Marzo '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Marzo '11
Numero Marzo '11
EDITORIALE
Ultimo appuntamento invernale col supplemento del Mucchio dedicato alla sempre vitale e
iperprolifica scena underground tricolore.
Vista la ricchezza del sommario, questo mese non ci vogliamo dilungare troppo, se non per
un paio di comunicazioni di servizio per etichette, artisti e promoter che volessero farci
pervenire le loro produzioni. La prima è quella di seguire le indicazioni riportate nella pagina
apposita del nostro sito, raggiungibile dal link “Per invio materiale”, qui a fianco (se state
leggendo queste righe sullo schermo del vostro computer e non in versione PDF). La
seconda è di non avere fretta: ogni disco viene ascoltato e valutato con attenzione, ma per
fare le cose come si deve ed evitare giudizi superficiali è necessario del tempo; non abbiate
fretta, quindi, ché se il prodotto è ritenuto valido verrà trattato.
Detto questo, non ci rimane che augurarvi buona lettura e, come sempre, buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Andrea Papetti
Album d’esordio per il poeta Andrea Papetti, che dopo aver vinto alcuni concorsi letterari ed
essersi dedicato alla musica solo in parte, arriva a cimentarsi nell’arte dello scrivere canzoni
e lo fa con “L’inverno a settembre”, uscito per Storie di Note/Egea. Un album che racconta il
“sentire”di un uomo nei confronti di quello che gli gravita attorno. Un album pensato, vissuto
e provato. In una parola: concreto.
Come ti sei avvicinato alla musica?
Il percorso è stato molto lento. Quando ero ragazzino scrivevo poesie. Ho vinto anche
alcuni concorsi. Poi a vent’anni ho iniziato gli studi di chitarra e di canto e diciamo che ho
cercato di trasformare queste mie poesie in canzoni. Spero ovviamente di esserci riuscito.
Ci sono molti cantanti che sentendo definire le proprie canzoni poesie quasi si
offendono perché vorrebbe separare i due approcci, quindi per te non c’è nessuna
discriminante?
No. Se dici che una mia canzone è una poesia non posso che ringraziarti. Sarà che ho fatto
parte della categoria poeti, quindi questa polemica tra poeti e cantautori non la sento per
niente.
Ma quando eri proprio all’inizio a vent’anni chi emulavi con la chitarra per imparare a
suonare?
Mah, da De André a Brassens a Leo Ferré; insomma, i grandi cantautori francesi e italiani, e
senz'altro anche Bob Dylan.
Scrivere poesie pensi ti abbia aiutato a scrivere anche canzoni? O comunque hai
riscontrato delle differenze?
Le differenze sono enormi. Anzitutto, se scrivi una poesia scrivi in metrica libera il più delle
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volte, mentre la canzone ha bisogno di rime o assonanze perché se no il testo non regge.
Diciamo che devi scrivere un testo che si incastra precisamente con la musica quindi devi
fare un tipo di lavoro molto diverso dalla poesia.
I primi album sono pieni spesso di storie d’amore, vissute, finite o sperate, anche tu
parli di sentimenti ma non solo verso una donna, tu canti di Enzo Baldoni di Peppino
Impastato, di Verlaine, Monet. Come racconteresti le tue ispirazioni e come ti hanno
aiutato a tirare fuori le canzoni?
Sono arrivato al mio primo CD a trentadue anni, però ovviamente di canzoni ne avevo
scritte tantissime. Quindi ho dovuto anche fare una selezione. Io descrivo tutto ciò che mi
colpisce che sia un argomento di carattere sociale o una storia d’amore quindi in sé per sé
non c’è una preferenza. Ho scelto quei temi che mi erano più cari anche se non è un CD
politico. Io non ho nessun problema a dirti che sono di sinistra, però questo non si evince
dai testi delle canzoni. Penso siamo d’accordo tutti quando si parla di antimafia.
Dove e come è stato registrato il disco?
Ho preso molto tempo per registrarlo. Sono stato tre anni in studio d’incisione e ho avuto la
fortuna di avere come produttore artistico un grande della canzone italiana che è Alessandro
Svampa che è un musicista di prim'ordine che ha collaborato con De Gregori, con Max
Gazzè e con Cammariere. Poi ha trovato dei musicisti che secondo lui erano più adatti al
mio modo di fare musica che ho considerato una toccante forma d’attenzione e rispetto per il
mio lavoro.
All’interno della band che ha accompagnato questo tuo viaggio, ci sono dei musicisti
che suoneranno con te per i live?
Questo al mio pubblico non lo posso promettere. Per lo studio è andata così, ma per i live
sai non posso permettermeli quindi ci saranno altri musicisti bravi ma meno conosciuti. Poi
con gli ultimi tagli alla cultura è veramente difficile oggi suonare in Italia, ma non per me che
sono un emergente per tutti.
Poi c’è un grande ospite del disco che è Pippo Pollina, com’è nata la vostra
collaborazione?
Pippo l’ho conosciuto per la prima volta in Sicilia. Eravamo stati invitati entrambi a suonare
alla manifestazione per Peppino Impastato. Lì ci siamo conosciuti ed è nata una bella
amicizia, poi ci siamo rivisti in altre manifestazioni antimafia e l’amicizia s’è consolidata fino
ad arrivare al punto di averlo ospite nel mio CD su “Banneri”precisamente. Ci tengo a
sottolineare che secondo me Pollina è tra i migliori cantautori italiani ma purtroppo è più
conosciuto all’estero.
Tu hai un modo di cantare che è più o meno simile per ogni canzone. Come mai
questa scelta?
Io faccio studi di canto e ho provato a togliermi in tutti i modi questa mia cadenza, finché poi
lo stesso maestro di canto mi ha convinto a non incaponirmi perché era una mia
caratteristica e per lui nemmeno brutta da sentire. Ovviamente, non sono un interprete
quindi non devo avere qualità vocali di un certo calibro. Per un cantautore sono più
importante il testo e la musica. Infatti è considerato uno dei più grandi cantautori mondiali
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Bob Dylan con una voce abbastanza discutibile.
Poi la copertina mi è sembrata molto giusta per rappresentare il tuo disco. La scarpa
poggiata per terra è la tua concretezza e la foglia è il simbolo della tua sensibilità?
Ma questo è dovuto ovviamente al titolo dell’album che è “L’Inverno a Settembre”. Una
canzone piuttosto tragica perché qualche anno fa a settembre purtroppo mia madre mi ha
lasciato e per l’inverno a settembre intendevo proprio l’inverno dell’anima che ti colpisce in
tutte le parti del corpo e non se ne va più via.
E come presenterai il disco dal vivo?
In questo momento sto provando uno spettacolo con una grandissima poetessa. Una tra le
migliori in Italia che è Anna Lamberti Bocconi. Lei ha scritto anche testi per Ivano Fossati per
la Vanoni e Fiorella Mannoia. È veramente in gamba e stiamo provando a fare uno
spettacolo di poesia e musica. Ogni mia canzone lei reciterà una sua poesia attinente al
tema del brano stesso. Speriamo di riuscirci e che qualcuno sia interessato a questo tipo di
spettacolo.
Qual è la canzone all’interno del disco che ti emoziona di più fare dal vivo?
C’è una canzone che non mi emoziona perché non ho mai avuto il coraggio di fare che è
appunto l’inverno a settembre. È una canzone piuttosto sofferta e non me la sono mai
sentita. Non credo di reggere all’emozione.
Hai già scritto canzoni nuove?
Oltre quelle vecchie che non ho potuto inserire nell’esordio ne sto scrivendo altre con Anna
Lamberti Bocconi. Ho scritto una canzone che s’intitola “Settemila Isole” che tratta il delicato
tema dell’immigrazione. Ovviamente adesso ci vuole un po’ di tempo perché le canzoni devo
inciderle con molta calma: le cose fatte in fretta non mi sono mai piaciute.
Com’è nata la collaborazione con Storie di Note che ha prodotto il disco?
Pippo Pollina che esce per Storie di Note ha dato il mio CD al capo che l’ha ascoltato e gli è
piaciuto proponendomi collaborazione e distribuzione. È un’etichetta per la musica d’autore
di tutto rispetto che annovera tra le sue fila gente come Giorgio Conte, Nada, Il Parto delle
Nuvole Pesanti, Claudio Lolli e Pollina, non potevo finire in un posto migliore e ne sono
onorato.
Contatti: www.andreapapetti.splinder.com
Francesca Ognibene
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Dimartino
Dopo un lungo sodalizio con i Famelika, il cantautore palermitano Antonio Di Martino è
approdato all’esordio solista con “Cara maestra abbiamo perso” (Pippola/Audioglobe),
prodotto da Cesare Basile, uno dei debutti più personali e interessanti degli ultimi tempi. Ne
abbiamo chiacchierato con l’interessato.
Il tuo mi sembra essenzialmente un disco sulla perdita. Ma cos’abbiamo perso, più di
tutto? L’anima, il lavoro e la stabilità, il passato, il futuro. Forse l’innocenza?
La cosa più importante che abbiamo perso è l’ironia che è facile oggi scambiare con la
maleducazione, nei politici ad esempio manca ormai del tutto ma anche in molti professori
universitari, si prendono tutti troppo sul serio e questo fa male a una società sana.
Il titolo dell’album si ricollega in modo evidente a Tenco e per certi versi a Gaber. È
negli anni 70 che la sconfitta si è maturata? Cosa resterà (di buono) degli anni 70?
Sicuramente resterà un “tentativo”, il fatto che qualcuno ci abbia provato. La sconfitta a cui
mi riferisco è una vittoria vista da un'altra prospettiva, una buona sconfitta è una pessima
vittoria, un importante punto di partenza per “ritentare”, ma dalla fine degli anni 70 in poi
molti abbandonarono le idee per cui avevano lottato, quella fu una pessima sconfitta di cui
stiamo ancora pagando le conseguenze.
Mi pare che i riscontri al tuo debutto solista siano stati più che buoni. Conformi alle
tue aspettative?
Fortunatamente la gente parla bene di questo disco, mi è piaciuto molto il fatto che si
riconoscano i dodici anni di gavetta che forse solo adesso stiamo riscattando insieme ai miei
compagni di viaggio Simona Norato e Giusto Correnti.
Ecco, com’è stato passare da un’idea di band, i Famelika, a una ditta individuale
Dimartino, con gli stessi musicisti che continuano ad accompagnarti?
Non vedo Dimartino come una ditta individuale, i risultati li abbiamo ottenuti insieme in tre.
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Quando mi sono reso conto che non c'erano più i Famelika non avevo voglia di scegliere un
altro nome per la band, usare il mio cognome era l’unica scelta che ci avrebbe reso liberi di
suonare insieme e allo stesso tempo di realizzarci singolarmente visto che Simona e Giusto
seguono anche altri progetti.
Si sono spesi diversi accostamenti con te, tutti d’annata: De Gregori, naturalmente
Rino Gaetano, Dalla, Ivan Graziani, Tenco. Qual è il paragone che ti lusinga di più e
quello che ritieni più azzeccato, e cosa credi di avere ereditato da ciascuno di questi
autori?
Devo dirti che non sono mai stato un fan sfegatato di nessuno dei cantautori che hai citato e
che spesso ritornano nelle recensioni del disco, anche se li ho da sempre ascoltati. Mi piace
la musica italiana fatta bene, sono convinto che si possa rifondare una nuova canzone
italiana. Credo che quello che accomuna le mie canzoni con le loro sia la verità e la voglia di
non chiudersi dentro a una formula.
