Aprile '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Aprile '11
Numero Aprile '11
EDITORIALE
Eccoci qui, ancora una volta con un notevole carico di recensioni, interviste e live report,
pronti per accompagnarvi nei primi, soleggiati giorni di primavera raccontandovi quanto di
meglio avviene e si crea nell'underground sonoro italico.
Approfittiamo di questo spazio per una comunicazione di servizio a quanti – artisti, etichette,
uffici stampa – volessero farci pervenire le proprie produzioni: le istruzioni e i contatti si
possono trovare seguendo il link “Per invio materiale”, qui a destra se state leggendo queste
righe sul Web. Una volta ricevuto il tutto, provvederemo ad ascoltarlo e a valutarlo con la
massima attenzione, operando quindi una prima scrematura, che porterà alla decisione di
occuparcene o meno. Vista la mole impressionante di uscite mensili, l'operazione può
richiedere anche alcune settimane, quindi se non vedete il vostro disco recensito abbiate un
poco di pazienza, ché se sarà ritenuto valido ci se ne occuperà magari soltanto un paio di
mesi dopo il suo invio. E no, scriverci ogni settimana per avere notizie non serve a
velocizzare le cose.
Ciò detto, non ci rimane che augurarvi come sempre buone letture e, soprattuto, buoni
ascolti.
Aurelio Pasini
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Caso
Sguardo rivolto verso avanti, e verso l'alto, a guardare da una posizione non comoda, facile,
questo presente a caccia di futuro, pronto a mettere in discussione, e a cercare, scavare.
Andrea Casali, trentenne originario di Bergamo, all'anagrafe musicale Caso, in quest'oggi
così carico di interrogativi, che non è possibile porre a “caso”, ha affrontato di recente il suo
secondo gradino importante, di maturità artistica, con l'uscita del nuovo album, che non
poteva che intitolarsi “Tutti guardiamo avanti”. Cammina nelle mille difficoltà di chi
indipendente lo è sul serio, Caso, andando avanti con autoproduzioni, e collaborazioni con
etichette piccole, ma che, mai col relax della discesa, nella risalita della china, sono David in
mezzo a tanti Golia, resistendo testarde, anche perché dei numeri soprattutto di qualità li
iniziano a raccogliere da tempo. Dopo averlo incontrato sul suo blog (
fuoritono.wordpress.com), dove sono raccolte le “voci” che provengono dai suoi concerti, e
sulla sua pagina web, andiamo a conoscere meglio Andrea Casali, in arte Caso.
Inevitabile iniziare con questa domanda, perché chiamarsi artisticamente Caso?
Immagino che non sia solo perché il tuo nome anagrafico sia Andrea Casali...
Quando ho iniziato a suonare ho pensato che scegliere un nome diverso da quello col quale
mi conosceva la gente nella vita di tutti i giorni sarebbe stato già creare un distinguo tra
quello che sono sul palco e quello che sono quando sto sotto. Nelle canzoni amo raccontare
pensieri e storie mie; presentarmi con la semplicità del mio nome mi aiuta nello sforzo di
accorciare le distanze tra me e chi mi sta ad ascoltare.
Com'è tentare la strada artistica e musicale in una realtà d'Italia come quella di
Bergamo, che sembra così florida economicamente?
Qui a Bergamo ci diciamo “abituati a vivere nell'ombra”: all'ombra delle Prealpi che ci
rubano il sole un poco prima rispetto a chi sta in pianura e all'ombra di Milano, città grande,
ricca di possibilità, ma forse troppo vicina. Finché le barriere sono naturali risulta un piacere
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“stare al fresco”; nell'altro caso è un po' più difficile vedere convogliare le attenzioni, sempre
accanto a te, sfiorandoti soltanto. Io e gli amici di altre band di questa piccola città ci siamo
uniti e insieme stiamo lavorando ogni giorno per ritagliarci un poco di luce.
Hai iniziato con l'harcore-punk...alla batteria...come ci sei arrivato? E com'è successa
la tua trasformazione in cantante/cantautore/chitarrista, forse addolcendoti (?) in un
folk-rock-punk, non perdendo però quell'urgenza a comunicare?
Sì, dieci anni alla batteria mi hanno dato molto e considero quello strumento il mio “primo
amore”. Poi arriva un giorno in cui ti accorgi di stare crescendo, hai un lavoro, meno tempo
libero da spendere in sala prove e amici che prendono strade diverse dalla tua; in quel
preciso istante ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto dei Ghost Mice: venivano da
Bloomington, suonarono in un prato in provincia di Bergamo e facevano punk con sola
chitarra acustica e violino. Rimasi folgorato e capii che potevo fare lo stesso, con uno
strumento diverso e in un modo più semplice anche senza amplificatori, ma portando avanti
gli stessi messaggi e mantenendo lo spirito di sempre.
Il tuo album di esordio, "Dieci tracce", è autoprodotto, vero? Per poi essere
ristampato...E ora "Tutti dicono andiamo avanti", anch'esso autoprodotto, nato tra
mille difficoltà, ma che per fortuna sei riuscito a far uscire e far circolare...
Mi sono sempre imposto di fare un passo alla volta: il primo era un demo registrato in casa
e copiato giusto per gli amici, poi con “Dieci tracce” ho registrato in una sala prove,
masterizzato qualche copia in più e fatto stampare le copertine. La ristampa su vinile è stato
il regalo di un amico vero che ha voluto supportarmi e realizzare un mio piccolo sogno. “Tutti
dicono guardiamo avanti” è il passo successivo: registrazione in studio, copie stampate
professionalmente e promozione un poco più ampia. A darmi una mano questa volta sono
intervenute quattro piccole etichette che, oltre ad aiutarmi nello sforzo economico,
scambiano/vendono/regalano il disco attraverso i loro canali e conoscenze.
Da dove nascono entrambi?
Ci sono situazioni nelle conversazioni in cui mi capita di trovarmi in difficoltà, magari perché
non riesco a spiegare al meglio le cose che penso o sbaglio i tempi e arrivo in ritardo.
Scrivere canzoni mi dà la possibilità di ricostruire più o meno precisamente quei momenti,
facendoli rivivere e dandomi voce proprio quando mi sento pronto. Ma questo è solo uno dei
tanti “dove”; in ogni caso in tutti i pezzi c'è sempre un'alta percentuale di vissuto. Poi mi è
naturale, quando i pensieri stringono, affacciarmi alla finestra a guardare il profilo del centro
storico, camminare per i colli o pedalare su per le mura di Bergamo. Quello che passa
davanti agli occhi è lo sfondo, l'ambientazione delle riflessioni e delle storie; è inevitabile che
la grande antenna, le gru, i palazzi in cima alla città ci finiscano dentro.
È così difficile andare avanti attualmente per chi vuole fare come te musica
indipendente? Ti confronti coi tuoi "colleghi", e per questo è più facile guardare al
presente e al futuro? O forse no...
Nel circuito musicale il termine indipendente ha cambiato già da tempo significato, per
esempio spesso lo vedo usato quasi come etichetta di genere. Io resto legato all'antica
accezione e non credo sia la musica a dover essere indipendente, bensì le persone e i loro
pensieri. Vissuto così il mettersi in gioco risulta molto semplice, propongo quello che sono,
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prima di quello che suono; quello che ho da dire, non quello che è più facile cantare. Così,
dal basso, senza aspettative, mi sono ritagliato molte soddisfazioni; certo confrontarsi e
aiutarsi resta importante, necessario per chi vive nell'underground, ma vuole con il proprio
messaggio rompere il suolo.
Hai aperto anche un blog in cui dialoghi col tuo pubblico, scambiando impressioni,
sensazioni: è ancora possibile comunicare, e quanto malcontento avverti che ci sia, o
voglia davvero di andare avanti?
Sì, il blog è nato per tenere traccia delle date che faccio, fissarle con una foto e qualche
pensiero, come una specie di diario di bordo. E' vero che è seguito, forse perché in quelle
righe non ci metto il concerto, ma quello che ci sta attorno, che può essere una battuta fatta
nel dopo serata o i discorsi durante il tragitto. Il titolo è lo stesso del disco proprio perché,
incontrando gente, confrontandomi, tutti dicono guardiamo avanti, ma forse pochi hanno
davvero il coraggio di farlo. Guardare avanti per me è non sentirmi legato ad un suono o ad
un'idea di musica, è avere voglia di mettersi in gioco e cambiare ancora.
Cosa c'è ora per il tuo presente e futuro artistico? Già qualche nuovo progetto in
cantiere?
“Tutti dicono guardiamo avanti” l'ho vissuto come un punto in fondo ad una frase. Ho capito
che stava cambiando il mio modo di scrivere e di suonare, così ho fissato quello che avevo
esattamente com'era nato e ora sto già lavorando, diversamente, al prossimo capitolo.
Contatti: www.myspace.com/casosidistrae
Giacomo d'Alelio
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Colore Perfetto
Il secondo album della band perugina “L’illusione del controllo”, appena uscito per Libellula
Music, arriva come un mantello protettivo. È senso di proiezione verso sé stessi. Parole
d’amore che sembravano perdute nei meandri dell’esistenza interiore, qui riaffiorano e
vengono affrontate con coraggio e a testa alta. David Pollini, grazie alla sua voce avvolgente
e morbida, è capace di portarci via. E le melodie che disegnano tutti e tre i musicisti sono
perfette per il significato rivelatore dei suoi testi.
Il vostro primo album “Il debutto” uscito per La Tempesta, era per certi versi trainato
dalla partecipazione di Moltheni. Ora che vi siete staccati da questo “cordone
ombelicale”, ne avete sentito la mancanza?
No non l’abbiamo sentita: è stato un bellissimo incontro quello con Umberto, ma la sua
partecipazione rischiava di essere ingombrante, perché la canzone “Questo giorno
qualunque”, dove lui cantava, rischiava di diventare quasi l’unico pezzo per il quale ricordare
i Colore Perfetto. La cosa naturalmente non ci piaceva, quindi volevamo riscattare il tutto con
un secondo disco che ci rappresentasse di più.
Com’è cambiato il vostro modo di scrivere e comporre rispetto al disco precedente?
La differenza maggiore è data dal fatto che forse questo disco rappresenta in maniera più
profonda il gruppo perché è nato proprio con questa formazione: mentre “Il debutto” si
portava dietro delle idee già elaborate da esperienze dei singoli componenti, questo è stato
creato dal gruppo in saletta, in modo molto istintivo; anche alle Officine Meccaniche alcuni
pezzi sono stati fatti in presa diretta e sono fondalmente frutto di nostri deliri. Come
“L’illusione” ad esempio registrata così com’è una mattina.
I tuoi testi sono diventati più semplici, ma anche più descrittivi. Ti lasci andare al mal
d’amore in “Un istante” e “In due fuochi” ma è un disco introspettivo sia per i testi
che per le musiche. Come l’hai vissuto?
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Tutto avviene in maniera molto naturale. È nata sicuramente prima l’ambientazione
strumentale, quindi c’erano degli abbozzi di testi, però alla fine anche lo spirito che aleggia
su tutti i testi credo sia una conseguenza dell’atmosfera ricercata musicalmente. Alla fine
parliamo di relazioni difficili di situazioni dell’animo profonde, senza aver paura di toccarle
fino in fondo, mettendo veramente a nudo tutto. Mi piace raccontare le esperienze che vivo
dal punto di vista sentimentale e relazionale, anche se poi vado a ricercare le situazioni più
difficili, ma non ci posso fare niente. È tutta una spinta, molto istintiva.
Come mettete insieme gli elementi per completare le vostre canzoni, come
suddividete i compiti?
Il motore trainante siamo io e il chitarrista Alessandro Fioroni che svolgiamo la maggior
parte del lavoro artistico. Per questo disco mi sono impegnato molto sui testi e sulla bozza
iniziale delle canzoni, ma ho bisogno sicuramente di lui per completare gli arrangiamenti. Poi
naturalmente hanno grandissima importanza sia Francesco Laurenzi, l’altro chitarrista, che il
batterista che tra l’altro abbiamo cambiato da poco. Abbiamo sostituito da sei/sette mesi il
batterista che era stato fondatore insieme a noi inserendo energia nuova all’interno, più
fresca più giovane e più desiderosa di andare avanti. Si chiama Jacopo Cardinali ed è un
ragazzo molto valido. Stiamo lavorando da tre/quattro mesi preparando dei live: le cose
stanno andando bene e sono cambiate per il meglio.
Quali album o artisti hanno fatto nascere e crescere in te l’amore per la musica?
Mah, io sono un amante totale degli anni 60 - inizi 70 per quanto provi a discostarmi e
ascoltare roba più recente, su Youtube mi ritrovo a cercare i miei punti di partenza e quindi
parlo di sacramenti come i Pink Floyd, i Doors e i Led Zeppelin. Dopo naturalmente, il
grunge che mi ha travolto dal punto di vista generazionale essendo stato ventenne in
quegl’anni, però sono sempre una corrente che ripesca a piene mani negli anni 70.
Dove avete registrato il disco e come?
Alle Officine Meccaniche. Avevamo sentito delle cose che stavano producendo e ci piaceva
moltissimo il suono - soprattutto se vintage - e quindi abbiamo deciso di fare questo
investimento. Abbiamo conosciuto l’ottima persona e grande professionista Antonio Cooper
fonico delle Officine e tutto si è svolto in maniera bellissima perché laggiù è un tempio. E a
qualsiasi strumento si accenda è una botta di energia incredibile. Il disco è stato registrato
pressoché in diretta. Abbiamo registrato in un’unica sala, quattro strumenti attaccati e via.
Dopo abbiamo solamente utilizzato altri due giorni per le sovraincisioni di chitarra e le voci le
abbiamo fatte un altro giorno. Quindi ci siamo dovuti dar da fare perché anche i soldi erano
quelli che erano e dovevamo utilizzare al massimo i tempi, però siamo molto soddisfatti della
registrazione, quello sì.
Cos’ha detto Giacomo Fiorenza del disco? Vi ha dato dei consigli?
Giacomo Fiorenza è stato molto importante. Quando l’abbiamo chiamato dalle parti nostre a
Perugia abbiamo cercato di dare un abbozzo al disco. La sua presenza è stata molto
importante e lo è stata anche nella registrazione, senza dubbio nella direzione artistica. Ci
siamo scornati anche abbastanza, non te lo nascondo, perché comunque noi d’impulso
siamo molto più rock, infatti dal vivo viene fuori un’energia maggiore rispetto a quella
dell’album. Alcune critiche infatti lo sottolineano, danno ragione a noi. Diciamo che Giacomo
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ci influenza dal profilo artistico, perché con la sua esperienza - grazie al percorso che ha
fatto - tende ad indirizzare i Colore in una precisa direzione. E noi qualche volta vorremmo
‘sbrigliarci’ un po’ più della serie, però alla fine è un compromesso che ci è piaciuto da
entrambe le parti.
Com’è nata invece la collaborazione con Libellula Music?
Abbiamo avuto la fortuna di fare la prima tournée con Moltheni, quando siamo usciti tre anni
fa e abbiamo conosciuto Roberto e Marco di Libellula che sono veramente dei ragazzi molto
in gamba. Da lì è arrivata la voglia di collaborare anche in futuro. Prima eravamo con
Tempesta Dischi ma adesso abbiamo deciso di affidarci completamente a loro perché
volevamo persone vicino che credessero fortemente nel progetto. Preferiamo essere tra i
primi in Libellula Music che gli ultimi in Tempesta: il senso era questo.
E in finale la strumentale “9A.M.”, forse un’anticipazione del prossimo disco?
Sicuramente i prossimi brani saranno molto più “flashanti”. “L’illusione “ e “9A.M.”
rappresentano la direzione che vorremmo prendere. Sono i brani istintivi. Quelli che sono
venuti di getto con i microfoni attaccati seguendo un riff e andando dietro al nostro istinto e
anche quello è un brano che ci ha molto soddisfatto, sia per suoni che per le atmosfere.
Contatti: www.myspace.com/coloreperfetto
Francesca Ognibene
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Cut
“Annihilation Road” (GoDown/Audioglobe), ultimo album dei bolognesi Cut, è stato registrato
a New York: immerso nelle suggestioni della metropoli statunitense, è un disco che porta
alle estreme conseguenze il rock'n'roll venato di garage che il trio ha perfezionato nel corso
degli ultimi quindici anni. Ne abbiamo parlato con Ferruccio Quercetti, chitarra e voce.
