Numero Giugno `07 - Il Mucchio Selvaggio

Numero Giugno '07
EDITORIALE
Sesto appuntamento del 2007 con “Fuori dal Mucchio”, il nostro inserto – anche se,
nel passaggio dal cartaceo a Internet, la definizione pare ormai riduttiva – dedicato a
quanto di più interessante accade nell’underground musicale italiano, in ambito rock
ma non solo.
Seppure sfiancati da un caldo già torrido, anche questo mese abbiamo cercato di
offrirvi una panoramica quanto mai multiforme, svariando tra generi e stili, nuove
proposte e nomi già conosciuti, avanguardia e tradizione. Molte le recensioni – ma
non si tratta che di una minima parte del materiale che esce ogni mese, ché le
nostre selezioni sono sempre ferree – e molte anche le interviste, oltre
all’appuntamento con “Dal basso” e al report di una manifestazione che si distacca
felicemente dal cliché del concorso o del festival per band emergenti, dimostrando
come l’interazione con le specificità del territorio possa dar vita a risultati
decisamente interessanti e personali.
Un menu ricco, quindi, che speriamo riesca ancora una volta a stuzzicare la vostra
curiosità. Non ci rimane quindi che augurarvi buone letture e buoni ascolti,
possibilmente al fresco, e darvi appuntamento al mese prossimo.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Giugno '07
Ataraxia
Kremasta nera
Ark/Masterpiece
Sono passati diversi anni da quando gli Ataraxia erano inclusi nella lista dei miei
gruppi e preferiti e volentieri mi muovevo per l’Italia soltanto per assistere ai loro
concerti. Poi l’interesse si è affievolito; non che la band modenese abbia perso lo
smalto di una volta, è stata piuttosto la naturale mutevolezza degli ascolti personali
a condurmi altrove. Invece il percorso creativo e l’approccio stilistico di Francesca
Nicoli e soci è rimasto coerente e ben determinato, in bilico tra tradizione e
modernità, tra gusto neoclassico ed essenzialità post punk.
Lo testimonia anche il loro più recente album in studio che, pur senza scadere in
prevedibili stereotipi, segue un processo espressivo ampiamente collaudato e
facilmente riconoscibile. Insomma anche “Kremasta nera” porta orgogliosamente il
marchio di fabbrica degli Ataraxia: la voce sempre efficace di Francesca, le toccanti
evoluzioni della chitarra acustica di Vittorio, le oniriche atmosfere ordite dalla
tastiera di Giovanni. I ritmi tribali di un ritualismo perduto, pregni di magia e di
mistero, s’intrecciano qui con epiche danze, ben sostenute dalle percussioni di
Riccardo Spaggiari, in un primordiale germoglio crocevia tra oriente ed occidente. Il
disco è ispirato all’arcaica civiltà che proliferò nell’isola di Samotracia, in un tempo
confuso nella leggenda. E in questa ricerca, invero più spirituale che storica, si rivela
il degno successore dell’ottimo “Lost Atlantis” (1999) (www.arkrecords.net).
Fabio Massimo Arati
Borde-aux
Radio Motel
Envelope/Goodfellas
I Borde-aux nascono cinque anni fa a Monopoli, ma ben presto si trasferiscono
nella capitale lombarda. E un’atmosfera milanese, inevitabilmente, finisce per
trapelare nella loro musica. Se d’altra parte nel cantato è facile, anzi inevitabile,
riscontrare l’influenza di riferimenti quali Manuel Agnelli e Moltheni, parlando di
atmosfera milanese vogliamo spingerci più in là e non limitarci al semplice elenco di
similitudini che ci possono più o meno legittimamente venire in mente, dicendo che
questo loro primo lavoro, “Radio Motel”, assume le forme convincenti di un plumbeo
concept sui recessi del cuore: un disco che racconta di letti sfatti, ferite emotive e
notti che finiscono su una nota amara e malinconica, luoghi emotivi che chi scrive,
forse per pura arbitrarietà, ha sempre associato alla scena – espressione da
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prendere naturalmente con le pinze: più che nomi e appartenenze, temi e sonorità del capoluogo lombardo. Non voglia sembrare una critica: la vena poetica dei
Borde-aux è ben sostenuta da chitarre, basso e batteria, e la forma prediletta di
espressione, quella della ballata, sovente fatta detonare in evoluzioni più fragorose,
viene amministrata con l’intensità che occorre. Se manca ancora qualcosa alla
completa riuscita del progetto, possiamo dire che è la volontà di osare un po’ di più.
Ma stiamo parlando di un esordio, discretamente convincente per quanto ci
riguarda, e per accrescere la personalità occorre tempo. Siamo disposti ad
aspettare ([email protected]).
Aurelio Pasini
Bron Y Aur
Millenovecentosettantatre
Wallace/Audioglobe
Prosegue senza sosta il continuo processo di destrutturazione,
decontestualizzazione e riappropriazione del linguaggio rock da parte dei lombardi
Bron Y Aur. Partiti ormai dodici anni fa su direttive di improvvisazione legate a certo
hard rock Seventies e certa psichedelia, negli episodi successivi i cinque hanno
radicalizzato il lavoro sulle forme, lasciando sempre spazio a momenti in qualche
modo più strutturati quando non provocatoriamente pop: è il caso della spiazzante
cover di un brano di Sam Cooke, “Bring It Home To Me”, su “Vol 4”. L’ossessione
per gli anni Settanta musicali (ricordiamo la bella copertina proprio di “Vol 4”, ironico
omaggio al quarto album dei Black Sabbath) non viene abbandonata neppure
questa volta (l’inequivocabile titolo), ma quello che ci regala in questo caso il
quintetto sembra essere un disco di transizione, meno incisivo dei predecessori.
Con qualche momento indubbiamente suggestivo come il folk rituale e vagamente
faustiano di “Mongrel Dog” oppure l’acid rock attraversato da disturbi elettronici di
“Era luglio”, ma senza una direzione – o non direzione, al limite – di fondo che
riesca ad essere del tutto convincente, e anzi con qualche episodio che pare un
poco velleitario. Inalterato il potenziale e il valore dei musicisti e del progetto,
“Millenovecentosettantatre” non convince a pieno e appare come un mezzo passo
falso. È ovvio d’altra parte che solo chi non si accolla rischi non sbaglia mai, e di
certo non si può dire che i Bron Y Aur siano mai restati con le mani in mano.
Attendiamo solamente una prova meno confusa, sicuri che arriverà (
www.bronyaur.net).
Alessandro Besselva Averame
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Francis*Jfox ei Santocalifornia
Cosmopulp
Tube
Partiamo dalle cose positive. I milanesi Francis*Jfox ei Santocalifornia hanno un
nome abbastanza spiritoso. Una di quelle ragioni sociali curiose che tendi a
ricordare nonostante tutto e anche prima di aver ascoltato una sola nota. C’è poi da
sottolineare un’innegabile passione. Ad ascoltare “Cosmopulp” affiorano tutta una
serie di citazioni e di influenze che credevamo nascoste da qualche parte in vecchie
collezioni di vinili. Blues – John Lee Hooker, su tutti (ascoltare “Mama Told Me So”)
– rock’n’roll primordiale – un po’ di Chuck Berry che non può che fare bene – e,
soprattutto, tantissimo surf-rock, strumentali e twang guitars, tra “Rockin’ Bones”, gli
Shadows e Link Wray. E chi l’avrebbe mai detto di avvertire influenze del genere in
un disco del 2007 (ma registrato nel 2006)?
Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. Perché sa da un lato si plaude alla passione
con cui i cinque (capitanati da Marco “Francis” Carnelli e Davide “Jfox” Pieri)
ripropongono una musica così volutamente retrò e da appassionati “veri”; dall’altro
bisogna anche considerare il risultato. Il problema principale di questo “Cosmopulp”
è la sua coerenza. Sembra messo assieme senza nessun principio di base che non
sia quello della passione per certe sonorità. Va benissimo, ovviamente. Ma bisogna
almeno riuscire a scrivere dei pezzi capaci di elevarsi dalla media o costruire un
groove tale che certi alti e bassi possano passare inascoltati. Insomma, non si va
oltre all’operazione nostalgia. Ma dopo esserci asciugati la lacrimuccia e aver visto
che i dischi di Link Wray sono lì al loro posto, anche per noi romantici da quattro
soldi scatta l’ora del cinismo. E dispiace considerare che alla fine, “Cosmopulp”,
manca della coerenza necessaria per passare altre volte nel nostro stereo (
[email protected]).
Hamilton Santià
FuckVegas
FuckfuckVegas
Go Down/Audioglobe
Dischi del genere non sai mai come prenderli. Rivoluzione e banalità. Solito
pimpante rock’n’roll grezzo e rumoroso e qualcosa di più, che devi trovare tra le
pieghe di un suono fragoroso, tra voci che sembrano urlare ma che in realtà
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cantano il delirio quotidiano. Forse il nome vuole essere una presa di posizione
verso uno dei tanti falsi imperi di oggi, ovvero la città del divertimento (???), Las
Vegas, crocevia di sogni e distruzione. Come in un attimo una semplice
slot-machine o un tappeto rosso di un tavolo da gioco possono consegnare l’estasi
della vincita o la perdita di tutto, così i quattro FuckVegas si divertono a comporre e
scomporre il rock in una frazione di secondo. Ascolti un riff che sa di fabbrica e lo
trovi impastato con un synth che emette suoni fatiscenti, mentre scorre una
cavalcata stoner ti accorgi che ci scivola sopra lava psichedelica. Ma nei FuckVegas
il gusto della provocazione, pur se a volume spaccatimpani, non travalica mai il
concetto di canzone, sia che chiami in causa gli Stooges o Syd Barrett o gli Who
fatti di acido scaduto o i Led Zeppelin vestiti da killer (scovateli tra “The Real
Show”). Sei brani a base di punk-grunge o di grunge-punk, decidete voi. Casomai ci
sono anche le opzioni stoner elettronico o metal industriale. Potrei anche non amare
il frastuono che provocano, ma quando indicano in Diego Armando Maradona uno
dei tre loro idoli (gli altri sono Giulio Favero e Gianni Vedovato), non posso non
amarli (www.fuckvegas.net).
Gianni Della Cioppa
Gli Inquilini
I mostri capitolo 3
autoprodotto/Goodfellas
Ci sono in giro per l’Italia un po’ di scuole di giornalismo, alcune addirittura
specializzate nel giornalismo musicale. Ora, senza stare a questionare sull’utilità di
queste scuole (anzi, questioniamo in tre parole: visto che siamo in Italia, sono inutili
come insegnamenti ma utili perché ti danno i contatti – che tristezza, l’Italia), a loro
vorremmo dire: mo’ pigliatevi questo CD, e recensitelo. Potete parlarne bene, e
sbrigarvela così velocemente. Scuola Mollica, o scuola Bruno Vespa con Tremonti.
Oppure potete essere più onesti ed accurati, e notare come Gli Inquilini confermano
per l’ennesima volta una strana caratteristica: hanno tutti, ma veramente tutti gli
elementi per essere interessanti. Sono infatti un gruppo hip hop organico (c’è quello
bravissimo tecnicamente come rap, c’è il pazzo, c’è la tizia che non è scarsa ma è
brava, ci sono altri MC solidi), sfornano delle rime che si sforzano sempre di essere
intelligenti e/o creative, inseguono sempre l’equilibrio tra gli stilemi tipici dell’hip hop
da battaglia e più adulte prese di coscienza, costruiscono degli album che sono dei
concept, pescano per i campionamenti da fonti sonore varie, offrono riferimenti di
ogni genere… Eppure, la sensazione è sempre quella di non sufficiente incisività,
non sufficiente carisma, non sufficiente forza per convincere sia l’ascoltatore altro,
quello maturo, acculturato con ascolti a 360°, sia il b-boy. Fare le cose troppo
bene, in modo troppo educato (anche quando si tenta di essere sporchi e “malati”)
diventa un limite. Peccato, perché analizzati i singoli elementi, tutti, che
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compongono il progetto Inquilini, la voglia sarebbe quella di scrivere cose molto
lusinghiere (www.myspace.com/glinquilini).