C’è una nuova scena siciliana? Penso a te, i Pan del Diavolo, i Second Grace, Oratio,
Lorenzo “Colapesce” Urciullo e gli Albanopower, ma anche a tanti altri. C’è qualcosa
che vi accomuna?
Sicuramente c’è qualcosa che ci accomuna oltre l’amicizia, io e Fabrizio Cammarata (dei
The Second Grace, Ndr) usciamo insieme spesso, ho anche suonato con lui il basso a
Ypsigrock nel 2010 e siamo stati compagni di diversi viaggi. Penso che la scena siciliana stia
crescendo, c’è la consapevolezza che stiamo facendo qualcosa di importante a prescindere
dal risultato. A Palermo in questi anni sono nati bellissimi progetti, ragazzi di vent’anni che
scrivono benissimo e credono in quello che fanno, penso a Nicolò Carnesi o agli Hank.
Cantare in italiano: hai avuto dei tentennamenti in questo? Come ti poni rispetto alla
composizione e al canto in inglese, che fa parte del bagaglio di tanti cantautori e
gruppi italiani?
Sinceramente non ho mai scritto una canzone in inglese, non saprei da dove cominciare,
anche se ascolto molta musica straniera. Per me scrivere è comunicare immediatamente, mi
mancherebbe il presupposto fondamentale.
Ci racconti come mai hai sparato a Vinicio Capossela? Com’è nata questa canzone?
Hai avuto modo di parlarne poi con l’interessato?
No, non avuto modo di parlarne con Capossela anche se mi piacerebbe. “Ho sparato a
Vinicio Capossela” è una semplice canzone d’amore, il concetto come ha scritto qualcuno è
lo stesso di “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”, mi piacciono le
parole che ti percuotono all’improvviso. Sparare a Vinicio Capossela è come sparare a un
mondo a cui mi riporta “Orfani” ora, una delle sue canzoni recenti, mi piaceva abbracciare la
stessa idea di solitudine.
Le collaborazioni rendono il tuo esordio piuttosto “mosso”, dal pop al progressive:
Cesare Basile, Vasco Brondi, i Mariposa. Ti lasci contaminare volentieri, sei aperto?
Qual è il brano in cui si sente al 100% Di Martino?
Penso che la musica sia condivisione, diffido da quelli che non si lasciano contaminare, ho
una profonda stima per ciascuno degli artisti che hanno suonato nel disco. In tutti i brani si
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sente Dimartino al 100%, per il discorso che facevo prima non voglio rimanere legato a una
formula o a una canzone che possa condizionare le mie scelte future di scrittura.
Come sei entrato in contatto con l’etichetta toscana Pippola? E che programmi hai
adesso? Porti dal vivo ”Cara maestra...” e che altro?
Il mio rapporto con Pippola è nato in un modo molto naturale: ho spedito il disco e mi hanno
risposto che erano interessati a pubblicarlo, mi piace il loro modo di lavorare puntato molto
sulla qualità delle canzoni. Da gennaio è partito il tour di Cara maestra abbiamo perso, che
toccherà le principali città italiane ma anche le piccole provincie.
Contatti: www.myspace.com/dimartinoband
Gianluca Veltri
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Distanti
I Distanti sono una fra le sensazioni più vicine e dirette che il panorama musicale italiano sta
vivendo da svariati anni a questa parte. Eppure dietro queste facce da ragazzini, si
nasconde una passione ed una profondità che va ben oltre il semplice impeto punk. Fra le
righe di “Enciclopedia popolare della vita quotidiana” (Triste) si cela un mondo di sensazioni,
critiche, pulsioni e apatia provinciale. Ne abbiamo parlato con Enrico, frontman della band
forlivese.
Traspare un'urgenza emotiva dal vostro EP omonimo, che in “Enciclopedia popolare
della vita quotidiana” si è tramutata in consapevolezza, presa di coscienza, sia di
contenuti che di approccio alla materia musicale. Qual è stato il breve percorso che vi
ha traghettato al vostro esordio discografico?
Tutto è nato da una occasione che Triste ci ha offerto a Gennaio 2010. Da lì le canzoni
sono state fatte in pochissimo tempo. Solo in ultima analisi abbiamo voluto dare un taglio più
critico al nostro lavoro. Anche perché solo col passare del tempo e con la consapevolezza
dei leit motiv della stampa che giravano attorno al nostro lavoro dell'EP, ci siamo resi conto
di come in realtà avremmo voluto fare un lavoro diverso. L'EP appunto, ha questa aura di
giovanilismo, menefreghismo, concentrazione onanistica sul proprio vissuto, esaltandolo a
esperienza comune di un insieme sociale chiamato “giovani”. Ma non erano le nostre
intenzioni, le canzoni dell'EP sono nate senza troppa riflessione. Nemmeno l'album, a dir la
verità, è un campione di saggezza, ma qui abbiamo provato a costruire, sopra una matrice
ancora spontanea, un apparato critico, che cerca di fare di “Enciclopedia popolare della vita
quotidiana” un concept album. Ma sono 20 minuti di canzoni. Una enciclopedia piuttosto
breve. Per questo ci tengo a sottolineare che la natura dell'album non è quella
grigia/vuota-esistenziale dell'EP: la natura del disco è ideologica. È una serie di affermazioni
subito dopo negate, in virtù di valori più elevati che ancora non sappiamo bene quali essere.
È una specie di successione di denunce di ciò che va storto al livello delle coscienze: quindi
si utilizza ancora il linguaggio del male, del brutto, per metterlo a nudo però, in pubblica
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piazza.
Quanto sono intrisi di vita personale i vostri testi? “Enciclopedia..” è un diario
dettagliato di sensazioni e vissuti molto forti, a modo loro generazionali.
Il personale è il punto di partenza nel disco. Tuttavia non è assolutamente un diario a mio
avviso. Lo è certamente l'EP. “Enciclopedia” invece mi sembra un lavoro generazionale, nel
senso che è su una generazione: la mia, la nostra. Questi famosi “anni Zero”. Tuttavia il
nostro giudizio su noi stessi e gli altri è molto più impietoso, negativo, spietato di come di
solito siamo soliti raccontarci noi ventenni. La presenza di realtà nelle nostre canzoni è
sentito come dovere, tuttavia la stessa realtà ci sembra in deficit di se stessa. Oltre ad
inserire i testi nella realtà è necessario prima inserire realtà nella realtà. La cosa diventa
complicata nei fatti, così forse ripartire dalle canzoni può tornare utile per agire sulla realtà,
anche solo come monito. Nell'album sono comprese due vecchie canzoni perché Triste ci
teneva a registrare di nuovo qualcosa del vecchio EP.
All’interno del disco “Enciclopedia...” e in tutto il pensiero-distante, c’è un alone
critico velato dietro frasi o figure apparentemente senza un senso preciso, come in
“Geloso” ad esempio.
I “predicatori nel deserto”, la “regina beduina”, dentro le “cascine” a fare l'amore, le
“sigarette” sono tutte cose disseminate qua e là nel disco e stanno per quelle cose che a mio
avviso fomentano una visione incantata del mondo o del mondo che vorremmo. Una visione
romantico-nichilista che rigettiamo ma di cui facciamo parte, un po' perché vi abbiamo
aderito prima o poi negli anni, e un po' perché fa parte dello spirito di questo tempo pessimo.
“Geloso” è un messaggio del Geloso (registratore prodotto nel 1960 da una piccola ditta
emiliana, Ndr). Abbiamo scelto di metterlo proprio perché è un inutile, ma affettivamente
caro, elenco enciclopedico di cibi che sembrano paventare la festa dopo la tempesta della
guerra, ma che probabilmente saranno solo un modo per passare il tempo. È un pezzo dove
dopo un po' perdi l'equilibrio, le coordinate, il cibo è troppo, si affastella, si stratifica e perdi la
bussola. Così è una enciclopedia, la nostra almeno: una cosa che ha provato a darci un
ordine, ma non ce la fa, perché la materia è malata già in partenza. E così finisce il disco:
con una “ingenuità” su cui però non bisogna dormire sonni sereni.
Le vostre canzoni sono molto concise dal punto di vista sintattico, ma c’è la netta
sensazione che dietro ogni parola ci sia un significato molto profondo e ricco di
rimandi. Come se fosse un vero e proprio libro. Quanto e che tipo di letteratura e
letture hanno influenzato la stesura dei testi?
Dirti dei riferimenti precisi faccio fatica, perché non è stato un lavoro di taglia e incolla. Non
ci sono citazioni quasi mai. Certo, potrei dirti che “L'avventura” riprende un po' il racconto di
“The Gift” dei Velvet Underground, ribaltandone però la trama. Ciò che scrivo è una
rielaborazione di ciò che vivo, ma ciò che vivo è profondamente connesso a delle opere
d'arte altrui, sono cose che mi segnano e che utilizzo continuamente nella mia vita
quotidiana le letture artistiche, giornalistiche, saggistiche, cinematografiche, musicali,
letterarie. Avrei sempre voluto fare un disco che suonasse come Nanni Balestrini scrive
Tristano, ma alla fine non è venuto assolutamente così.
Lo so che non siete riusciti a capirlo nemmeno voi, ma perché la stampa si ostina ad
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accostarvi ai Baustelle? Certo, un titolo come “Enciclopedia popolare della vita
quotidiana” ha più di un assonanza con “Sussidiario illustrato della giovinezza”, ma
di fatto sono completamente distanti fra loro.
No guarda, ti giuro che in effetti gli assomiglia. Ne sono cosciente. In realtà il titolo mi è
venuto fuori più pensando all'epos dei primi CCCP uniti alla spudorata scopiazzatura di
“Stanze di vita quotidiana” di Guccini. Quindi siamo proprio su altri campi. Tuttavia, ci tengo
a chiarire la cosa una volta per tutte, i Baustelle dei primi dischi mi hanno influenzato nella
stesura di alcuni testi del primo EP. Ovviamente con la musica noi non c'entriamo nulla, ma
per quanto concerne ALCUNI testi del primo EP, sì. Ok. Però non me ne vergogno, perché
in realtà la loro peculiarità sta in una attenzione al dettaglio che ha finalità diversissime dalle
nostre. Per loro il dettaglio è in funzione della rappresentazione della moda, tanto che sono
finiti per scivolare da “la moda” ad “alla moda”, esattamente come “A single man” di Tom
Ford. La nostra attenzione al dettaglio stenta ad esistere. Quindi è un legame di fatto labile:
un po' di ironia, temi di vita provinciale, giovanile, eccetera. Cose che passano su tutti prima
o poi e che presto fanno il loro tempo.
