lines
Macaco/Audioglobe
L’esordio dei Margareth è il risultato di tre anni di prove, esperimenti e cambi d’organico.
“White Lines” è un disco che cerca di mantenere molto di quel che promette. Sul sito
dell’etichetta si legge: “La musica dei Margareth è un pop artigianale, con pochi ‘effetti
speciali’ e tante influenze (Beatles, Calexico, Mojave 3, certi R.E.M., il rock psichedelico, il
brit-pop per citarne alcune)” ed è vero. La prima cosa che viene in mente quando partono gli
accordi di “Horizon” è la psichedelia. Poi c’è il pop. Poi si cercano di ricordare le band che
vengono in mente. Poi ci si fa quasi prendere dalla nostalgia per i bei tempi andati, quelli in
cui pure l’Italia cercava di fare un indie-pop dal respiro internazionale (soprattutto attorno a
Bologna, con gente che da quando ha sentito che i Pavement si sono riuniti non sta più nella
pelle). Quel tipo di esperienza non solo non ha fatto figli, ma ha fatto anche diversi danni.
Ora si pubblica una quantità di merda allucinante. Per questo, a sentire “White Lines”,
tornano sorrisi e felicità. Macaco continua a puntare su band di livello. Dieci canzoni per
mezz’ora abbondante. Scelta perfetta e canzoni che si fanno ascoltare ben più che
volentieri. Menzione d’onore per “In Love With A Freak” – forse la più ambiziosa del lotto – la
conclusiva “The Gate” (con quelle trombe suggestive e perfette) e allo spin-off alla Sean
Lennon di “Night Talker”.
Contatti: www.magareth.it
Hamilton Santià
Pagina 52
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Numero Febbraio '10
Maxi B
Invidia
Latlantide
Dopo aver lavorato in coppia con Kaso e con i Metro Stars, e collaborato con Fabri Fibra, il
rapper luganese Maxi B si presenta in proprio con un album di debutto torrenziale: ben
diciannove tracce (di cui una ghost). Roba da metterlo su, e dimenticarsene. “Miss
indipendente”, “Fuori controllo” e “Un buco nell’acqua” sono realizzate con i Metro Stars;
“Match Point” riedita l’idea woody-alleniana delle scelte irrevocabili, featuring Jack the
Smoker; “Fra le nuvole” è soul morbido e rotondo; “Amoressia” e il remix di “Tu scappi”, voce
vocoderizzata – due delle tracce più riuscite – sono rispettivamente un atto d’amore (“sei la
via di uscita, la sola che c’è, ti voglio proprio ora con me”) e un atto di accusa verso i miseri
di coraggio, i prepotenti che in realtà sono in perenne fuga (“ti nascondi, sei un bla bla”). La
corposa scaletta mette a punto il ritratto di un artista senza bandiera, svizzero al confine
dell’Italia che non si sente né svizzero né italiano (“la mia nazione è un fiume”). Non veste
fashion, ma largo, “per farci entrare tutto il mio talento”, come dice in “Come mi vuoi”, traccia
in cui compare Primo dei Cor Veleno. In “Non ti capisco”, rivolta al padre, vorrebbe una vita
come quella dei film, come una volta Vasco (citato anche in “Pompa pompa”), a 220 all’ora;
va a letto alle sei (“lui quando torna a casa taglia l’erba; io se torno a casa la coltivo e me la
fumo, l’erba”). Poi ammette: “la sua generazione ha dato tutto, la mia generazione invece ha
preso tutto”. Primo singolo estratto “Batti”. Non c’è dubbio però che il climax dell’album sia
“Destra sinistra”, uno degli ultimi brani di Giorgio Gaber, rifatto da Maxi B, che dialoga col
grande cantautore scomparso in un duetto virtuale. Ascoltandola alla TV svizzera, la famiglia
Gaber ha chiesto entusiasta al rapper di inserirla nel CD. Spavaldo e a viso aperto,
torrenziale versificazione, Maxi B si mette a nudo e non imbroglia: l’invidia del titolo non è
quella degli altri, ma la propria, quella che Maxi provava quando ha deciso di fare un disco
da solo. Adesso è passata.