Damir Ivic
Golfclvb
Golfclvb
Here I Stay
Chi prova gusto a sminuzzare la musica e a dividerla in tanti generi e sottogeneri
troverà di che divertirsi ascoltando l’omonimo debutto dei Golfclvb. Parlerà di
post-core fugaziano, e magari pure di emo-core, tirerà in ballo la new wave più
cupa, senza dimenticare l’indie-rock meno conciliante e le asperità del noise. Tutto
vero, per carità, e tutto più o meno utile per inquadrare la proposta del quartetto
sardo, con il rischio però che andando a cercare influenze e derivazioni si perda di
vista il nocciolo del discorso: e cioè che le nove canzoni del CD pulsano di una
vitalità inarrestabile, vibrano di rabbia ma sono il frutto di un attento lavoro di ricerca
sonora e produttiva. La batteria sovente sciorina figure ritmiche non banali, il basso
è potente e rotondo, la chitarra abrasiva quanto basta e la voce cerca e trova un
apprezzabile punto di incontro tra furia e melodia; e, a rendere il tutto più
interessante e vario, la presenza – occasionale ma significativa – di un Farfisa.
Giocano con le strutture tipiche della forma-canzone i quattro, ma non esitano a
deformarle alla bisogna, mostrando un buon gusto per le divagazioni strumentali. E,
soprattutto, si divertono non poco a rimescolare le carte: in “Secret Place”, per
esempio, in cui prendono i New Order e, a forza di vetriolo, li trascinano verso lidi
più punk-funkeggianti. Hanno ampi margini di crescita i Golfclvb, ma già ora
possono giocarsela alla pari con parecchi nomi più blasonati e visibili; come inizio
non è niente male (www.golfclvb.com).
Aurelio Pasini
Gonzo48k
Hi-Fi Lovers
Pippola/Audioglobe
Ci sono due modi per giudicare “Hi-Fi Lovers”. Ve li offriremo entrambi. Allora. Si
può dire che è un disco dalla notevole qualità, a partire dai suoni (le dieci tracce
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sono state addirittura masterizzate agli Sterling Studios di New York). Si può dire
che la scioltezza compositiva di Luca Marrocco e Simone Pizzardo è notevole, le
loro canzoni scorrono delicate, sanno bilanciarsi alla perfezione con gli
arrangiamenti sospesi tra elettronica (spesso nostalgica degli anni 80) e indie
acustico delicato (o, in alternativa, richiami agli Air). Si può dire che è bello che ci sia
un disco italiano che raggiunge, nel suo genere di appartenenza, standard qualitativi
così alti ed internazionali. Si può dire che l’ascolto è una lunga carezza malinconica.
Bene. Ottimo, vero? Vero. Ma si può anche dire, attenzione, che francamente non
sentivamo la mancanza dell’ennesimo progetto indietronico tutto intriso di nostalgie
adolescenziali, di timidezze ostentate, di sorrisi incerti, di elettronica usata come
maquillage gentile e non come arma contundente. Si può dire che certi vezzi
emaciati del mondo indie italiano ormai sono un po’ datati, un po’ (molto) provedibili,
un po’ (molto) stucchevoli: o hai un talento mostruoso nell’azzeccare melodie aeree,
vedi appunto gli Air, e allora puoi anche permettermi i ninnoli sonori da infantilismo
acuto e da gracilità emozionale, oppure sei semplicemente abbastanza bravo, come
sono i Gonzo48k, e allora in questo caso potresti fare qualcosa di più coraggioso
piuttosto che attaccarti, buon ultimo, alle timidezze impacciate (e poco coraggiose)
di certo “indieismo”. Non sentiamo la nostalgia della cameretta e delle nostre paure
di quattordicenni, no. Vorremmo crescere, grazie (www.gonzo48k.com).
Damir Ivic
Humanoira
L’arte di sciogliere la neve
Snowdonia/Audioglobe
Mi perdoneranno gli Humanoira se approfitto dell’occasione per augurare buon
compleanno decennale alla Snowdonia, la frizzante, instancabile label messinese
che dunque da dieci anni si fa notare per le sue scelte e proposte atipiche e
provocatorie, spesso un mix avant-pop colorato, trasversale, caramelloso,
naïf, capace di scardinare musicalmente e concettualmente il comune senso
del pudore nazional-popolare, con riferimento tanto alla canzone pop quanto alla
sterilità di tanto indie-rock italiano. Da lì l’ultima provocazione o ponderata decisione
(molto interessante per chi scrive) di produrre d’ora in poi solo progetti in lingua
madre. E allora eccoci ai livornesi Humanoira con un titolo curioso come “L’arte di
sciogliere la neve” e altre fantasiosi giochi di parole, fervori nonsense, immagini
colorate ed inafferrabili riscontrabili già in altri titoli come “Nel raccapricciante
scontro tra umorismo e noia”, “Perché il mio amore è pop”, “L’acchiappacitrulli”,
“Quando Lenin arriverà!! (Ziguli)”. Determinante nell’economia del progetto una
sarcastica attitudine al teatro di ricerca del quartetto (da cui l’inconfondibile voce di
Carmelo Bene in “Muschio”), come intuibile dalle foto di copertina e interne nel
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booklet. E la musica? Sì certo, c’è anche della musica, forse un po’ in retrovia, con i
suoi slanci da pop progredito, suoni da modernariato indie-pop con qualche
svagatezza progressive, con le sue bizzarrie naïf, qualche pennellata di sax e
garbate striature electro. Tutto molto Snowdonia dunque, ma soprattutto per via di
talune rare sintonie e convergenze per le quali quattro poliedrici giovani toscani
trovano una speciale complicità con Cinzia (e Alberto) e il suo snowdoniano paese
delle meraviglie. Cento di questi dischi ancora (www.snowdonia.it).
Loris Furlan
J.C. Cinel
Before My Eyes
Lonestar Time
Prima, durante e probabilmente anche dopo i Wicked Minds, di cui è straordinario
frontman (è da poco uscito anche un loro album dal vivo), J.C. Cinel mantiene
accesa anche una carriera solista, che lo vede nelle vesti di raffinato cantautore, Un
ruolo ispirato probabilmente al lungo soggiorno in California nei primi anni 90.
Questo CD potrebbe sembrare solo un passatempo, una mossa d’attesa di un
musicista pieno di interessi ed attività. Niente di più sbagliato, perché “Before My
Eyes” scorre che è un piacere, con quel suo oscillare tra country rock, pigri rintocchi
di southern e ballate folk ingigantite dalla voce mai sopra le righe del protagonista,
con rimandi di David Bowie, Marc Bolan e David Byron (Uriah Heep, per quelli a
digiuno di hard rock). Non nascondo che il primo ascolto è partito svogliato, ma
canzone dopo canzone sono stato costretto a ricredermi: qui ci sono gusto e classe,
e i pezzi funzionano grazie anche a fatati tocchi di West Coast, il vero punto di
riferimento per J.C. Cinel in proprio. L’apertura di “Ships In The Wind”, “Sweet
Dream” che emana vibrazioni di mattino luminoso, la malinconia di “Dear Old
Friend”, “Brush My Cymbals” impreziosita da un perfetto assolo di chitarra, i
rintocchi pop di “Out In The Frontline”, il blues caldo spinto da una slide e da una
tagliente armonica di “What I See”; tanti i tasselli che rendono “Before My Eyes” un
album interessante, che si sia o meno fan dei Wicked Minds (www.jccinel.com).
Gianni Della Cioppa
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Jet Set Roger
La vita sociale
Snowdonia/Audioglobe
“Una volta credevo / di essere un tipo allegro / ma poi mi sono accorto / che non
era vero. / Scrivevo canzoni spiritose / ma erano noiose / e ora ho deciso che
scriverò canzoni tristi / ormai non c’è più scampo per me”: così, a freddo, magari
non è divertente, ma vi assicuro che difficilmente potete fare a meno di sorridere
ascoltando queste parole dalla voce di Jet Set Roger, crooner bresciano che
sembra quasi, nella canzone che abbiamo appena citato, una sorta di Jens Lekman
italico. Ironia che filtra dalla malinconia, ma non solo. Il nostro uomo ha infatti
parecchie frecce al suo arco. È un eccentrico, innanzitutto, di quelli che mancano
tanto al nostro panorama musicale, anche se bisogna ammettere che c’è sempre
chi, come Snowdonia, ha l’orecchio fino per questa tipologia di artista. Ed è un
musicista eclettico, uno che riesce a mettere insieme riferimenti all’apparenza
inconciliabili come Giorgio Gaber e i Diaframma: se “La madre di Rachele” è, per
l’appunto, una sorta di ibrido tra il Signor G e i Kinks, uno spassoso vaudeville
all’italiana, la title track coniuga il gruppo di Fiumani al tempo passato del beat anni
60. Come se i Baustelle assumessero vesti un poco più kitsch, o se Jarvis Cocker si
fosse messo a guardare vecchie immagini di Studio Uno. Altro punto di forza i testi,
che si muovono astutamente tra sguardo naïf e citazionismo divertito. A dirla
tutta, qualche ingenuità, magari a livello di arrangiamento, c’è, ma non disturba mai
la vena ispirata di un personaggio che meriterebbe una visibilità ben più ampia (
www.jetsetroger.it).
Alessandro Besselva Averame
Juan Mordecai
Songs Of Flesh And Blood
Y2K-V2/Edel
Ragione sociale nuova per nomi e volti già ben noti; un progetto collaterale (così
definito dai suoi stessi protagonisti) che però riallaccia le fila di un discorso
interrottosi ormai tre lustri fa. Non è un solista Juan Mordecai, ma una band – o per
meglio dire un duo, di cui fanno parte David Moretti e Andrea Viti. E se inizialmente
quel che salta agli occhi è la militanza del secondo negli Afterhours (interrottasi lo
scorso anno dopo un decennio), non bisogna dimenticare che i due, insieme, erano
stati membri di quei Karma che all’inizio degli anni 90 ottennero un discreto
successo (22mila copie vendute dei loro due album, cifre che oggi sarebbero
impensabili) nell’Italia travolta dal ciclone grunge. Rispetto ad allora, “Songs Of
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Flesh And Blood” sposta il tiro verso una psichedelia desertica e dalle forti tinte
semiacustiche: affiancati da tutta una serie di amici tra cui i rimanenti membri dei
Karma e Xabier Iriondo, Moretti e Viti hanno realizzato una raccolta di canzoni
sporche di polvere e sabbia, alle volte sature di distorsioni e incalzanti ma più
spesso giocate sulle mezzetinte e sulle sfumature, mettendo in mostra una cura
davvero notevole per suoni e arrangiamenti e riuscendo quasi sempre a evitare la
maniera un po’ ingessata di chi certe sonorità le vive soltanto di riflesso. Merita
quindi ascolti ripetuti e attenti questo CD, per poter entrare a fondo tra le trame solo
all’apparenza lineari di composizioni che si muovono sulla linea sottile che separa la
luce dall’oscurità, finendo inevitabilmente per propendere per quest’ultima e
andando così a toccare corde care tanto ai Thin White Rope quanto a Neil Young e,
soprattutto, a Mark Lanegan. Una buona (ri)partenza, nella convinzione che il
meglio per gli Juan Mordecai debba ancora venire (
www.myspace.com/juanmordecai).