Contatti: distanti.wordpress.com
Luca Minutolo
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Ettore Giuradei
Arrivato al terzo album, il bresciano d'origine, e passeggero del mondo d'adozione, Ettore
Giuradei, il “sovvertitore impegnato del pop”, sta continuando la sua strada di viaggiatore,
percorrendo in lungo e in largo lo stivale con il tour che sta proponendo le note della sua
creatura più recente,“La repubblica del sole” (Mizar-Novunque/Self). Con la presenza, ricca,
anche di molti dei brani dei suoi due precedenti lavori, chi sarà ai suoi live si ritroverà
immerso in un'opera autoriale che fin qui ha ricevuto numerosi riconoscimenti. Cantautore
atipico considerato da molti una delle novità più interessanti della nuova canzone italiana,
già ospite al Premio Tenco 2008, e vincitore in precedenza, nel 2006, con il primo CD
“Panciastorie” del Premio “Nuova canzone d'autore” al MEI di Faenza, Ettore Giuradei
cammina nel cantautorato più vero e necessario, per raggiungere finalmente quell'attenzione
e ascolto che la sua voce merita di ricevere, avendo dimostrato a più riprese di essere una
conferma. Voce qui raccolta, capace ancora una volta di comunicare e di incontrare.
Ettore Giuradei, bresciano, classe 1981, a marzo, il 30, compirai i tuoi trent'anni...
Arrivato al tuo terzo album, a che punto ti senti di un cammino artistico, che in questa
nostra poco “Repubblica del sole” ti vorrebbe giovane e promessa, promesse che
invece ogni volta confermi e anzi rilanci con certezze, lavoro dopo lavoro?
Sinceramente spero con questo terzo album di uscire finalmente dalle “promesse” ed
essere riconosciuto come una realtà, che in questi anni è riuscita a guadagnarsi un posticino
tra i nuovi cantautori italiani. Siamo molto soddisfatti del nuovo album e siamo convinti di
farcela anche grazie al tour che è appena partito e che ci vedrà in giro in tutta Italia.

Il tuo è un percorso molto vario, per tua e nostra fortuna: teatro, musica, narratore,
cantautore - componi anche le tue musiche o per questo ci pensa tuo fratello e il resto
dei tuoi fantastici compagni di viaggio musicale? -, altro?... Ci vuoi raccontare un po'
il tuo cammino e come sono arrivati tutti i passi che lo compongono, a partire da
Brescia?
Otto anni fa ho iniziato a lavorare in teatro come attore di spettacoli comico/surreali, nel
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frattempo ho sempre scritto canzoni. La svolta che m’ha fatto decidere di incidere il primo
disco è stata la “scoperta” d’avere un ottimo musicista in casa, mio fratello Marco, con il
quale abbiamo iniziato ad arrangiare le prime canzoni. Da lì la decisione di fondare con
Davide Danesi la Mizar Records e di pubblicare il primo album “Panciastorie”, nel 2006.
Durante il tour di “Panciastorie” abbiamo deciso di rivoluzionare la band in previsione del
lavoro sul secondo album, “Era che così”, che ha visto la luce a febbraio 2008 grazie anche
alla collaborazione con Novunque. Entrambi gli album sono stati accolti molto bene dalla
critica, in tre anni abbiamo fatto più di 200 date grazie anche alla collaborazione con Cisco
Bellotti, a cui facevo da apertura e con il quale suonavano mio fratello Marco e gli altri
musicisti della band. Attualmente, come ti dicevo, siamo in tour per presentare il nostro terzo
album “La repubblica del sole”, uscito a novembre 2010. Quest’ultimo lavoro ha avuto una
gestazione molto lunga, più di un anno di provini, registrazioni e prove. Per sistemare i pezzi
e registrare con serenità, abbiamo deciso di attrezzare uno studio a casa nostra con l’aiuto
del nostro fonico Domenico Vigliotti, e far nascere così la TavernaStudio.
Ti senti di avere degli artisti di riferimento, una volontà/pensiero poetico/artistico
particolare, o tutto (av)viene semplicemente così com'è, grazie al tuo vissuto, e ai
luoghi in cui sei cresciuto, dentro e fuori?
Diciamo che le mie canzoni partono da ispirazioni che trovo nel mio vissuto. Credo
comunque di essere costantemente contaminato da lavori di altri autori. Forse l’artista che
più mi ha condizionato, soprattutto per quanto riguarda la modalità di lavoro, è Fabrizio De
André. La cosa che m’ha sempre affascinato, e che sto cercando di seguire, è la sua
capacità di collaborare con musicisti, poeti, cantautori del suo stesso calibro e con una forte
personalità che l’hanno portato a “confezionare” album sempre diversi e difficili da
catalogare all’interno di un genere.


Sei in tournée per tutta Italia, in un lungo viaggio che ti sta portando e ti porterà
davvero a toccare molto del nostro Bel Paese... Molti parlano come di un
evento/spettacolo ogni tuo/vostro appuntamento. Ma sono veri e propri spettacoli,
valorizzati anche dalla tua qualità/esperienza attoriale?
Ti dirò che lo spettacolo di quest’anno è un vero e proprio concerto in cui si avrà la
possibilità di ascoltare praticamente tutto il repertorio dei nostri tre dischi. La mia esperienza
d’attore la sfrutto per cercare di avere una presenza che mi permetta di comunicare nel
modo più chiaro e potente possibile grazie alla cura di movimenti sconnessi del corpo che
uso come strumento di comunicazione.

Le tematiche che tocchi sono sempre molto complesse e ampie, anche se al centro
rimane sempre l'uomo e il rapporto con se stesso e gli altri, la società, e lo specchio
in cui si guarda, guardata... Quanta volontà politica e di denuncia è contenuta nei tuoi
lavori, o semplicemente, e naturale, è solo, la tua, necessità di incontro,
comunicazione, condivisione, e tutto il resto viene di conseguenza?
Credo sia più una necessità di incontro e condivisione. Cerco di non partire mai da un’idea
“politica” visto che tutto quello che riguarda la sfera politica, soprattutto ultimamente, mi
sembra sempre più virtuale e molto distante dalle vere necessità dell’uomo.


Immagino che nei tuoi concerti ci sia molto confronto, coinvolgimento del pubblico,
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comunicazione durante e post concerto... Come reagisce il tuo pubblico, e quanto
appunto c'è incontro dopo? Raccogli il disagio grottesco/drammatico in cui ci
troviamo e che denunci ne “La repubblica del sole”?
Fortunatamente in questi anni, grazie ai molti concerti, ho avuto occasione di conoscere
parecchia gente che ci segue. Capita spesso di fare due chiacchiere anche sulla realtà
italiana e sinceramente la sensazione che ho è quella che ti accennavo prima: finché si parla
del concerto, del posto/città/locale che ci ospita, di cibo, di vino e di vita vera sento che la
discussione acquista un senso pieno e reale; appena si passa a parlare di Presidenti, di
religioni, di nazioni, ecc...la discussione naufraga in parole inutili.


Come vedi il panorama della musica cosiddetta “indipendente” italiana? Ci vuoi
parlare della tua esperienza di “sopravvivenza” in questa giungla che ti spinge a volte
sempre di più a scegliere una strada di indipendenza produttiva? Per fortuna il tuo di
incontro è stato fortunato, ed è consolidato da anni.
Il panorama indipendente italiano mi sembra in salute, sicuramente non a livello finanziario,
ma a livello di proposte che finalmente si stanno conquistando fette di pubblico sempre più
ampie e che stanno dando una mano a tutte le realtà indipendenti ed emergenti non
supportate da grandi media.
La mia esperienza è caratterizzata soprattutto dalla quantità di live che sono stati il vero
motore e la vera fonte di sopravvivenza. Live che fino a poco tempo fa ho sempre
organizzato personalmente e che mi sembrano l’unica via reale di auto
promozione.


Per il futuro che strade da percorrere già intravedi, o è tempo di dare voce per ora
solo alla tua “Repubblica del sole”?
Per adesso vorremmo dedicarci interamente al nuovo tour che crediamo possa farci fare il
definitivo salto di qualità. In testa ci sono comunque mille idee/pensieri che verranno
realizzati in base a come andrà questo progetto.
Contatti: www.ettoregiuradei.it
Giacomo d'Alelio
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OfeliaDorme
Botta e risposta con Francesca Bono e Michele “Post” Postpischl, ovvero
voce/chitarra/tastiere e batteria del quartetto bolognese, alla prima, convincente prova sulla
lunga distanza con “All Harm Ends Here” (Ofd Park/Audioglobe). Un raffinato esempio di
come si possa fare dell’ottimo pop-rock in inglese, autonomo e con sonorità e testi dal
respiro internazionale.
Dopo l’EP “Sometimes It’s Better To Wait” del 2009, “All Harm Ends Here” è il vostro
primo album. Durante la sua lavorazione, vi siete posti degli obiettivi ben precisi o
avete assecondato l’ispirazione del momento?
F: Entrambe le cose. Assecondiamo sempre l’ispirazione del momento, ma poi ci
soffermiamo e valutiamo quel che ne è venuto fuori; rispetto all’EP c'è stato maggior lavoro
soprattutto nello scegliere le tracce da inserire. Abbiamo scartato qualcosa quasi all’ultimo, e
aggiunto altro: per esempio “Paranoid Park”, che apre il disco, è il brano più recente degli
undici che lo compongono. Inoltre non è stato facilissimo scegliere la tracklist, al solito
stabilita tutti insieme dopo scambi di opinione, qualche sigaretta e qualche birra. Volevamo
che “All Harm Ends Here” fosse coeso, ma allo stesso tempo svelasse più aspetti della
poetica di OfeliaDorme; non a caso molte recensioni parlano di una “doppia anima”, acustica
ed elettrica. Ovvero, non ci vogliamo auto-incasellare in un genere specifico, o cercare di
essere per forza “contemporanei”; suoniamo quel che ci piace.
M: Esattamente. C’era l’intenzione di realizzare un disco dove fosse possibile vedere i
diversi caratteri di OfeliaDorme mantenendo un filo conduttore, dare quindi una voce
omogenea al progetto. Per farlo ci siamo lasciati guidare nel percorso dalle canzoni stesse:
sembra sciocco da dire, ma spesso ho avuto la sensazione che fossero proprio loro a dirci
cosa usare e come usarlo.
Spirito do it yourself e grandissima cura degli arrangiamenti, a vestire canzoni che
oscillano tra pop evocativo, rock più graffiante e sprazzi di folk contemporaneo grazie
all’impiego di corde elettriche o acustiche, tasti e batteria, ma persino archi e fiati.
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Senza dimenticare una voce assai caratterizzante. Come avete bilanciato il tutto?
M: Avere a che fare con la voce di Francesca è stato sicuramente d’aiuto in tutto questo: la
sua capacità espressiva di districarsi tra i suoni dà la possibilità di metterle attorno una
qualsiasi base musicale e non sfigurare. C’è stato, quindi, un attento lavoro sui particolari:
tutti i brani sono in realtà piuttosto leggeri, senza tonnellate di tracce o sovraincisioni. È stato
un po’ come arredare delle stanze inserendo solo il necessario.
F: Nella nostra sala prove siamo nel nostro habitat, non si fanno tanti discorsi mentre
suoniamo. Abbiamo gli strumenti necessari e tante idee che proviamo, per poi concentrarsi
sui dettagli. È tutto molto spontaneo. In fase di registrazione succede la stessa cosa, alcuni
arrangiamenti magari sono stati decisi all’ultimo momento. Forse ci autobilanciamo
abbastanza bene! Siamo comunque piuttosto misurati.
La seconda traccia in scaletta, “Ian”, è dedicata a Ian Curtis.