Contatti: www.latlantide.it
Gianluca Veltri
Pagina 53
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Numero Febbraio '10
My Foolish Heart
My Foolish Heart EP
autoprodotto
Trio di Torino alle prese con la consapevolezza della bellezza della musica suggestiva che
parte dal soul, continua raccontando le storie con la genuinità del folk, si erge con il rock
europeo più nordico e sfiora un’anima blues. Tutti e tre suonano le tastiere e in particolare
Caterina Sandri canta e scrive i testi; Stefanno Ordazzo suona la chitarra acustica e le
percussioni e Davide Moretti suona l’armonica e le percussioni. L’inizio con un rombo di un
motore che parte credo sia un omaggio alla Motown, etichetta produttrice immagino di tutti i
loro dischi preferiti. Nel brano che apre l’EP, “Henenlotter On The Way”, la voce di Caterina
si avvicina a quella della dolce Björk, anche se manca quella certa leggerezza che ti rapisce
al primo ascolto dell’islandese. “Painting The Halo” ha un giro di melodia della chitarra
semplicissimo su cui si appoggia tutto il ricamo della voce, che invece di commuovere o
emozionare ti stordisce con i troppi giri di canto, e tutto diventa troppo pretenzioso. “Logger
Head” invece è già diversa, ha una certa sottigliezza che la fa crescere passionalmente. Di
sicuro suonano con cognizione di causa, e io, seduta in un piccolo locale, con delle lampade
colorate accese basse, apprezzerei i loro brani lasciandomi trasportare dall’atmosfera
sognante che creano, ma su disco mi manca il vortice emotivo che io cerco in una canzone.
Buone composizioni ribadisco, ma ancora devono trovare un’impersonificazione della
musica, che sia la loro: quella dei My Foolish Heart.
Contatti: www.myspace.com/myfoolishheartmusic
Francesca Ognibene
Pagina 54
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Numero Febbraio '10
Nadàr Solo
Un piano per fuggire
Massive Arts/Self
Fondati a Torino nel 2005, i Nadàr Solo arrivano al secondo lavoro di studio con “Un piano
per fuggire”, a seguire l’omonimo esordio di due anni fa. Matteo De Simone (songwriter,
voce e “basso invadente”), Federico Puttilli (“chitarra tagliente”) e Andrea Zanuttini (“batteria
furiosa”) hanno le idee ben chiare se la loro sigla sociale – presa in prestito da un film
argentino del 2003 e traducibile come “nuotare da solo” – sta a rimarcare l’esigenza di
valorizzare la propria individualità, imboccare una strada sonora il più personale possibile. In
realtà, si tratta di puro e semplice pop-rock: elettrico, energico, melodico, essenziale e
diretto. Un pop-rock che funziona, che sa farsi canticchiabile e allo stesso tempo veicolare
contenuti all’altezza della situazione attraverso efficaci testi in italiano, collegati fra loro
dall’idea di fondo che ha ispirato lo stesso titolo del disco: il bisogno irrefrenabile di fuggire
dalle brutture assortite che ci circondano, di approdare a un luogo migliore. Un pop-rock che
non si prefigge l’obiettivo di inventare niente di nuovo, ma che riesce perfettamente a
centrare il suo scopo: scuotere a sufficienza. “7 anni”, “Radical Trip” e “Un’ora sola” sono
ottimi esempi in tal senso, mentre “5 secondi” preme maggiormente sull’acceleratore
ricordando vagamente i primissimi Verdena e la concisa, raccolta “Se non torni” spezza
momentaneamente la tensione. Al di là dei margini di miglioramento, una via d’evasione da
prendere in considerazione.
Contatti: www.myspace.com/nadarsolo
Elena Raugei
Pagina 55
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Numero Febbraio '10
Nimm
Generazione uno
La Stanzetta/Goodfellas
Come definire la musica dei veneziani Nimm? Un rock un po' generico che cerca di mediare
immediatezza ed aggressività, una formula semplice e senza troppe pretese che, all'incirca
da qualche decennio, viene distillata, con risultati altalenanti e variamente incisivi, in
qualsiasi cantina della penisola. Il trio costituito da Andrea Marin, voce e basso, Giorgio
Canali (semplice caso di omonimia), chitarra, e Fabio Gobbato, batteria, ci mette tutto
l'entusiasmo che riesce a racimolare, ci crede e si produce in cori, strofe e ritornelli che, non
abbiamo alcun dubbio, sono in grado di coinvolgere il pubblico di un locale affollato, ma che
su disco, ahimé, non rendono a sufficienza, o, perlomeno, aggiungono pochissimo a quanto
già detto da centinaia di colleghi, risultando un poco datati. Fa eccezione, almeno a parere di
chi scrive, una divertente cover de “Una bambolina che fa no no no”, in origine brano
francese di Michel Polnareff a sua volta coverizzato dei Quelli poco tempo prima di diventare
Premiata Forneria Marconi, un classico del periodo beat che si trasforma in qualcosa di
molto più semplice e primitivo senza perdere tuttavia la piacevole spontaneità. Per il resto,
come abbiamo detto, ben poco da segnalare, se non l'entusiasmo dei tre, speriamo in futuro
orientato verso qualcosa di più personale. Un sincero in bocca al lupo e un invito ad osare di
più da parte di chi scrive.