Aurelio Pasini
Kid Weird & The Combos
Kid Weird & The Combos
Powermaracas/Wide
Iniziativa encomiabile, in un contesto come quello italiano in cui le istituzioni non
muovono quasi mai un dito per la promozione della cultura giovanile, leggi rock e
dintorni, quella del comune di Pordenone: finanziare uno spazio di produzione
musicale, corsi di ingegneria del suono annessi, ovvero il “Centro Peppino
Impastato”, utilizzabile dai gruppi locali. Passando a parlare di uno dei primi gruppi
che hanno potuto usufruire di questa agevolazione, i Kid Weird & The Combos,
dobbiamo confessare di esserci esaltati un po’ meno. Mettiamo le mani avanti,
dicendo prima ciò che funziona: ad esempio una “Jack The Axe” che sa di antiche
frequentazioni garage rock appena sporcate da una batteria elettronica e che fa il
suo sporco lavoro di immediato coinvolgimento, due accordi e via. Altrove però le
cose si fanno più pasticciate, e l’intreccio di tastiere, fiati, chitarre e punk melodico, a
tratti classicissimo (“Attack”) e altrove ammiccante ai moderni nevrotici del post
punk e dell’elettroclash (“Me And Henry” e “Dr#gs”), non ci convince fino in fondo,
non perché carente di spinta propulsiva, ma perché troppo legato alla boa del già
sentito. Non così selvaggi da passare per schiacciasassi rock’n’roll, ma neppure
così originali da poter puntare sulla sola scrittura, i Kid Weird & The Combos devono
scegliere da che parte stare. Non ce ne vogliano, ma siamo convinti che una volta
trovato l’assetto giusto avranno cose ben più sostanziose da dire (
www.thecombos.com).
Alessandro Besselva Averame
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Lily’s Puff
Heaven Frowns
Ark/Masterpiece
Già lo scorso anno la Ark Records ci aveva offerto l’opportunità di scoprire i Lily’s
Puff grazie ad un prezioso 45 giri condiviso con Argine e Autunna Et Sa Rose. Attiva
da circa un decennio, la band udinese – già sotto contratto con Radio Luxor e Nail
Records – ha trovato un valido interlocutore nell’etichetta partenopea, che
recentemente ha dato alle stampe il loro ultimo “Heaven Frowns”. E, nel raccogliere
informazioni sul gruppo, apprendo che si tratta del quarto capitolo di una carriera
spesa in prevalenza sui palchi del nord Italia e già gratificata da un certo numero di
estimatori, esigui ma tenaci.
Scostandosi dagli abusati clichè del giro dark, il quartetto propone undici episodi di
rara eleganza, tutti cantati in inglese. New wave, musica d’ambiente e raffinate
melodie pop convivono in un crogiuolo di influenze che spazia dai Joy Division ai
Japan di David Sylvian, dai Cure e dai Depeche Mode più intimisti, sino alle più
oscure soluzioni dei Massive Attack; e non pensiate tutte queste citazioni
pregiudichino la personalità e l’equilibrio espressivo di un cd di gran pregio. Benché
prevalgano gli arrangiamenti elettronici – sempre sobri e minimali, più inclini alla
ricerca timbrica che non all’effetto commerciale – non mancano episodi acustici,
come la malinconica “Kitchen Elements” il cui pianoforte richiama l’opera di Wim
Mertens (www.arkrecords.net).
Fabio Massimo Arati
Luca Faggella
Questa notte suona forte, tutto bene!
DDF Teatrosonoro
Adesso sembra davvero che il tempo del folk sia terminato. Faggella suona il rock.
Dal vivo. Faggella è un’anima fiammeggiante e irrequieta. Dopo aver attaccato gli
spinotti, da “Fetish” in poi, il musicista livornese ha messo nello zaino Ciampi e i
luccicanti balli yiddish, riposto nei cassetti le invettive anti-imperialiste. Adesso è
nuova vita. Ha portato in un lungo tour la sua voglia di musica ad alto volume e ora
quel tour è fissato su disco. Oddio, Ciampi l’indimenticabile concittadino c’è ancora
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(“Le carte in regola”) e c’è pure Brel, con due cover (“Amsterdam” e “Voir un ami
pleurer”). Ma ci sono soprattutto i My Bloody Valentine di “Loveless”, da cui Faggella
sceglie “Only Shallow”, perfettamente adatta e a suo agio in uno streaming di
accigliato rumorismo. Come se in Germania, tra le due guerre, in locali pieni di
nuvole di fumo, si suonasse elettrico a pieno wattaggio: la musica di Faggella oggi
suggerisce immagini così.
Il cuore del live è nelle sequenze “Fetish”, “Nuova vita”, “Pornostar”; “L’amante”,
“Raggio”, “Uccidimi”. Di furia ipnotica, sensuale, un po’ oscura, a descrivere l’incerto
vagare del nostro tempo. Come ogni album dal vivo, “Questa notte suona forte, tutto
bene!” - che per Faggella è il primo live, a suggellare un decennio di carriera rappresenterà di certo una cesura. Il poliedrico performer toscano andrà a capo,
dopo questo punto. E ci sorprenderà di nuovo (www.lucafaggella.com).
Gianluca Veltri
Lucariello
Quiet
Sanacore/Edel
Per i super appassionati di hip hop Lucariello non è certo un nome nuovo: attivo
sulla scena rap da circa un decennio, negli ultimi anni ha cominciato a
“crossoverare”, soprattutto da quando gli Almamegretta hanno dovuto cominciare a
cercare un sostituto di Raiz. Il quale Raiz è insostituibile, però al tempo stesso il
contributo e le qualità di Lucariello sono stati onesti, in alcuni casi buoni – il fatto di
avere un timbro di voce simile al suo più illustre concittadino lo penalizza un po’, ché
il confronto scatta automatico (sappiamo che non dovrebbe essere così, lo
sappiamo). “Quiet” è, non a caso, molto almamegrettiano nei suoni e nella
concezione delle basi. Qua si è di fronte al dubbio, anzi, al bivio: trovare
l’impostazione musicale sorpassata dal tempo e troppo educata per essere incisiva,
oppure apprezzare e amare lo sforzo di rendere dolci le asprezze dell’hip hop,
ammantandole di melodie malinconiche (trip hop?, sì, trip hop…). Diciamo che si
resta a metà del guado, ma diciamo anche che dovendo scegliere ci sentiamo più
vicini alla seconda opzione, quella più positiva, che alla prima. Al microfono e alle
rime poi, Lucariello fa il suo lavoro. Argomentazioni tipicamente neapolitan. Tirando
le somme (e ascoltando brani molto belli come “Lunastella”), “Quiet” è senz’altro un
buon lavoro. Gli manca qualcosa per poter essere veramente notevole, mancano
spigoli, mancano scarti improvvisi, mancano sorprese: ognuno, dopo un primo
ascolto, può decidere se è un peccato veniale (www.lucariello.net).
Damir Ivic
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Numero Giugno '07
Marcho’s
La ricerca della felicità
Macaco/Audioglobe
La strada della Macaco Records, da Mestre, è tortuosa e rifiuta per definizione i
sentieri già battuti. Sono salite difficoltose da lasciarci la milza, ma è questo il prezzo
da pagare per fare in modo che la musica pop (italiana underground) passi oltre
questa fase di creatività zero. Ci vuole coraggio. E ce ne vuole molto. Ben vengano
quindi i Marcho’s. Questo “La ricerca della felicità” è il secondo disco (segue di due
anni l’esordio “… e ovviamente il tempo passa”, sempre su Macaco ma in formato
CD-R) di questo trio capitanato da Marco “Marcho” Mossuto – voce e sintetizzatori –
e integrato dalle chitarre di Alberto “Gancho” Cozzi e dai campionamenti dell’ultimo
arrivato, Antonio “Matto” Del Mestre. Un progetto strano, pop senza il pop, d’autore
senza l’autore, personale senza il personale. L’io che esce prepotente dalle liriche a
metà tra Stefano Benni e Rino Gaetano (non è una bestemmia… ascoltate prima
“Quel che sono” e poi “Me stesso”) non sottolinea un disagio generazionale.
Sarebbe noioso. Ma è un io che esce da sé – anche grazie ad una musica che non
fa niente per “immedesimare” chi ascolta – e diventa pura rappresentazione. Ed
questa teatralità ad essere passo fondamentale dell’esperienza Marcho’s, che
rischia altrimenti di passare come la solita pappetta di pop indie “intelligente” che
tanto piace ai ragazzi del giro giusto. Insomma. Niente di più sbagliato o di
superficiale. Ascolto dopo ascolto le piccole storie di Antonio Del Mestre sembrano
essere le storie di tutti i giorni di chiunque. E in un’epoca che esalta il singolo, un po’
di sano collettivismo non può che fare bene (www.marchos.it).
Hamilton Santià
Marilù Lorèn
Respiri
Stoutmusic/Audioglobe
A chi non ne può più dei gruppi dal nome di donna, e sappiamo che non sono pochi
(i gruppi e coloro che non ne possono più), ricordiamo che i Marilù Lorèn esistono
dal 1997 e non si sono quindi accodati ad un immaginario che per certi versi si è
fatto un po’ inflazionato, casomai sono tra i precursori di tale tendenza. Questo per
dire che se la sono presa comoda, dato che questo “Respiri” arriva dopo ben cinque
anni dalla pubblicazione del primo EP del gruppo romano, “In espansione”: un
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Numero Giugno '07
gruppo di lunga esperienza quindi, che ci ha messo il tempo che occorreva per
assimilare ed elaborare idee e spunti con il contributo di quel Paolo Benvegnù che
già aveva prodotto il lavoro precedente e che qui mette in campo tutta la sua
sensibilità per tirare fuori un prodotto d’impatto, dove le percentuali di immediatezza
e cura del particolare sono perfettamente bilanciate. Le canzoni percorrono i sentieri
non certo inediti di quel rock d’autore in italiano che nel corso dell’ultimo decennio
ha prodotto Afterhours e Scisma, influenza quest’ultima che esula dalla presenza di
un componente del gruppo in cabina di regia e che ci sembra pura questione di
DNA, ma anche, più recentemente, i Non Voglio Che Clara. Pur non essendo
originalissima, “Respiri” è una prova di classe che raggiunge l’apice proprio negli
ultimi minuti: “Davvero”, con pregevole finale bandistico in dissolvenza, e
“Travisando”, elegante intreccio di chitarre, archi, voci e piano (www.mariluloren.it).
Alessandro Besselva Averame
Mudlarks
Mudlarks
Gonna Puke/Goodfellas
Nonostante accada sempre più spesso non mi sono ancora abituato a sentire un
gruppo anagraficamente giovane capace di rivisitare, senza rovinare tutto, generi
molto distanti nel tempo. Prendiamo il caso dei Mudlarks: l'origine è vicentina,
Grisignano per l'esattezza, e l'anno di formazione è il 2001, eppure questi (ora)
quattro ragazzi possono vantare un curriculum di quelli “vintage”. Non si parla di
contatti e visite sul loro sito, ma di tour in America, Europa e naturalmente Italia,
magari prima dell'esibizione di gruppi del calibro di Dickies o Vibrators.