F: Molti dei testi sono evocativi anche per me. Compongo di getto, i ragazzi a volte mi
prendono in giro per questo... Magari qualcosa che ho visto, sperimentato o vissuto è la
scintilla da cui parte tutto. In questo caso ho scritto “Ian” subito dopo aver visto “Control” di
Anton Corbijn, e una serie di circostanze hanno fatto sì che mi identificassi, metaforicamente
e per una frazione di secondo, con la moglie di Curtis. Si è creato un piccolo film nella mia
testa, e l’abbozzo della canzone. C’è molta rabbia nel testo, ma anche il ricordo di una
passione giovane e violenta. Il giro di chitarra ossessivo che avevo in mente sin dall’inizio ha
poi fatto il resto. E alla fine i Joy Division mettono d’accordo tutti e quattro...
I testi spaziano dagli stati d’animo influenzati dalla vita in società a una carrellata di
immagini fantasiose: boschi, maghi, streghe, re, regine e via dicendo...
F: Come accennavo prima, ho un rapporto quasi “stupefacente” con le parole; non sono la
classica songwriter che scrive, riscrive, lima... Le parole e le immagini si impossessano
spesso della mia persona; a volte sono le mie ossessioni che scrivono. Sono anche molto
legata a una visione infantile, in senso buono, del mondo e della società; una sorta di rifugio
carrolliano in una dimensione altra. E poi c’è il suono delle parole, che mi affascina
tremendamente. In particolare quando si tratta di una lingua straniera. C’è qualcosa di
magico nel fatto che lo stesso concetto si possa esprimere in lingue, e quindi suoni,
totalmente differenti. In certi casi, quando il testo viene dopo o è immediatamente parallelo
alla musica, emetto solo suoni mentre canto, al massimo quelle tre o quattro parole che la
parte strumentale mi suggerisce.
Vi siete sempre autoprodotti e stavolta avete trovato il supporto parallelo di una
struttura propositiva come A Buzz Supreme. Come vi trovate in tale posizione e come
valutate le possibilità/difficoltà dell’attuale panorama discografico?
F: Le difficoltà sono tante, ma se ci si sofferma su quelle c’è solo l’immobilità, ed è proprio
ciò che bisogna evitare. Stiamo bene da soli con noi stessi, la nostra musica, il nostro
immaginario, il nostro modo di fare autarchico anche in fase di registrazione, o di grafica e
merchandising. Però sentivamo il bisogno di alleggerire in qualche modo l’impegno, e farci
aiutare da qualcuno. Andrea Sbaragli di A Buzz Supreme è proprio l’uomo di cui avevamo
bisogno. Siamo aperti a collaborare e lavorare con altri, etichette, booking, eccetera, a patto
di sentirci a nostro agio nel farlo.
M: “Meglio soli che male accompagnati” è un detto che tutti noi apprezziamo molto. A Buzz
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Supreme è un’ottima compagnia, fatta di persone serie e professionali che hanno ben chiari i
loro obbiettivi e le strade per raggiungerli. Ci siamo appoggiati a loro, e loro ce lo hanno
permesso, per tutto quello che riguarda la promozione: essendo un aspetto fondamentale
del mercato discografico, avere delle persone esperte al proprio fianco è molto
rassicurante...
Ci sono delle band che vi hanno particolarmente ispirato e delle band coeve che
sentite invece più affini di altre?
M: Molte band sono d’ispirazione, e dei generi più diversi.
F: Difficile nominarle tutte. Nel corso degli anni mi sono nutrita della musica di Velvet
Underground, Depeche Mode e Pixies, ma anche di molto rap old school. Ho avuto varie
“fisse” musicali, alcune hanno retto nel tempo, altre si sono sbiadite. Non so se sento affini
band a noi contemporanee. Nell’ultimo anno ho ascoltato molto i National e recentemente
l’ultimo disco di Sufjan Stevens, mentre per quanto riguarda casa nostra l’ultimo dei
Massimo Volume.
Avete già raccolto varie soddisfazioni, comprese recensioni e concerti all’estero.
Pensate sia possibile continuare a proporsi anche al di là dei nostri confini?
F: Pensiamo sia possibile, e vorremmo farlo ancora. Non ci spaventa il confronto con
l’esterno.
M: Sì.
Contatti: www.ofeliadorme.it
Elena Raugei
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Smart Cops
Idee chiare, una direzione cui guardare e buona musica. Quando ho immaginato le
domande da porre agli Smart Cops, che con “Per proteggere e servire” (La
Tempesta/Venus) debuttano sulla lunga distanza, pensavo di avere a che fare con una sorta
di “band divertissement” ed invece ho scoperto, con piacere, che il progetto ha basi solide e
intenti lodevoli. Per chi, come il sottoscritto, pensava fosse solo “rock’n roll” eccovi una
piacevole ed illuminante smentita.
Siete un gruppo agli inizi, anche se singolarmente le vostre storie sono già
significative. Potreste raccontare com'è nato il gruppo e com'è stato registrare questo
primo album?
Gli Smart Cops nascono alla fine del 2007. Ognuno di noi ha sempre avuto altri progetti ma
ci è sempre piaciuta la sfida di mettere in piedi nuove band, così Marco Rapisarda e Nicolò
Fortuni decidono di reclutare Edoardo Vaccari alla chitarra e Matteo Vallicelli. Abbiamo fatto
uscire altri album prima di questo, ma tutti in formato 45 giri per etichette americane ed
europee. I suoni inizialmente erano molto più sporchi e rabbiosi e i pezzi erano (ancora) più
veloci: il primo 45 giri contiene sei canzoni! Di lì a poco abbiamo iniziato a provare per un
nuovo lavoro e ci siamo accorti che ognuno di noi era in grado di portare una propria
impronta nella stesura dei pezzi, chi col garage, chi col Sixties, chi con il beat della miglior
tradizione italiana e chi, ovviamente sempre con il punk. Quindi, superata la fase di puro
hardcore anni 80, ci siamo trovati coinvolti in un disco senza dubbio più maturo.
La scelta musicale è quanto mai precisa, sia come suono che come produzione. Siete
soddisfatti del risultato ottenuto? E come si è sviluppato il rapporto con La
Tempesta?
Siamo felicissimi di questo disco. Solitamente c'è sempre molta autocritica, ma qui abbiamo
lavorato parecchio, arrivando ad un risultato che ci rispecchia in pieno. Infatti i suoni sono
più puliti, ma sempre graffianti e potenti. Per quanto riguarda la collaborazione con La
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Tempesta Dischi, siamo rimasti molto lusingati della proposta. C'era e c'è tutt'ora più che mai
un'amicizia che ci lega da diversi anni. E così è nata l'idea di far un disco insieme.
Avete un'immagine non molto rassicurante ed i vostri testi, tra sarcasmo e cinismo,
non sono da meno. Quanto sono importanti le parole ed i concetti che esprimete nel
disco? E' "solo rock'n'roll" oppure c'è anche qualche velleità più seria?
Il termine "rock'n'roll" ora come ora vuol dire tutto e niente. E soprattutto è usato un po' da
tutti, specialmente accompagnato da quel gesto della mano a mo' di corna. Non si è mai
visto niente di più meschino. Sembra che ormai "rock'n'roll" significhi prender le cose alla
leggera, che tanto va bene così.....in realtà non va bene un cazzo. Ecco perché i testi dei
Cops sono a dir poco fondamentali. Rispecchiano le piccole e grandi debolezze dell'essere
umano, che noi abbiamo affidato alla figura di un poliziotto insicuro, debole e preoccupato, e
la divisa certo non è d'aiuto. Ok, è bello scherzare e far del cinismo sulle forze dell'ordine,
ma a noi però piace pensare che i testi diano un piccolo spunto per un'autoanalisi che tutti
dovrebbero farsi, prima o poi. Per quanto riguarda la nostra immagine/divisa siamo
d'accordo, è ben poco rassicurante. Ed è un perfetto "nonsense" poiché l'uniforme in realtà
dovrebbe esser qualcosa di "tranquillizzante". A noi, in realtà, l'uniforme spaventa.
Lo scrivete anche nel vostro comunicato stampa che "il look è importante quanto la
musica". In che cosa credete sia importante? Per caratterizzarvi meglio? C'è qualche
band che vi ha ispirato in questa scelta?
Molte band si sono legate ad una divisa e anche noi abbiamo deciso di farlo, scimmiottando
la polizia. Il look è importante quanto la musica poiché il punk è sempre stato caratterizzato
da violenza e sregolatezza, mentre l'uniforme in sé dovrebbe significare ordine e rigore sia
fisico che morale. Amiamo questo nonsense.
Alcuni di voi hanno avuto esperienze estere piuttosto rilevanti. Perché proprio
adesso uscire con un progetto principalmente "italiano"? E' una sfida che pensate di
vincere? Può un gruppo che canta in italiano questa musica avere "successo" in
America?
In realtà molti non lo sanno ma l'hardcore-punk di matrice italiana, sin dalla fine degli anni
70 (per non parlare dei primi anni 80), ha sempre avuto ampio seguito e gran considerazione
a livello mondiale. Più o meno tutte le bands cantavano proprio in italiano. Potremmo citarne
moltissime, ma in particolare facciamo riferimento a pietre miliari come Peggio Punx,
Wretched, Indigesti, Cani e tanti altri. Ci è capitato di suonare in città come Chicago e Los
Angeles, dove ci sono delle grandi comunità messicane e dove tutti i nostri fan sapevamo i
nostri testi a memoria... ma un po' "spagnolizzati". Sappiamo quindi di esser apprezzati per il
fatto di utilizzare l'italiano, tant'è che la versione in vinile di "Per proteggere e servire" è
affidata proprio ad un'etichetta americana, la Sorry State.
Proprio in virtù delle vostre esperienze oltreoceano quali sono le maggiori differenze
che notate nell'approccio a questa musica rispetto alla vostra "patria"?
Non vediamo gran differenza tra Italia e Stati Uniti, anzi se dovessimo essere sinceri, al
momento le cose vadano molto meglio in Italia, e più in generale in Europa, piuttosto che
negli USA. L'America ha sempre vantato musicisti e dischi incredibili sia come produzione
vera e propria che come grado di innovazione... Ma a pensarci bene, che cos'altro gli resta?
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Contatti: www.myspace.com/smartcops
Giorgio Sala
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A Small Document
The New Middle Age
Black Nutria-Red House/Audioglobe
Un certo Mocar, del quale s'ignorano i dati anagrafici, canta con voce trascinata e suona i
cimbali, SirJoe, altra identità irriconoscibile, picchia sulla batteria senza guardare davanti a
sé, Billy Boy, terzo e ultimo pseudonimo del gruppo, fa tutto il resto: sfianca la chitarra, tanto
che spesso par di sentire anche un basso anche se, da quel che ci risulta, il basso non c'è. Il
disco si chiama “The New Middle Age”, la banda A Small Document, e il piglio è rock'n'roll
come lo si suonava nell'America indie degli anni 80, tipo Guided By Voices, Pixies e,
insomma, quella roba lì. Proprio dei Pixies sembra quasi un plagio attitudinale un pezzo
come “Song Of Robespierre”, con la batteria che mulina una marcetta, la chitarra che le va
dietro velocissima col plettro, la voce che ammicca. Ci sono poi alcuni momenti in cui il
rock'n'roll lascia spazio allo stoner, come in “Shock Down” e “Minds Balloon”, rispettivamente
quinta e sesta traccia delle dieci di “The New Middle Age”, dove ogni tanto le chitarre
sembrano più d'una, e invece ci risulta che sia sempre l'unica sei-corde di Billy Boy a fare
quasi dei miracoli. Il rimanente è una gradazione, una miscela dei suoni sopraccitati. E, in
generale, non è che quello di cui stiamo parlando sia un album pieno di spunti originali, non
un disco che sia così necessario avere in casa, la copertina è anche brutta, con quei punti di
sutura applicati al pomodoro. E però se dovessero capitare dalle vostre parti, andateli a
vedere, gli A Small Document. È gente che suona e suona bene; e in un posto chiuso,
magari, con gli amplificatori ben settati sul frastuono, è anche gente capace di smuoverti il
collo.