Contatti: www.myspace.com/nimmrocks
Alessandro Besselva Averame
Pagina 56
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Numero Febbraio '10
No Seduction
S.P.U.P.P.A.
autoprodotto
La musica ai tempi di Internet: libera, autonoma ed indipendente, come giustamente
recitano i No Seduction a corredo della tracklist di questo loro EP. EP atipico: pezzi loro +
pezzi loro remixati da altri. Bella la libertà, bella l’autonomia e pure l’indipendenza; ma a furia
di concentrarsi sul contorno, sulle nuove modalità operative all’interno della scena musicale,
si corre il rischio di dimenticarsi l’essenza. Che è la musica. Attenzione: non che i No
Seduction siano da buttare, tutt’altro, però la stessa attenzione che viene messa nel
(re)inventarsi come presenza nel sistema-musica andrebbe messa anche nel cercare una
propria voce. C’è infatti una dose grossa, molto grossa, forse troppo grossa di
no-wave-newyorkese-così-come-la-si-fa-nel-2000 (quindi leggermente annacquata, più
confezionata contemporaneamente per il dancefloor e per le camerette di chi ascoltava indie
rock esangue fino a cinque minuti fa). Fatta anche bene, non diciamo di no. Ma il meglio da
questo EP lo si avrebbe se fosse possibile mettere insieme il materiale originale del gruppo
con alcune delle idee che scaturiscono nei remix (non originalissimi nemmeno loro, ma per
nulla male, proprio no, menzione d’onore per Funkabit); una fusione di questi due elementi –
entrambi presenti nell’EP: più facile di così! – sarebbe la quadratura del cerchio e sarebbe
un reale avanzamento e innalzamento del livello musicale. Ormai abbiamo imparato tutti
come si a navigare come musicisti ai tempi di Internet; prossima missione, imparare come si
può fare ad essere originali ed innovativi, orsù. Ma forse siamo noi che siamo ipercritici e
abbiamo troppa memoria storica, in un’epoca in cui la memoria è stata sostituita dal
multitasking e dall’immediatezza. Forse.
Contatti: www.noseduction.com
Damir Ivic
Pagina 57
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Numero Febbraio '10
Plan De Fuga
In A Minute
About Blank/Self
Purtroppo quando recensisci gruppi di non chiama fama, stai a guardare anche certi
particolari. Tipo, come si presentano? Che aspetto hanno? Vedi le foto dei Plan De Fuga nel
booklet, e ti preoccupi. Nerovestiti e facce truci, con un certo qual aplomb da metallari che
provano a far pop ma in fondo al cuore restano metallari. Inserisci il lettore nel cd
aspettandoti il peggio. L’iniziale “In A Minute” invece, a gran sorpresa, ti piace assai: né
metal né pop, al massimo forse un po’ la seconda, ma di sicuro molto sapida nel suo
intreccio di batteria assai presente e chitarra sull’acustico. Questo marchio sonoro domina
tutto il disco, scopri (con le parti chitarristiche che, ovviamente, sanno virare anche
sull’elettrico quando necessario), e quindi termini l’ascolto contento. Le ricognizioni
successive attraverso le undici tracce di questo lavoro magari portano un po’ più a galla
alcuni limiti a livello compositivo e di arrangiamento (in tal senso, la seconda metà dell’album
è sicuramente meno qualitativa della prima), ma sono particolari, perché complessivamente
si cementa la sicurezza che questo è un lavoro sopra la media. Ad un’analisi cinica
bisognerebbe capire quale può essere il pubblico a cui mirare: quello di cui si parla poco ma
in realtà ancora molto presente del circuito rock non-metropolitano, perché i Plan De Fuga
sono troppo ruspanti per galleggiare nel lago del pop-rock di classe e troppo pop-rock per
essere arruolati dalla truppe indie più o meno modaiole.