Un'esperienza che si concretizza per la prima volta sulla lunga distanza grazie a
questo omonimo lavoro, realizzato dal sempre efficace Giulio Favero nel suo
“Blocco A”. Un album che porta le orecchie indietro di almeno trent'anni, e più
precisamente alle atmosfere di band quali MC5, Stooges e tutto quanto proveniva, e
proviene, dalla “motor city” Detroit. Non un assalto all'arma bianca, ma qualcosa di
più raffinato, in cui la voce di Alice possa suonare dolente quanto basta giusto un
attimo prima di lanciarsi in un ritornello che mi ricorda gli Stones più grezzi, cosa
che puntualmente accade in “Strange Days”. Dieci brani così e, una volta arrivato
alla fine, già ti dimentichi che si tratta di un esordio e, soprattutto, che questo disco è
appena uscito, tanto risulta credibile il suond messo in piedi dai Mudlarks. E proprio
per questo, anche se può suonare un po' paternalistico, una cosa voglio proprio
scriverla: missione compiuta (www.mudlarks.com).
Giorgio Sala
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Numero Giugno '07
Patrizia Laquidara
Funambola
Ponderosa/Edel
È un girotondo di sorprese il nuovo album di Patrizia Laquidara. Tre anni fa con
“Indirizzo portoghese” vestiva, tra i clamori della critica, i panni di cantautrice folk;
oggi invece stringe un sodalizio con un pop elettronico e sussurrato esattamente
come la sua voce, che pare scivolare tra le note, lontana da virtuosismi, ma
sensuale come velluto. “Funambola” nasce come un ponte ideale tra Milano e New
York, con la produzione di Patrick Dillett e – emoziona solo a scriverlo – Arto
Lindsay, affiancati da una parata di musicisti internazionali. Poche note e ogni
canzone ha una sua struttura, con i testi che non nascondono quasi nulla,
svelandoci l’anima della protagonista, esattamente come le bellissime foto di
copertina e della confezione. Se “Nuove confusioni” ha un ricamo arabeggiante,
come descrivere il tenue tepore che fluisce da “Se qualcuno”, dove Patrizia canta
“Abbandonandomi tra i paralleli (amare a perdifiato e rimanerne indenne) e
rotolandomi tra i meridiani..”? Un’immagine fantastica. In uno scorrere di emozioni
mi hanno ferito a morte il cammino assente di “L’equilibrio è un miracolo” e
soprattutto il tocco fatale di “Chiaro e gelido mattino”, diaspora di emozioni scritta
dal sottovalutato Pacifico, che Patrizia interpreta con un trasporto emotivo che
spaventa. E a dire che forse non capisco nulla, arriva candida la notizia che il primo
singolo proposto è “Le cose”, l’unica canzone dell’intero CD, che ho trovato insipida.
Problema mio, evidentemente (www.patrizialaquidara.it).
Gianni Della Cioppa
SensAzionE
Anche i pesci hanno sete
Zeta Promotion/Venus
Un efficace compromesso tra la potenza del live e una ricerca sonora che è tipica
del lavoro in studio. Questo sembrano voler raggiungere i bolognesi SensAzionE, e
con “Anche i pesci hanno sete” – la loro opera seconda, seguito di “Frammenti… tra
rumori e parole” (2004) – potrebbero esserci riusciti. Perché ascoltando le dodici
tracce del CD risulta innegabile la cura messa negli arrangiamenti, negli effetti e
nella produzione, senza che però questa vada mai a discapito di un impatto
dirompente; e, allo stesso tempo, la visione del concerto contenuto nel DVD allegato
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Numero Giugno '07
mostra una band in grado di spalancare la porta alla visceralità non facendosi
mancare nulla a livello di cura e varietà dei suoni. Insomma, il quartetto fa le cose
per bene, e sebbene il terreno in cui si muove – un robusto rock in italiano al confine
tra il grunge, gli Afterhours più spigolosi e sonorità più metalliche – sia
potenzialmente a rischio di banalità, l’ascolto rivela un buon numero di spunti
interessanti. La sezione ritmica è un motore che marcia a pieni giri, la chitarra
macina riff su riff, la voce forse ogni tanto urla un po’ troppo ma nel complesso
veicola bene la rabbia e il disagio espressi da testi e musiche; soltanto sulla lunga
distanza l’impressione è quella di una certa monolicità, ma proprio nel finale ci
pensa “Koyanisquatsi” (con la voce a poggiare su un avvolgente collage sonico) a
offrire una seppure inquietante via di fuga. E, in tutti i casi, le varie “Quando la
coscienza cigola”, “Vertigini e suoni” e una “Vivere a 1/2” dai lontanissimi riverberi
pop sono canzoni di una solidità che lascia adito a pochi dubbi (www.sensazione.it).
Alessandro Besselva Averame
Stefano Vergani
Chagrin d’amour
Bagana/Edel
Dopo il furor di popolo al Controfestival di Mantova e il Premio Tenco, Stefano
Vergani è stato catapultato nella realtà discografica. Al secondo album, il
venticinquenne milanese conferma quanto di buono aveva lasciato intravedere
nell’esordio di due anni fa. L’impressione è come se Vergani avesse scavalcato a
piè pari il noviziato e si muovesse già da veterano. Ascoltare per credere il pezzo di
apertura “Amici miei”, la sua serietà, l’autorevolezza, il lusso di una voce e solo il
pianoforte accanto – né sopra, né sotto – alla De Gregori più ispirato. Vergani si
circonda di padri nobili. “Non cerco la città” ti conquista con struggimenti
sudamericani, di nostalgia pigra, e l’Orchestrina Pontiroli diventa un sestetto
mariachi. “Bello sguardo” e “Il capobanda” si ammantano d’antan e di eventi di
paese, d’una nostalgia gentile. Con lo swing spazzolato di “Gli affranti”, gli intrecci
chitarristici di “Io ero bella”, i riccioli di pianoforte di “Pesci e poltrone”, gli archi
romantici della serenata atipica “Raramente mi fai incazzare”, la scrittura di Stefano
Vergani è erede di una tradizione popolare consolidata, senza stilizzazioni di
maniera. Magari bisognosa ancora di scrollarsi di dosso qualche influsso stilistico, a
volte, un po’ troppo riconoscibile (i fuoriclasse, i master della canzone d’autore
seppiata), ma già con una sua fisionomia; come si usa dire, con una cifra. E Vergani
è ancora tanto giovane (www.stefanovergani.it).
Gianluca Veltri
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Numero Giugno '07
Uniplux
I dannati, i militanti e lo stregone
Atman
Nonostante una carriera lunga almeno venticinque anni, la discografia dei capitolini
Uniplux è ridotta all’osso: un paio di singoli negli anni 80, un primo album datato
2002 (“Radiazione orgonica”), e ora “I dannati, i militanti e lo stregone”. Dodici i
brani al suo interno: due titoli del repertorio storico registrati dal vivo, nove inediti e
una cover di “Luglio, agosto, settembre nero” degli Area. Partiamo proprio da
questa, che riesce nel non facile compito di misurarsi dignitosamente con un
originale inarrivabile. Per il resto, la formazione – che coincide quasi totalmente col
cantante e chitarrista Fabio Nardelli – si muove lungo le coordinate del rock (in)
italiano più classico, svariando tra grintose sonorità hard tipicamente Seventies e
ballate rock più intimistiche e di stampo elettroacustico, mentre i testi affrontano non
senza una punta di ingenuità tutti i temi tipici del genere (sesso più o meno
mercenario, amori di gioventù, stazioni radio clandestine, fuga – magari in
motocicletta – dalla città e da una società sempre più inumana). Insomma, a volerla
dire senza peli sulla lingua, stereotipi a sufficienza per far sembrare Ligabue un
rivoluzionario. Eppure dietro ai luoghi comuni c’è un cuore che batte, c’è il sudore e
la fatica di chi tra mille difficoltà calca i palchi da una vita e sente il bisogno viscerale
di comunicare il proprio disagio fregandosene delle mode. Quel disagio ben
rappresentato dal miglior brano del lotto, “Asylum”, direttamente ispirato al lavoro di
Nardelli come psicoterapeuta e alla controversa figura dello psicologo Wilhem
Reich. Abbastanza per dare al tutto una certa qual credibilità “di strada”, anche se –
lo si sarà capito – l’innovazione non sta di casa qui. In ogni caso, il massimo rispetto
è quantomeno doveroso (www.uniplux.com).
Aurelio Pasini
Uochi Toki
La chiave del 20
Wallace/Audioglobe
Uochi Toki ed Eterea Postbong Band: forse non ci sono in Italia gruppi altrettanto
fuori di testa. Rapper di confine i primi, già iscritti al circolo eterodosso della Burp
Publications; istrionici ed imprevedibili avnguardisti rock i secondi, anch’essi con
una manciata di dischi all’attivo. Si sono messi in combutta ed hanno convinto il
buon Mirko Spino della Wallace – non sappiamo se con le buone o le cattive – a
produrre il loro album congiunto: “La chiave del 20”.
Il CD è integralmente incentrato sull’impresa – ad alto valore sociale – di alcuni
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Numero Giugno '07
scavezzacolli che si imbucano malvolentieri in discoteca. Con l’utensile da cui il
disco prende il nome forzano una porta di emergenza e irrompono all’interno: il loro
unico obiettivo è di opporsi con la propria trasandata presenza al mondo patinato
delle ragazze truccate e degli ometti impettiti, caratteristico dei locali da ballo più alla
moda. Di là dai suoi risvolti politici, il lavoro deve la propria vitalità alle articolate ed
imprevedibili evoluzioni strumentali degli Eterea, la cui forza espressiva spazza via
ogni compromesso stilistico, colpendo il fisico e lo spirito. Al contrario, ci si arena sui
provocatori proclami anticonformisti degli Uochi Toki, tanto invadenti da supporre
che siano stati concepiti ad arte, allo scopo di risultare incredibilmente molesti (
www.wallacerecords.com).
Fabio Massimo Arati
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Numero Giugno '07
Beatrice Antolini
Beatrice Antolini è un po' come la sua musica: veloce, colorata, fantasiosa, ricca di
sfumature. Un'artista appassionata ma con le idee chiare, dal carattere deciso e
perennemente in movimento, titolare di ottimo esordio come “Big Saloon”
(Pippola/Audioglobe) e per nulla spaventata – almeno a giudicare dalle poche
battute che seguono - di vestire il ruolo di “rivelazione” dell'underground di casa
nostra.
Cominciamo dal principio: genesi di Beatrice Antolini.
Beatrice Antolini suona da sempre e compone sempre. Suonando da sempre
affronta vari generi e varie situazioni. Suona strumenti diversi studiandone
seriamente (o quasi) solo uno, che è il pianoforte. Sogna di comprarsi una marimba
tutta sua. Non cambierebbe per nulla al mondo il suo sgabello (ha suonato in tutti i
pezzi).
“Big Saloon” è il tuo disco di esordio ed esce anche per Madcap Collective,
un etichetta che ha fatto dell'esaltazione del “pensiero laterale” un assioma.
L'impressione è che tra la musica che proponi tu e le linee guida della label di
Treviso vi sia una sostanziale unità di intenti...