Contatti: www.myspace.com/asmalldocumentitaly
Marco Manicardi
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Andrea Guzzoletti
Invisible Cities
Even Eights
Andrea Guzzoletti, per chi non lo sapesse, risulta, dal suo sito, essere musicista/produttore
originario di Barga (Lucca), dalle collaborazioni e dalle capacità comprovate oramai da anni,
anche internazionalmente; e non potrebbe essere altrimenti per qualcuno che è stato capace
di arrivare a lavorare con una sacerdotessa della musica, e della voce polifonica, com'è la
mongola Sainkho Namtchylak. Tra le sue frequentazioni nobili c'era anche quella con il
grande Hector Zazou, con cui lo legava anche l'affetto dell'amicizia. Alla sua scomparsa,
avvenuta nel 2008, Guzzoletti ha trovato la spinta e la volontà di cimentarsi col suo primo
progetto personale, prima on demand sul web da fine 2010, ora distribuito per la Even Eights
Records come album. Interamente dedicato a Hector Zazou, “Invisible Cities” prende
ispirazione dalle atmosfere rarefatte e in viaggio del testo di riferimento ideale, proprio “Le
città invisibili” che Italo Calvino aveva intessuto a partire dai racconti, immaginari, narrati dal
suo protagonista Marco Polo, che, catturato dalla fantasia, navigava attraverso città
sconosciute o mai viste delineando paesaggi ulteriori. Ed è proprio questo che fa Guzzoletti,
con il contributo sentito di Antonio Inserillo, Roberto Cecchetto e Stefano Onorati: prendendo
le parti di un novello Marco Polo, traccia Cities ancora non pervenute all'uomo, ma capaci di
racchiude in questo percorso ricordi personali che riaffiorino alla superficie della memoria di
ciascuno, componendo un patchwork di mondi, fusi insieme da una musica che galoppa
nell'elettronico/sperimentale, contaminandosi di rock, jazz, fusion, techno, scaldandosi con le
temperature soffici e penetranti della tromba, sostenuto dalle percussioni, inciso dalle
chitarre, inseguito dal piano e da voci evocative femminili, come nella migliore tradizione
artistico creativa proprio di Hector Zazou. A partire da “Kaleidoscope City”, arrivando anche
a un ”City of God” che chissà se vuole portarsi il carico del film omonimo del regista
brasiliano Fernando Mereilles, l'album cammina in una topografia delle emozioni in viaggio,
dove si arriva, per subito dopo permettersi di staccare i piedi dal suolo e riprendere il volo
della fantasia, lambendo City dopo City, per arrivare alla fine dell'arcobaleno con, inevitabile,
“Rainbow City”. Come non poteva che concludersi questa strada con “Last City”, brano live
inedito registrato con Guzzoletti in concerto assieme a Hector Zazou, che termina con
l'abbraccio del pubblico, che applaude, da lontano, in un saluto d'affetto verso il compianto
maestro e amico.
Contatti: www.andreaguzzoletti.com
Giacomo d'Alelio
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Andrea Papetti
L’inverno a settembre
Storie di Note/Egea
Per la serie “non è mai troppo tardi”, ci occupiamo di un lavoro apparso già qualche mese
fa. Un cantautorato che vibra e s’indigna, civile e privato, passionale e idealista. È questa la
cifra dell’esordiente marchigiano 33enne Andrea Papetti. Circondato da musicisti navigati
come Alessandro Svampa (ormai da un pezzo batterista di De Gregori), Luca Bulgarelli (che
tra l’altro ricordiamo al contrabbasso con Cammariere), Mauro Menegazzi (fisarmonica di
Daniele Silvestri), Papetti licenzia una decina di brani che si situano nella tempra artistica di
un Locasciulli e di un Bertoli. Non modernissimo, ammesso che ciò sia una dote di suo (e
non lo è): artigianato sotto il crisma della sincerità, della quale a tratti però si abusa
ingenuamente, e delle buone intenzioni.
Enzo Baldoni (“Inferno Baghdad”), Pablo Neruda (“Così lontano, così vicino”), Peppino
Impastato (“L’uomo della verità”), i bambini dell’Ossezia (“Il cielo di Beslan”). Sono le stelle
nel cielo di Papetti, insieme alla mamma, la dedica alla quale dà il titolo all’intero album
“L’inverno a settembre”; e anche alla nonna, destinataria di una “Ninna nanna”. Siamo
d’accordo nel combattere a tutti i costi il cinismo, anche se qui il rischio della retorica è
spesso in agguato. Il cantautore di San Benedetto a volte è fin troppo esplicito, non lascia
spazio a un millimetro di allusività: “un uomo coraggioso morto per protesta, Peppino
Impastato”, oppure “mia cara nonna, ti dico addio, non ti dimenticherò”, alcuni esempi di una
scrittura elementare e diretta, che ha il pregio della diretta semplicità ma non dà scampo
all’immaginazione. Sfugge meglio alla retorica nelle ballate lente, Papetti, quelle meno
altisonanti, come “Parigi, cosa avevi nella testa”, “Al molo” (la migliore traccia del disco), il
delicato brano su Beslan con il recitato dell’attore Piergiorgio Cini e infine la ghost track, una
rilettura di “Banneri” di Pippo Pollina eseguita a due voci con il cantautore palermitano.
Contatti: www.myspace.com/andreapapetti
Gianluca Veltri
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Atman
Il destino e la speranza
Sardanapala
“Odio tutto ciò che è sempre uguale” canta Devid Winter in “Promenade des Anglais”, uno
dei brani di punta della nuova fatica degli Atman; una frase che si adatta perfettamente al
percorso artistico della band, che, dopo un decennio di onorata carriera, con l’EP “Stiamo
uccidendo le nostre anime” (2008) aveva fatto il grande passo e per la prima volta si era
cimentata con testi in italiano. Una scelta che viene riproposta anche in gran parte ne “Il
destino e la speranza”, al cui interno sette composizioni su dodici sono cantate nella lingua
di Dante (tre invece i pezzi in inglese e due gli strumentali). Sempre a proposito di
cambiamenti, la compagine lucchese ha ridotto il proprio organico da quartetto a trio,
rendendo così la propria proposta ancora più secca e diretta, senza per questo rinunciare
alla melodia o a occasionali raffinatezze (l’intervento degli archi nella summenzionata
“Promenade des Anglais”, per esempio). Quel che ne risulta sono canzoni asciutte, vibranti
di un’elettricità nervosa di decisa ma non decisiva matrice grunge, anche se non mancano in
scaletta momenti più riflessivi e acusticheggianti. Ancora una volta, un lavoro solido, lontano
dalle mode e per questo destinato a reggere bene al passare delle stagioni: ennesimo
attestato di coerenza da parte di una band che fa dell’integrità e della passione le proprie
bandiere.
Contatti: www.atmanrock.com
Aurelio Pasini
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Numero Marzo '11
Biscuits
Biscuits
Black Needle-GPeeS/Audioglobe
I “biscotti” in questo disco sono tre: Tripla, Gransta e Dyna. Al primo morso capisci al volo
che Napoli è la loro culla, città che dunque riconferma il proprio ruolo di vivace calderone
delle crew hip hop più originali (e sincere?) degli ultimi anni. Ciò che non sorprende talvolta
nasconde una rassicurante certezza. Arrivato al secondo morso inizi a distinguere i singoli
ingredienti e non ti stupisci nello scoprire che l’album ha preso vita passando anche per altri
luoghi: Londra e soprattutto Milano, dove i tre rapper si occupano di tutto un po’. Allo stesso
modo, si trova di tutto anche tra questi solchi: abbondanza di rap, una parte di funk,
manciate generose di elettronica e pure qualche spolverata di beat e sample old skool come
nella fuorviante “Recipe”, “ricetta” iniziale con cui il trio cerca di non svelare fin da subito le
proprie carte, preferendo dosarle con parsimonia in tutto il disco. Non è un caso che la
misura sia tra i maggiori pregi di questo lavoro. Di certo il più evidente. Nei dodici brani in
scaletta (contando anche gli skit) c’è un momento per pensare (“Fortapasc’”, ispirato al film
di Marco Risi), uno per rimanere incastrati in un groove funky che difficilmente si leverà dalla
testa (il singolo “Exit”), uno per danzare come delle scimmiette (“Ciu-ciu”, a cavallo tra
Queen, Metro Area e il “Gioca jouer” di Cecchetto - pop cretino al punto giusto) e uno per
danzare e danzare e danzare (Rush Hour). E poi? Poi basta, ché l’album dura poco più di
trenta minuti e rimane solo da tirare su le briciole con le dita.
Contatti: www.myspace.com/biscuitsproject
Giovanni Linke
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Bob Corn
The Watermelon Dream
Fooltribe
Bob Corn ha imparato a suonare. Parlandone in giro, ci si accorge che già iniziano a
formarsi le due fazioni dell'”era meglio prima” e dell'”ora sì che lo ascolto volentieri”, ma sono
chiacchiere che lasciano il tempo che trovano. E allora sì, a forza di andare in giro, tutti i
giorni a organizzare concerti per italiani e stranieri, suonarvi di spalla, scrivere canzoni nei
backstage di tutta Europa e perfino degli Stati Uniti, Bob Corn ha imparato a suonare e a
comporre, e “The Watermelon Dream”, coi suoi venti minuti e le sue sette canzoncine, sta
una spanna sopra a tutta la discografia del nostro barbuto menestrello di provincia, ma come
gli altri suoi dischi ha in sé quella magia spicciola di cui mai ci si potrà stancare. Senti la
voce tremolare attraverso i peli della barba, senti i polpastrelli che sfiorano le corde della
chitarrina tutta sciupata dai viaggi e dai palchi, senti sempre quel piede che batte sul
pavimento per tenere il tempo e ti immagini le ginocchia di Tiziano che si muovono eccitate e
imbarazzate, mentre lui, con gli occhi chiusi, ringrazia sentitamente e attacca la prossima
canzone. Ti compiaci, poi, della voce dell'amica Majirelle, perché l'hai vista suonare prima,
dopo e insieme a lui un sacco di volte di volte negli ultimi sette, otto anni. Sì, Bob Corn ha
imparato a suonare e molte cose, da qui in avanti, a forza di girare il mondo, imparerà. Ma
siamo noi, in fondo, ascoltando la sua umiltà nel toccare la chitarra, la timidezza nel cantare
e nel vederlo suonare, che non smetteremo mai di imparare da lui.
Contatti: www.fooltribe.com/bobcorn
Marco Manicardi
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Bord De L'Eau
Fantachic
Disco Dada/Venus
“Rave songs e carillon sintetici. Angeli crudeli e mostri invisibili. Fidanzatine erotiche.