Il disco precedente è datato 2006 e questo è il secondo album dei Cut inciso con la
formazione stabilizzatasi a trio. Che cosa vi ha spinti, al di là, ovviamente, dei brani
composti nel frattempo, a questo nuovo disco? La voglia di potenziare e affinare
ulteriormente in studio il “tiro” maturato nell'ultimo lavoro e nei concerti successivi?
In realtà “Annihilation Road” è il terzo album dei Cut con la formazione a tre. “Bare Bones”
del 2003 è il primo album che abbiamo realizzato con questa line-up, anche se in un paio di
brani compariva Cristina Negrini come guest vocalist. Noi siamo una band e fare dischi e
concerti è quello che una band dovrebbe fare principalmente: il successo per noi è scrivere
della musica in cui ci riconosciamo e poterla incidere e suonare dal vivo. Le motivazioni che
ci spingono sono le stesse da sempre, cioè esprimere attraverso la musica quello che ci è
impossibile dire con altri mezzi e condividerlo con il maggior numero di persone. È una
esigenza più che una motivazione. È ovvio che ogni volta cerchi di farlo in maniera migliore
e più interessante per te stesso e per chi eventualmente vorrà avvicinarsi a quello che fai ma
non c'è una grossa pianificazione al riguardo, a parte guardarsi attorno e scegliere le
persone con le quali ci piacerebbe collaborare. In questo caso si è trattato di Matt Verta-Ray.
Com'è andata la vostra esperienza americana, che immagino abbiate vissuto come un
traguardo importante, non a livello di successo negli States ma di ricerca di una
dimensione la più efficace possibile per la vostra musica?
Volevamo collaborare da tempo con Matt, siamo fan della sua musica, sia degli Speedball
Baby che degli Heavy Trash, e delle produzioni che uscivano dal suo studio. L'occasione per
stabilire un contatto si è presentata dopo un concerto di spalla agli Heavy Trash e
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inaspettatamente è stato lo stesso Matt a lanciare l'idea di registrare qualcosa insieme. E
così quasi quattro anni dopo quel concerto ci siamo trovati in uno scantinato di Manhattan a
lavorare con lui. È stata un'esperienza esaltante, sia perché Matt è una persona
straordinaria, oltre che un grande fonico, sia perché ci siamo calati nel cuore del Lower East
Side dove ogni cosa ci parlava della musica che amiamo di più, dai Television ai Ramones,
dai New York Dolls ai Suicide. Il disco è figlio di questa esperienza, di questa full immersion
nella NY dei nostri sogni, nella quale Matt ci ha guidato strada per strada, storia per storia.
Musicalmente parlando Matt è stato importantissimo perché, oltre a fare un grande lavoro di
missaggio, ci ha esortato a seguire il nostro istinto nel privilegiare il feeling piuttosto che la
precisione, l'espressività invece che la forma. Era esattamente quello che volevamo, cioè
portare la nostra attitudine alle estreme conseguenze, e con lui è stato possibile. Il disco è
stato registrato live in studio e poi mixato da Matt dopo il nostro ritorno in Italia. Il mastering è
stato curato da Ivan Julian socio di Matt e chitarrista di Richard Hell And The Voidoids
all'epoca di “Blank Generation” e “Love Comes in Spurts”!
L'estero, d'altra parte, è un territorio che non vi è estraneo. “A Different Beat” era
uscito anche in Inghilterra, paese in cui avete da poco portato i nuovi pezzi, mentre fra
poco farete un po' di date in Danimarca e Germania. Come siete stati accolti da
pubblico e stampa? Quali erano le aspettative e quanto la realtà è stata alla loro
altezza?
Dal punto di vista musicale per noi suonare all'estero o in Italia è più o meno la stessa cosa.
Noi facciamo il nostro lavoro ovunque, che sia Liverpool o la più sperduta provincia. Le
persone sono le stesse ovunque: quello che vogliono è uscire da se stessi per 40 minuti e
impazzire e noi cerchiamo di aiutarle nel raggiungere questo obiettivo, provvedendo a fornire
una colonna sonora che speriamo sia efficace. A volte ci riusciamo, a volte no, ma
cerchiamo di evocare una dimensione di totale abbandono e comunione, in cui certe regole
di comportamento vengono sovvertite. Niente e nessuno, tanto meno un social network o la
Rete, possono sostituire il potere di un gruppo di persone che si incontrano in un luogo fisico
e si mettono a fare qualcosa che non ci si aspetta da loro. Nel nostro piccolo noi cerchiamo
di offrire uno spiraglio dentro questo tipo di potere, una piccola ispirazione. Detto questo la
differenza fondamentale tra suonare in Italia o, per esempio, in Inghilterra, è che all'estero
senti che le cose possono succedere, e anche piuttosto velocemente. Ogni volta che
andiamo in UK le condizioni sono sempre migliori, le persone sempre più interessate e
numerose e le opportunità ci vengono offerte con estrema normalità (perdona l'ossimoro). In
Italia purtroppo si ha la sensazione di girare su se stessi senza sbocchi e vie d'uscita. C'è
una specie di soffitto di cristallo che non si riesce a rompere per chi fa un certo tipo di
musica. Ma forse è anche tempo di smettere di parlarne: noi siamo sopravvissuti anche a
questo e comunque “vivere è la miglior vendetta”, diceva qualcuno, no?
In queste canzoni io ci ho sentito molto, faccio due o tre nomi che mi sono venuti
fuori immediatamente, Stooges, Radio Birdman e Blues Explosion, ma suppongo che,
essendovi avvicinati col tempo ad una forma di garage-blues-noise sempre più
“classica” (il che non significa, naturalmente, datata), sia possibile intravedere nella
vostra musica un sacco di riferimenti riconducibili in qualche modo al
termine-ombrello rock'n'roll. Mi chiedo però se durante le session ci sia stata qualche
ossessione, qualche riscoperta, qualche “nume tutelare” che vi ha aiutati a tirare fuori
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il disco che volevate registrare.
I nomi che hai citato insieme a molti altri (da Howlin' Wolf a Captain Beefheart, dagli MC5 a
Mitch Ryder) fanno certamente parte dei nostri amori musicali più profondi e sono fonte di
ispirazione per quello che facciamo. E' sempre difficile per un gruppo definire la propria
musica (e forse non è neanche giusto) ma se qualcuno dice che siamo un gruppo rock io
non mi offendo di certo. Siamo un gruppo rock contemporaneo fatto da gente che ama
questa musica nella sua accezione più vasta dalle sue origini fino ad oggi. Tuttavia durante
le registrazioni di questo disco è stata la città di New York con tutta la sua potenza, a
travolgerci del tutto. Durante le sessions eravamo rapiti dalla storia della sua musica, dai
suoi artisti, dal cinema, dai suoi scrittori, dalla sua architettura. Certo avere Matt (un vero
veterano del Lower East Side) come guida è stato un vantaggio non da poco. Non potevamo
due passi fuori dallo studio che subito venivamo deliziati con aneddoti riguardanti Deborah
Harry, Lydia Lunch, i Contortions, Andy Warhol o i Kiss. Lo studio dove abbiamo registrato si
trova di fronte all'appartamento che John Cale e Lou Reed hanno condiviso all'inizio della
carriera dei Velvet Underground, per alcune sovraincisioni di chitarra Matt ci ha fatto usare
un pedale in dotazione allo studio appartenuto a Robert Quine (chitarrista di Voidoids, Lou
Reed, John Zorn), per celebrare la fine delle registrazioni siamo stati invitati a un party con
Jon Spencer, Christina Martinez ed altri personaggi del circuito Boss Hog/JSBX... insomma
ci siamo sentiti un po' adottati da questa parte della comunità musicale di NY, ed è grazie a
loro e allo spirito della città se siamo riusciti a fare questo album. E' stata un'avventura che
non dimenticheremo mai.
Contatti: www.soundofcut.com
Alessandro Besselva Averame
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Laradura
I Laradura sono un quartetto che si è formato in mezzo alle nuvole, tra un pensiero felice e
un sorriso. Altrimenti come si spiegherebbero i toni evanescenti, calmi, rilassanti di questi
intrecci melodici che cercano la linea d’ombra sì ma con la giusta misura e per cancellarla.
Perché anche se intitolano il disco “Senza fine”, prima o poi arriva anche quella. Ne parliamo
con Luca Li Voti (voce e chitarra) e Valentino Pirino (chitarra e seconda voce). Completano il
gruppo Gaetano Di Giacinto alla batteria e Nino D’Urzo al basso.
Come inizia la storia dei Laradura?
Luca: Ci siamo ritrovati a Bologna, Valentino e io, e abbiamo visto che ci piaceva suonare
insieme e che amavamo lo stesso genere musicale, così abbiamo iniziato ad arrangiare i
nostri brani. Poi si sono aggiunti gli altri, ovvero Antonio che è il bassista e Gaetano che è il
batterista, il quale si è aggiunto solamente nel 2008. Dopodiché abbiamo portato avanti il
progetto e con questo disco nuovo - dopo il demo autoprodotto “Dal tramonto all’alba” nel
2008 - abbiamo messo insieme il nostro meglio. Infatti i pezzi vecchi li abbiamo ri-arrangiati
con un suono diverso.
Valentino: C’era anche un altro batterista nel demo, quindi la dinamica che avevano i pezzi
al tempo è cambiata anche per questo. Eravamo più aggressivi nel modo di suonare.
Abbiamo preso tutto un altro tiro.
Le sensazioni che dà la musica verso quale immaginario vi hanno portato?
L: Un immaginario fantastico. Parole fantastiche, emozioni, visioni. Restiamo più sul
generale. Non abbiamo delle direzioni ben specifiche su questo. “In Ombra”, ad esempio,
racconta il dover affrontare la nostra parte in ombra che a volte trascuriamo, convincendoci
che c’è bisogno di scavare dentro di noi per conoscersi meglio, ma va tutto bene così anche
quando sbagliamo, invece qui voglio dire che ho scavato nella mia personale zona di ombra.
“L’altra faccia” è uno dei pezzi più vecchi e, come si evince dal titolo, un giorno ci si sveglia:
è cambiato qualcosa e c’è subito l’altra faccia della nostra età.
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Voi siete in quattro. Quando siete insieme guardandovi in faccia, cosa vi piace l’uno
dell’altro?
L: Devo dire la verità. A volte non ci guardiamo nemmeno perché ci sentiamo e ci
conosciamo bene come persone quindi avendo molta stima e fiducia reciproca, così
andiamo avanti insieme.
Qual è il vostro modus operandi quando componete?
V: Il grosso viene fatto sulle chitarre o da me o da lui, magari lavorando assieme, però
s’inizia anche componendo un abbozzo da casa. Chi ha l’idea musicale la porta e iniziamo a
strutturarla, come tutte le band garage. Lavoriamo insieme in sala prove, registrando le
prove, teniamo quello che ci piace e scartiamo il resto. Poi anche portandoli live i pezzi si
affinano e volta per volta prendono forma pian piano: è un work in progress.
Quindi i vostri pezzi crescono live, ma come mai la scelta di testi così diradati?
L: Perché le musiche favorivano queste suggestioni e perché il modo di scrivere che ho e
che abbiamo è comunque composto da immagini, non da spiegazioni, non da racconti, ma
da immagini, per cui devono avere il loro spazio e il loro tempo, devono amalgamarsi con la
musica. Non a caso alcuni brani sono solo strumentali, perché un testo andrebbe a stringere
troppo sull’atmosfera, quindi va a cozzare con la musica, per cui a volte è meglio non
scrivere nessun testo e lasciare spazio appunto alla musica.
Come vivete la vostra musica a Bologna? Siete soddisfatti del come siete accolti?
Sì, siamo soddisfatti anche se a Bologna ognuno tende a crescere nel proprio piccolo,
quindi a volte è molto difficile incastrarsi con le altre band, però in città abbiamo un buon
seguito. C’è un sacco di gente che ci conosce e ci segue ai concerti, con cui abbiamo un
bello scambio.
Ci sono dei dischi che avete ascoltato mentre componevate?
V: Forse di riflesso. A parte che tutti i pezzi dentro “Senza Fine” partono da quando
suoniamo assieme, quindi sarebbero tantissimi, considerando tutta la musica che abbiamo
ascoltato in cinque anni.
Ma quando ascoltate il vostro stesso disco non vi vengono in mente canzoni che
avete amato?
V: No. Magari qualche influenza di qualche musicista. Quello può darsi anche, però canzoni
in particolare no.
L: In fase di composizione a volte, anzi no, praticamente sempre, cancello gli ascolti per
evitare di andare a pescare roba d’altri. Ci hanno attribuito un sacco di paragoni, con
Massimo Volume o con Marta su Tubi, e sì sono nei nostri ascolti, ma quando andiamo a
fare un disco non è che pensiamo “questa è la sonorità loro” o “dobbiamo farci una
canzone”. Mi piace invece annullare questo pensiero e fare delle cose che appaiano originali
e che non suonino già sentite.
Dove e come è stato registrato il disco?
L: È stato registrato al Loto Studio a Filetto, in provincia di Ravenna, dove ha base la Dada
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Records, con Gianluca lo Presti, anche lui musicista ed è stato registrato in presa diretta.
Siamo andati dieci giorni là a gennaio mentre fuori nevicava e siamo stati circa una
settimana a registrare e a mixare il tutto, abbiamo quindi preferito fare la presa diretta perché
il nostro suono riesce bene quando siamo insieme.
Qual è stata la canzone più complicata da portare a termine nelle registrazioni?
V: Per me “Ritorno al vento” che è stata il mio incubo.
L: Per me invece “Notte verde” perché avevo avuto un calo di voce nel momento delle
registrazioni della voce, che abbiamo registrato giustamente a parte e ci abbiamo messo un
giorno per farla.
Come avete conosciuto invece Paolo Messere?
V: Paolo lo abbiamo conosciuto perché io vengo da Porto Torres in Sardegna e lì c’è un mio
caro amico collega cantautore che si chiama Alessandro Moresu il quale collabora da tempo
con Paolo. Quando abbiamo finito di fare la produzione - perché Senza Fine “ è
fondamentalmente prodotto da noi - stavamo cercando un‘etichetta per farlo uscire e tramite
Alessandro siamo entrati in contatto con Paolo e la sua Red Birds Records.
La grafica del disco è particolarmente bella, chi l’ha curata?
L: Il mio amico Domenico Panna, un grafico e illustratore molto bravo. Ci ha fatto scegliere il
disegno e poi ha adattato la sua linea artistica e la sua creatività alla nostra musica
consegnandoci un lavoro finale davvero soddisfacente per noi. Ci siamo senti capiti.
Contatti: www.myspace.com/laradura
Francesca Ognibene
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Rusties
Bella favola quella dei Rusties: da tribute band di Neil Young al secondo attesissimo disco di
inediti; dai pub di provincia a headliner al festival di Fehmarn, davanti a quindicimila teste.
Ci siamo fatti raccontare tutta la storia dal loro frontman Marco Grompi.
"Wild Dogs" (Tube Jam/Egea) è il secondo album dei Rusties. O meglio: il secondo
album di inediti. Spiegaci un po' meglio.
I Rusties sono nati quasi per gioco nel 1998 per un unico concerto dedicato a Neil Young.
Ci siamo talmente divertiti che l’abbiamo fatto per oltre dieci anni, suonando più di 500
concerti e pubblicando in proprio addirittura quattro album di cover younghiane
sorprendentemente molto apprezzati. Dal momento che tutti sottolineavano la spiccata
personalità musicale del gruppo, e considerando che avevamo da tempo anche delle
canzoni nostre “nel cassetto”, dal 2009 abbiamo deciso di buttarci sul repertorio autografo
pubblicando “Move Along”, un album interamente composto da nostre
canzoni.


Potete contare su un pubblico molto affezionato che vi segue praticamente dall’inizio.
Come è stata recepita l'evoluzione da cover band alla veste attuale?