Contatti: www.myspace.com/plandefuga
Damir Ivic
Pagina 58
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Numero Febbraio '10
Quarzomadera
Orbite
Videoradio
Questa band lombarda (in realtà un duo, imperniato su David Sar, chitarra, basso, voce e
molto altro, e il batterista Tony Centtorino, affiancati da un giro di ospiti) si aggira nel
panorama sotterraneo italiano da circa dieci anni, ed è lecito domandarsi se due album, un
paio di singoli all’attivo, numerosi concerti e molteplici riconoscimenti della critica siano
elementi sufficienti per decretare un qualche tipo di traguardo o se si debba invece
constatare che, nonostante tutto, siano ancora lontani dall’essere uno di quei tenui ma
chiacchierati fenomeni underground che tanto bene fanno “al giro” nazionale. Tuttavia i
Quarzomadera, sicuramente sono disinteressati a questo tipo di analisi, giustamente
procedono con le armi della passione e della sensibilità, con la sola voglia di esprimere in
musica le proprie emozioni. E in questa ottica il nuovo lavoro “Orbite” sembra essere un
passo avanti rispetto al precedente “Cardio&Psiche” del 2006: qui le canzoni si fanno più
definite e la voce di David sa calmierare l’avanzare delle melodie, in bilico tra passaggi
psichedelici e soffusi arpeggi, tanto che – non senza sorpresa – mi trovo a rievocare le
atmosfere agresti di Nick Salomon e dei suoi Bevis Frond, e “Vivere per attimi” o il blues
ipnotico di “Al mio cospetto”, con atmosfere non distanti da un Nick Cave, forniscono i giusti
indizi in tal senso. Non mancano tappe più energiche, come l’iniziale “TV ipnosi”, “Ironico
universo” o le sciabolate space rock di “Etica”, ma la sensazione è che i Quarzomadera non
amino alzare i toni, ma piuttosto preferiscano colpire il bersaglio sottovoce. E di questi tempi
è una dota assolutamente non marginale.
Contatti: www.myspace.com/quarzomadera
Gianni Della Cioppa
Pagina 59
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Numero Febbraio '10
Red Velvet
Red Velvet
KML
I Red Velvet sembrano muoversi facendo leva su un intrigante gioco degli opposti:
analogico e digitale, rock dissonante ed elettronica, dilatazioni ed esplosioni improvvise,
musica suonata e tecnologia. Alla complessità delle trame sonore (“Prayer For The Dead,
Prayer For You”, posta in apertura) e alle ballate relativamente delicate (“Blood On The
White Carpet” e “Waste Of Time”) si contrappongono così accelerazioni furiose (“Poison”,
con urla alla Deftones di Guillaume “Loub” Loubère) e intelaiature sintetiche dall’estetica
dark (“Lab Rat” oppure lo strumentale “Crystal Ball”, dalla cadenza incalzante). Il duo
franco-italiano, composto alla fine del 2007 da David Chalmin (voce e chitarre elettriche) e
Fabio “Reeks” Recchia (basso, batteria, sintetizzatore e campionatore), pubblica un debutto
omonimo che risulta denso e abbastanza impegnativo da assimilare, a tratti monolitico
seppure ricco di sfumature e schizofrenici cambi di tempo. Tra rotte post rock e staffilate
filo-crossover, c’è spazio persino per una rilassata cover di “My Funny Valentine”. Abbiamo a
che fare con tredici composizioni per oltre cinquanta minuti di durata, a evidenziare una
notevole cura formale, un’apertura di vedute che non va comunque a discapito di una messa
a fuoco complessiva tutto sommato omogenea. Se la ricetta può indubbiamente essere
perfezionata, la carne al fuoco è tanta e cotta al punto giusto. Ulteriore nota di merito per lo
splendido artwork di Roberto Calbucci.
Contatti: www.redvelvet.fr
Elena Raugei
Pagina 60
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Numero Febbraio '10
S.A.D.O.