Videogiochi e peluche.” Basterebbe questo autoritratto per inquadrare il mondo dei Bord De
L'Eau. Se poi vi diciamo che la metà italiana del progetto (essendo quella francese
rappresentata dalla vocalist Dorothy Chérie) è nientemeno che Mauro Guazzotti, alias MGZ,
tutto sarà ancora più chiaro. Il disco con cui esordisce il duo suona esattamente come ci si
può aspettare suoni un disco dance-oriented con voce femminile prodotto dal bizzarro
personaggio (nel senso più vasto del termine, non vorremmo si pensasse che di sola
stranezza si tratti) savonese: battuta ossessiva e techno vagamente (volutamente) démodé,
predilezione per gli slogan demenziali (in francese), surrealismo lolitesco, riff di chitarra – il
lavoro è prodotto da un'altra vecchia conoscenza dell'underground italiano, Roberto “Tax”
Farano, Negazione, Angeli e quant'altro – e sintetizzatori centrifugati. Insomma, forse non si
capisce bene se ci sia piaciuto o meno questo disco, e quanto. Certo che ci è piaciuto, e
piacerà a chiunque abbia la pazienza di rapportare questa (solo apparente) techno-caciara
trash allo spirito di MGZ e dei suoi adepti, vivendola come una edonistica alternativa,
consapevolmente demente, a ben più prevedibili piste da ballo.
Contatti: www.myspace.com/bordeleau2007
Alessandro Besselva Averame
Pagina 27
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Caso
Tutti dicono guardiamo avanti
autoprodotto
Ha un passato nell'hardcore-punk come batterista Caso, all'anagrafe Andrea Casali, di 30
anni, bergamasco, che, lasciato il retrovia del palco, ha preso in mano chitarra acustica e
testi e musica, che strada facendo si è addolcita in un folk-rock-punk. Dopo l'album d'esordio
“Dieci tracce”, autoprodotto nel 2009, e ristampato nella versione vinile + DVD da Red Cars
Go Faster e Lab80 Film nel Dicembre dello stesso anno, e ancor prima i primi pezzi registrati
“casarecci” nel 2006, esce ora, ancora di tasca propria, con “Tutti dicono guardiamo avanti”.
Copertina che guarda la facciata di un edificio dal basso verso l'alto, indicando come si
osservi da posizione di tensione il quotidiano, in quell'oggi di cui Caso ci parla per
esperienza e pulsioni interiori personali. Urgenza che si avverte percorrere tutti i 9 pezzi che
compongono l'album di rapida (meno di mezz'ora la durata) somministrazione, ma che lancia
delle zampate che lasciano addosso dei graffi che spingono a risentire per capire,
approfondire cosa spinge un trentenne a resistere, come si legge nelle sue dichiarazioni,
affrontare la difficoltà di ritentare la strada dell'uscita di un album, dopo aver perso strada
facendo le prime registrazioni, quindi ributtarsi di nuovo a lavoro, non accettare una sconfitta
anche, inevitabilmente, economica, e ripresentarsi nell'agone dei prodotti che potrebbero
passare inosservati. Del punk ha conservato l'impeto di voler prendere posto nella mischia,
quella che l'ha portato a produrre un album scarno, solo voce, chitarra acustica, armonica a
bocca, cori che sono echi della sua voce, per uscire il più “immediato” possibile. Pensieri che
si spargono anche nel blog (fuoritono.wordpress.com), che ha aperto per raccoglie le voci
che provengono dai suoi concerti. Intende la sua musica semplice e sincera, e non si reputa
un musicista, Andrea Casali, ma crede in quello che scrive. Tanto da riuscire, in un album
che potrebbe passare inosservato, bidimensionale al primo ascolto, a segnarti con le urla
improvvise, vere e dolorose, di “Dimmi qualcosa in silenzio”, e quelle di rabbia e d'accusa, a
un mondo di disinteresse, etichette, soprattutto musicale, dov'è un attimo per passare nel
non pervenibile, contenute nel pezzo bandiera dell'album, “Aranciata amara”, che corre
energico come le schitarrate iniziali. Caso merita come minimo col suo “Tutti dicono andiamo
avanti” più di un ascolto, raggiungendo tridimensionale e concreto non solo gli orecchi di chi
ascolta, ma anche cuore e pancia.
Contatti: www.myspace.com/casosidistrae
Giacomo d'Alelio
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Colore Perfetto
L'illusione del controllo
Libellula/Audioglobe
Partiamo dalla nota stonata, che poi a ben vedere così stonata non è: ascoltate
“Impercettibile” e diteci se non vi sembra uno straordinario apocrifo di Paolo Benvegnù, una
outtake da “Piccoli fragilissimi film”. Un'innegabile parentela, molto stretta, anche se il brano
è equilibrato, convincente, non un semplice calco ma anche una espressione dotata di vita
propria. Gli altri brani del disco, prodotto da Giacomo Fiorenza, fanno vibrare una
somiglianza alimentata dalla voce del bassista e cantante David Pollini, ma non mancano di
dar prova di originalità, all'interno di un comunque collaudato rock d'autore con chitarre indie,
soluzioni melodiche di ampio respiro e sicuro impatto. In un disco curato e solido, forse
solamente ancora un po' incerto sulla strada da percorrere, spiccano anche e soprattutto le
deviazioni dall'impianto base, ad esempio una “L'illusione” che parte con un uno-due di
batteria e chitarra quasi zeppeliniano, gli stop and go di scuola Wilco di “Un Istante”,
attraversata da una melodia italianissima, nella migliore accezione del termine, e soprattutto
i due pezzi più coraggiosi, la lunga, macilenta e minacciosa cavalcata di “Come un'ombra”,
che si apre di tanto intanto a squarci melodici, e la chiusura della lunghissima “9 A.M.”,
desertica e d'atmosfera, una sorta di strumentale tamburellante e dilatatissimo, che evoca
deserti stoner e miraggi lontani di Thin White Rope. Non possiamo far finta di non vedere le
parentele cantautorali, ovvio, ma non possiamo che pronosticare un futuro interessante per i
Colore Perfetto.
Contatti: www.coloreperfetto.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 29
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Numero Marzo '11
Dotvibes
Inside This Bubble
Sericraft/Venus
Chi scrive non è uno specialista in reggae e forse chi legge potrebbe pensare che la
recensione non sia stata affidata alla persona più adatta. In realtà il motivo per cui un non
specialista di reggae ritiene di poter parlare con cognizione di causa di un disco del genere è
dovuto al fatto che “Inside This Bubble” dei biellesi Dotvibes – formazione con giù un
curriculum di un certo peso, visto che esiste da poco più di cinque anni e nel 2008 ha vinto
l'Italian Reggae Contest - è un disco reggae, sì, ma del tipo più contaminato e agile, quel
genere di album che non perde i contatti con le radici, inserisce il giusto dosaggio di dub,
strizza l'occhio alle evoluzioni più recenti della musica in levare, applica le ultime soluzioni
elettroniche all'impasto (senza incidere sulle strutture, dotandole però di una brillantezza
gassosa e diffusa) e contemporaneamente va a lambire soul e rhythm and blues (antico e
recentissimo, si ascolti “You Don't Know”, riuscito esperimento dal suono internazionale),
utilizzando infine l'ingrediente più importante, una sensibilità pop che fa da filo conduttore e
collante. La freschezza del suono (la produzione è di Paolo Baldini), insomma, va di pari
passo con una conoscenza del materiale che ha poco dell'erudizione e molto dell'utilizzo
pratico, della rimessa in circolo di energia. A completare le spezie, camei di Bunna e Jacob
che rafforzano un impianto già molto solido.
Contatti: www.dotvibes.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 30
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Numero Marzo '11
Faravelliratti
FARAVELLIRATTI
Lieu
Boring Machines
Sono entrambi riconducibili alla musica contemporanea, Attila Faravelli e Nicola Ratti, ma
ognuno a suo modo. Il primo compone per il teatro, la danza, le installazioni artistiche ed è il
titolare di un “Underneath The Surface” del 2009 sposato a un'elettronica epidermica e
crepuscolare; il secondo è un chitarrista dal profilo trasversale in forza ai Ronin di Bruno
Dorella e attratto dall'improvvisazione ai limiti della decostruzione del suono. Uniti nel
comporre una grammatica che in “Lieu” diventa parto coerente tra analogico (la chitarra
amplificata) e digitale (il laptop), oltre che un'area comune di indagine per approcci musicali
agli antipodi. Soprattutto dal vivo, sede in cui i suoni eterei e spaziosi del disco raggiungono
forse la dimensione ideale. Staccati dall'impianto centrale dell'ipotetico club e compressi in
una serie di speakers tra loro contrapposti, affiancati, sovrapposti. A sacrificare pulizia e
sottigliezze sull'altare di una concretezza turbolenta legata a filo doppio all'acustica del luogo
fisico. Su disco tutto questo ovviamente non si sente, ma tra parentesi glitch (“I've
Witnessed”), qualche attrito inaspettato (“This Spectacle”) e un ambient che dialoga con il
post-rock (“And Lacrosse Sticks”) si rimane piacevolmente in ascolto fino a fine programma.
Contatti: www.boringmachines.it/artist.php?artistId=18&activeSection=biografie
Fabrizio Zampighi
Pagina 31
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Numero Marzo '11
Fog Prison
Fiero prigioniero
Trumen/Self
Dopo anni di autoproduzione e paziente lavoro sul proprio territorio (Ascoli e dintorni) i Fog
Prison provano a fare il salto di qualità con un album a distribuzione nazionale, impreziosito
da una batteria di ospiti non banale: Dargen, DJ Skizo, Mole, Yaner dei Men In Skratch,
Maxi B, nomi la cui popolarità e il valore travalica anche l'originario contesto di
appartenenza, quello hip hop. Apprezzabile sforzo, così come apprezzabile la volontà di
suonare un minimo diversi musicalmente rispetto al rap più canonico, intenzione
esplicitamente dichiarata nei comunicati stampa (si pone infatti l'accento su questo aspetto,
spiegando come le basi abbiano un approccio più musicale e più suonato rispetto all'hip hop
medio). Gli apprezzamenti si spengono però al momento dell'ascolto, o comunque si
smorzano abbastanza. “Fiero prigioniero” è un onesto lavoro di gente legata al rap di casa
nostra più intelligente e più narrativo, questo sì. Ma un conto è riferirsi a modelli di qualità, un
altro è raggiungerne il livello. Il flow infatti è complessivamente monocorde e piuttosto
datato; i testi sono anche correttamente sviluppati e con la volontà di una visione lucida e
consapevole, ma mancano di quei momenti di irregolare follia o di violenta emotività che
servono come l'ossigeno ai rap (troppo) intelligenti; la parte musicale è un po' monocorde,
poco dinamica, eccessivamente legnosa nella ritmica sia come suoni che come struttura.
Non è bello recensire così poco positivamente il lavoro di gente animata dalle migliori
intenzioni, ma purtroppo anche in musica può funzionare quello slogan da maglietta per cui i
bravi ragazzi vanno in paradiso, ma quelli genialoidi e stronzi rischiano di andare in posti
molto più interessanti. Insomma, “Fiero prigioniero” sarà più facilmente una cartolina con cui
i Fog Prison certificano a se stessi e a chi li conosce già le proprio qualità, piuttosto che un
lavoro che ne svolterà la biografia.