Ci tengo principalmente a dire che il disco è uscito per la prima volta a novembre
per Madcap, ma è nuovamente uscito a maggio per un’altra etichetta che è Pippola
Music con distribuzione Audioglobe, e credo che verrà ristampato (dato che ci
stiamo finendo le copie della prima tiratura) da entrambe le etichette. Per adesso
stiamo rimasterizzando il tutto per la ristampa . Per quanto riguarda il mio rapporto
con Madcap Collective, adesso più di prima mi ci sento legata, in primis perché mi
ha accolta a braccia aperte (sotto mia richiesta) e poi perché fa tutto con grande
passione ed entusiasmo, cosa che nell' indie nostrano spesso manca. Mi sembra
che ci si sia uniti con il tempo; io conoscendoli, ho iniziato a fidarmi di loro e loro
hanno creduto in me. Non ti nascondo che vorrei che Madcap Collective diventasse
ancora di più un punto di riferimento per la musica indipendente in Italia,
considerandola per quello che è già cioè un’ etichetta che non si pone limiti di stili o
generi, sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo da proporre .
Perchè un titolo come “Big Saloon”?
“Big Saloon” nasce come titolo di un pezzo che stranamente ho poi escluso
dall'album…. Il Big Saloon è una grande sala con un grande pianoforte (scassato
come quelli che ho io) nel quale dò vita (o morte) ai miei sogni, che spesso non
sono nemmeno tanto belli. Quindi uno spazio grande (perché più grande è, più può
contenere roba) dove si muovono le mille avventure (musicali e non) che mi è
capitato di vivere.
Psichedelia, ragtime, vaudeville, ritmiche serrate distese sui tasti del
pianoforte, fantasiosi scenari onirici e una pletora di strumenti musicali a
decorare il tutto: ti offenderesti se paragonassi la tua musica al cestello di una
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Numero Giugno '07
lavatrice da cui si esce inevitabilmente confusi ma al tempo stesso rigenerati?
Non so se offendermi o no ma se mi dici che se ne esce “rigenerati” mi potrebbe
andare bene anche il paragone che hai fatto. La catarsi dovrebbe esserci in
qualunque espressione artistica. Se ti ho dato la catarsi mi va bene anche il
cestello...
Come è nata l'esigenza di affidarsi ad una fusione di stili tanto azzardata?
Credo sia nata con il fatto che io sono nata. In realtà non mi affido mai a niente e a
nessuno (sono pure parecchio diffidente). La fusione di stili di cui giustamente parli
mi viene spontanea, come respirare, perché mi piacciono davvero troppe cose e
vorrei farle tutte. Vorrei essere una pattinatrice sul ghiaccio, un’attrice, una pittrice,
un cavaliere e Billie Holiday, tutto contemporaneamente, ma la vita è una sola.
Credo che il mio sia un modo inconsapevole di sintetizzare.
Al disco ha collaborato anche Marco Fasolo dei Jennifer Gentle. A giudicare
dal retrogusto di alcuni passaggi – pensiamo ad esempio a “Monster Munch” il suo pare un apporto tutt'altro che marginale. Sbaglio?
Per quanto riguarda la composizione dei pezzi (e quindi anche al retrogusto dei
passaggi) non riuscirei ad affidarmi a nessun altro se non a me stessa. Per quanto
riguarda la produzione idem. Quindi sbagli. Quello che ha fatto Marco è scritto nel
cd; diciamo che ha portato un apporto in qualche arrangiamento e mi ha aiutato
molto con il missaggio. Io ne sono fiera dato che è un musicista di rara bellezza e
tutto il mondo se ne sta accorgendo.
Come è nato tutto?
È nato perché non se ne poteva fare a meno. Io credo che l’esigenza sia la matrice
fondamentale dalla quale nascono tutte le cose. A volte (soprattutto nella musica di
oggi) ci si sforza molto e quello che nasce non si regge in piedi. Ma per molti è
stabile.
L'indie italiano sembra ultimamente vivere un momento particolarmente
felice, tanto da dare l'impressione di poter gareggiare ad armi pari con la
tradizione musicale anglo-americana. Penso a realtà come i già citati Jennifer
Gentle, A Toys Orchestra, Franklin Delano, Father Murphy, Echran, Le Man
Avec Les Lunettes, solo per citarne alcuni. Cosa ne Pensi?
Mi piacciono molto i gruppi che hai citato. Soprattutto quelli che mi è capitato di
conoscere personalmente come Jennifer Gentle, Franklin Delano e Father Murphy.
Ho sentito anche i “Le Man Avec Les Lunettes” e devo dire che sono proprio bravi!
Ma è stato un caso. Ti sei informato? Di solito ho gusti difficili…
Contatti: www.beatriceantolini.com
Fabrizio Zampighi
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Numero Giugno '07
Carpacho!
Da tempo attesi alla prova dell’esordio, dopo una serie di apparizioni sparse, i
capitolini Carpacho! hanno risposto collettivamente ai nostri quesiti su “La fuga dei
cervelli” (Sleeping Star/Self). A modo loro naturalmente, seguendo la linea sbilenca
e ironica della musica che anima i dieci episodi dell’album. A colloquio con noi c’è la
band al completo.
Se non vi offendete per la definizione, direi che siete stati a lungo uno dei
segreti meglio custoditi della scena romana. Nel senso che, nonostante il
vostro nome circoli da anni tra i bene informati, dopo il vostro split con
Artemoltobuffa e poco altro il vostro debutto ci ha messo almeno quattro anni
ad essere completato, uscito prima autoprodotto e poi con il marchio di
Sleeping Star. Cambi di formazione, ritardi, assetti perduti e ritrovati
,vicissitudini varie: ci potete riassumere il percorso che vi ha portato a “La
fuga dei cervelli”, a partire dal momento in cui avete deciso di creare un
gruppo? Chi ha avuto un'idea così avventata?
I Carpacho! nascono come trio, ecco, dei primi tre Carpacho! Ne è rimasto solo uno:
Marco. Gli altri due se ne sono andati all’estero a cercar fortuna e per ora non
l’hanno trovata. Formazione nuova, e tempi che si dilatano, per questo ci abbiamo
messo tanto a preparare “La fuga dei cervelli”, dovevamo prima capire cosa era
rimasto dei vecchi Carpacho! e cosa fossero i “nuovi” Carpacho!, dopo qualche
tentennamento ci siamo fatti una idea più o meno chiara… Ed eccoci qui.
Come mai avete scelto un titolo così impegnativo? Al di là delle facili battute
che si trascina dietro, un semplice atto di autoironia o c'è dell'altro?
Ci sembrava che questo titolo potesse riassumere bene, e con questo si torna alla
domanda precedente, i primi Carpacho! e i nuovi Carpacho!, da una parte un
omaggio ai due che per trovare lavoro hanno deciso di prendere l’aereo ed andare
rispettivamente in Inghilterra e in Cile e dall’altra “La fuga dei cervelli”, che coglieva
perfettamente il nostro stato mentale: autoprodursi un disco non è facilissimo,
essere fonici, produttori artistici e un pochino anche musicisti è stata una faticaccia
e ne siamo usciti malmessi.
Ci si lamenta sempre di una certa seriosità "esistenzialista" che
serpeggerebbe nell'ambito indie italiano. Direi che con voi il pericolo di
prendervi troppo sul serio (e vedervi prendere sul serio) non esiste. Chi è
l'anima surreale/"cazzona" del gruppo? Oppure vi siete incontrati grazie alla
comunanza di attitudine (un altro modo per chiedere: chi e come scrive i brani
dei Carpacho!, e come il gruppo sviluppa gli spunti iniziali, cui immagino
contribuiscano un po' tutti)?
Le canzoni sono praticamente tutte di Marco (Catani, voce e chitarra, NdI) ma
l’anima “triste-euforica” è di tutti e quattro. Spesso i musicisti trasmettono in musica
solo il lato più intimista/triste/depresso, per noi è fondamentale cercare di scrivere e
suonare canzoni che ci rappresentino. Per quanto si possa essere tristi ed
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amareggiati dalla vita, c’è sempre un tocco di ironia, di sarcasmo, di
demenzialità…Nasconderlo è un peccato.
Facciamo un po' d'ordine, se vi va, tra le vostre influenze. Si sono fatti molti nomi, a
partire dagli inevitabili nomi dell'indie angloamericano per finire a certa canzone
d'autore in lingua italiana. A me sembra che nella vostra musica sia rintracciabile
soprattutto una continuità con una serie di personaggi ai margini che sono riusciti
per una serie di congiunzioni a finire sotto i riflettori, mi vengono in mente ad
esempio personaggi come Rino Gaetano e Alberto Camerini. Vi riconoscete in
questa sorta di "tangenzialità" al pop di consumo, elemento che viene inglobato ma
risputato fuori storto e deformato?
Camerini-Gaetano-Camerini-Gaetano-Camerini-Gaetano… In ogni recensione o
intervista che leggiamo riecheggiano questi due nomi. E’ piuttosto strano per noi,
chiariamoci, sono due artisti (uh! Abbiamo scritto artisti e non musicisti!) che
stimiamo, ma decisamente non sono tra le nostre influenze. Forse la soluzione è
questa: Babalot.
Ridendo e scherzando una canzone come "Regole per un cervello difettoso"
ha un risvolto amaro, ed è una specie di dichiarazione di non appartenenza, la
volontà di non volersi uniformare. Alla fine, se si va a scavare, ci tenete ad
essere presi sul serio. Magari fregando l'ascoltatore e facendogli credere che
si trattava di semplice divertimento...
È un po’ quello che si diceva prima. Speriamo vivamente che si colga nelle nostre
canzoni sia il lato ironico sia il lato più… (questi puntini sono messi apposta perché
ora arriva il parolone)… drammatico. Quanto a regole per un cervello difettoso,
ognuno la interpreta a modo suo, è effettivamente l’unico pezzo del disco ad avere
un testo non molto chiaro, insomma un modo gentile per dirti che anche tu non hai
capito di cosa parla. In fondo è meglio così.
Contatti: www.carpacho.it
Alessandro Besselva Averame
Graziano Romani
“Tre colori” (Freedom Rain/Music Service) è il tredicesimo album di Graziano
Romani, autentica leggenda del rock italiano, il terzo di canzoni in italiano, dopo il
disco omonimo e "Storie dalla Via Emilia". È un’artista di nicchia, come lui stesso si
definisce, ma aggiunge “Mi va bene così, l'autoproduzione dà un incredibile libertà
artistica e creativa, davvero impagabile. E questa libertà mi ha dato modo, nel corso
degli anni, di collaborare con tanti artisti eccezionali, e soprattutto di crescere e
maturare... Mi ritengo molto fortunato a poter fare questo lavoro e di poter proporre
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Numero Giugno '07
la mia musica così, senza pressioni o costrizioni. Artisticamente parlando, questo è
un bel periodo, mi sento molto stimolato ed appagato, e il mio nuovo album sta
ricevendo lusinghieri consensi”. Il resto ce lo racconta in questa intervista.
In "Tre Colori" c'è una sorta di omaggio alla nostra tradizione, al nostro paese,
hai scelto la bandiera con le righe orizzontali, quella originale, cosa vuoi dire
di preciso?
La bandiera tricolore a righe orizzontali è la prima, quella originale, quella fondata a
Reggio Emilia alla fine del 1700. Reggio Emilia è la mia città, e mi è piaciuto
rappresentare così il mio nuovo lavoro in italiano, dopo alcuni anni di produzioni in
inglese. “Tre Colori” lo sento come la prosecuzione del discorso già intrapreso con
“Storie dalla Via Emilia” del 2001: anche quel disco raccoglieva canzoni molto legate
a luoghi e storie del mio paese, del mio ambiente, brani come “Dio della radio”,
“Portami giù al fiume”, ovviamente la ballata “Via Emilia”, e anche “Augusto, cantaci
di noi” che è il mio modestissimo omaggio alla grande voce ed anima dei leggendari
Nomadi degli anni 60-70: un vero mito, Ago Daolio. Tornando al nuovo disco, lo
ritengo molto 'emiliano' anche per quanto riguarda le sonorità, sospeso tra il
rock-soul e il folk, grazie anche all'apporto degli amici Modena City Ramblers e dei
Gang ed anche più vicino alla tradizione melodica italiana, almeno rispetto ai miei
precedenti lavori.