Chi ci segue e ci conosce da tempo ha trovato la svolta addirittura entusiasmante. Chi viene
ai nostri concerti o ha modo di ascoltare i nostri album diviene istantaneamente un fedele e
sincero appassionato della nostra musica. Il problema è trovare il modo di “metterla in giro”: i
canali di diffusione che contano sono lottizzati e in mano a pochi personaggi. Ironicamente,
mentre prima avevamo un’identità ben precisa, circoscritta e facilmente intellegibile come
tribute band di Young, oggi c’è il rischio di venire considerati alla stregua dei tanti gruppi che
cercano di farsi largo nel marasma delle produzioni indipendenti italiane.

Ascoltando "Wild Dogs" pare di avvertire, in alcuni casi, un tentativo di
mettere insieme West Coast e Europa: ne è venuto fuori un rock molto americano con
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una certa sensibilità italiana, a tal punto che alcune canzoni non avrebbero sfigurato
nella nostra lingua.
Mi sarebbe davvero piaciuto scrivere e cantare canzoni in italiano, ma non ne sono capace.
Potrebbe essere un limite in termini commerciali ma, essendo svincolati da qualsiasi logica
commerciale, non lo viviamo come tale. Del resto il “problema lingua” sussiste solo in Italia,
perché negli ultimi vent’anni il Paese è diventato sempre più provinciale e culturalmente
degradato. In qualsiasi altra parte del mondo non è percepito come un problema o un
handicap se un artista non madrelingua canta in inglese.
D’altronde non si può dire che il vostro sia "solo" un disco rock. Dentro c'è folk, funk,
addirittura insospettabili e gustosi agganci pop...
Ciò che guida l’approccio nei confronti di una canzone è la canzone stessa. È lei a dettare
le regole e la veste che le sta meglio addosso secondo le nostre sensibilità e capacità. Mi
piace pensare alla diversità formale tra le nostre canzoni come ad un valore aggiunto, anche
se mi rendo conto che questo rende il gruppo meno facilmente incasellabile o collocabile
all’interno di un genere musicale circoscritto. Personalmente non mi entusiasmano gli album
“di genere” o che suonano uguali dalla prima all’ultima traccia.
Oltre che comporre la maggior parte delle musiche e dei testi ti sei anche occupato
della produzione.
Per certi aspetti è un vantaggio: non dobbiamo render conto a nessuno delle nostre scelte.
Da un altro punto di vista, si potrebbe dire che è un limite, ma si fa di necessità virtù! Senza
contare che, trattandosi di autoproduzione, allora che lo sia davvero fino in fondo! Battute a
parte, penso sarebbe molto stimolante per noi lavorare con un produttore, ma per ora non
c’è n’è mai stata né la volontà né l’occasione, né la possibilità di farlo.

D’altronde i Rusties sono sempre stati molto aperti alle collaborazioni
“esterne”...
Con Cristina Donà (ospite nel precedente disco della band, Ndr) siamo molto amici da
vent’anni. E’ stata una scelta naturale chiederle di cantare “Move Along”, una canzone che
avevo scritto ai tempi in cui ci esibivamo assieme come duo acustico nel circuito dei folk
club. Per quel che riguarda Mary Coughlan, la conosco dal ’94 ed è una delle
cantanti/interpreti più intense e toccanti con cui mi sia capitato di venire in contatto: è stata
lei a proporci di registrare assieme “Razor Love” e, una volta in studio, si è innamorata di
“Wild Dogs” e ci ha chiesto di poter cantare pure quella. Praticamente è stato come
l’avverarsi di un sogno. Infine, frequento e stimo Andy White da circa 15 anni: è stato un
onore che abbia accettato di collaborare con noi alla stesura di tre brani e di curare
l’arrangiamento e la produzione di “Oh, Rory”, dedicata a Rory Gallagher.

Il bilancio per i Rusties è certamente positivo. Cosa dobbiamo aspettarci nel
prossimo futuro?
Il bilancio artistico è assolutamente positivo: siamo una band anomala con un percorso
assolutamente atipico e ne andiamo fierissimi. Siamo partiti dalle più infide birrerie
orobico-camune e siamo arrivati – contando solo su noi stessi – a suonare come
“headliners” di fronte a 15mila persone al festival di Fehmarn, sul Mare del Nord. Produrre in
proprio due album in meno di due anni è stato uno sforzo non indifferente. Desideravamo
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provare ad affermarci come band con un proprio repertorio originale e autonomo, e abbiamo
inanellato due lavori di cui andiamo molto orgogliosi. Volendo, avremmo pure delle nuove
canzoni, ma ci piacerebbe che prima venisse in qualche modo riconosciuto il valore del
lavoro svolto fin qui. Per il futuro più immediato vorremmo semplicemente avere la possibilità
di continuare a far conoscere la nostra musica portandola in giro nei concerti. E’ un lavoro
lungo, paziente, costante e richiede una gran quantità di energia ed entusiasmo, ovvero
risorse non sempre facili da reperire, specie tenendo conto che abbiamo tutti una certa età,
teniamo famiglia (alcuni anche più di una!) e – almeno i più fortunati – perfino un “vero
lavoro”. Diffondere la nostra musica con i concerti e con tutti i (pochi) altri mezzi di cui
possiamo disporre è l’unico modo che abbiamo per continuare andare avanti. Sono tempi
più che mai difficili, ma confidiamo sempre in una “meravigliosa e pacifica rivoluzione” e ci
piace pensare di essere qui a fare la nostra parte per suonare la sveglia a questa nazione.
Contatti: www.myspace.com/rustiesband
Carlo Babando
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Valentina Lupi
“Atto terzo” (Ali Buma Ye!/Audioglobe) è in realtà il secondo atto nella carriera discografica di
Valentina Lupi, voce espressiva del nostro cantautorato rock, che si conferma a oltre un
lustro dal suo debutto. L’atto terzo del titolo è di origine shakespeariana. Ce lo spiega la
stessa cantautrice romana.
Cominciamo da Shakespeare? Com’è entrato nella tua musica l’Amleto?
La mia vita, il mio modo di scrivere e di sentire vengono spesso influenzati da esperienze e
opere altrui. L’Amleto è sempre stato oggetto di molteplici interpretazioni, la sua figura,
psicologicamente e storicamente, ha avuto un peso notevole nella letteratura mondiale. Mi
ha sempre affascinato il tema del famoso dubbio che Amleto si pone davanti all’azione
(“essere o non essere”, Ndr) e ho trovato questa immagine molto vicina alla mia, al mio
modo di scoprire e di affrontare le passioni e l’esistenza stessa.
Si percepisce con forza che il tuo nuovo album è scaturito da un’esigenza di
rinnovamento, prima di tutto personale. “La vita sta nel cambiamento”, canti.
Sì, sono passati cinque anni da “Non voglio restare Cappuccetto rosso” e durante questo
tempo la mia vita è cambiata radicalmente. Ho imparato a fare i conti con la solitudine e il
dolore della perdita di persone molto care, sono cresciute in me la consapevolezza e la
necessità di scrivere in modo diverso, come se volessi liberarmi di qualcosa che è diventato
troppo pesante. Quando scrivo una canzone è come se rendessi più leggera la mia anima,
metto davanti a me tutti i mostri chiusi dentro e li vedo per quello che sono. So che ogni
giorno devo lavorare su me stessa per essere felice, per essere soddisfatta e poter regalare
qualcosa di bello alla mia esistenza.
Senza gli accostamenti stilistici e i paragoni il nostro mestiere non avrebbe senso.
Facciamo una cosa: io non dico niente, ma lascio a te la scelta di due-tre (o anche più)
nomi ai quali sentirti accostata non ti dispiace. E poi i musicisti e le musiciste da cui ti
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senti influenzata.
Gli accostamenti che alcuni possono fare sono spesso lusinghieri, anzi sono anche troppo
per me. In un certo senso mi fanno piacere perché io sono cresciuta con il cantautorato
italiano, soprattutto con quello femminile. D’altro canto credo di aver raggiunto un linguaggio
molto personale, un mio modo di comunicare che non può essere paragonato ad altri,
semplicemente perché sono diversa, ho la mia personalità. Gli ascolti che mi hanno
influenzata sono molti e credo siano anche comuni a tanti della mia generazione. Le
personalità femminili che ho ascoltato di più sono soprattutto americane: Billie Holiday, Janis
Joplin, PJ Harvey. Amo il cantautorato italiano, Fossati su tutti.
Parliamo dei Talking Heads? Io penso siano stati un grande gruppo, e nemmeno così
difficile da “capire” (in un brano sono citati sarcasticamente, Ndr).
Lo penso anche io. Quello che volevo raccontare giocando con ironia, in “Non è cambiato
nulla”, è la necessità che hanno alcune persone di complicare quello che invece è molto
facile da comprendere e da vivere. Ti rispondo citando Samuele Bersani che dice “troppo
celebrale per capire che si può star bene anche senza complicare il pane...”.
Tu hai visto la luce, artisticamente, al “Locale” di Roma. Secondo te qual era la cifra,
il “peso netto” di quella covata di musicisti usciti da Vicolo del Fico? E cosa è rimasto
in dotazione a te?
Quel periodo, verso la fine degli anni Novanta, è stato ricco di musica di grandi intuizioni,
profonda sensibilità e attenzione verso il panorama musicale italiano. Il Locale era dentro
quell’onda e ha dato spazio a diverse realtà tenendo sempre viva la scena musicale romana.
Per me è stato importante iniziare da quel palco, mi ha dato forza soprattutto perché
provenivo dalla provincia (Velletri, Ndr), ero appena maggiorenne e ho imparato ad avere un
rapporto confidenziale con il pubblico.
Molte canzoni dell’album disegnano un percorso di dis-amore e disillusione. È finito
qualcosa di importante ma doloroso, che è poi diventato benzina artistica? Come
succede questo?
Di solito scrivo mossa da esperienze che mi hanno ferita.
Spesso mi sono trovata a vivere rapporti in cui ho dovuto combattere con modi di amare e
concepire i legami, le relazioni, totalmente opposti ai miei. La mia vita è stata complicata, ho
vissuto fin da piccola esperienze forti che non tutti hanno affrontato, percorsi che mi hanno
portata a essere dura e concreta. Ho compreso ultimamente il caos di emozioni che mi
hanno attraversata e ho imparato a perdonare i miei errori e quelli degli altri. Sto iniziando a
essere meno istintiva e aggressiva di fronte a una percezione della realtà diversa dalla mia.
Tu componi al piano. Scrivi in solitudine, sei abitudinaria, oppure quando va, va?
Prima le parole e poi la musica o viceversa, o insieme? Che peso assegni all’una e
all’altra componente?
Scrivo al piano, in solitudine. Non sono abitudinaria, scrivo musica e parole
contemporaneamente. Il testo ha la stessa importanza delle note. Ci sono periodi in cui
scrivo molto, di solito all’inizio di una nuova stagione, è come se i cambiamenti della natura
che mi circonda portassero nuove ispirazioni. Sono molto legata alla terra e al cielo. I miei
nonni erano agricoltori, mia madre e mio padre mi trasmisero fin da piccola l’amore per la
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mia terra.
Ti sei prodotta da te. Se avessi voluto affidare a qualcun altro la produzione
dell’album, chi avresti voluto chiamare?
Sono molto orgogliosa della mia band che ha arrangiato con me il disco: Giorgio Maria
Condemi, Fabio Fraschini, Cesare Petulicchio e Matteo Scannicchio, che è anche l’autore di
due brani, hanno creato un sound perfetto per queste canzoni. Se dovessi affidare il mio
lavoro a qualcun altro, nell’ipotetica valigia dei sogni, mi piacerebbe lavorare con diverse
personalità: sia con Josh Homme che con Antony and the Johnsons.
Direi che le due canzoni-manifesto del tuo secondo lavoro siano da una parte “Il
modo migliore”, più da un punto di vista personale, e “Atto terzo”, da un versante di
indignazione civile. È così?
Si, è vero. Il concetto dell’essenza della vita che sta nel cambiamento di cui parlo in ”Il modo
Migliore” è lo stesso di “Atto Terzo”. Mai come in questo momento sento l’esigenza di non
spegnere il cervello e muovermi, contrastare le forze negative che opprimono e che
offendono la dignità umana. Stiamo attraversando un periodo molto faticoso e umiliante per
il nostro paese e per l’umanità. Io cerco di dare e darmi forza con i pochi strumenti che ho a
disposizione.
So che hai tentato di andare a Sanremo...
Ci siamo proposti a Sanremo come facciamo con qualsiasi altra manifestazione. Penso che
sia importante poter comunicare da quel palco perché è l’unico in Italia che permette a un
artista di poter arrivare al maggior numero di persone. È un mezzo popolare, può servire a
tutti. Portare la propria personalità senza compromessi e con dignità fa bene a qualsiasi
artista su qualunque palco.
Come siamo finiti secondo te in “questo scempio”? E come ne usciremo mai? E se il
problema non è più “essere o non essere”, qual è diventato?
Ancora mi domando com’è stato possibile arrivare più in basso di quanto ci si sia già stati in
passato. Confido nel futuro, spero arrivi una nuova classe politica, giovane e meno corrotta.
Spero ritornino i cervelli italiani in fuga da questo paese, e che il nostro popolo governato da
vecchi pensieri si rinnovi e tenga in considerazione le diverse radici e le nuove culture che lo
stanno cambiando. Vorrei che tutti, io compresa, sentissimo di contare qualcosa per questa
nostra terra perché io non sento spesso di “essere” qualcuno per il mio paese. Non mi sento
rappresentata dal “Grande Fratello”. Perché mi chiedono un televoto per scegliere una
preferenza su un personaggio televisivo e non mi chiedono se voglio o non voglio entrare in
guerra?
Contatti: www.valentinalupi.it
Gianluca Veltri
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Arbe Garbe
¡Arbeit Garbeit!
CPSR Produzioni/Venus
È con una marcia forsennata che corre per tutto il quasi minuto di durata del primo pezzo,
che parte il nuovo, settimo album dei friulani Arbe Garbe, “¡Arbeit Garbeit!”. Un'“Intro”
che è anche biglietto da visita del mood che percorrerà tutte le sue dieci tracce. Schiamazzi,
trombe, batteria, chitarre elettriche, che richiamano una musica di frontiera, di quel Mondo
Latinoamericano, Argentina in testa, che ne farà parte anche linguisticamente (molti brani
sono proprio cantati in argentino/spagnolo), per lasciare spazio subito dopo alle fisarmoniche
di “No soi sante”, e alla verve folk-punk-noise-free jazz del gruppo che da più di quindici anni
è sulla breccia, avendo calcato i palcoscenici di 500 paesi diversi, in tournée che mettono in
evidenza la loro qualità performativa live, trascinando con una musica travolgente, e
scaldando il pubblico in danze senza sosta. Vengono dal successo di stampa e di critica del
loro precedente disco live, “The Great Prova”, inciso con il mitico Eugene Chadbourne, il più
inventivo improvvisatore libero country/western che ci sia in circolazione, e di questo
incontro pagano pegno di qualità, con una prova, che seppur anarchica e senza desiderio di
confini come loro solito, arriva nell'area ben circoscritta dell'album da non lasciarsi perdere.
Nati per dare voce non solo folk alla propria terra e alle proprie origini, per sdoganarle da
una relegazione nelle retrovie della musica, utilizzando, oltre che il loro dialetto d'origine,
anche quello della beneciana (minoranza slovena del Friuli orientale), si definiscono una
band “Agropunk Freenoise”. Per loro stessa ammissione, vanno a confermare che l'album è
“un concentrato di folk punk free noise che traghetta il nostro sound verso mari più metallici
e dissonanti, senza però rinunciare alla carica adrenalinica che da sempre ci
caratterizza”.
Sempre ottimisticamente a cavallo tra disincanto, ironia e follia, i testi
attingono anche in questo caso all'attualità, deformandola, impressa su di essa una luce
surreale, come capita affrontando le vicende de “El Cura”, che s'ispira ai preti che operano
tra i poveri in Latinoamerica con azioni che sanno dell'incredibile, o per il cantastorie di “Dos
Pesos”, moderno giornalista disposto a soddisfare la curiosa morbosità dei suoi lettori per
due soli soldi... In uscita l'8 aprile, copertina del fumettista serbo Aleksandar Zograf,
dimostrando così la loro buona attitudine verso il fumetto, avendo già collaborato in
precedenza col conterraneo Davide Toffolo, per quella data gli Arbe Garbe hanno
annunciato uno streaming selvaggio: da prendere fin da ora posto in Rete!