Imprescindibile momento di cultura italiana
AMS Records
Per fare certe cose, e farle bene, ci vuole un bel coraggio. Società Anonima
Decostruzionismi Organici è il nome pomposo dietro il quale si cela un ensemble di
mattacchioni serissimi. Nel 2008 i S.A.D.O. presentano uno spettacolo dal vivo basato sulla
cultura pop(olare) italiana, scandito da disquisizioni sulla vita di Benedetto Croce con la voce
narrante dell'attore Giovanni Battista Franco. Il disco in questione è la registrazione pura,
senza sovraincisioni, di quello spettacolo, durante il quale la Società decostruisce con
impronta avanguardista, improvvisatrice e (quasi) free-jazz alcuni dei masterpieces musicali
dello stivale (“Mille lire al mese”, “Anima Mia”, “Binario”, “Bambola”, “Monia”, “Brava”,
“Donna” e “Figli delle stelle”). La diffidenza iniziale nei confronti dell'opera viene
immediatamente piallata dalla bravura della banda, dal basso frenetico e dalle tastiere
nervose di Paolo Baltaro, dal sassofono e dal trombone sghembi di Sandro Marinoni, dalla
batteria jazzata di Andrea Baccaro, il piano schizofrenico di Luigi Ranghino, ma soprattutto
dalla voce elastica di Boris Savoldelli (quasi uno Stratos non polifonico nelle corde vocali di
Renga). Il disco, di per sé, è un bell'oggetto da vedere in tutta la sua stramberia concettuale
e la confezione curata nei minimi dettagli. Ma non è tanto il supporto a fare la differenza,
quanto la musica e i musicisti della Società Anonima Decostruzionismi Organici. Per fare
una cosa così, e farla bene, ci vuole un gran bel coraggio. Ecco, i S.A.D.O. coraggio ne
hanno da vendere.
Contatti: www.societaanonimadecostruzionismiorganici.com
Marco Manicardi
Pagina 61
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Numero Febbraio '10
Scarlatti Garage
Strane idee
Suonivisioni/Jestrai
Anticipato da un omonimo EP nel 2009, l'esordio sulla lunga distanza dei napoletani
Scarlatti Garage, “Strane idee”, è un tentativo di muoversi in più direzioni, spesso
moderatamente contrastanti: da un lato l'adesione ad una impronta pop decisamente
radiofonica, con tanto di svisate funky e strizzate d'occhio non sempre necessarie, dall'altra
riferimenti a soluzioni appena più ricercate e vicine ai canoni dell'attualità, principalmente
uno snello tiro da new new wave. I risultati sono altalenanti ma mai disprezzabili, con
momenti davvero poco stimolanti come “La stessa lingua”, tentativo di sfruttare per la
milionesima volta la cassa dritta allo scopo di pompare i ritornelli, un tentativo non riuscito
che sembra voler ammiccare al pubblico adolescente che invade i palasport quando ci
suonano i Subsonica, ma anche canzoni che sanno sfruttare nel migliore dei modi le canzoni
scritte dal cantante e chitarrista Dario Lapelazzuli. Tra i pezzi più riusciti, citiamo “La radio”,
dotata di contagioso impianto melodico, e “Superstar”, che, con quel violoncello, appartiene
di diritto alla tradizione del rock in italiano meno provinciale e stracotto, quello che non
dimentica le radici, punta alla qualità e si guarda intorno, andando al di là di confini non solo
nazionali ma pure mentali.
Contatti: www.myspace.com/scarlattigarage
Alessandro Besselva Averame
Pagina 62
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Numero Febbraio '10
Sweepers
Soli nel buio
Ufo Hi-Fi/Goodfellas
Cantante, chitarrista e principale compositore degli Sweepers è Tiziano Tarli, saggista e
profondissimo conoscitore della musica italiana degli anni 60, come dimostrano tanto i
volumi da lui pubblicati sull’argomento quanto la sua militanza degli Illuminati (di cui, per
inciso, fanno parte anche i rimanenti membri degli stessi Sweepers, ovvero il bassista
Emanuele Sterbini e il batterista Alessandro Palermo). Ci sta, allora, che all’interno di “Soli
nel buio”, la loro seconda prova, non manchi qualche rimando alle sonorità e all’innocenza
del bitt tricolore, pesantemente filtrato però attraverso un’urgenza che è decisamente più
moderna e una spigolosità figlia della lezione dell’alternative rock statunitense di fine anni
80-inizio ’90. Canzoni semplici, che arrivano dritte al punto senza perdere tempo in fronzoli
inutili; dirette, ma anche curate nei dettagli e nella grana dei suoni, mentre la voce di Tarli
racconta di inquietudini quotidiane e di una paura per il futuro che tanti giovani (in senso
lato) di questa generazione conoscono fin troppo bene. Nella strofa di “Alice dice” vengono
in mente i Tre Allegri Ragazzi Morti, altrove certi passaggi vocali (“Il camaleonte”, “Se”)
fanno pensare a Moltheni, ma sono solo istanti, ché la proposta del trio sta perfettamente in
piedi senza l’ausilio di particolari paragoni o parallelismi. Del resto, brani come “Qui non c’è”,
col suo impasto di melodia e potenza, e una “Prujem” a metà tra grunge e power-pop
lasciano davvero pochi dubbi sul valore dei loro autori, che ci piacerebbe godessero nei
prossimi mesi dell’attenzione che qui dimostrano di meritare.