Contatti: www.myspace.com/fogprisonmusic
Damir Ivic
Pagina 32
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Numero Marzo '11
Germanotta Youth
The Harvesting Of Souls
Wallace/Audioglobe
L'omaggio è evidente: Lady Gaga è la nuova Madonna, e proprio come i Sonic Youth in
libera uscita di più di un ventennio fa, convocati alcuni amici e ribattezzatisi Ciccone Youth
per prendersi gioco e al contempo omaggiare le forme espressive più disimpegnate della
popular music, i Germanotta Youth (dal cognome della ormai imprescindibile Lady) di
Massimo Pupillo (Zu), Andrea Basili (impegnato dietro i tamburi) e Reeks (addetto a suoni
sintetici e al sampling) prendono le propaggini della musica estrema e le rifrullano con spirito
ludico ma rigoroso, senza rinunciare agli obbiettivi artistici ma dimostrando anzi che giocare,
in senso lato, resta il modo migliore di assecondarli e nutrirli. In questo “The Harvesting Of
Souls”, mezz'ora densa e fitta di impulsi e stimoli, si incontrano battaglie impossibili tra ritmi
sintetici e batterie, come in un videogioco-sparatutto postnucleare (“Honey Bee
Depopulation Syndrome”), drum machine isteriche lasciate ad esaurirsi su scenari desolati,
bassi e suoni sintetici che litigano su basi ossessive e martellanti (il protometal ipercinetico
della title track), field recordings provenienti da luoghi affollati. In sintesi, un disco a tratti
ostico ma mai noioso, una specie di saggio di noise estremo affidato ad un manipolo di
teenager privi di sovrastrutture troppo vincolanti, con uno spirito mai ostentatamente
iconoclasta ma sempre divertito (con titoli come “A Closer Look To The Mind Of And Soul Of
Pope Benedict XVI” o “Draconian Measures, A Letter To Lady Gaga” che non necessitano di
ulteriori spiegazioni).
Contatti: www.myspace.com/germanottayouth
Alessandro Besselva Averame
Pagina 33
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Numero Marzo '11
Glitterball
We Couldn’t Have Dreamed It
Seahorse/Audioglobe
Riuscire a mordere utilizzando l’elettronica mescolata al rock come vessillo è affare che
decantano in molti, ma che in pochi sanno maneggiare veramente. Il rischio più scottante è
quello di cadere nell’anonimato più bieco, e i Glitterball non sono riusciti a sfuggire da questo
demone che assale fin troppe band odierne, confezionando un disco disomogeneo e poco
ispirato, in cui la bussola impazzita dalla commistione stilistica non sa bene dove andare a
puntare l’ago, sempre in bilico tra i due poli del rock classico e dell’elettronica pacchiana. Di
sbagliato c’è innanzitutto l’approccio, fin troppo manieristico, con cui i Glitterball si accostano
al crossover di stili. Si passa dall’imbarazzante tastierina di “During Easy Conversation”,
ipotetico frutto di una improponibile collaborazione fra Subsonica, Van Halen ed una cover
band grunge (uno dei peggiori incubi che attanagliano la mente fantasiosa di Beck),
all’andamento profetico à la Stone Roses di “Into My Head”. Qualcuno ricorda ancora le
meteore degli anni Zero The Music? Band di Leeds dall’esordio fulminante e dal seguito
sterile? Ecco, i Glitterball ricordano i The Music transgender e dai larghi confini. “We
Couldn’t Have Dreamed It” ha la pecca di suonare fin troppo plastificato, incellophanato e
messo sottovuoto da inserti elettronici eccessivamente invadenti e preconfezionati. Un
album liofilizzato, dove nemmeno l’acqua bollente ed il dado Star potrebbero donargli la
forma ed il gusto originale.
Contatti: www.myspace.com/glitterballband
Luca Minutolo
Pagina 34
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Numero Marzo '11
Guido Maria Grillo
Non è quasi mai quello che appare
AM Productions
Guido Maria Grillo si propone al mondo utilizzando l'altisonante etichetta di “cantautore
d'avanguardia” e, ascoltando il suo secondo album, seguito dell'esordio omonimo di un paio
di anni fa (approdo di un percorso personale e musicale già significativo), non si può che
accettare la definizione. Cantautore, perché certe atmosfere e certe melodie sono figlie di un
cantautorato antico, classico, colto, vagamente arcaico. D'avanguardia perché la voce si
trasforma in uno strumento in sé (qualche punto di riferimento, in lontananza: Thom Yorke,
Antony, Buckley padre), e la strumentazione che verrebbe da dire cameristica, visto l'ampio
uso di pianoforte e archi, si piega e si deforma per assecondare gli sbalzi espressivi della
voce, senza sfuggire di mano (tranne forse “Una canzone per me”, tra Battiato e Francesco
Di Giacomo, un poco vittima di eccessi e svolazzi). Rispetto all'esordio, le canzoni di “Non è
quasi mai quello che appare” ci sembrano in ogni caso più asciutte e a fuoco (includiamo nel
conteggio una splendida versione de “Il sogno di Maria” di De André, una bella prova di
originalità interpretativa): forse viene un po' a mancare l'effetto sorpresa, e le soluzioni “ai
limiti” dell'autore difficilmente piaceranno a chi non ama un certo genere di teatralità
espressiva. Resta il fatto che costui produce una musica e un immaginario assai peculiari,
perseguendo il suo obbiettivo con coraggio, senza prestare troppa attenzione a quel che tira
di più in questo momento. Dovremmo, in buona sostanza, tenercelo stretto.
Contatti: www.guidomariagrillo.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 35
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Numero Marzo '11
Il Garage Ermetico
Pugni nell'aria
Fumaio
Due ragazzi della "verde" (in tutti i sensi) provincia bergamasca si trovano e iniziano a
sperimentare suoni di matrice elettronica. Poi, e qui sto lavorando di fantasia, succede che
prendono la consapevolezza del posto in cui vivono (l'Italia), capiscono che qui siamo tutti un
po' fregati e, questa la sparo grossa, si ascoltano l'album de Le Luci della Centrale Elettrica;
cambio di direzione, innesto di due elementi ed ecco che nasce l'odierna incarnazione de Il
Garage Ermetico e questo "Pugni nell'aria". Un paio di plausi innanzitutto: per la scelta del
nome - Moebius non si discute, si ama - e per il coraggio di essere "politici" senza se e
senza ma. Una politica vuota di slogan ma ricca di sensazioni, che ben si sposa con le
ritmiche tese ed una chitarra a tratti lancinante e che stimola a pensare, ad interrogarsi
senza per forza fornirti una bandiera od una ideologia fine a se stessa. E che bella la dedica
a John Cassavetes! Una bella storia con una bella etichetta discografica, la Fumaio, che sta
facendo cose egregie per valorizzare, permettetemi il termine a la "Linea verde", le
"eccellenze del territorio". La strada imboccata da Il Garage Ermetico è quella giusta, alla
faccia di chi dice che il cantautorato è morto ed il rock non si impegna più nel sociale.
Contatti: www.myspace.com/ilgarageermetico
Giorgio Sala
Pagina 36
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Numero Marzo '11
Ismael
Due
autoprodotto
Poco più di un paio d’anni fa – era il febbraio del 2009 – avevamo lodato in questa stessa
sede il debutto omonimo dei reggiani Ismael, la nuova creatura dello scrittore Sandro
Campani, ex chitarrista dei Sycamore Tree. Lodi che volentieri spendiamo anche per
quest’opera seconda, in cui la formula della formazione non subisce scossoni straordinari
(anche se nella line-up ora figura anche un sassofonista, i cui interventi sono comunque
sobri e misurati) ma sfoggia una maggiore solidità. Pure stavolta a reggere il gioco ci sono la
chitarra acustica di Campani e l’elettrica di Giulia Manenti (anch’essa con un passato nei
Sycamore Trees), il cui incontro genera con pari efficacia tensione o malinconica dolcezza,
mentre la voce di Sandro disegna con tratti decisamente personali linee melodiche ben
compiute e testi di buona profondità, intrisi di intimismo e quotidianità. E, a completare il
tutto, una sezione ritmica che interviene soltanto quando serve e i cori dell’ex Fiamma
Fumana Silvia Orlandi. Ciò che ne esce è un quadro ben definito, ricco di dettagli e
sfumature, maturo e di qualità, che meriterebbe una visibilità ben maggiore di quella ottenuta
finora, a partire dall’ambito che maggiormente gli si adatta, quello del rock d’autore.
Contatti: www.myspace.com/ismaelband
Aurelio Pasini
Pagina 37
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Numero Marzo '11
Jang Senato
Lui ama me, lei ama te
Pippola/Audioglobe
L’etichetta Pippola continua nel pregevole intento di dare spazio a emergenti dediti alla pura
e semplice forma-canzone. Materiale, in realtà, difficile da maneggiare, dato che per colpire
nel segno presuppone robustezza compositiva e melodie memorabili. Gli Jang Senato,
quintetto proveniente dall’Appennino Romagnolo con un passato che affonda le radici nei
Daunbailò, vanno così ad aggiungersi a un catalogo che schiera già Brunori SAS, Dimartino
o Dilaila. Lo scopo dichiarato è rifarsi al recupero della musica leggera, talvolta snobbata a
favore di soluzioni artificiosamente cervellotiche. Bene, che avere le idee chiare è sempre
positivo. Per di più, “Lui ama me, lei ama te” - non a caso ottenuto dalla sintesi di un
antecedente, omonimo biglietto da visita autoprodotto - si articola in dieci brani per poco più
di mezz’ora di durata, scorrendo con senso della misura e assoluta piacevolezza. Ritornelli
orecchiabili, testi che procedono per immagini tratte dal quotidiano, arrangiamenti che
propendono per un’essenzialità curata nei minimi particolari e il cantato vagamente
stralunato di Davide “Gulma” Gulmanelli determinano la buona riuscita del tutto,
dall’immediata “La bomba nucleare” al singolo “Respirare”, dalla scoppiettante
“L’americano” (che cita Battisti con ironia) alle ariose ballate “Un tempo” e “Io e te” o alle
ritmiche sintetiche di “Tempi buoni”. Pezzi che potrebbero benissimo funzionare in radio,
magari!, e che, specchio dei tempi, richiamano a più riprese il cantautorato pop di Dente e
affini.
Contatti: www.jangsenato.it
Elena Raugei
Pagina 38
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Numero Marzo '11
Jimi Barbiani Band
Back On The Tracks
Andromeda Relix
Rischioso mandare in stampa un album come “Back On The Tracks” dalle nostre parti, dove
manca quasi del tutto un pubblico capace di sostenere un’ipotetica scena “southern rock” o
simil tale. Eppure l’Italia è tutt’altro che priva di talenti in questo senso: esempio lampante gli
udinesi W.I.N.D., power trio che non ha niente da invidiare ad altre più blasonate compagini
d’oltreoceano e che sovente ha incrociato i ferri con nomi del calibro di Marc Ford e North
Mississippi Allstars. E’ proprio dall’organico dei W.I.N.D., di cui è stato per lungo tempo il
chitarrista, che proviene Jimi Barbiani, qui al suo esordio solistico con il supporto di J.C.
Cinel (a sua volta titolare di una lunga carriera tra prog e roots-rock) per le linee vocali.