Contatti: www.arbegarbe.com
Giacomo d'Alelio
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Aua
Martedì
Tomobiki/Venus
Aua è Annalaura Avanzi, ma Aua è molte più cose. Dopo un lontano passato come leader
dei Pincapallina (trivia time: parteciparono a Sanremo nel 2001 con il brano “Quando io”),
giunge ora alla dimensione solista con “Martedì”, un album intimista e dai forti accenti folk.
Fin dal primo ascolto è chiaro come questa sia una dimensione congeniale alle doti vocali
dell’artista. Viene da chiedersi cosa sarebbe successo se fosse arrivata all’essenzialità
senza passare dal caduco dazio del pop, ma questa è mera congettura; meglio godersi il
presente, a partire dal brano che apre e dà il titolo all’album, tra archi, chitarre arpeggiate e
una voce che evoca nuvole gravide di pioggia. La voce di Aua ha a tratti il sapore della
malinconia distratta di Amalia Gré (sans virtuosismi) o Patrizia Laquidara (sans bossa),
particolarità – questa – che viene rimarcata nel brano successivo, “Canta ragazzina”. La
cover di un vecchio successo anni 60 noto ai più nella versione di Mina è uno dei picchi
creativi ed emotivi presenti in scaletta e rivela senza pudore le capacità di Aua. Purtroppo la
magia viene bissata in una manciata di altre occasioni e poco più (“Sfere”, “Reicontrarti” e la
conclusiva e bellissima “Motivo speciale”). Un'esatta metà di “Martedì” mostra che in fase di
arrangiamento si siano battute più strade, cercando forse di esplorare aspetti più pop e
solari. Il risultato non solo è poco brillante, ma rischia di mettere in ombra la bellezza dei
brani citati in precedenza. Ad Aua il compito di non fare passare altri dieci anni prima di
mostrarsi a noi in tutta la sua bellezza.
Contatti: www.myspace.com/auamusic
Giovanni Linke
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Bancale
Frontiera
Ribéss/Fumaio/Palustre
La terminologia di “blues metropolitano” risale ai tempi dell’omonimo film di Salvatore
Piscicelli, una storia di sesso, droga & rock n’ roll in salsa partenopea e piuttosto grottesca.
Per ragioni completamente divergenti, alla venuta sulle scene dei Bachi da Pietra, mostro
blues silente generato da Bruno Dorella e Giovanni Succi, questa etichetta cerca di
inquadrare in un confine molto labile, un genere che mantiene il blues come materia viscida
e viscosa di base, e rumorismi che spaziano verso i confini dell’industrial, il tutto condito da
un’ansiosa e solenne aurea che ammanta il tutto.
Nel caso dei bergamaschi Bancale, che esordiscono sulla lunga distanza con l'LP
“Frontiera”, queste coordinate ci sono tutte, e forse anche di più. Perché i Bancale, partendo
da una base blues funerea e ricca di pennellate oscure, costruiscono reclami e sussurri sotto
una coltre oscura di rumori elettronici tetri e accordi ora leggeri ( il lamento sussurrato di “Un
paese”), ora ossessivi (le percussioni metalliche di “Corpo” dilaniate da una nenia sinistra e
da chitarre compulsive), mantenendo comunque una cifra stilistica ben precisa. Laddove i
Bachi da Pietra strisciano nella fanghiglia blues, i Bancale si lasciano invece cullare da
isterismi e flussi di coscienza che inquadrano - in maniera a tratti vivida e spietata situazioni, luoghi e persone (il destinatario del testo di “Catrame” che recita “la tua tomba è
di catrame ma continui a sorridere. Di negare siamo Capaci tutti, ma ora svegliati: al Servizio
ci sei anche tu” è facile intuirlo) preda di una condizione umana universale, invocando - fra le
righe - una presa di coscienza collettiva.
C’è, e si sente, la mano rumorista di Xabier Iriondo dietro le manopole di questo disco, a cui
riesce ad infondere la giusta atmosfera claustrofobica ed opprimente. I fan dei Bachi da
Pietra possono trovare nei Bancale un nuovo porto sicuro in cui ossessionarsi dolcemente,
sotto l’ombra del suo faro spento.
Contatti: www.myspace.com/ilbancale
Luca Minutolo
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Blessed Child Opera
Fifth
Seahorse/Goodfellas
Quinto album per i campani Blessed Child Opera capitanati da Paolo Messere, quinto
tassello di una storia di continua crescita e maturazione artistica. Se in occasione del
precedente “Soldiers And Faith” avevamo tirato in ballo una certa comunanza spirituale con i
Piano Magic (un eclettismo di fondo al servizio di una cifra stilistica intimista e un po' scura,
diremmo europea e continentale, dotato di una solidità e credibilità spendibile
tranquillamente oltreconfine), questa volta, nel constatare l'ennesimo affinamento in sede di
scrittura (non che i lavori precedenti soffrissero di immaturità, anzi) accogliamo con piacere
venature di Americana nell'impasto dei brani, unite ad una vena pop mai così evidente: un
pop che, nelle sobrie e ombrose illuminazioni di “Closed Doors”, ad esempio, ci fa venire in
mente i Go-Betweens della tarda maturità. Più in generale, la maggiore linearità dei brani
(non semplificata: semplice come potrebbe esserlo un pezzo uptempo della Band) non fa
perdere smalto alla filigrana della band, e la cura dei suoni e delle atmosfere è ancora una
volta impeccabile, ispirata e convincente. Non c'è un riempitivo che sia uno, ma ci piace
segnalare, in particolare, oltre a quelli già citati, una manciata di brani di statura superiore:
“Reflection After Nothing”, la luminosa e solenne “Ruby Light”, la lieve e aerea “Never To
Return To Your Steps”, incantevole davvero.
Contatti: www.myspace.com/blessedchildopera
Alessandro Besselva Averame
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Cattive Abitudini
Gemini 1
Indie Box/Venus
Potrei iniziare la recensione abbandonandomi alla nostalgia e a ricordare i tempi in cui i
Peter Punk - ovvero il gruppo da cui tutta questa storia è partita - cantavano "Truzzi al rogo e
punk al pogo" con una sincera ingenuità. Ma ormai son passati sette anni - reunion esclusa da quella storia e dobbiamo guardare a "Gemini 1", prima parte di un ideale dittico che
troverà il suo seguito il prossimo anno. Cos'è cambiato rispetto al passato? Innanzitutto
abbiamo una band che ormai anche in studio riesce a dare il meglio, che canta con perizia e
riesce ad azzeccare una decina di melodie tanto energetiche quanto orecchiabili. Il resto
rimane uguale a se stesso, ed anche se il mio ruolo imporrebbe frasi come "poca crescita
artistica" o "testi molto semplici e dall'immaginario sempre uguale" forse il senso della loro
musica sta tutto nel testo di "Vorrei vedere". Un brano che è un manifesto "forse banale ma
sincero" di una musica che è fatta per una serata a base di musica e di alcool, con tanta
gente a cantare sotto al palco e a stare bene. E pazienza se mancano riferimenti colti o
evoluzioni musicali, le Cattive Abitudini hanno altre ambizioni, guardano in un altra direzione,
proprio come quella navicella spaziale dal quale han preso il titolo. E se la vivono alla grande
alle spalle, anche, dei critici.
Contatti: www.myspace.com/cattiveabitudini
Giorgio Sala
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Dave
Wild Days
autoprodotto
Compare quasi dal nulla Davide “Dave” Marelli (classe 1980, Milano), con le poche
informazioni che ci sono in circolazione su di lui, che si possono ritrovare, a raschiare bene,
sulla sua pagina Facebook e da quella MySpace, dove ci sono da sentire i nove brani del
suo album di esordio, rigorosamente tutto in inglese, sia come lingua che come volontà, di
frontiera. È infatti “Wild Days” il titolo del suo primo lavoro in circolazione, che per ora si può
trovare solo in acquisto sul Web, anche se si spera un'uscita non ufficiale per aprile.
Parecchio ambizioso il lancio che ne viene fatto, dimostrando la volontà di sconfinare su
campo – perché no? - “esterofilo”, scomodando mostri sacri di paragone come Eddie Vedder
(anche nel titolo della colonna sonora del film “In The Wild”, alla regia Sean Penn, forse il
suo lavoro da solista più bello e intenso) e The Boss Bruce Springsteen. Lo spirito che sale
dalle note a un primo ascolto è aperto, e cerca di librarsi libero su spazi sconfinati, in cui
quella da percorrere è la strada, dato che l'obiettivo non è dove, ma come si percorre, quella
strada. Fa sorridere a tratti sentire un inglese che sfugge a volte, sapendo di italiano, al
primo ascolto, ma rimane impressa dentro un'emozione, da contenere, delimitare, volendo
avere ancora voce e respiro. E a un secondo ascolto quei difetti si sciolgono, e quel respiro
cresce, passo dopo passo del sentiero che percorre, non perfetto, con delle increspature che
a tratti fanno stonare dentro qualcosa, ma che in altri riempiono di sorpresa, procedendo
verso la sua conclusione. La ripresa finale del brano iniziale, “The Deepest Feeling”, ha un
non so che di universale, e pezzi come “Forgiveness”, “Read Your Mind”, e su tutti l'intimo e
sentito “Walking On My Way” rimangono, anzi, si alzano in volo e chi li ascolta con loro.
Elevandosi dal pianeta, con un sapore un po' rétro, Davide “Dave” Morelli tenta, da quanto è
dichiarato dal comunicato stampa, “una sorta di cammino a tratti autobiografico e sempre
intimista...”, guardando a quel mondo che sotto continua a camminare. Chitarre acustiche,
elettriche, batteria, campionature di archi, orchestrazioni, tastiere, sax. Forse troppo
ambizioso, riuscendo decisamente di più quando evita una grandeur a effetto melodico e
dispersivo, rimanendo su sonorità più intime e piene, con molta passione ed energia da
vendere, merita più di un ascolto, e ai posteri l'ardua sentenza. Aspettando il secondo passo
di una strada appena iniziata.
Contatti: www.myspace.com/davemarelli
Giacomo d'Alelio
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Eco Nuel
Almost White
Rockbottomrec./X-Beat/Zone di Musica
Sorprendente esordio quello di Eco Nuel, animato da piglio veterano. Mascherandosi ora da
femme fatale, ora da creatura eterea, la cantautrice con nome di ninfa offre nove quadretti di
donna. Mai troppo bianchi o troppo neri. Né solo frivole né tanto meno sante. Non per forza
vittime, non sempre streghe. C’è nella ricercatezza di queste tracce una programmatica
ambiguità, che trova sintesi nell’”almost” del titolo. Nel “quasi” c’è la chiave di questo
dualismo. Eco, che canta in inglese e suona il piano, traveste le parole con l’aiuto dei
musicisti Massimiliano Gallo (chitarra e basso) e Cristian Motta (batteria), ossia i 2/3 di quel
magnifico laboratorio di suoni visionari e atmosfere notturne che furono – che sono – i
Proteus 911. Questo, dopo aver prestato la sua vocalità nella title track dell’album “Where
Roses Fall” degli stessi Proteus.
Probabili ascolti preferiti PJ Harvey e Nick Cave, la giovane songwriter sfodera nondimeno
un nervosismo urbano degno di Laurie Anderson, così come sa annebbiare le sue storie
dream pop in un “quasi” (!) celtico mistero che sa di Elizabeth Fraser & Gemelli Cocteau. Ma
non disdegna l’intenso intimismo di Tanya Donelly, con vocalità più prossime a Kristin Hersh
(per rimanere in casa Throwing Muses). “Madame”, il brano squisitamente twee pop scelto
come singolo, ha un bel tiro sfrontato, con il climax del ritornello affidato a schitarrate
elettriche punk-wave; “The Road”, titolo da Cormac McCarthy, dà conto di una vocazione
orchestrale della Nostra, di una concezione sinfonica che prelude forse a futuri sviluppi. Una
freschezza pensante sembra essere la cifra del soundscape atmosferico di Nuel, che si
candida a diventare ben più che una promessa nel panorama del cantautorato pop nostrano.
Contatti: www.myspace.com/econuel
Gianluca Veltri
Pagina 27
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Ex
Dei
VRecords/Atomic Stuff
Al motto di “Tutti siamo ex di qualcosa, ex mariti, ex lavoratori, ex ribelli, ex in qualche
band...”, i veronesi Ex debuttano ufficialmente (esistono un paio di album demo) dopo oltre
dodici anni di attività. Lo fanno con un CD prodotto bene, masterizzato al Black Dog Studio
di Tampa, Florida, con un suono che punta all’essenza e non gioca a copiare modelli esteri,
e questo è già un traguardo. Un esordio che è un punto di arrivo, ma contemporaneamente
una (ri)partenza, meritata. Infatti i due componenti storici del gruppo: Stefano Pisani alla
chitarra e Roby Mancini (no “mister” Mancini relation!), alla voce, aiutati negli anni da altri
musicisti e che con Adriano Marchi e Gabriele Agostinelli al basso – una signora sezione
ritmica - hanno trovato l’assetto definitivo, per tutto questo tempo non hanno fatto altro che
spingere sull’acceleratore, suonando ovunque, portando in giro il loro credo per un rock
onesto, con tracce di metal nella chitarra e di rock in italiano nel cantato, il tutto suonato con
vigore e passione, cantando di quei quarantenni che hanno scoperto le disillusioni, ma non
si sono mai piegati e che continuano a credere in uno stile di vita leale, ma non omologato. E
tutto questo traspare nelle otto canzoni di questo “Dei”, dove “Viaggiando” è una metafora
della vita vissuta senza compromessi, dove “Senza te” e “Occhi nella nebbia” con i loro
suoni rotondi e potenti, raccontano di chi lotta ogni giorno per meritarsi il rispetto. Ma la
gemma dell’album, è il singolo “Verona ‘80”, trascinata da un tempo medio accattivante, che
rievoca scontri con la polizia, morte e droga, di una città che, forse più di altre, ha i suoi
scheletri nell’armadio. Molto bella la copertina e la confezione, ulteriore nota di merito.
Contatti: www.myspace.com/expastarock
Gianni Della Cioppa
Pagina 28
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Numero Aprile '11
Fonokit
Amore o Purgatorio
Bliss Corporation-Fondazione Sonora/Self
Ci vuole coraggio a ricominciare tutto da capo, specie quando è stata raggiunta una certa
visibilità. Eppure è proprio ciò che hanno fatto i salentini Marco Ancona (peraltro
recentemente salito agli onori delle cronache indipendenti grazie a una felice e ormai
consolidata collaborazione con Amerigo Verardi), Ruggero Gallo e Paolo Provenzano, che
dopo l’esperienza dei Bludinvidia hanno deciso di continuare il proprio percorso con una
nuova ragione sociale, quella di Fonokit. Non è dunque un debutto questo “Amore o
Purgatorio” (invero uscito già da vari mesi), bensì un'ulteriore tappa nel loro percorso, e
infatti a emergere dai suoi mircosolchi è il suono di una band già nel pieno della propria
maturità e senz’altro sicura dei propri mezzi, eppure animata da un impeto che è più tipico
degli esordienti “veri” e da un’urgenza rara in musicisti già scafati. Forse perché ad animare
le canzoni c’è un disagio reale, palpabile, messo in evidenza tanto dai testi quanto da
sonorità sferzanti ed elettriche ma allo stesso tempo frutto di un accurato lavoro di
produzione e arrangiamento, ben evidenziato dalla cura per i dettagli e da un uso sottile
dell’elettronica. Composizioni scattanti, nervose, ma anche capaci di intimismo (la conclusiva
“Materia tattile”) e caratterizzate, oltre che dall’impatto, da una buona ricerca melodica. Quel
che ne esce fuori è un interessante esempio di rock (in) italiano classico e moderno insieme,
solido nei fatti e autoriale nello spessore.