Contatti: www.sweepers.it
Aurelio Pasini
Pagina 63
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Numero Febbraio '10
The Brilliants At Breakfast
Romy's Garden
Seahorse/Audioglobe
Secondo Oscar Wilde solo le persone noiose sono brillanti a colazione: facendo del celebre
motto la propria ragione sociale, questo quintetto palermitano nato nel 2007 smentisce con
una certa dose di ironia la constatazione dello scrittore irlandese, proponendo una musica
che, pur non suonando particolarmente originale, è tutto fuorché noiosa. Anzi, il tentativo è
quello di mescolare certe atmosfere riconducibili al rock strumentale di questi anni (più che i
sempre citati Mogwai, diremmo i texani Explosions In The Sky o i giapponesi Mono) ad un
rinnovato legame con la forma canzone. Il risultato è un rock a mezza strada tra i Pink Floyd
più oppiacei e l'indie più chitarristico, che si culla tra distorsioni, crescendo e aperture
melodiche, come accade nella placida “Blueberry Sky”, pronta ad esplodere in lente
detonazioni di vaga derivazione stoner, nella incisiva “Jules & Jim”, che immaginiamo possa
piacere ai fan dei dEUS, o nella più movimentata “The Island”, brano dalle molteplici facce
che utilizza cambi di marca progressive ricondotti a più miti e sfumati consigli. Bravi,
diciamolo senza riserva, pur specificando che si sta parlando di ottimo artigianato di genere.
Lontano comunque, in qualsiasi modo la si voglia vedere, dalla comoda scusa del
manierismo.
Contatti: www.myspace.com/thebrilliantsatbreakfast
Alessandro Besselva Averame
Pagina 64
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Numero Febbraio '10
The Calorifer Is Very Hot!
Evolution On Stand-By
WWNBB Collective
I “Caloriferi” sono una di quelle band che l'underground nostrano e soprattutto bolognese si
tiene gelosamente sottobraccio. Dopo un disco indiepop a bassa intensità e quasi perfetto
come “Marzipan In Zurich” di qualche anno fa, e dopo essersi messi all'asta su eBay per un
live casalingo, ora ripensano un po' tutto il modus operandi dello scrivere canzoni
caramellose e lo sguaiano ulteriormente in “Evolution On Stand-By”. Ci sono ancora i
Pavement a far da numi tutelari del suono portante, ma le piccole svolte folk che si sentono
qua e là, come nel primo singolo “Lester” o magari per pochi secondi in altre canzoni, sono
quasi una sorpresa assai gradita. Poi le chitarrine splettrate all'ingiù, le batterie vere o
elettroniche, i cori lontani dal microfono, certe ritmiche scanzonate e l'aria di Svezia sono
sempre nelle loro corde, c'è però un estro compositivo maggiore nella tessitura dell'album.
Se li si è visti in concerto non è difficile sorridere e ricordarseli suonare sbracati in qualche
festivalino di provincia, e ai fan più accaniti alcuni dei pezzi di “Evolution On Stand-By”
suoneranno decisamente familiari perché ben rodati dal vivo più e più volte. Se aggiungiamo
poi che sono personcine piacevoli con le quali passare una serata o anche due, è quasi
d'obbligo procurarsi la loro nuova reincarnazione indie-folk-pop e magari fare un salto a
vederli da qualche parte, per poi finire a banco il resto della nottata e continuare a tenerseli
gelosamente sottobraccio.