Alcuni tuoi conterranei non hanno mai risposto chiaramente. Ma, secondo te,
perché c'è - se c'è - questa sorta di legame “Tra la Via Emilia e il West"?
Beh, il legame c'è eccome, e non solo grazie alla famosa canzone di Guccini. Credo
che sia nato tutto nell'epoca del “beat”, negli anni 60, quando si facevano le versioni
degli hit provenienti da oltremanica o oltreoceano, ma con testi italianizzati. L'Emilia
è sempre stata un grande crogiuolo di stimoli, di fede e resistenza, di passioni, di
cambiamenti sociali ed anche il terreno fertile per tante opportunità, generando tanti
talenti... Dalle cantine alle feste di piazza, l'eredità e la forza della musica folk e del
rock delle origini è stata una cosa straordinaria qui in Emilia, con uno sviluppo forse
più naturale e spontaneo rispetto ad altre regioni d'Italia. O forse magari è nel latte,
nell'acqua o nel lambrusco che beviamo. O è forse colpa del Parmigiano Reggiano?
Mi va anche di ironizzarci un po’ su, per non prendere la questione troppo sul serio.
Non credo che basti la parola coerenza per giustificare la tua mancata
affermazione su scala nazionale. Si può anche parlare di promozione,
pubblicità e compagnia bella, ma le tue canzoni hanno sempre funzionato ed
alcune sono assolutamente radiofoniche. Voglio sapere dov'è il problema,
perché - ne sono certo - tu sai come stanno davvero le cose?
Guarda, non mi sono mai veramente posto il problema: Credo che “l'affermazione
su scala nazionale” sia per chiunque una cosa che ha parecchio a che fare con la
fortuna, e senz'altro con un bel po' di soldi investiti in promozione/pubblicità. È un
fatto che riguarda tanti artisti, e non solo da ieri, il proporre musica con coerenza e
sincerità, e poi per varie cause non riuscire a raggiungere un pubblico veramente
vasto, è normale. Questi tempi poi, credo siano i più terribili per la discografia, inutile
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Numero Giugno '07
cercare di descrivere in questa sede l'entità del dramma, la crisi è enorme ed
inarrestabile. Da parte mia, credo ci sia anche la caratteristica della mia doppia
personalità, ovvero del mio cantare sia in inglese che in italiano. Del resto io sono
venuto su così, già dagli inizi come leader dei Rocking Chairs, la mia prima band, a
metà degli anni 80. Anzi , molti sanno che ho scritto e prodotto più canzoni cantate
in inglese che in italiano, ed è facile immaginare la conseguente difficoltà ad
ottenere l'attenzione del pubblico di massa. Ma la scelta è stata solo mia, e non ho
rimorsi né rimpianti. Ti garantisco che rifarei tutto daccapo.
Non ti nascondo che preferisco il Graziano Romani che canta in italiano, e
questo album ha alcuni pezzi micidiali, che potrebbero essere dei singoli
killer, vedremo qualche tuo video e sul palco dove ti troviamo nei prossimi
mesi?
L'intenzione di realizzare un video c’è dall'inizio, e molti sarebbero i brani che si
potrebbero usare. Forse “Stesso viaggio”, o “L'amore che dai”, oppure “Acceso”.
Sarebbe anche interessante girare un video del brano “Tre colori” proprio nei luoghi
storici che già ambientano le foto di copertina del disco, come il municipio di Reggio
o la “Sala Del Tricolore”, proprio dove venne fondata la prima bandiera. Una
possibilità sarebbe realizzarlo subito dopo l'estate, vedremo. Per ora ci sono i
concerti estivi, il "Tre colori tour" toccherà tante località italiane, e si protrarrà anche
per tutto il 2008. Ci sono in cartellone anche alcune date in Svizzera. I nuovi
concerti sono molto intensi, la band attuale per me è forse la migliore in assoluto, da
segnalare anche l'entrata recente del virtuoso Cristiano Maramotti, ex-chitarrista di
Piero Pelù. Nello show propongo tutto il nuovo disco e una scelta di canzoni dai due
album precedenti, più qualche brano ancora inedito.
Se le collaborazioni con Modena City Ramblers e i Gang sono quasi logiche,
in "Giorni sporchi" c'è ospite Elio delle Storie Tese: come siete entrati in
contatto?
Ci conosciamo dal '93, ovvero dai tempi del mio primo album solista, quello
omonimo, quello con “Adios” e “Da che parte stai”. Quell'album lo suonavano le
Storie Tese quasi al completo, musicisti eccelsi, e oltre al loro produttore mi aiutò
anche l'indimenticato Massimo Riva, ovvero il “pard” di Vasco Rossi. Elio non
partecipò alle registrazioni di quel disco, ma la nostra amicizia iniziò proprio da lì,
sfociando poi in tantissime collaborazioni, compreso anche quel fortunato singolo
natalizio intitolato “Christmas With The Yours”, amatissimo dal grande pubblico, e
diventato quasi un evergreen. Ho chiesto a Elio di partecipare a "Giorni sporchi" per
sdrammatizzare o comunque alleggerire il ritornello: la canzone è una specie di
rockabilly che nelle strofe enuncia le magagne ed i drammi della nostra realtà,
quindi serviva un po' della sua geniale ironia.
I testi del CD sembrano improntati ad una riflessione quasi scontata, ma non
così logica, visti i tempi che corrono. La vera rivoluzione è amare, lo ripeti
spesso, e il pezzo “L’amore che dai” è forse il cuore di questa riflessione.
Credi che con il passare degli anni, sia quasi un percorso naturale
abbandonare un certo tipo di ribellione e costruire qualcosa con il
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sentimento?
Sì, la vera ribellione è l'amore! E con questo non è che mi sono “addolcito”, nella
mia musica e nei miei concerti mi piace metterci sempre tutta la forza e l'energia
possibile. Ma sono anche un romantico, mi piace scrivere ballate-rock, proprio come
succede al mio amico Elliott Murphy. Forse “L'amore che dai” è proprio la vera
canzone d'amore del disco, l'ho voluta così, molto semplice e diretta.
In “Stesso viaggio stessa città” disegni tante tipologie di persone, giovani e
non, ma tutte sembrano inseguire qualcosa di indefinito. È questa la società di
oggi, tutti corrono, ma verso dove?
Intanto grazie per il termine disegni, io ho sempre amato disegnare - ho il diploma di
liceo artistico e per poco non mi laureavo in architettura - e mi piace pensare di
esserci riuscito anche con la musica e coi testi, tratteggiando e descrivendo questo
gruppo variopinto di persone, tutte diverse ma con in comune forse solo una cosa:
la stessa meta, la stessa città, lo stesso viaggio. Forse ci siamo tutti su quel treno,
con un desiderio o un sogno da raggiungere, o semplicemente con qualcosa o
qualcuno da cercare. Mi piace pensare che per me, e per chi le vorrà ascoltare,
queste nuove canzoni possano essere come i possenti vagoni di un treno in
movimento, diretto verso un sogno, in corsa verso un desiderio. E mi piace anche
pensare a questo viaggio come l'inizio di mille altri, ma tutti possibilmente - spero
inevitabilmente - caratterizzati dai colori delle emozioni.
Contatti: www.grazianoromani.it
Gianni Della Cioppa
Le Man Avec Les Lunettes
“I Le Man Avec Les Lunettes, ultimamente, convivono con le risse”. Strano
immaginarseli alle prese con cazzotti e boccali di birra, i due occhialuti. Eppure loro
sostengono che sia proprio così. “Ovviamente noi abbiamo sempre cercato di non
finirci in mezzo, ma nei locali spesso capita”. Ecco, così va meglio. La visione di
Fabio Benni (voce, tastiere) e Alessandro Paderno (voce, chitarra) coinvolti in una
scazzottata, infatti, non si addice per niente alla loro musica, sospesa fra pop
beatlesiano e psichedelia sonnolenta. La prima domanda, è d’obbligo, serve a fare
la panoramica sul percorso che li ha portati a Torino, allo Spazio 211, in una serata
in cui condivideranno il palco con i bolognesi Settlefish.
“Gli esordi del gruppo sono stati canonici, due amici che provano a scrivere musica
e cercano di coinvolgere altre persone. Alessandro (è Fabio che parla. NdI) suonava
in un gruppo chiamato Lumière Electrique e io avevo dei pezzi già pronti, registrati
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in modo molto lo-fi, con pochissimi mezzi. Non c’erano grosse aspettative, almeno
fino al 2005, anno in cui abbiamo avuto la possibilità di suonare ad Emmaboda, in
Svezia. Ecco, lì è cambiato qualcosa. Diciamo che il festival è stato il meccanismo
che ci ha fatti partire. Ci siamo sentiti apprezzati, abbiamo avuto un po’ di
consapevolezza in più. È una sensazione che suonare all’estero ti da spesso, anche
se non tutti i posti sono uguali: in Francia, per esempio, la situazione che abbiamo
trovato è stata molto simile a quella italiana”.
Mi piacerebbe sapere come nascono i pezzi.
Alla base di tutto c’è uno scambio frequente: ognuno di noi scrive e propone un
brano all’altro. In saletta poi ci si lavora insieme, ma sostanzialmente i pezzi
nascono in solitaria. Poi, ultimamente, i ruoli si sono delineati, e capita sempre più di
frequente che una canzone nasca direttamente in studio, nonostante le session
siano molto sporadiche.
Quali sono le difficoltà che incontra un gruppo come il vostro?
Il lavoro! Suonare e organizzarsi in due è molto dispendioso: la questione è anche
economica, naturalmente, ma staccarsi dalla quotidianità per uscire e proporre la
propria musica davanti ad un pubblico è sempre una bella soddisfazione.
Ci sono dei gruppi italiani che sentite particolarmente vicini?
Forse in questo caso bisogna fare un discorso che coinvolga più l’attitudine che la
musica vera e proprio. Ci sono delle realtà che ci piacciono molto, penso ad
etichette come la Tafuzzy, la Unhip di Bologna, la Homesleep.
Siete molto prolifici, in poco tempo avete pubblicato molto.
Abbiamo registrato molto su formati strani, particolari: cassette, vinili, compact disc
da tre pollici, MP3, compilation… Ultimamente abbiamo messo un po’ di ordine:
prima con l’album (“Le Man Avec Le Lunettes?”, NdI) pubblicato da Zahr Records in
collaborazione con la nostra etichetta, la MyHoney di Paolo Spelorzi e distribuito da
Audioglobe, poi con la versione in vinile dell’album stesso. È un doppio trentatré giri,
davvero molto bello. Lo pubblica, solo negli Stati Uniti, la Old Gold Records: per noi
è una bella soddisfazione. Ci sentiamo come se un cerchio si fosse chiuso, e
soprattutto abbiamo la possibilità di far sentire la nostra musica ad un pubblico più
ampio. Ora abbiamo voglia di ricominciare coi sette pollici, stiamo preparando
qualche split con altri gruppi.
C’è una domanda che davvero non sopportate che vi venga fatta?