Contatti: www.myspace.com/fonokitband
Aurelio Pasini
Pagina 29
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Numero Aprile '11
Fratelli Calafuria
Musica Rovinata
Massive Arts/Self
Da trio a duo dopo l’abbandono di Tato Vastola, i Fratelli Calafuria ribadiscono ingegno
nella scelta di titoli a effetto: a seguire il primo album “Del fregarsene di tutto e del non
fregarsene di niente” e l’EP “Altafedeltàpaura”, è ora la volta di “Musica Rovinata”. Un
manifesto programmatico dato che la lavorazione è partita con la passione per le “cose
sbagliate e brutte”, ingurgitate e rielaborate in maniera finanche apprezzabile sulla carta. Sì,
perché la contaminazione è specchio dei tempi, così come il riciclo di B-music in ottica
popular o l’utilizzo di testi radicati nel quotidiano e al pari surreali. Aggiungete che, al fianco
di Andrea Volonté e Paco Vercelloni, ci sono collaboratori come Giulio Ragno Favero e
Moreno Ussi de La Crisi, a darsi il cambio alla batteria, oltre a Dargen D’Amico tra
composizione e microfono nell’aberrante “Disco Tropical”. Ecco, il problema è che le dieci
tracce in scaletta finiscono davvero per risultare “sbagliate e brutte”. Il mix di pop,
punk-garage, funk e hip hop deraglia ben presto tra cattivo gusto e stereotipi giovanilisti. La
band milanese potrà essere cool per il popolo dei presunti indie anticonformisti, gli stessi che
magari applaudono gli Ex-Otago. A noi invece pare che, al di là del fatto che pezzi come
“Fare casino” rimangano persino in testa se si è masochisti nel sottoporsi ad ascolti ripetuti,
al di là dell’ironia e dello spirito ludico... Beh, a noi pare che si tratti soltanto di un esempio di
come si possa rovinare davvero la musica.
Contatti: www.fratellicalafuria.tumblr.com
Elena Raugei
Pagina 30
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Numero Aprile '11
Fraulein Rottenmeier
Elettronica maccheronica
autoprodotto
Nata in provincia di Brescia, Fraulein Rottenmeier è in realtà una band composta da tre
ragazzi che si destreggiano fra voce, basso e batteria/beat/synth. L’idea di centrifugare punk
corrosivo, elettronica a mezza via tra Abba e Depeche Mode e pop trash non sarebbe
neanche male, se le dieci tracce in programma non suonassero sul serio maccheroniche, nel
senso di grossolane. Vada per l’apprezzabile tentativo di scrivere testi in italiano, ma
sarebbe stato meglio se fosse rimasto un semplice tentativo: che si parli con cinismo di
discoteche e social network oppure che ci si scagli contro il potere e la mercificazione della
musica, il verdetto è imbarazzante. “Elettronica maccheronica” non suona né
contemporaneo né sufficientemente divertente perché gli orrori sono dietro l’angolo, a partire
dall’adolescenziale “Lacrime in tangenziale” (Max Pezzali che cerca di acconciarsi alla
Garbo?). Per non dire degli episodi più dance, da “La conoscenza” a “Gran ricetta per la
plastica”: le basi potrebbero piacere ad Albertino o Molella. Prodotto da Gianmaria Accusani
(Prozac+, Sick Tamburo), l’album presenta anche una certa tendenza alla teatralità confermata da parte dei cantati e dalle foto nel booklet, dove il trio veste i panni di “pagliacci
decadenti e metropolitani” proprio come sul palco - che aggrava il tutto anziché
sdrammatizzare. Spiace spendere parole così forti perché la filosofia di fondo può essere
condivisibile, ma la valutazione delle canzoni è compito quasi imbarazzante.
Contatti: www.myspace.com/frauleinrottenmeier
Elena Raugei
Pagina 31
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Numero Aprile '11
Gerson
Il fondo del barile
Indie Box/Venus
È fuor di dubbio che gli ultimi anni abbiano visto un sostanziale rinnovo della scena punk
nostrana. Son infatti ben pochi i nomi che restano attivi di quell’ondata che aveva riempito i
palchi a metà anni novanta. Fortunatamente un gruppo come i Gerson, che quest’anno
festeggerà i dieci anni di attività, ha raccolto quel testimone e continua, nonostante tutto, a
regalarci lavori come questo “Il fondo del barile”. Un album che non sposta di un millimetro le
coordinate sonore del gruppo, ovvero un solido punk rock suonato alla grande e con testi da
coscienza critica ma con un’ironia non banale che è il loro vero valore aggiunto. Un brano
come “Triste” riesce infatti a condensare tutta la disillusione e la rabbia che ci portiamo
addosso ogni santo giorno, e lo fa con una melodia accattivante e le chitarre sugli scudi. Del
resto un titolo come “Il fondo del barile” è più che mai esplicito e chiarisce ampiamente il
pensiero della band sulla società e sul mondo in generale. È vero, un brano non cambierà
mai il mondo, ma fare al proprio pubblico le domande giuste va nella direzione migliore, e
riuscire a farlo senza esser noiosi o carichi di slogan è più difficile di quel che sembra. E
pazienza se da questo barile ormai agli sgoccioli non partirà alcuna rivoluzione: ci saremo
divertiti distruggendo tutti gli idoli. E che cos’è questa se non l’essenza del punk?
Contatti: www.gerson.it
Giorgio Sala
Pagina 32
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Numero Aprile '11
Gran Turismo Veloce
Di carne, di anima
Lizard/Pick Up
C’è un richiamo evidente alle auto italiane degli anni settanta nel nome di questi quattro
ragazzi di Grosseto, “Famose all’estero, così come la nostra musica prog di quel periodo”,
spiegano nella loro biografia. E i territori in cui si muovono i GTV sono un sentito omaggio a
quei suoni, esplorati sin dagli esordi del 2008, con un lungo curriculum di concerti e concorsi
vissuti da protagonisti. Quello che mi commuove è constatare che sono stati “scoperti” da
Samuele Santana dei Raven Sad, che ne ha colto le qualità e li ha segnalati alla sua
etichetta, la Lizard: un gesto che, in un mondo di ego ed egoismo spropositato, in pochi
avrebbero fatto. Dicevamo rock progressivo italiano, ma anche tracce (rare) di metal e jazz,
ingredienti che funzionano e generano una miscela vitale, dove la tecnica non ha un ruolo
invadente, dato che in primo piano ci sono sempre le canzoni, dall’iniziale “Anec retrorsum”,
fino a “Sorgere sonora” e ai passaggi melodici di “Misera Venere”, ripresa poi sul finire
dell’album. Ma le tracce che meglio identificano, a mio avviso, lo spessore dei GTV sono
“L’artista” e “La paura”, canzoni fantasiose, ben interpretate e che modellano un’ipotesi di
personalità, dimostrando che si può essere derivativi senza genuflettersi ai modelli del
passato. Davvero una gran bella sorpresa questi Gran Turismo Veloce. Ed ora tutti fuori ad
accendere i motori del nostro bolide.
Contatti: www.myspace.com/granturismoveloce
Gianni Della Cioppa
Pagina 33
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Numero Aprile '11
HattoriHanzo
Eau de punk
autoprodotto
Electro-punk-digitale. Roba che a leggerla su una rivista verrebbe da mettere mano alla
pistola e diventare Charles Bronson. I ricordi non sono certo belli: chi si ricorda i
Francesco-C? Ecco, roba del genere. Qui in Italia abbiamo il vizio di confondere l’ironia con
la demenza. Il problema non è tanto in queste band, quanto in quelle che le hanno
precedute. Ma non è nemmeno onesto riversare bile per colpa di infelici uscite passate e
questi HattoriHanzo – va beh, ormai questo nome lo usato tutti – si impegnano per far
passare il loro mix “apocalittico” per “integrato”. Per loro sembra la cosa più naturale del
mondo. Si sente che ci credono, gli piace farlo e si impegnano a scrivere canzoni con un
attimo di arguzia: non sono le solite tre parole a effetto messe lì per arrivare alla fine. C’è un
progetto, dietro la mezz’ora tirata di “Eau de punk”. C’è una proiezione in divenire che non
vuole fermarsi alla semplice constatazione di uno stile intrigante e riuscite, ma andare oltre e
costruire un percorso credibile e capace di affascinare gli ascoltatori. Sul loro MySpace si
legge che hanno alle spalle oltre 160 concerti e che: “Nel 2008[...] decidono di uscire e di
allontanarsi dalla stagnante scena indipendente nostrana, mandando a quel paese etichette
e produttori discografici”. Hanno avuto il coraggio di lanciarsi e i risultati si vedono. Il gioco
sembra ancora valere la candela. Anche perché, diciamolo pure, con la gente sopra citata
non c’entrano niente: semmai bisogna avvicinarli ai Ministri.
Contatti: www.myspace.com/hattorihanzomusic
Hamilton Santià
Pagina 34
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Numero Aprile '11
il tORQUEMADA
Himalaya
Paul Pastrelli
Lo ammetto: ero prevenuto. Pensavo che dietro a un nome del genere e una presentazione
di routine (toni ironici un po’ fastidiosi, finte citazioni...) si nascondesse il prodotto rock in
italiano medio che cerca di plagiare “i soliti nomi” lottando strenuamente contro l’anima
tamarra e la povertà d’ispirazione. È bello essere smentiti, ogni tanto. Perché il
tORQUEMADA ci sa veramente fare. Il suo è, sì, un “rock in italiano medio”, ma ai “soliti
nomi” si ispira – certe volte le progressioni di accordi e le strutture dinamiche ricordano
proprio gli Afterhours più “obliqui” di “Hai paura del buio?” – e cerca più che altro di trovare la
sua voce, pur con la consapevolezza che i tempi sono cambiati e se è più facile farsi
ascoltare, è difficile trovare chi è veramente disposto a farlo.
Tredici canzoni dal minutaggio importante (anche oltre i sette minuti), dal sapore malato e
perverso, ruvide al punto giusto e con la voglia di fare la “propria” cosa. Alla fine, per
“Himalaya”, si tratta di una questione di “vibrazioni”. Cosa differenzia questo prodotto da altri
dischi che abbiamo trattato a pesci in faccia su queste stesse pagine? L’ispirazione. La
sincerità. La ricerca tangibile di una strada da percorrere. Ad oggi le influenze sono ancora
un po’ troppo udibili, ma ci sono un paio di frecce che questa band, al secondo disco nonché
primo in italiano dopo l’esordio “Tales From The Bottle” del 2007, può scagliare senza
nessun tipo di paura.
Contatti: www.myspace.com/iltorquemada
Hamilton Santià
Pagina 35
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Numero Aprile '11
Ila & The Happy Trees
Little World
Tube Jam/I.R.D.
Iniziamo da uno scampolo di comunicato stampa: “quattordici brani (...) spensierati,
interpretati con ironia e delicatezza che evocano atmosfere bucoliche, serene e sognanti”.
Ecco: facile ammettere che una presentazione del genere può tanto incuriosire quanto
mettere in guardia, presentimento di un infinito tunnel di zucchero e fiori da percorrere forse
con una tanica di benzina appesa alla cintura. Le rotondità acustiche di “Tomorrow”,
punteggiate dalla voce “pulita” di Ila, sembrano solo in parte scongiurare il pericolo. Un pop
piacevole e forse un po’ scontato, che però si salva con l’espressività vocale e – un po’
meno felicemente – con la durata molto breve. Ma basta poco e “Another Day”, impreziosita
da un ottimo arrangiamento di banjo e fiati, mette insieme con gusto tracce dell’ultima Rickie
Lee Jones e atmosfere trasparenti sul baratro del vasetto di miele senza che vi affoghino
mai dentro.
Un sospiro di sollievo, però ecco “La vigilia di Natale”, prima delle quattro tracce in lingua
italiana presenti in scaletta. Anche qui lavoro ineccepibile con le trame strumentali, che
purtroppo non si accompagnano ad un testo e una linea melodica granché interessanti: una
filastrocca da “felici a tutti i costi” che lascia abbastanza freddi. Se, andando avanti, “I Can
Feel It” si fa apprezzare per leggerezza ma corre il rischio “sottofondo aperitivo”,
“Lentamente” è una bella prova di cantautorato in jazz degno dei grandi nomi. L’intero
album, purtroppo, viaggia sempre su queste due lunghezze d’onda. Non ci resta che sperare
che la sua autrice, in futuro, scelga quella meno “facile”.
Contatti: www.myspace.com/ilasinger
Carlo Babando
Pagina 36
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Numero Aprile '11
JoyCut
Ghost Trees Where To Disappear
PillowCase
I JoyCut si definiscono un gruppo EcoWave ma non è una semplice posa: basta dare
un'occhiata alla bella confezione “riciclabile” di questo loro nuovo album, e scorgere tra i titoli
delle canzoni riferimenti evidenti a temi ecologisti come “CleanPlanet” per capire che non si
tratta di mossa promozionale ma di sincera adesione. Non basta: “Ghost Trees Where To
Disappear” è stato registrato a Londra in uno studio alimentato a energia solare. Per quanto
concerne l'elemento “wave” della definizione, si tratta di qualcosa di altrettanto evidente e
pertinente. La formazione percorre le autostrade di certa new wave al confine con il new
romantic e con il pianeta dark, intrecciando i propri riferimenti ad una dimensione da stadio,
vagamente epica, che fa molto primi U2. Constatazioni, queste, che potrebbero preludere ad
un giudizio sia positivo che negativo, ma i JoyCut sanno il fatto loro e, pur non riuscendo del
tutto nel (comunque non facile) compito di trarne materiale totalmente originale, sanno
scrivere canzoni e sanno crear loro un adeguato contesto sonico. Tra tutti i brani in scaletta il
più convincente è senz'altro “GardenGrey”, irresistibile e festoso schiacciasassi ritmico
vagamente “Bowie a Berlino”, attraversato da una melodia vocale malinconica e misurata,
un inno che funziona e conferma il peso specifico dell'onesto artigianato ecologico dei
JoyCut.
Contatti: www.joycut.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 37
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Numero Aprile '11
Jumpin' Quails
Bishops In Tea Shops
Sounday
L'idea è sempre sfiziosa, c'è poco da fare: riprendere le sonorità beat, spruzzarle di
attitudine surf, immettere qualche carineria pop, giocare scanzonati e autoironici sui testi e
su riferimenti letterari un po' maledetti un po' cialtroni. Però è anche vero che con un gruppo
con ormai una discreta dose di esperienza alle spalle (nati nel 2005, con una buona attività
live in questi anni più un album uscito nel 2009) si vorrebbe un po' più di competenza
esecutiva. OK il piglio giocoso, ma da Zappa in poi dovrebbe essere chiaro a tutti che se si
vuole scherzare, in musica, paradossalmente bisogna essere degli strumentisti serissimi. Ci
sono un bel po' di tracce in questo “Bishops In Tea Shops” che guadagnerebbero moltissimo
se fossero suonate e cantate come il cielo comanda (un esempio fra tanti è “I Met George
Stephenson In My Garden”, ma l'elenco potrebbe portarsi via quasi tutte le tracce dell'LP).
Invece, siamo costretti a lesinare sugli apprezzamenti: non è un disco che riascolteremo,
non è un lavoro per cui profetizzare enormi successi e strade che si dischiudono, pur in
presenza di elementi interessanti. Solo una traccia ci convince appieno, l'intelligente (nella
musica e nei testi) “Pattie”. Ma nella memoria restano più impressi i difetti di questo disco
che i suoi pregi.
Contatti: www.myspace.com/jumpinquails
Damir Ivic
Pagina 38
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Numero Aprile '11
L’Inferno di Orfeo
Canzoni dalla voliera
Hertz Brigade/Audioglobe
Arriva il momento di mettere un puntello ufficiale nella propria carriera artistica, per quanto
underground. Niente può farlo meglio di un disco. Ed ecco finalmente il debutto di una band
già attiva da un decennio, i canavesi de L’Inferno di Orfeo. Il terreno in cui si muove la band
piemontese è quello dei primi anni 70, tra le visionarie variazioni dei Pink Floyd e le
cavalcate progressive, i tempi dispari che inciampano, una durezza per certi aspetti
hendrixiana, il blues dilatato, gli Iron Butterfly e i Led Zeppelin. Ma con un bagaglio che ha
ampiamente metabolizzato l’ultimo decennio del secolo scorso, con le chitarre furbe e
grifagne del grunge, un occhio a Eddie Vedder e una continuità con il cantautorato pop-rock
italiano, da Sangiorgi alla Consoli. Sul crinale tra una dorsale maledetta e ribelle, e una più
radiofonica (meno accentuata, però), gli Orfici si concedono pure un quasi tango con
“Notturno isterico” e una virtuosistica mini-opera di tre minuti, “Rovescio” (complimenti),
dedicata all’addestramento dei bambini alla guerra, dal punto di vista di un proiettile.