Contatti: thecaloriferisveryhot.blogspot.com
Marco Manicardi
Pagina 65
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Numero Febbraio '10
Verme Robots
Crawling In The Rush Hous
I Make Records
Quello che emerge sin dal primo ascolto di questo album dei campani Verme Robots è
l’assoluta padronanza in fase di scrittura ed esecuzione dei tre protagonisti, cosa che
dovrebbe sorprendere, considerando che si tratta di un esordio. Ma la risposta arriva
leggendo la biografia: la band è infatti la nuova estensione dei conosciuti Crawler,
importante realtà del Sud Italia, che sin dal 1999 ha portato in giro il verbo del crossover
metal. “Crawling In The Rush Hours” è il raggiungimento di una maturità evolutasi attraverso
i solchi di precedenti esperienze, dipanate in due album e innumerevoli cambi di formazione.
Ma rispetto al passato i Verme Robots, pur senza lesinare energia, seguono meno l’istinto e
più la ragione, con un ardore intellettualoide che li avvicina a certi Mars Volta, ma anche ai
coraggiosi ...Trail Of Dead, con chitarre taglienti che si innestano in territori ritmici avvolti da
evoluzioni fantasiose e inattese aperture melodiche. I brani che meglio focalizzano la qualità
del gruppo sono “Animal”, che rievoca i fantasmi dei Tool per il suo incidere cupo ed
ossessivo, le doppie voci di “Frenetic Quite” e i frangenti dark wave di “Emotive”, tenebrosa
storia d’amore; efficace infine il cantato dell’ospite Teresa Tedesco che valorizza con
trasporto gli arpeggi elettrici di “Change”. Potenti, sicuri ed equamente divisi tra presente e
futuro: una bella scoperta questi Verme Robots.
Contatti: www.vermerobots.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 66
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Numero Febbraio '10
Vick Frida
Cine_Pop
Platinum/Universal
Ad ascoltare questo lavoro dei Vick Frida viene in mente subito una cosa, per associazione
d’idee: aiuto, sta per arrivare Sanremo, con tutto il suo codazzo di gigantismi ed inutilità, con
tutta la sua non rappresentatività di quello che succede oggi in Italia fra chi ha vent’anni o
giù di lì (d’altro canto l’Italia è un paese per vecchi, quindi viene quasi da dire che sia giusto
così). Sanremo, la patria del pop levigato, del cantautorato morbido e non spigoloso, dei testi
di amabile buon senso e soffice introspezione – OK, ci sono anche le stronzate di Povia, ma
per favore non ricordatecele. Insomma, Sanremo è questo. E i Vick Frida anche. Ma se
almeno metà della canzoni sanremesi di quest’anno avesse la qualità media di questo
“Cine_Pop” avremmo forse il festival migliore di sempre; non il più innovativo, certo, ma
probabilmente quello più gradevole da ascoltare. Si ascolta alla fine molto volentieri, questo
album. All’inizio storci il naso perché è molto lavorato negli arrangiamenti, ma lavorato
appunto alla maniera del pop italiano che si sente nella Riviera dei Fiori una volta all’anno, lo
si avverte anche in fase di mixaggio finale – e qui scatta i riflesso condizionato di cui
dicevamo. Poi però analizzi la sostanza, le canzoni cioè, e trovi molto di buono. Trovi più di
qualche eco di Mario Venuti, non la stessa incisività a livello di liriche forse ma di sicuro la
stessa padronanza nel gestire con gusto le linee vocali (a parte le parti recitate, evitabili).
Trovi una grande scorrevolezza, una capacità di accompagnare all’ascolto assestando
interessanti cambi armonici in più di un’occasione. Per gusto personale nostro, e per quello
di voialtri lettori di “Fuori dal Mucchio”, sarebbe bello i Vick Frida diventassero come DNA più
spigolosi e coraggiosi, meno pop mainstream insomma; bisognerebbe vedere loro come la
pensano, bisognerebbe vedere loro Sanremo con che spirito lo considerano.