Mah, c’è questa frase tormentone che ormai ci ha stufati: “Un gruppo italiano, con
un nome francese che canta in inglese”. A parte questo nulla.
Gruppi che in qualche modo vi hanno influenzato?
I Beatles, sicuramente, ma anche i Grandaddy e i gruppi di indetronica come i
Postal Service. Da un paio d’anni abbiamo la passione della Svezia e dei gruppi
svedesi: ci piace il loro approccio informale, la loro voglia di far partire le cose dal
basso.
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Cosa vi aspetta per l’estate?
Suoneremo molto, questo sicuro. Abbiamo una persona, Paola di Homesleep, che
ci da una mano con il booking, e le date stanno arrivando senza troppi problemi. Il
fatto di muoverci in due, poi, rende tutto più snello. Si salta in macchina, si va. A
volte ci segue anche Paolo, il “padrino” della MyHoney, che ultimamente sta
sfornando dischi davvero interessanti: Soda Fountain Raig, l’edizione italiana
dell’album dei Mixtapes And Cellmates, la compilation tematica dedicata al miele
“Let It Bee”. Poi, in autunno, torneremo a registrare qualcosa. Certo, c’è il sogno di
suonare negli Stati Uniti, e non è detto che non sia possibile: ora che la
collaborazione con la Old Gold è iniziata e il disco è fuori anche oltreoceano,
crediamo che sia una eventualità realizzabile.
Lo Spazio 211, in questo momento, è il locale torinese indie per eccellenza.
Quando i Le Man Avec Les Lunettes salgono sul palco è pieno di gente. Molti
cantano, altri li supportano in modi bizzarri. Un’esibizione breve, concisa. Poi, dritti
al banchetto insieme ai nuovi amici, a scambiarsi piccoli regali e a scattare
fotografie. Forse quando si parla della bellezza del d-i-y si intende proprio questo: la
possibilità impagabile di costruirsi tutto senza intermediari, di faticare il doppio e di
godersi i risultati con un sorriso gigantesco sulle labbra.
Contatti: www.lmall.it
Giuseppe Bottero
Luca Gemma
Secondo lavoro solista per l’ex voce dei Rossomaltese Luca Gemma, “Tecniche di
illuminazione” (Ponderosa/Edel) è una galleria di tredici cortometraggi musicali.
Come se il musicista musicasse e filmasse in note delle micro-sceneggiature. Album
che si apre e si chiude con il pugilato (il Rocco viscontiano e Muhammad Alì). Album
dedicato a una persona molto amata, Margherita, che non c’è più. A raccontarci
meglio il disco è lo stesso Gemma.
Il disco è ricchissimo di spunti. Anzi tutto il legame tra musica e cinema, suoni
e visioni. Già l’illuminazione del titolo è un fatto visivo, vero?
Sì, delle parole delle canzoni a me interessa il suono e poi l'aspetto visivo ed
evocativo. Mi piace pensare a un luogo fisico e a personaggi che si muovono al suo
interno in un'unità di tempo. Non mi piace quasi mai invece la narrazione astratta;
devo capire dove mi trovo, anche come ascoltatore. Se ascolto “Perfect Day” di Lou
Reed mi trovo a bere la sangria nel parco, poi allo zoo. Il cinema è essenzialmente
una questione di come illumini e fotografi quello che stai guardando. Ecco perchè io
dovevo trovare le mie "tecniche d'illuminazione".
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Ti muovi con una macchina da presa virtuale. I riferimenti sono espliciti in
“Rocco e i suoi fratelli” e in “Cinema d’inverno”. Come ti influenza il cinema e
quali film prediligi?
La macchina da presa virtuale è stata l'espediente narrativo per non dover parlare e
scrivere sempre in prima persona. Il vissuto e le sensazioni che ho messo in queste
canzoni sono autobiografici, ma non solo. Iniziare una canzone con "io" m'era
venuto un po' a noia. Allora ho fatto l'operatore con una finta mdp in mano. A questo
punto, per rendere ancora più esplicito il gioco, andava benissimo che ci fossero
riferimenti precisi a quello che mi piace. Le mie citazioni sono sempre scoperte. E
certamente mi piacciono Visconti, Leone con le musiche di Morricone, e poi
Rossellini, Fellini, Pasolini, insomma quelli in “ini”, e Scola, Monicelli, Germi, Moretti
e tutti quei film italiani che mi sono serviti a orientarmi quando sono tornato a vivere
in Italia dopo aver trascorso l'adolescenza in Germania. Altri di cui ho visto quasi
tutto sono Scorsese, Coppola, Kubrick, Jarmush e Spike Lee. Quando ho iniziato a
scrivere canzoni nei Rossomaltese facevo scorpacciate di opere prime: “Fandango”,
“Clerks”, “Buffalo 66” di Gallo e “Il grande Blek” di Piccioni. “L'odio” l'ho visto 5 volte.
Ultimamente Sorrentino, Garrone e “Le Vite degli Altri”. Mi piacciono le storie e lo
stile .
“Con lo sguardo illuminato” mi ha fatto pensare a Jonathan Safran Foer (hai
letto il suo romanzo “Ogni cosa è illuminata”?). Anche, per altri versi e per
certi aspetti, a David Sylvian, che poi torna in “Settembre”. Cosa ne pensi?
Purtroppo non ho letto il libro né ho visto il film e anzi è un po' che lo voglio
noleggiare. Il titolo è molto bello e suggestivo. Il protagonista della mia canzone
chiude casa, chiude col passato, esce e cambia tutto; è quel suo momento di
illuminazione personale che gli fa ritrovare il sorriso e che gli dà un senso.
D'altronde se io ho cercato le mie tecniche per inquadrare i personaggi, loro si
inventano le loro per trovare momenti di gioia e di bellezza, diciamo pure per vivere
e sopravvivere. Sento anch'io comunque un po' di Sylvian nell'atmosfera e non mi
dispiace per niente; poi ci sento un po' di Beck di "Sea Change" e Tenco, con
modestia parlando.
Ascolti musica italiana?
Ascolto anche musica italiana, certo. I miei preferiti restano i pionieri della canzone
d'autore che era anche pop: Tenco, Modugno, Battisti, De André e Paoli. Poi
Battiato, Conte e i primi album molto stradaioli di Bennato. Mi piacciono anche cose
dei miei coetanei: l'intensità delle ballate degli Afterhours, certi momenti di grazia di
Capossela, la leggerezza dei Tiromancino e di Silvestri e al contrario la
"pesantezza" di Ferretti e compagni. Poi c'è Morricone che scrisse anche una
canzone per Tenco che a me piace molto. Alla fine però ascolto più musica
straniera.
Ci sono alcuni artisti che rodano il gruppo a memoria, prima di fissare la
versione definitiva del pezzo. Tu al contrario hai registrato quasi a sorpresa,
senza che la band conoscesse i brani. Perché?
La band conosceva le versioni chitarra e voce dei brani, insomma i provini. E, a
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parte due-tre canzoni, le altre non le aveva mai suonate. Ho preferito puntare più
sull'immediatezza e sulla freschezza che viene dalla sorpresa, dall'intuito e da una
certa emozione iniziale, quando c'è. Questo è stato possibile perché c'era un
produttore artistico, Paolo Iafelice, che dirigeva i lavori con orecchio e occhio alla
strada da prendere e al risultato finale e perché i musicisti con cui suono sono bravi
e "di pancia": pensano alla canzone e non al proprio strumento e quindi sono capaci
anche di togliere anziché aggiungere. Tanto valeva prendere al volo quell'energia. E
sono contento.
“Il nuotatore” sa molto di Talking Heads, so della tua passione per loro e per
Byrne. Cosa ci è rimasto – oltre alle canzoni – delle grandi Teste Parlanti,
secondo te? Chi c’è oggi che ha raccolto il loro testimone?
Bene, speravo che si sentisse la loro influenza da qualche parte. Sono uno
sfegatato di alcuni loro album- “Fear Of Music”, “Remain in Light”, “Naked”, e il live
“Stop Making Sense” - e di quelli solisti di Byrne e mi piace molto la sua voce. I suoi
concerti allo Smeraldo di Milano negli anni '90 sono stati tra i più belli ed
emozionanti che io abbia mai visto. Fece una versione di “Sympathy For The Devil”
degli Stones davvero impressionante. I Talking Heads con i Police sono stati tra i
gruppi più influenti di quegli anni, hanno aperto al funk e alla musica africana con
attitudine punk. Oggi quel gusto e quella capacità di scrivere canzoni li ritrovo in
Beck e anche in Andrew Bird.
C’è una canzone che si intitola “Al pop del giorno preferisco il soul”. Tra
rock, soul, canzone (d’autore), colonne sonore, pop, in quale ambito ti senti
più a casa tua?
Quel brano è anche un modo per dire che non sopporto il fracasso e il
chiacchiericcio continuo del giorno. E che il silenzio e l'essenzialità della notte alla
fine spesso nobilitano il giorno incasinato. Ma vale anche per i generi musicali. Mi
può anche piacere la melodia di un brano superpop da classifica ma nel 90 percento
dei casi non ne sopporto i suoni, gli arrangiamenti , le atmosfere e spesso le parole.
Nei generi che tu nomini invece mi trovo comodo e felice e sono quelli che mi
corrispondono. E tra i miei preferiti ci sono artisti che hanno mischiato benissimo
tutto questo e penso a Paul Weller, Elvis Costello, Joe Jackson, Jeff Buckley, Tom
Waits o Ben Harper per esempio. E prima di tutti lo hanno fatto Beatles e Stones.
Insomma ci sono un sacco di cose belle. E quelle cose ci tengono svegli, come dice
Rocco ai suoi fratelli.
Contatti: www.lucagemma.com
Gianluca Veltri
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Marcilo Agro e il Duo Maravilha
Dopo il primo EP intitolato “Tra l’altro”, arriva per il trio novarese l’esordio “Viva a
ilusao”, uscito questa primavera per I Dischi dell’Amico Immaginario/Audioglobe.
Nove canzoni intrise d’amarezze, egoismi e poesia cruda, amore per il portoghese
tanto da rinominarsi tutti in quella lingua. Melodie che arrivano da ascolti che mai
avremmo detto. Ne parliamo con Marcilo.
Com’è iniziata e com’è avvenuto l’incontro tra di voi?
Joao ed io suoniamo e scriviamo insieme canzoni da una decina d’anni poi ci siamo
incontrati con un chitarrista e un batterista di quelli tosti alla Afterhours, per cui
facevamo le cose che facciamo adesso però più rock’n’roll. Finita quell’esperienza,
Joao ed io siamo andati avanti scrivendo canzoni in casa. È comparso poi Lucio e
abbiamo proseguito finché, ancora nella fase in cui non sapevamo in cosa si
sarebbe evoluto quello che facevamo, è successo che ci hanno chiamato per un
concerto. Siamo andati a fare tre pezzi ed è risultato originale presentarci solo con
due chitarre e la voce, così ci siamo specializzati su quello. E poi la nostra tendenza
è sempre quella di sintetizzare più che di aggiungere. Adesso siamo sempre un trio.
Il chitarrista Lucio è uscito dal gruppo ed è stato sostituito da Antipa, che nel disco
era ancora un ospite ma adesso è nostro membro ufficiale.
Ma questa passione per il portoghese da dove viene?
Nessuna passione. Il titolo del nostro CD “Viva a ilusao” in portoghese significa “viva
un’illusione”, perché poi tutta questa storia del portoghese è una suggestione
casuale solo nei nostri nomi.