Le tematiche sono più spesso interpersonali, il tono è di solito polemico e disincantato – i
rapporti danneggiati, le infedeltà. Le modulazioni ritmiche e le obliquità chitarristiche
funky-blues sono il pane della proposta di Sydney Silotto, cantante e paroliere, e dei suoi
compari Daniele Elmo (basso), Carlo Lodico (chitarre) e Daniele Manassero (batteria). Una
proposta ch’è tutt’altro che semplice liquidare o banalizzare in formule o etichette. La
scaletta di “Canzoni dalla voliera” è varia e insonne. Magari a volte, questo sì, un poco
appesantita da un certo eccesso di heavytudine prog.
Contatti: www.myspace.com/linfernodiorfeotorino
Gianluca Veltri
Pagina 39
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Numero Aprile '11
La Blanche Alchimie
Galactic Boredom
Ponderosa/Universal
Federico Albanese e Jessica Einaudi sono La Blanche Alchimie in onore dell’alchimia che
caratterizza la loro musica, del bianco che simboleggia purezza. Uno è polistrumentista che
maneggia con disinvoltura chitarra, basso, pianoforte o clarinetto e si occupa della
composizione, l’altra è cantante e si dedica ai testi. Insieme dal 2007, i due hanno già
raccolto varie soddisfazioni: un esordio omonimo ben accolto e parecchi concerti, persino
oltreconfine. “Galactic Boredom” segna un ulteriore passo avanti, al di là della distribuzione
major. C’è la produzione di Ludovico Einaudi, mano esperta nel far suonare tutto alla
perfezione. Dopodiché c’è un senso di maggior compattezza, dovuto in primis alla scelta di
accantonare in pianta stabile italiano e francese in assoluto favore dell’inglese. Ciò che
colpisce all’istante è sempre la raffinatezza formale dei brani, che riescono a spaziare dal
pop evocativo (ballate alla “Fireflies”) al folk moderno (la title track, con archi), da vaghe
reminiscenze trip hop (una “Black Girl” che sa di Portishead) a suggestioni lievemente
psichedeliche o accelerazioni filo-rock (“Cellar Disco Club”). Brani stratificati e rifiniti in ogni
più piccolo dettaglio, eppure ben alla larga dal tranello della sterile maniera. Allargando il
raggio dei pur inutili paragoni, potrebbe venir in mente un duo come L’Altra, affine nel
saltellare fra i generi all’interno della propria cameretta dall’arredo omogeneo. Vada per
l’alchimia, dunque, ma i colori per fortuna non mancano.
Contatti: www.lablanchealchimie.com
Elena Raugei
Pagina 40
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Numero Aprile '11
Lemeleagre
Atlante
Mahogany/West Link
Avevo perso di vista i Lemeleagre tempo fa. Era il 2005, e in un altro mondo il gruppo
romagnolo si trovava a un passo dal farsi conoscere al grande pubblico. Purtroppo per loro,
e forse anche per noi, non è stato così ed ora eccoli riprendere in mano le redini del progetto
con "Atlante". Un progetto serio, che viene confermato ancor prima di ascoltare il lavoro
leggendo gli ospiti, tra cui Olly (The Fire) e quel Roberto "Tax" Farano prima artefice dei
Negazione e poi del culto Angeli, di cui viene riproposta la splendida "Voglio di più".
Ascoltare poi la title track iniziale mi conferma la bontà dell'intuizione: un ottimo indie rock -si
chiama ancora così?- con stile proprio e cantato col piglio giusto, senza scimmiottare modelli
ingombranti (Foo Fighters) e con dei testi degni di questo nome. Il punto debole forse son i
brani lenti, ad esempio "Giordano", che lasciano meno il segno di episodi tirati come, ad
esempio, "La chiesa dei morti viventi". Con la presenza, dietro il mixer, di Alessandro "Ovi"
Sportelli e della sua esperienza il quadro è completo. I motori hanno ricominciato a girare, e
di certo sarà più dura che nella vostra "vita precedente", ma l'album del ritorno è valido ed i
palchi sono in attesa dei vostri amplificatori. Buon lavoro.
Contatti: www.lemeleagre.com
Giorgio Sala
Pagina 41
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Numero Aprile '11
Miss Chain & The Broken Heels
On A Bittersweet Ride

Screaming Apple
Beat, garage, surf music, un rock'n'roll revival che non dispiacerebbe a Quentin Tarantino
("Diary Of A Mad Housewife"), qualcosa dei Radio Birdman ("Beginning Of The End") e
un'indole che potremmo definire quasi punk-melodica. I Miss Chain & The Broken Heels
navigano già da un po' nei circuiti internazionali underground grazie a un paio di singoli
pubblicati dalla Sonic Jett Records di Portland e dalla giapponese Dream On, oltre che a un
tour americano del 2008. Dalla loro hanno una vitalità fuori dal comune, l'arte di saper
scrivere melodie facili facili e una voce femminile da riot grrrl spigolosa e monocromatica.
Quel che serve per farsi le ossa in un genere che dell'immediatezza adolescenziale è forse il
naturale proseguimento, fatto salvo che i nostri dall'adolescenza sembrano usciti già da un
pezzo.
Per il loro esordio "On A Bittersweet Ride" vale il discorso che facemmo ai tempi di quello
dei colleghi di immaginario Love Boat, anche se i Miss Chain & The Broken Heels possono
vantare un ventaglio stilistico un po' più vario rispetto alla band sarda: estrema fisicità,
scarsa attenzione per l'eccessiva cura formale ed essenzialità. Se siete ascoltatori già
sintonizzati su queste frequenze apprezzerete e non poco, in caso contrario cambiate
canale.
Contatti: www.myspace.com/misschainandthebrokenheels
Fabrizio Zampighi
Pagina 42
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Numero Aprile '11
N_Sambo
Sofà elettrico
Snowdonia/Audioglobe
Potremmo interpretare l'immagine di copertina come un vero e proprio invito all'ascolto di
questo “Sofà elettrico”, ovvero quello di sdraiarsi sul divano e perdersi in questi tredici
strumentali paesaggi domestici. Non temete, l'“elettrico” del titolo non ci infliggerà quella
letale pena di morte in una posizione più comoda rispetto alla sedia, anzi: esso rappresenta
più un sostrato che ci terrà felicemente lucidi, pronti a carpire ogni più lieve sfumatura della
riuscita e ricercata stratificazione di suoni che il livornese Nicola Sambo incastra in ogni
canzone. È un esordio, vero; ma la dimestichezza con la quale l'unico autore delle canzoni si
muove tra generi diversi – rock psichedelico, pop, post-rock, kraut, folk indolente, eccetera -,
in bilico perfetto tra presente e passato, è emblema di una costruttiva gavetta musicale (già
chitarrista nei PAM). Quell'elettricità di fondo emerge fragorosa in superficie soltanto in
poche tracce dell'album (nella pixiesiana “Zappaterra” e nel noise di “Feedback”), nelle
restanti viene affogata da un'elettronica onnipresente (“La giornata di Cloe”, “Edizione
straordinaria” e “Nòvotocco”, questo uno dei brani più riusciti in grado di occhieggiare perfino
ai Radiohead di “Amnesiac”), ma sempre arricchita di strumenti tradizionali come tromba,
piano, chitarra, flauto e percussioni. Insomma, “Sofà elettrico” rappresenta un eccellente
lavoro variegato in grado di evocare tanto Syd Barrett quanto i Boards Of Canada, non
perdendo un briciolo di immediatezza grazie a un minutaggio non eccessivo di ogni
canzone. Pare che anche dal vivo N_Sambo, accompagnato da vari musicisti, sorprenda
positivamente, riuscendo a sfruttare al meglio il potenziale dell'album. Che aspettate ad
alzarvi dal divano?
Contatti: www.myspace.com/n_sambo
Andrea Provinciali
Pagina 43
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Numero Aprile '11
OneMic
Commerciale
Doner/Self
Rayden, Raige ed Ensi tornano a sfornare un disco sotto la ragione sociale comune,
OneMic, dopo una serie di esperimenti solisti (eh, la classica sindrome da Wu-Tang Clan
che investe la scena hip hop: un gruppo fa un disco, poi investe tutti di dischi solisti dei
singoli componenti). Di sicuro c'è una crescita tra “Sotto la cintura” del 2005 e questo
“Commerciale” fresco di stampa, gli anni non sono passati invano: più a fuoco i testi, più
maturi i concetti, più incisiva la capacità di osservare il mondo. In più, ci sono anche alcuni
momenti fragranti dal punto di vista musicale (soprattutto certe parti di struttura ritmica non
banali, sia nei suoni che nella disposizione). Certo, ci sono ancora aspetti che non ci
convincono, e sono tipici delle cose del rap di casa nostra che non ci piacciono: l'identità
musicale è ancora un po' confusa nella sua indecisione tra stare nel pop e stare invece nei
territori di un funk contemporaneo più credibile (ma questa è, da anni, una malattia del
novanta per cento dell'hip hop), e il flow al microfono pecca spesso di musicalità, con una
intonazione talora un po' monocorde talora un po' slegata dalla base sonora. Gli OneMic non
hanno a nostro modo di vedere ancora strutturato una loro personalità artistica netta e
convincente, pur perseguendo chiaramente questo obiettivo; tuttavia con questo album
dimostrano di essere sicuramente sopra al livello medio che c'è dalle nostre parti. Può valere
la pena allora darci un ascolto, senz'altro. Ma i non amatori e non frequentatori abituali del
rap troveranno sì qualche idea carina, ma nulla che possa sedurli in modo definitivo.
Contatti: www.myspace.com/onemicofficial
Damir Ivic
Pagina 44
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Numero Aprile '11
OvO
Cor cordium
SuperNatural Cat
Gli OvO incutono paura, ma di quella vera. Le atroci spigolosità dei precedenti dischi si
trasformano in sulfuree tentazioni, in cui “Cor cordium” detta le coordinate per una discesa
negli inferi senza via di ritorno. Fra urla belluine, singulti e spasmi, scorre via un disco
opprimente e denso di umori plumbei, tracimanti dai tamburi percossi da Bruno Dorella, in
questa sede quanto mai in primo piano e protagonisti nel loro incedere marziale e funereo.
Nel mentre la bella Stefania Pedretti si contorce sulle corde della sua chitarra generando
dissonanze ferine e recitando nenie incomprensibili. Il salto di qualità in “Cor cordium” consta
appunto nella produzione, molto più attenta, curata e potente, per una band che ha fatto
della bassa fedeltà un pass per le porte dell’Ade. Porte spalancate di fronte al tremore
bestiale di “Lungo computo” e agli schizzi lavici di “Nosferatu” attanagliate dal gorgoglio della
Pedretti che si contorce in spasmi vocali, o nella sinistra ninnananna “Marie”, ossessiva e
compulsiva nel suo incedere monocorde e deflagrante. La cavalcata “Penumbra y caos”
tende i nervi per poi eclissarsi in un vortice noise di feedback tetri ed echi tormentati, mentre
“Orcus” ricopre tutto di lava nera e densa che trascina inesorabile fino alla calma spettrale di
“The Owls Are Not What They Look Like”. Sputi no-wave, colate di noise ed efferatezza
black sono la miscela letale che gli OvO, in “Cor cordium”, riescono a torturare con il giusto
(dis)equilibrio psicopatico e malefico. Abbiate paura.
Contatti: www.myspace.com/ovobarlamuerte
Luca Minutolo
Pagina 45
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Numero Aprile '11
Pajarritos
Sauce Wars
Trumen/Self
Suonare nel collettivo funk dei Pajarritos dev’essere un’esperienza particolarmente
divertente, almeno a giudicare dall’energia e la freschezza trasmessa in (e da) ogni traccia
contenuta nel recente “Sauce Wars”. L’album, capitolo finale di una sapida trilogia iniziata
nel 2007 con “The Sauce Mob” e portata avanti da “Sauce Invaderz” del 2009, sviscera in
maniera competente ed equilibrata le diverse sfaccettature di genere, rispettosi del passato
(George Clinton in tutte le “salse”, sia con Parliament, sia con Funkadelic) e al tempo stesso
capaci di inattese aperture e citazioni più o meno riuscite (i Beastie Boys in “Pol’s Boutique”
o Prince in “Done With U”). La vera sorpresa risiede però in un paio di tracce in cui la band
prova a saltare il fosso, superando in maniera più che convincente il proprio perimetro
musicale. Ecco dunque che un brano come “Dinosauce”, forse tra quelli meno “pensati” e
strutturati, risulta essere una piccola gemma, grazie al suo incedere rock e al refrain
irresistibile. Per motivi completamente differenti e uno stile musicale agli antipodi, lo stesso
risultato egregio i Pajarritos lo raggiungono con la conclusiva “Sauce Wars”, epica cavalcata
spacey che nel ricordare una band (una in particolare) della New Wave Of British Heavy
Metal stabilisce una volta per tutte che nel 2011 la via più azzeccata per suonare un genere
desueto come il funk è il mix-n-match di suoni, epoche e stili. Senza paura ma anche senza
ritorno. Con la speranza che le due tracce di oggi diventino l’album di domani.
Contatti: www.pajarritos.net
Giovanni Linke
Pagina 46
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Numero Aprile '11
Quakers And Mormons
Evolvotron
La Valigetta
Potrebbe piacere, questo disco. Esattamente come per anni è piaciuta la Anticon, qua, dalle
nostre parti. O almeno, da alcune delle nostre parti. Cosa che ha sempre molto indisposto
chi scrive: la pretesa unione di un'attitudine indie rock con riferimenti hip hop ci è sembrata e
ci sembra, ora come allora, una cosa particolarmente contronatura. Sono due cose proprio
all'opposto. Pensoso, grazioso, meditativo su se stesso, delicato attento alle cose minime
certe piglio indie, lì dove invece l'hip hop è e deve essere diretto, anche grezzo, oltraggioso,
crasso e grasso – anche quello più colto ed intellettuale è così, è proprio nel DNA della
faccenda. Poi, per carità, la cosa bella della musica è che anche gli accostamenti più assurdi
possono all'improvviso funzionare, guai non fosse così. Ma non eravamo convinti allora, e
non siamo convinti adesso ascoltando questo “Evolvotron”. Sulla carta infatti è un disco
divertente, interessante, stimolante; alla prova dei fatti suona invece leggermente artificioso
e forzato nel suo voler unire estetica lo-fi con rime al microfono, suoni da cameretta col
“tremendismo” del beat hip hop, campionamenti inusuali con parti suonate dal piglio colto. È
un'unione in vitro che ci suona, alla prova dei fatti, più cerebrale che sensuale, più faticosa
che appassionante, più studiata a tavolino che istintiva. Dietro la sigla Quakers And
Mormons si celano Maolo e Mancho dei My Awesome Mixtape, quindi il background del
progetto è chiaro; così come chiara è la voglia – anche positiva di per sé – di darsi una libera
uscita cerando una chiave più particolare rispetto a quanto si sforna col gruppo. Il problema
è che ci si avventura in territori che non sono realmente propri. Non bastano le migliori
intenzioni e una certa qual competenza produttiva. Almeno, non a noi.