Contatti: www.myspace.com/vickfrida
Damir Ivic
Pagina 67
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Numero Febbraio '10
Ronin
Locomotiv, Bologna, 17 Gennaio 2010
Bruno Dorella imbraccia la chitarra, guarda il pubblico e sorride. Vorrebbe dire qualcosa, ma
si limita a salutare: la platea è formata quasi esclusivamente da amici, conoscenti e facce
note. Bologna è così, per i Ronin, una specie di seconda casa. Allora inizia “L'ultimo re”, il
disco, che nell'arco della serata verrà eseguito per intero. Le dita di Bruno si muovono sul
manico come una lingua che nella melodia racconta storie, lotte e conquiste, battaglie e
rivoluzioni. La batteria di Enzo Rotondaro è perfetta nell'accompagnare ora marziale ora
accarezzata l'incedere della guerra; il basso di Chet Martino diventa artiglieria; la chitarra di
Nicola Ratti è la cavalleria pesante. Gran parte della gente in piedi in rigoroso silenzio viene
dall'hardcore, ma con i Ronin non si discute, le atmosfere morriconiane, a tratti come da
Calexico battaglieri, richiedono attenzione e raccoglimento. Poi ci sono le esplosioni, che
arrivano con fragore quando sul palco sale Jacopo Andreini, uno dei primi Ronin di tanti anni
fa, con un sassofono che è un grido lancinante in un paio di pezzi d'annata come “Calavera”
e una vecchia cavalcata che si perde all'inizio degli anni zero. Anche Nicola Manzan, alias
Bologna Violenta, polistrumentista dei migliori in circolazione, presta il violino per “L'ultimo
re”, la canzone. Le chitarre di Bruno e Nicola diventano poi una cosa sola in “Meandro”.
“Venga la guerra” è uno scalpitare romantico sulle teste dondolanti del pubblico, e arriviamo
quasi alle lacrime sul coro finale de “I pescatori non sono tornati”, con le luci che si
abbassano e le voci cantilenanti dei quattro come marinai avvolti nella nebbia. Dopo un
breve bis Bruno Dorella appoggia la chitarra, guarda il pubblico e sorride. I Ronin scendono
dal palco e sarà un continuo giro di chiacchiere per il resto della serata. Chiacchiere tra
amici, conoscenti e facce note. Bologna, per i Ronin, è così, una specie di seconda casa.
Marco Manicardi
Pagina 68
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Numero Febbraio '10
Sterbus
Oltre a suonare il basso con Sweepers (della cui ultima fatica discografica ci occupiamo
proprio su questo numero) e Illuminati, Emanuele “Sterbus” Sterbini è anche titolare di un
progetto solista, le cui canzoni – talvolta nate riutilizzando basi di batteria dei suoi o di altri
gruppi amici – vengono registrate con l’aiuto immaginiamo divertito di svariati esponenti della
scena underground capitolina. Ecco allora che tra le tracce del CD-R “Chi ha ordinato gli
spinaci?” sfilano i nomi di membri di MiceCars, The Shadow Line, The Foundation,
Fromanta! e degli stessi Sweepers, tutti pronti a mettersi al servizio di brani vibranti e ben
costruiti, in cui l’elettricità la fa spesso da padrona e di volta in volta prende la forma
dell’indie e dell’hard rock e di un power-pop potente e solare, anche se non mancano riusciti
intermezzi acustici (“Song For Elliott”, che omaggia Elliott Smith servendosi soltanto di titoli
di canzoni dei Beatles) e parentesi orchestrali (“Prepuberalles”). Un ascolto piacevole, che
pur nella varietà di voci e soluzioni mette in mostra una chiara visione d’insieme, da far
invidia alla gran parte delle produzioni ufficiali che quotidianamente ci passano per le mani.
Contatti: www.myspace.com/sterbus
Aurelio Pasini
Verme
Un verme resta un verme, come un emocorer resta un emocorer. Verme è l’unione di alcuni
soggetti noti, sentiti spesso e soprattutto volentieri, provenienti da varie band del circuito
sottoboschivo italiano, gente avvezza all’emocore e all’hc di quelli più struggenti, di quelli
che se fossimo vermi ci farebbero arricciare su noi stessi. C’è Iacopo dei FBYC alla voce e
membri di Dummo, Agatha e Hot Gossip agli strumenti. “Un verme resta un verme” è il
risultato dell’unione, un disco che visivamente richiama i Germs, ma all’udito non può non
ammiccare ai Fine Before You Came. Quattro tracce urlate da Iacopo e accompagnate da
chitarre come lagne distorte e batterie sofferte. Quattro pezzi: “Montagna”, “Città”, “Piombo”
e “Ossimoro”, con testi che come grida a occhi serrati contro il cielo, pugni che sbattono
rabbiosamente sul pavimento, ginocchia che si spellano, vermi che si arricciano perché
estratti a mani nude dalla terra. “Un verme resta un verme” è stato registrato il ventuno
dicembre a Milano e si può scaricare gratuitamente dal sito della band. Una band di
emocorer che restano emocorer.
Contatti: verme666.wordpress.com
Marco Manicardi
Pagina 69
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