Quando scrivete una canzone, quali criteri vi portano a concluderla a trovarla,
definita pronta?
Anche questo è abbastanza casuale. Nel senso che già il modo di scrittura varia da
canzone a canzone perché ci sono diverse metodologie, per cui l’idea può partire da
uno di noi ma poi viene rielaborata dall’altro. Il nostro amico Mons di Genova ad
esempio è quello che si occupa del nostro sito, ha curato la copertina dell’ultimo
disco ma è anche autore di “De Vezze”, una canzone che porta il nome di un ex
giocatore del Genova. Per cui la modalità del nostro scrivere le canzoni è molto
varia perché parte da diverse teste, quindi è difficilmente descrivibile. Quello che
porta a concludere lo stato della composizione dipende dall’emozione provata. Poi
passano i mesi, le riprendi in mano e capita che l’arrangiamento vai ancora di più a
sintetizzarlo, comunque cambiarlo.
Quando v’incontrate, vi capita di suonare canzoni di altri?
Sì. Nel corso degli anni, quasi sempre durante i concerti abbiamo inserito delle
cover. Per l’ultimo concerto al Transilvania di Milano abbiamo concluso con una
canzone dei Pet Shop Boys. Poi abbiamo una canzone cantata in modo egregio da
Antipa, “Voglio vivere così” di Ferruccio Taglierini. Ho suonato un pezzo dei
Chemical Brothers solo strumentale, ma anche Vasco Rossi e i Guns n’Roses Il
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bello è prendere delle cose apparentemente lontane dalla tue modalità, trasformarle
e farle diventare tue.
Da dove nasce la vostra musica? Qual è il vostro background?
È un po’ difficile perché ognuno ha i suoi gusti e le sue storie. Chi lo sa cosa entra?
Sembra assurdo perché nella nostra musica - che è definita pacata perché
effettivamente è molto leggera e tranquilla - negl’ultimi anni è entrata tanta
elettronica. Abbiamo ascoltato davvero tanti gruppi dai Chemical Brothers a Fatboy
Slim, o quelli ancora più particolari, come gli artisti della Ninja Tunes o Amon Tobin.
Il lavoro di sintesi che loro fanno, il minimalismo dei loro arrangiamenti, c’è molto
entrato a livello compositivo e noi lo riproduciamo con i nostri strumenti che sono le
chitarre anche se è l’opposto rispetto ai campionatori e gli strumenti elettronici, però
poi i concetti sono molto simili soprattutto nelle nostre ultime cose.
Per quanto riguarda gli stili, chi apprezzate in particolare, dal punto di vista
dello scrivere una canzone.
Tra gli italiani, a livello di scrittura apprezzo Tiziano Ferro che viene spesso
associato con altri artisti con cui non ha niente a che vedere. Di cose magari più
underground, il primissimo disco di Marlene Kuntz, che ho divorato. Mi piace tanto
anche Bugo che è un amico e nostro compaesano. O i Perturbazione con i quali in
questi anni ci siamo molto legati e facciamo tanti concerti insieme.
Com’è Novara dal punto di vista musicale?
Ultimamente ci sono molti gruppetti di ventenni che fanno delle cose proprie e
questo in confronto a qualche anno fa non c’era. La realtà poi in generale a livello di
strutture è abbastanza triste. C’è una manifestazione estiva ogni anno, dove
qualche buon gruppo viene a suonare. Per il resto niente di ché. Non ci sono molti
locali rock.
Avete lasciato fuori delle canzoni rispetto all’EP e all’ultimo disco?
In realtà abbiamo già pronto un disco nuovo. Questo CD uscito a marzo ha avuto
una serie di ritardi. Inoltre il chitarrista Lucio usciva dal gruppo, per cui non siamo
riusciti a fare una vera e propria tournée. Speriamo di fare qualche altro concerto.
Abbiamo fatto qualche data con i Perturbazione: Torino, Bologna, Milano. L’idea
sarebbe quella di riuscire abbastanza velocemente a registrare il disco con le
canzoni arrangiate da questa nuova formazione.
Per quando prevedete la nuova uscita?
Dipende. A settembre incominceremo a registrare. Le tempistiche poi rallentano
sempre. Prima lo facciamo meglio è. Quando ci saremo rodati con questo trio,
saremo in grado tra non molto di fare dei concerti più lunghi quindi non
necessariamente di spalla d’apertura. Sarebbe bello uscire con un terzo disco e poi
promuoverlo come si deve, suonando il più possibile.
Tornando alla vostra ultima uscita, avevate pensato ad un ordire preciso nel
disporre le canzoni?
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“Viva a ilusao” è una sintesi e riallacciandomi alla domanda di prima, l’idea era di
registrare più canzoni, poi le situazioni in cui ti trovi ti fanno cambiare i piani. Ne
avremmo fatte anche dodici o tredici tra una rosa di diciotto, ma volevamo che si
sintetizzasse la cosa ed è venuta fuori una raccolta di nove canzoni. Non c’è un
percorso a livello di testi o un percorso preciso che va dalla prima all’ultima. È vero
che comunque non sono messe a caso. Nel senso che ogni cosa è studiata a
seconda del tipo di sensazione che hai e cerchi di mettere in fila.
Come avete conosciuto i ragazzi de I Dischi dell’Amico Immaginario,
l’etichetta che ha pubblicato il vostro CD?
I Dischi dell’Amico Immaginario, fanno capo ai “fratelli Drezzezze” che sono
Cristiano e Maurizio, rispettivamente chitarrista e fonico dei Perturbazione. Li
conosciamo da prima che esistesse l’etichetta. Esattamente alla prima uscita,
quando non sapevamo che linea prendere, ci hanno chiesto di suonare loro di
spalla, e da lì i Perturbazione si sono innamorati. Ci hanno chiamato, ci hanno
seguito, ci hanno fatto fare diverse date assieme a loro trasmettendoci parecchia
forza d’animo. E ci hanno aiutati a prendere la decisione sulla linea da seguire: due
chitarre e una voce in acustico. Ancora prima di mettere su l’etichetta Cristiano e
Maurizio ci hanno chiesto se ci sarebbe piaciuto fare un disco con loro? In realtà,
noi avevamo già preso accordi con un’altra etichetta e abbiamo fatto uscire l’EP Tra
L’altro due anni fa, però nello stesso tempo sono rimasti i contatti e per questo disco
nuovo i primi contattati sono stati loro.
Contatti: www.marciloagro.com
Francesca Ognibene
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La Musica Nelle Aie – Castel Raniero Folk Festival
Castel Raniero (RA), 11-13 maggio 2007
Evento assai atipico nel panorama musicale italiano, “La Musica nelle Aie” (
www.musicanelleaie.org) è un festival folk sui generis: non si tratta, insomma, di una
delle tante (troppe?) manifestazioni che scelgono la strada dell’autoghettizzazione e
del settarismo (non sarebbe la prima, né l’ultima), caratteristica che troppo spesso
emerge quando si parla del genere. Proprio perché sui generis, assolutamente
fedele al concetto di “popolare” che è alla base dello stesso termine “folk”. Senza
facili tentazioni populiste o semplificazioni eccessive, con alcuni aspetti
logistico-organizzativi ancora da ottimizzare, ma con un terreno fertile su cui
costruire un futuro sempre più importante e credibile. La tre giorni faentina,
inaugurata la sera dell’11 maggio nell’area del festival dal concerto dei viterbesi La
Tresca, è proseguita il giorno seguente presso l’azienda agricola di Pietro Bandini,
ideatore e animatore dell’evento giunto ormai alla sua ottava edizione, sede di una
stimolante anche se dispersiva tavola rotonda sulla “biodiversità musicale”,
realizzata in collaborazione con il MEI e con altre istituzioni non solo musicali
dell’area faentina, una piattaforma importante su cui costruire nuove riflessioni. I
concerti serali hanno lasciato spazio ad alcuni dei gruppi che si sarebbero esibiti il
giorno successivo. Giornata impegnativa quella di domenica 13: un percorso
circolare di 5 chilometri nel mezzo delle colline romagnole che circondano la
capitale della ceramica, con una ventina di gruppi dislocati lungo il percorso a
suonare, chi all’imbocco di un crocicchio, chi al limitare di una raduna, chi nel cortile
di una casa o di fronte ad un cancello, in acustico o con una amplificazione ridotta a
disposizione, una giuria dotata di bicicletta e alcune tappe eno-gastronomiche per
rifocillare i presenti. Al termine dell’intenso pomeriggio, il responso dei giurati ha
evidenziato la buona qualità degli intervenuti (pur non mancando alcune proposte
assai poco ispirate o assai poco stimolanti), e soprattutto una visione del folk aperta
e in evoluzione. I vincitori Lampasciunazz, formazione pugliese di stanza in Toscana
e comprendente un giovanissimo batterista e un sassofonista solo in apparenza
fuori settore, hanno fatto emergere l’animo più spontaneo della manifestazione,
mentre il quartetto dei segnalati è risultato essere piuttosto composito: piemontesi I
Servaj, testimoni della tradizione franco-provenzale e occitana più “roots” e più
legata alla dimensione del ballo, muniti di ghironda, cornamusa e organetto, gli
interessanti Marcabrù e la loro visione progressiva (l’uso di strumenti poco ortodossi
come il didjeridoo, costruzioni che ricordano i gruppi più illuminati del folk rock
britannico, vedi Pentangle, reminiscenze di Rock In Opposition), gli Ochtopus,
originale ipotesi di folk bandistico contaminata da fiati e infiltrata da aromi jazz, e
infine U’Munacidde, formazione salentina di spiccata teatralità, coinvolgente e assai
competente per padronanza scenica e qualità dell’interpretazione. Il sottoscritto
vorrebbe segnalare, al di là della cinquina vincente, un duo bolognese voce e
chitarra che ci si augura possa fare strada: il D’Emblé Acoustic Duo, incontro tra una
voce blues à la Portishead e una chitarra spericolata e oscillante tra blues canonico
e fingerpicking alla John Fahey, che ci ha fatto una ottima impressione. Fuori gara,
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visti i riferimenti smaccatamente angloamericani? Diremmo proprio di no, poiché
anche quella declinazione rientra nella grande famiglia dell’autentica musica
popolare. Ce chi si aspetta, o perlomeno ipotizza, la nascita di un qualche legame
tra il nostro patrimonio musicale e quella rinnovata sensibilità folk che negli ultimi
anni ha attraversato l’indie rock angolamericano e non solo. Castel Raniero
potrebbe diventare il luogo ideale dove consumare questo matrimonio.
Alessandro Besselva Averame
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Polar For The Masses
È un album a tutti gli effetti “Let Me Be Here” dei Polar For The Masses, ma –
almeno ufficialmente – non è disponibile su un supporto fonografico fisico; questo
perché l’etichetta che ne ha curato la pubblicazione, la giovane ma già
agguerritissima Black Nutria (www.blacknutria.com), distribuisce la propria musica
solamente in formato digitale e appoggiandosi a una trentina di negozi in Rete (da
iTunes a Rhapsody). Questo non deve però distogliere l’attenzione dalla sostanza,
ovvero da dieci canzoni in cui il power-trio veneto si destreggia con abilità e
sicurezza tra proto-punk stoogesiano (e relative derivazioni moderne, dai Mudhoney
a Queens Of The Stone Age) e indie-glam alla Placebo. Incuriositi? C’è di che
esserlo. Per toccare con mano la proposta della band basta collegarsi al sito
www.myspace.com/polarforthemasses.
Aurelio Pasini
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