Contatti: www.myspace.com/quakersandmormons
Damir Ivic
Pagina 47
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Numero Aprile '11
Robot Kaard
The Love Movement
autoprodotto
Segnatevi questo nome: Carmine De Maria. È lui che si cela dietro all'alias Robot Kaard,
così come era lui a nascondersi dietro una serie di progetti che già da un paio d'anni
circolano per la rete (vedi “ElectroNapoli 2” a firma J. Cardema). Tenetelo d'occhio, perché
sta migliorando in modo netto passo dopo passo ma soprattutto perché è uno da catalogare
in un territorio di per sé interessantissimo – coloro che provano a partire dall'hip hop, sia
come suoni che come approccio, per arrivare a creare qualcosa di nuove e sorprendente –
con l'ottima caratteristica di percorrerlo, questo territorio, non seguendo la via che ora stanno
battendo in molti (quel filo unico che parte da Prefuse 73 e arriva a Hudson Mohawke
passando per Flying Lotus) ma cercando una propria chiave personale, che è più secca, più
eclettica, più felicemente sfilacciata stilisticamente. Per dire, in un disco di Flying Lotus
difficilmente potrebbe capitare di sentire una traccia così tanto apparentabile all'electro degli
Adult. come “Monster”, così come sarebbe dura intercettare un piglio così divertito come il
jazz-lounge uptempo di “Alfred” (che fa ripensare alle gran belle cose che facevano i
norvegesi Xploding Plastix). Non vogliamo con questo dire che Carmine sia meglio, no; ci
sono ovviamente ancora errori di inesperienza, margini di miglioramento, maggiori cure da
porre nei suoni (ok l'idea di registrare tutto solo con iPhone 4 e iPad, anche bella, ma...); e
soprattutto serve una maggiore capacità di distinguere tra idee effettivamente forti ed orpelli,
tant'è che una traccia come Joy è strapiena sì di sample deliziosi ma, stipati tutti insieme
come sono, il risultato è caotico e basta. Di sicuro però quello di Carmine è un talento da
tenere assolutamente d'occhio. Consigliatissimo il download di questo disco.
Contatti: robotkaard.blogspot.com
Damir Ivic
Pagina 48
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Numero Aprile '11
Satelliti
Im Magen des Kosmos
Peter's Castle
Kosmische Musik, le porte del cosmo aperte dai primi Tangerine Dream in particolare (lo
stesso titolo, “Nella pancia dell'Universo”, questa la traduzione, tratto dal poeta tedesco
Stefan George, fa la sua parte) e i fluidi interscambi tra percussioni mobili e grappoli di note
di piano elettrico a galleggiare nel liquido amniotico di un lontano eco jazz-rock: ecco le
direttive principali su cui sembra muoversi questo duo di Bolzano particolarmente efficace
nell'ottenere così tanta materia di suggestione con così poco (un “poco” maneggiato con
grande perizia tecnica ed espressiva). La direzione, come abbiamo detto, è quella di una
musica strumentale i cui due poli sono in costante dialogo, gli esiti sono sorprendentemente
vivaci e ricchi di inventiva: il drumming di Andrea Polato è in costante movimento, articolato
ed elastico, le tastiere e i sintetizzatori di Marco Dalle Luche vanno dalla cupezza siderale al
tocco amniotico del Miles Davis elettrico, e i due elementi si incontrano puntuali a metà
strada, senza sbavature né autocensure. Se dovessimo scegliere i brani che più ci hanno
colpito, comunque, citeremmo la lunga “Dispersion”, un viaggio nell'inconscio collettivo
musicale, e “Thinking Of You”, porta di accesso a una scena di Canterbury spesso citata ma
troppo poco (non è questo il caso, naturalmente) frequentata e riportata sotto i riflettori del
presente.
Contatti: www.myspace.com/satelliti57
Alessandro Besselva Averame
Pagina 49
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Numero Aprile '11
Sista
Lei è
DCave
Daniele Grasso, ti amiamo. Hai lavorato con Afterhours e John Parish, Cesare Basile e
Greg Dulli e ancora non hai scordato il motivo per cui fai questo mestiere. Al contrario, pare
che stare dietro un banco mix ti stia proprio stretto, fondi la DCave Records, metti mano al
basso ed ecco arrivare come uno schiaffo “Lei è”, album di debutto dei Sista, insieme a Giusi
Passalacqua (batteria) ed Elisa Buchignani (voce). Sapere che esistono ancora persone
così, fa bene al cuore. Sapere che si ha ancora voglia di fare rock, col cuore, fa bene. Che
questa premessa non dia scontato l’esito dell’ascolto. L’album parte con uno dei brani
migliori in scaletta, “Sola nel buio”, ossessiva e piacevolmente abrasiva. Ad eccezione di una
straniante “Fiori gialli” a metà percorso (una “stonatura”, nella sua pulizia), queste
caratteristiche, come una solenne promessa, vengono mantenute per i successivi brani, tra
composizioni originali e cover di Battiato (“Paranoia”), LCD SoundSystem (“Daft Punk Is
Playing At My House”), Led Zeppelin (“Out On The Tiles”) e The Who (“My Generation”).
Avete l’impressione che ci sia tanta carne al fuoco? Avete ragione. C’è decisamente troppo
di tutto e non tutto sullo stesso livello. Le già citate cover, ad esempio, specie quando fedeli
all’originali, sembrano riempitivi adatte ad un concerto e non del materiale che avremmo
voluto sentire su disco. I suoni e l’attitudine ci sono, ma per “Lei è” pare essere mancata una
brutale quanto sana autoselezione. Si possono dire tante cose con metà delle parole.
Contatti: www.myspace.com/sistagroup
Giovanni Linke
Pagina 50
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Numero Aprile '11
Spread
C’è tutto il tempo per dormire sotto terra
Il Verso del Cinghiale
Grande, meraviglioso ritorno per gli Spread che si sono tolti di dosso il passato
intrappolandolo per sempre nel disco d’esordio del 2009 “Anche i cinghiali hanno la testa”,
arrivato dopo dieci anni di vita musicale. Oggi è tutto diverso per la band bergamasca che ci
stupisce con questa nuova uscita assolutamente inaspettata. “C’è tutto il tempo per dormire
sotto terra” ha quella schizofrenia, quella luce, quel soffio angelico, quei cambi repentini
delle espressioni musicali, che come il vento forte, un tornado, cambiano la prospettiva e
non sai dove ti porteranno a cavallo del loro ossessionante ma anche diradato amplesso.
Sono facili da ascoltare gli Spread: già dalla prima volta e quello che stupisce è il dopo,
perché la loro complessità rimane sulla pelle per la loro fisicità sostenuta dal canto, negli
occhi per le immagini che evocano e ovviamente nelle orecchie che li respirano. Le
filastrocche hard rock mi mancavano e in “M.C.‘n.H.n.F.” ne abbiamo uno splendido
esempio. Tutti i rumori di animali e non e le dirompenze vocali andrebbero a braccetto con il
buon Mike Patton in versione Mr. Bungle. Roby, il cantante e chitarrista, ha una voce che si
presta e spazia, stride e intona. Spettacolari dall’inizio alle fine cantando tra l’altro in italiano
le loro musiche sono teatri di scontri immaginari che finiscono bene. Devono avere un gran
bello sguardo limpido e curioso e gli perdoniamo un piccolo ritorno al passato di “A-Lot-And”
e l’inutile traccia fantasma con rumori a caso.
Contatti: www.myspace.com/spreadrock
Francesca Ognibene
Pagina 51
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Numero Aprile '11
Stefano Amen
Berlino, New York, Città del Messico
ControRecords/New Model Label
Puoi rivestire i tuoi pezzi dei migliori ingredienti (o magari spogliarli fino all'osso con tutta la
grazia che ti è concessa), accompagnarli con poche essenziali note di contrabbasso,
lasciare ad una seconda chitarra ricami essenziali, in punta di dita, puoi metterle a fuoco,
usare fino in fondo le potenzialità atmosferiche dello studio di registrazione, ma se non ci
sono le canzoni, come si suol dire, a parte qualche attestato di carineria ti guadagnerai ben
poco. Soprattutto, tutti si dimenticheranno molto presto della tua esistenza. Ecco, questo
discorso non riguarda in alcun modo Stefano Amen, cantautore torinese con all'attivo una
manciata di album autoprodotti e circolati finora troppo poco e progetti collaterali di vario
genere (Pinguino): i pezzi di “Berlino, New York, Città del Messico” stanno perfettamente in
piedi da soli e funzionerebbero probabilmente anche in versione karaoke. Affondando
profonde radici in un cantautorato italiano dai legami dylaniani (“Nessuno” si aggira dalle
parti del De Gregori anni Settanta), lanciando qualche sguardo d'intesa al Syd Barrett meno
afferrabile, con una impalcatura classica e sostanzialmente connessa a country, folk e blues
e un immaginario molto personale, tra l'invettiva esistenziale e una poetica del quotidiano
lontana dall'autoreferenzialità, Amen dà voce al proprio mondo con autorevolezza. Oltre ai
pezzi, comunque, ci sono pure gli ingredienti di cui si diceva all'inizio (complici in studio
Marco Piccirillo al contrabbasso e Paolo Spaccamonti alla chitarra): che esista una scena
cantautorale torinese di ultima generazione non siamo certi, ma sulla bravura di Stefano
Amen non abbiamo alcun dubbio.
Contatti: www.myspace.com/stefanoamen
Alessandro Besselva Averame
Pagina 52
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Numero Aprile '11
The Gentleman's Agreement
Carcarà
Materia Principale/Goodfellas
“Carcarà”, secondo album dei napoletani The Gentlemen's Agreement, è un viaggio tra le
pene d'amore giocato sul filo di una musica colta e leggera, nell'accezione più nobile del
termine. Le canzoni di questo disco sono ruffiane, in una misura non solo accettabile ma
pure auspicabile, e mostrano la bravura del quintetto nel ripercorrere le suggestioni vivaci
del samba (e più in generale dei Caraibi e del Sudamerica) avvolgendole in un tocco
vellutato che sa di jazz, avvicinandosi in maniera sottile, occasionalmente, a certe pigre
cadenze tropicaliste (“Breakfast In Tropicalia” è più di una dichiarazione d'intenti, “'Cause
We Know Carcarà” ha in mente come modello ideale Caetano Veloso). Ma l'asso nella
manica dei Gentlemen's Agreement è la duttile vocalità di Raffaele Gilio, impegnato anche
con chitarre e ukulele, il cui vibrato vagamente buckleyano (con tutte le differenze del caso)
si adagia perfettamente sulle partiture più sincopate (“A Loss Of Time”) così come sui
numeri più ironici e sornioni (“Little Trip Down The Ocean”). “The Path Of Life” ha una linea
melodica elegante e immediata, degna dell'epoca aurea di Studio Uno, mentre i fiati
assumono in più di un brano una vivacità da fanfara macedone. Muovendosi abilmente tra
intrattenimento leggero, pop d'autore e nostalgia come sistematico procedimento creativo, i
Gentleman's Agreement se la cavano piuttosto bene, e senza mai ricorrere a trucchi
scontati.
Contatti: www.myspace.com/thegentlemensagreement
Alessandro Besselva Averame
Pagina 53
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Numero Aprile '11
The Vickers
Fine For Now
Foolica/Halidon
Dopo la rivelazione di “Keep Clear”, esordio sulla lunga distanza del 2009, e l’EP acustico
“Sofa Sessions”, in free release lo scorso anno, i Vickers confermano di essere una band
emergente sopra la media, sia perché la robustezza compositiva si mantiene costante sia
perché la resa sonora si fregia del prestigioso lavoro di Steven Orchard (Paul McCartney,
Pulp, U2, Iggy Pop) e Jon Astley (ancora Paul McCartney, Who, Stereophonics), a spartirsi
mixaggio e masterizzazione. Le undici canzoni in scaletta, sempre a fuoco, volgono lo
sguardo a un pop-rock dalle evidenti influenze anglosassoni, dal respiro indubbiamente
internazionale. Non è un caso, del resto, se la formazione fiorentina ha già fatto esperienze
all’estero e proseguirà a suonare in Europa. Risultati meritati, se la ballabile “Time To
Dance” d’apertura sta tra Arctic Monkeys e Vampire Weekend, l’orecchiabilità del conciso
singolo “Baby G” è ravvivata da ritmiche sghembe, la morbidezza di “Chem Dream” si apre
in un ritornello alla Strokes, una ballata come “Wait Me Out” trova spazio al contempo per
malinconia e improvvise sterzate elettriche. Andrea Mastropietro (chitarra, voce), Federico
Sereni (basso, cori), Francesco Marchi (chitarra, voce) e Marco Biagiotti (batteria, cori) non
inseguono la chimera dell’originalità a tutti i costi ma preferiscono al contrario perseguire una
strada stilistica ben precisa, trasformando impegno e cura dei dettagli in credibilità.
Parafrasando il titolo del dischetto, più che bene per ora.
Contatti: www.thevickers.eu
Elena Raugei
Pagina 54
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Numero Aprile '11
Tomakin
Geografia di un momento
Sciopero/Venus
Universo di riferimento chiaro e lampante come il sole, per il primo lavoro dei Tomakin: gli
anni Ottanta. La new wave, Robert Smith, i Soft Cell, ma anche Battiato e Camerini, la
dance e le musichette delle console per i videogiochi. Melodie vocali morrisseyane, suoni
alla Simple Minds, i sintetizzatori, la plumbea ovatta dei Depeche Mode, il dark e i suoi
derivati. Per il sestetto alessandrino, giunto al debutto dopo vari demo autoprodotti,
sonorizzazioni di spettacoli teatrali e colonne sonore per cortometraggi, le paternità sono più
o meno sfacciate, di volta in volta. Ma talmente candide e poco dissimulate da meritare a
tratti simpatia. Le chitarre in stile Cure dell’iniziale “Quando sogno”, il ritornello in perfetto
stile “Voce del padrone” di “Amore liquido”, il cui titolo cita l'opera del sociologo Zygmunt
Bauman, le chitarrine elettriche e le linee di synth in stile B-52’s di “Collasso”, le atmosfere
liquide e trasognate à la Japan di “Maree” (uno dei momenti migliori dell’album).
Per chi si fosse distratto prima – ma sarebbe assai difficile – nella parte finale del disco
arrivano i sigilli ufficiali: prima “Siero”, ospite Garbo, un pezzo importante della new wave
italiana '80 che appare quasi in versione testimonial, e più in là addirittura un brano dal titolo
“New Wave” (nomen omen). Padrini dell’esordio dei Tomakin, i conterranei Yo Yo Mundi:
Fabio Martino produttore artistico del disco, Paolo Archetti Maestri autore del testo del
singolo “Bar Code”, Fabrizio Barale alla chitarra in un altro pezzo.
Un disco dai suoni nitidi, effervescente anche se derivativo. Alla prossima i ragazzi
dovranno sforzarsi maggiormente di affrancarsi dai padri.
Contatti: www.myspace.com/tomakinofficial
Gianluca Veltri
Pagina 55
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Numero Aprile '11
Tronco
Primo annuale e mezzo resoconto
Sincope
I Tronco sono un duo di Frosinone, chitarra e voce (Truculentboy), e batteria (Francesco). I
Tronco sono sporchi come il post-punk più zozzo e rude, ma brillano di un’anima candida e
disperata che vibra di pulsioni elettriche incontenibili. Escono fuori con il loro disco d’esordio
“Primo annuale e mezzo resoconto” per la Sincope Records, indipendente con la “I”
maiuscola che ha prodotto 77 copie del disco serigrafate e numerate a mano, in una veste
grafica che ha il sapore genuino di qualcosa, prima di tutto, da possedere. Qualcosa da
custodire gelosamente nella propria collezione, a prescindere dalla musica che contiene.
Raro e di una semplicità disarmante come gli EP degli Altro disegnati da Alessandro
Baronciani, con cui condividono non solo l’estetica applicata al prodotto/feticcio, ma anche
un attitudine aggressiva a cuore aperto e sanguinante alla materia musicale. Un post-punk
informe e caotico che scappa via a velocità sostenuta, fra slanci di distorsioni, urla di pancia
e flussi di coscienza inarrestabili, come un gruppo punk che rotola giù per un burrone in
preda alle urla.
I Tronco partono da una base punk d’impatto, elettrizzando il tutto con una sporca e
massiccia dose di rock sudicio e distorto. Come il riff garage di “Tronco” o il caos
beefheartiano di “Stupendo”, che suona come dei Bud Spencer Blues Explosion immersi in
una nebulosa acida. “Primo annuale e mezzo resoconto” è un compendio di garage rock
sudicio e viscerale (“Ex-9”) che fra slanci punk (le lame affilate di “Non so”), geometrie
post-punk (“P”) ed un anima garage blues sbilenca (gli umori altalenanti fra blues viscosi e
sferragliate punk ipercinetiche racchiusi in “Barattoli”), compongono un esordio vivo e
pulsante, come un cuore gettato a terra ed ancora palpitante di battiti aritmici e sistolici,
sempre in bilico costante e ansiogeno fra l’equilibrio e la caduta. La cover di “Noia” dei
CCCP posta sul finire, e riletta in chiave noise-core, chiude le danze e manda tutti a casa.
Post-punk, post-rock, post-tutto.
Contatti: www.myspace.com/titronco
Luca Minutolo
Pagina 56
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Numero Aprile '11
Veda
Prosa
Aemme
Dopo una lunga gavetta attraversata da sostanziali cambi di line up, il trio dei Veda (Marco
Carabett, Alberto Amorus e Alessio Galli) giunge al debutto con un EP di cinque tracce,
quattro composizioni originali e una rilettura del brano “Hotel Supramonte” di Fabrizio De
Andrè. Sfortunatamente è solo quest’ultima a spiccare realmente nella proposta poco
originale della band. Le capacità dei Veda non sono messe in discussione; al contrario, non
vi sono ridondanze compositive e anche il suono esce compatto e granitico, forse anche
grazie al mastering affidato a mani sapienti (Joe Gastwirt, produttore di ELP, Jimi Hendrix,
Danny Elfmann e Crosby, Stills & Nash, tra i tanti). Nondimeno ascoltare “Prosa” è come
ricevere un pacco dono con tanto di grosso fiocco, salvo poi scoprire che si tratta di un paio
di pedalini color crema. L’eccessivo dispiego di ego del trio punta a precedenti illustri
(Marlene Kuntz),ma non trova riscontro o punti degni di nota se non nella già chiamata in
causa “Hotel Supramonte” e in forma minore, ne “La canzonetta di Lella”, pop-punk memore
di band d’oltralpe quali Elmer Food Beat o senza andare tanto lontano, dei Finley più evoluti.
L’artista che pensa di non trasmettere emozioni se non fornisce tutta una serie di
sovrastrutture a corollario è sciocco e pure un po’ fottuto. Concediamoci un parallelo
letterario: essere dei Carver e non dei Proust non significa certo accontentarsi. Una
maggiore consapevolezza al traguardo dell’album e i Veda saranno una pacchia.
Contatti: www.myspace.com/vedamusic
Giovanni Linke
Pagina 57
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Numero Aprile '11
Vintage Violence
Piccoli intrattenimenti musicali
Popolar/Self
Il gruppo di Lecco è tornato alla grande dopo l’EP “Cinema” uscito per Goodfellas ormai nel
2007. L’estetica delle canzoni segue la stessa dinamica punk garage presente nell’EP, ma
con una spinta passionale in più. Un battito di mani al ritmo della canzone “Natale Lavavetri”
per catturare l’attenzione della società parafrasandoli. I testi vogliono essere critici nei
confronti delle istituzioni, perché un altro mondo potrebbe essere possibile con
l’insurrezione. E non a caso inseriscono una cover di Leo Ferré, “I pop”, con la voce
dell’ospite Dario Ciffo, oggi nei Lombroso e fino al 2008 violinista negli Afterhoures. Altro
ospite vocale è Enrico Sighinolfi che canta in “Caterina”: è il capro espiatorio che spinge
verso un cambiamento definitivo per cancellare vecchie sofferenze. Un disco che spinge con
le melodie e i testi verso una quotidianità che inghiottisce senza pietà, se non ci muoveremo
per attaccarci con lo spirito e il cuore al bellissimo sorriso de “Le bariste dell’ARCI”. Il
morbido strato che intona “PPP” cantata come ballata ma intervallata dalla ruvidezza delle
chitarre, diventa un potente ibrido. Nicolò Caldirola è un cantante molto duttile ed incisivo
che racconta quel che non gli va nel suo/nostro mondo, senza annoiarci a morte come fanno
alcuni suoi colleghi più famosi. La forza dei Vintage Violence - che tra l’altro hanno preso il
nome ispirati dal titolo del disco di John Cage – è la spensieratezza intelligente che gli fa
percorrere la strada tutti loro insieme: forti, solidi e con un impatto sonoro preponderante.
Contatti: www.vintageviolence.it
Francesca Ognibene
Pagina 58
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Numero Aprile '11
Zabrisky
Fortune Is Always Hiding
Shyrec
Si può essere allo stesso tempo derivativi e ispirati? Una domanda nella quale incappa
prima o poi qualsiasi appassionato di musica, addetto ai lavori o meno, e a cui non è facile
rispondere. Nel caso dei mestrini Zabrisky l'amore per determinate sonorità (le coordinate
british parlano chiaro: la Sarah Records, il fenomeno C86, la Creation pre-Madchester)
funge da amplificatore per un talento pop fuori dal comune, perlomeno alle nostre latitudini.
Che cos'è “Stone Inside”, per dire, se non una outtake dal primo album degli Stone Roses?
Questa volta lo sguardo è sì passatista, come sempre, ma in una certa misura più vasto e
ampio, la reinvenzione/creazione si abbevera anche in altri punti del flusso spaziotemporale
(muovendosi entro i confini dell'ultimo trentennio in buona parte, ma facendo risuonare
anche qualche lontana eco Sixties). C'è qualche tocco di America (il passo country di “Better
Times”, inequivocabilmente collocata nell'immaginario d'oltreoceano), una scelta che non fa
altro che risaltare la felice mano del quartetto veneto, il quale, questa volta, supera sé stesso
nella resa sonora delle chitarre (c'è lo ancora una volta lo zampino di Giovanni Ferrario in
studio), le cui innumerevole sfumature arricchiscono canzoni di ottima fattura. Sono dischi
come questo, in buona sostanza, a rendere superflua la domanda che ci si poneva nelle
prime righe della recensione.
Contatti: www.myspace.com/zabrisky
Alessandro Besselva Averame
Pagina 59
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Numero Aprile '11
Andrea Cola
Angelo Mai, Roma, 24 febbraio 2011
Roma, Viale delle Terme di Caracalla, 55/a. Negli spazi dell'Angelo Mai, collettivo che, dopo
aver illuminato le notti del Rione Monti, si è ritrovato catapultato tra la storia imperiale della
capitale, ritagliandosi sempre di più uno spazio importante tra i luoghi dove si “fa” a Roma.
Qui lo scorso febbraio ha fatto tappa il tour fortunato di promozione, incontro con la musica
di Andrea Cola, giovane musicista di Cesena, che si sta facendo parecchio apprezzare per
lo stivale con l'uscita del suo album “Blu”, capace di richiamare il cantautorato che proviene
dal nostro passato nobile, reclamando il presente sia nelle tematiche, ma anche nell'utilizzo
di sonorità e timbriche che sono moderne, amplificate, elettrificate. Giocando fuori casa, il
rischio possibile era quello di passare inosservato, ma così non è stato, grazie alla curiosità
del pubblico che tiene le orecchie attente non solo alla musica di qualità, ma anche alla
programmazione dell'Angelo Mai. Ritrovatisi nella sala grande, che è collocata accanto al
caseggiato, dove chi vuole bere, mangiare e stare insieme non potrebbe che uscirne
parecchio soddisfatto, il pubblico, curioso e selezionato, ha occupato lo spazio per seguire le
evoluzioni musicali di Cola (voce e chitarra), accompagnato da Glauco Salvo (chitarra) e
Fabio "Mocambo" Tozzi (batteria). Le danze non potevano che iniziare con “La mattina
presto”, uno dei singoli che circolano più di frequente in rete, continuando con il brano
d'impatto “Il cuore trema”, che ha “impattato” fino in fondo rompendo fieramente la corda
della chitarra di Cola, capace però di utilizzare a proprio favore l'incidente, creando intimità
col pubblico, facendolo sentire in famiglia. Cosa che il successivo ingresso sul palco di
Andrea Pesce, membro carismatico proprio del Collettivo Angelo Mai, la mega band
polistrumentale e multigenere che qui ha i suoi natali, non ha potuto che fissare stabile per
tutta la serata. Presa posizione alle tastiere, ha dato il suo contributo efficacissimo a “Legno
bianco”, continuando a dare parecchie, visibili, soddisfazioni ad Andrea Cola con il suo tocco
di pianoforte e sintetizzatore su “L'isola”, pezzo dallo sviluppo visionario e avviluppante, nella
sua psichedelia esplosa, mai come in quest'occasione così riuscita e coinvolgente. La
marcia trionfale della prima parte del concerto è approdata carica con la sua conclusione
con “Anna senti che tamburi”, Cola in trans per il crescendo, che dal vivo ha fatto volare
dalla sua fase intermedia al finale il brano, diventato una specie di cavalcata krautrock,
richiamando gli accordi di “Baba O'Riley” degli Who, finché col cenno del capo non ha dato il
segnale ai suoi compagni di esplodere. I nostri eroi sul palco pensavano di essersela cavata,
ma, ancora parecchio adrenalinico per il gran primo finale, il pubblico, che durante il
concerto non si è sottratto dal cantare anche in coro i brani, ha preteso il meritato momento
dei bis, dove il gruppo, non aspettandoselo, ha riproposto, richiesta a gran voce, “Se io tra
voi”, per concludere con un'improvvisata che ha colto nel segno, “Un Angelo Blu” dell'Equipe
84. Entusiasmo che si è raccolto anche al momento dei saluti, che è stato caldo, con Andrea
Cola, che, dopo un'ora e un quarto di concerto, con i suoi musicisti, carico dell'imbarazzo e
dalla timidezza di chi è umano e umile, ha ringraziato.
Giacomo d'Alelio
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Numero Aprile '11
Mojomatics
Torino, Spazio 211, 26 marzo 2011
I Mojomatics sono tornati! A tre anni dall'acclamato "Don't Pretend That You Know Me",
Mojomatt e Davmatic sono nuovamente in tour, per presentare in anteprima – e
rigorosamente dal vivo - i pezzi del loro quarto album, di prossima uscita. Orgogliosi
esterofili, sicuramente tra i pochi gruppi nostrani in grado d'imporsi con forza sulla scena
indie internazionale, i Mojomatics hanno però scelto l'Italia per introdurre al pubblico la loro
ultima fatica. Ad accoglierli a Torino, uno Spazio 211 non affollatissimo, ma entusiasta. È un
peccato che il duo veneziano debba fare i conti con chi, proprio come loro, tende a guardare
con sospetto alla musica italiana. Un pregiudizio che rischia d'impedire a molti di godersi una
delle migliori garage-rock band in circolazione. Il live dei Mojomatics è energia allo stato
puro, rock 'n' roll viscerale e travolgente. Garage, blues, country, folk, rock, punk e pop si
miscelano con un'immediatezza disarmante, mentre l'invidiabile attitudine live che
contraddistingue il duo rende impossibile ascoltare senza dimenarsi, almeno un po'! Il
concerto ha regalato a tutti i presenti un’esperienza esaltante e contagiosa, prelibato
assaggio di quello che sarà il nuovo disco e che contribuirà a non lasciare i Mojomatics "fuori
dal mucchio" ancora per molto. D'altra parte questa è una posizione in cui i nostri sono
costretti solo in Italia, visti gli indiscutibili successi collezionati in Europa, America, Canada e
Sud Africa.
Alla data torinese si deve anche un'altra sorpresa: l'apertura affidata a Mr. Occhio, one man
band piemontese tanto ironico e scanzonato, quanto originalmente radicato nella tradizione
americana del delta del Mississippi. Un tempo voce dei Fichissimi, oggi Mr. Occhio canta e
suona contemporaneamente chitarra, cassa, rullante, piatti, armonica e kazoo, tra pezzi
autobiografici, blues in francese e cover di miti degli anni Sessanta come Fred Buscaglione.
Un ascolto piacevole e accattivante, meritevole di approfondimento.
Laura Sansalone
Zippo
Wake Up!, Pescara, 11 marzo 2011
È in un venerdì umido di nebbia salmastra e di freddo che insinua l’ultimo colpo di coda, che
i pescaresi Zippo presentano, fra le mura sicure di casa, il nuovo parto discografico
“Maktub”. In un locale stipato ma avido di corna tese al cielo, gli Zippo suonano coinvolgenti
e senza grinze, sputando fuori la loro l’anima più heavy e prepotente senza lasciar via di
scampo, fra salti vocali del frontman Davide Straccione, intrecci chitarristici che scivolano fra
metal-core, maglie prog a trama fitta e sferzate stoner, dettate da un drumming torrenziale,
ma secco e determinate nelle sue spinte telluriche. Le tracce dell'imminente “Maktub”
scorrono via in un flusso continuo di pulsazioni e singulti stilistici che dimostrano una classe
ormai consolidata e priva d’inciampi manieristici, dove “Man Of Theory” picchia duro sulle
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Numero Aprile '11
tempie e “We People’s Hearts” si arrampica in crescendo emozionali sublimate in esplosioni
elettriche rutilanti, o nelle suggestioni orientali di “Simum” che deflagrano in un finale
confusionale e vorticoso. Due ore di concerto in cui il fantasma del rodaggio di “Maktub”
viene esorcizzato, e le vecchie creazioni ormai consolidate e rese granitiche. Segno
lampante di una band palpitante dal bisogno di mordere i palchi, e di sentire lo scricchiolio
del legno sotto le suole delle scarpe. Gli Zippo sono pronti (di nuovo) per partire alla
conquista in terra straniera. La fuga di cervelli purtroppo - o per fortuna - avanza inesorabile.
Luca Minutolo
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Numero Aprile '11
L’Amo
Ai L’Amo piace giocare con i doppi sensi, con le parole, e con la musica. La neonata
Fallodischi tira fuori dal suo piccolo vivaio un’altra bella realtà, perché la musica dei
partenopei L’Amo è un gioco continuo con le spigolosità new wave, smussate a suon di
tastierine che sembrano fuoriuscire da un videogame Atari e testi dissacranti. Canzoni come
“Dura la vita del superdotato” o “Sulla svirilizzazione di Quagliarella” sono il risultato di un
approccio ludico al senso comune, la prima incastrata in un giro di cassa dritta che rotola via
in un flusso new wave dal gusto pop melodico e appiccicoso, la seconda pulsante in beat
pompati e tamarri. E in questo delirio wave trovano posto anche i singulti punk di “Quello
che” e le tastiere pop di “Sembrava facile” sovrastate dalle chitarre 90’s, sintomo di una band
dai confini molto larghi e labili, ma ben definiti nei salti stilistici e con una sfrontatezza da non
sottovalutare. Aggiungere poi che l’EP è (anche) scaricabile liberamente sul sito della
Fallodischi è diventata un’informazione quasi superflua e banale.
Contatti: fallodischi.blogspot.com
Luca Minutolo
Nasov
I Nasov sono italiani, ma vivono a Londra. Come le frazioni che ci scervellavano alle
elementari, sono precisamente per 2/3 italiani (Nicola Serra e Francesco Bordo), ed 1/3
inglesi (Jerome Burnet). La loro musica è inglese, ma è una nuova ed attivissima etichetta
italiana a spingere il loro primo EP autoprodotto, ovvero la Fallodischi di Napoli. Quindi, per
fare l’intero, possiamo dire che i Nasov sono per 3/5 italiani e 2/5 inglesi. Ipotizzando un
fastidioso diagramma a fette da piano marketing, nei 3/5 italiani permeano l’ironia tipica del
nostro belpaese, mentre nella parte restante s’insinua un post-core spigoloso e reiterato da
riff ipnotici e canti declamatori à la Steve Albini, mentre si sciorinano le proprietà lacrimali
delle cipolle (la martellante “Onions Make Me Cry”), della conseguente ritrazione di muco in
eccesso (“Blow Your Nose” che aleggia nei territori dei Karate di Geoff Farina), della paura
imprevedibile nascosta nella furbizia convenzionale delle volpi (“Am Afraid Of Foxes”) e nel
timore verso i cani degli altri (“Someone Else’s Dog”). Perché in fondo riusciamo a fidarci
solamente dei nostri cani, ed i Nasov sono meticci di cui potersi fidare, una volta
ammaestrati. Nel frattempo potete accarezzarli sotto il muso scaricando l’EP gratuitamente
(www.jamendo.com/it/album/81580).
Contatti: www.nasov.org
Luca Minutolo
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