Incuriosisce molto l’eterogeneità della scaletta, tale da rendere arduo mettere a fuoco una
linea precisa tra roboanti cavalcate hard jam alla Gov’t Mule (gli undici minuti di “Good
Morning”) e più convincenti strizzate d’occhio ad un country blues resofonico (“Street Of
Love”) piuttosto che trasfigurato in mesmeriche ballate da bivacco (“The Day Of The Witch”).
Come di consueto non mancano un paio di doverosi omaggi: da una “Supersition” che
continua a suonare sudata da strizzare, fino al Billy Gibbons della non troppo nota “Sure Got
Cold After The Rain Fell”, uno slow già riproposto anni fa da Buddy Whittington.
Un disco di certo assai apprezzabile per gli amanti del genere, a tratti penalizzato però dalla
tentazione di inseguire suggestioni un po’ troppo diverse tra loro.
Contatti: www.myspace.com/jimibarbiani
Carlo Babando
Pagina 39
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Numero Marzo '11
Kalafro
Resistenza Sonora
Relief
Un po' come se fossero tornati i tempi delle posse. Da un lato fa strano, perché sembra
veramente di essere finiti in uno strano buco spazio-temporale (quell'esperienza è stata
tanto intensa allora quanto dimenticata successivamente); dall'altro è molto piacevole.
Piacevole, perché ritrovarsi ad avere a che fare con una musica e soprattutto dei testi che
non hanno paura ad essere smaccatamente politici, ai limiti dello sloganismo e dello
luogocomunismo, è una boccata d'ossigeno dopo tutti questi anni di ripiegamento sul
personale e/o su un immaginario poetico-astratto-emotivo. Sì, un po' ci vuole. Anche perché
in nessun modo si possono accusare quelli del collettivo Kalafro di essere opportunisti: nei
primi anni '90 ad un certo punto si gettava nella faccenda posse anche il lattaio sotto casa,
con la speranza di essere invitato in televisione dalla Dandini, nel 2011 non può che essere
una scelta convinta che, sulla carta, può portare molti più svantaggi che vantaggi.
“Resistenza sonora” è piacevole anche per un altro motivo, altrettanto sostanziale: usa sì le
solite armi di rap, reggae e raggamuffin', ma le usa bene, con un alfabeto sonoro che se da
un lato paga evidenti omaggi ai modelli originari, dall'altro è curato bene e non ha niente di
certo sconfortante ed esplicito dilettantismo (che è quello che affossò il grosso della
faccenda posse). Insomma, parere decisamente positivo per questa operazione. Lo
meriterebbe già per un'altra scelta di fondo, quella di legarsi all'attività del “Museo della
'ndrangheta” (“Un'operazione culturale [...] che si occupa di ricerca, analisi, attività e
programmazione sul territorio con il fine di realizzare una conoscenza oggettiva della
mentalità diffusa su cui l'elemento criminalità organizzata attecchisce”), così come per il
coraggio di suonare pop e comprensibile pur essendo schieratissimo e (contro?) culturale.
Contatti: www.kalafro.it
Damir Ivic
Pagina 40
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Numero Marzo '11
La Fonderie
Downtown Babele
autoprodotto
Non so molto dei La Fonderie, se non che sono all’esordio, sono autoprodotti e che
vorrebbero toccare il cielo con la musica ma si dichiarano già sconfitti in partenza. E’ un
buon inizio. Ed è un buonissimo inizio anche “Cosa guardi in TV”, un’ode al contrario del
mezzo televisivo, un bel pezzo tirato cui raccomando l’ascolto in periodo post-Sanremese. Il
resto del lavoro poi si dipana sui binari abbastanza canonici di un rock in italiano in cui a
prevalere sono i momenti controllati, e dove ogni tanto ci si imbatte in ritmiche 4/4 quasi
dance (“Esseri umani”, un potenziale singolo) o negli inserti pop di “Ipnopolizia”. Il cantato è
buono ed i testi sanno essere espressivi senza scadere nel banale, peccato solo per
qualche brano non perfettamente a fuoco, non mi fanno impazzire “Come scivola un vestito”
e “Autostrade”, perché le potenzialità ci sono. Cosa manca ai La Fonderie? Qualcuno che
creda in loro ed investa tempo e denaro, son quasi pronti per il grande salto.
Contatti: www.myspace.com/lafonderieband
Giorgio Sala
Pagina 41
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Numero Marzo '11
Labirinto di Specchi
Hanblecheya
Lizard/Bft
Dopo alcuni di attività e il demo “La maschera della visione”, debuttano ufficialmente il
Labirinto di Specchi, che sin dal nome rimandano all’epoca d’oro del pop italiano, quando Le
Orme, Banco e PFM dominavano le classifiche. Ma il cordone ombelicale non si limita a
richiamare uno stile omaggiato ancora oggi da moltissimi gruppi, non solo nazionali, perché
il quartetto di Siena, che impone alle proprie composizioni un taglio strumentale, ha scelto
come voce narrante quel Paolo Carelli, noto nel giro, per aver dato voce nei Settanta
all’unico capitolo discografico dei Pholas Dactylus, “Concerto delle menti” (recentemente
ristampato e dai contenuti incredibilmente attuali, a testimonianza della sensibilità lirica del
Capelli), e che anche tra questi solchi sembra possedere il tocco magico di individuare in
poche frasi, mali, vizi e virtù di un uomo, di un mondo che cambia per restare uguale.
Chiaramente la scrittura ha elementi nuovi e al prog si aggiungono tratteggi di post rock e
qualche . Non sempre tutto è fluido, ma “Hanblecheya” (un rituale Lakota per chiedere una
visione, che possa aiutare scelte future; e quanto ce ne sarebbe bisogno oggigiorno di una
visione chiarificatrice) resta un album bello e spiazzate, colto senza essere austero. Siate
curiosi, potrebbe piacervi anche se non siete cultori del prog rock.
Contatti: www.myspace.com/labirintodispecchi
Gianni Della Cioppa
Pagina 42
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Numero Marzo '11
Lino Straulino
L'alegrie
Nota
Lino Straulino aggiunge un altro tassello a una splendida, ormai ventennale, carriera. Poeta
valligiano della Carnia, Straulino taglia il traguardo del mezzo secolo (auguri!) con
incantevole giocosità: “L'alegrie” è una collezione di dodici brani tradizionali, cantati in lingua
friulana, tutti riarrangiati in chiave country-blues. Disco suonato in totale solitudine, anche se
non si direbbe affatto: Lino alterna e sovraincide banjo (lo strumento principale di
“L’Alegrie”), chitarre a 6 e 12 corde elettriche e acustiche – tra cui una Gibson del ’69
ereditata da un vecchio freak californiano –, basso, armonica, percussioni, vibrafono e
persino scacciapensieri. Il blues del delta del Tagliamento si declina in gospel “santified”, da
chiesa battista (“Chê di Mieli”), in ballate crepuscolari (“Chê da las gnoces”), in
bluegrass pizzicati (“Chê di Sudri”), persino in cineserie (“Chê dai pulcs”).
Il folksinger friulano canta la vita, la bellezza di tutto quello che è più semplice e a portata di
mano, solito e caro: la giovinezza, la montagna, il vino, il sabato, i grilli, il caffè, Udine. E
naturalmente Sutrio, l’antico borgo che gli ha dato i natali e nel quale vive. È un sincretismo
divertente e vitalissimo, quello a cui dà vita il country carnico di Straulino, con ambientazioni
alcoliche da saloon (“Chê dal vin”), rodeo soleggiati (“Chê da l’alegrie”), meriggi
vagamente alla Sergio Leone (“Chê dal gri”). Sempre con felicissima vena, quasi che
l’età portasse in dote a Lino Straulino non ripensamenti e ombrosità, ma piuttosto una
leggerezza sorridente. Che forza, il Tagliamento Blues!
Contatti: www.myspace.com/linostraulino
Gianluca Veltri
Pagina 43
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Numero Marzo '11
Luigi Mariano
Asincrono
autoprodotto
Luigi Mariano, ovvero un cantautore che ha fatto sua la lezione di Rino Gaetano ed Edoardo
Bennato in quanto ad ironia, ma che non nasconde la classe e la potenzialità vocale
raffinatissima di Francesco De Gregori. Il suo disco d’esordio, “Asincrono”, è una bella
dimostrazione di tutto questo. Parte con l’allegria de “Il giorno no” ma subito dopo la butta in
polemica politica con “Il negazionista”, passa dalla graffiante “Rai libera!” alla personale,
toccante, tristezza di “Edoardo”. “Questo tempo che ho”, “Solo su un’isola deserta” e “Il
singhiozzo” rientrano in questi canoni, giocando fra la critica feroce e la burla. Nell’ultimo
caso il ricordo arriva addirittura a Giorgio Gaber, di cui Mariano è evidentemente innamorato.
“Asincrono” è l’episodio più riuscito del disco, la fotografia perfetta di questo cantautore
nuovo in tutti i sensi, nel panorama attuale italiano. “Non ti chiamerò” è una storia d’amore,
seguita dalle notevoli “Il solito giro di blues” e dalla necessaria “Cos’avrebbe detto Giorgio?”.
Con “Canzone di rottura” si torna all’ironia, mentre “Intimità” chiude un progetto ben
costruito, ben suonato, lineare, coerente, da autore completo. La musica è raffinata ma
divertente, mai noiosa, e calza a pennello sui testi non indifferenti dei brani. Da tempo
impegnato anche nelle traduzioni in italiano e nella conseguente riproposizione di diverse
canzoni di Bruce Springsteen, il ragazzo di Roma farà certamente parlare di sé, ma
ovviamente solo all’interno della ristretta cerchia del cantautorato italiano autoprodotto.
L’unico spazio che ormai sembra rimasto a tutti gli artisti di talento nel nostro bel (?) Paese.
Contatti: www.myspace.com/luimariano
Marco Quaroni
Pagina 44
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Numero Marzo '11
Mauve
The Night All The Crickets Died
Face Like A Frog
Giunti al secondo parto discografico, i verbanesi Mauve si lasciano accompagnare per
mano da Andrea Rovacchi, produttore e manipolatore dei viaggi lisergici dei Julie’s Haircut.
Strisciando nelle lande devastate dai feedback lancinanti di casa Sonic Youth, il quartetto
viene intaccato dal germe di un senso melodico dal tatto trascinante, dove accordi
prettamente punk pop sfociano in cavalcate noise dissonanti e fragorose, ammaestrate dalla
rigidità new wave inglese. Colpiscono nervi scoperti la spavalderia e la capacità di saper
dare adito con la giusta dovizia a queste due (o più?) anime tormentate che convivono nei
Mauve, accartocciandosi l’una sull’altra generando una sfera di suoni senza grinze. Fanno
da contrappunto “Ahab” (che sembra fuoriuscire direttamente da “Dry”) col suo finale in
preda agli spasmi, “Ludovico” morsa dalla ritmicità marziale della new wave che sfocia in
ritornelli pop punk appiccicosi, o nell’angst-noise di “Grasshopper In Your Hands”. Anche
dove la tensione scende momentaneamente, la band dimostra personalità e sentimenti a
cuore aperto, infilandosi nelle fitte trame shoegaze di “Decay” e nelle sinistre atmosfere
spectoriane di “Hang Over”. Territori e suoni a loro modo affini, che in “The Night All Crickets
Died” trovano la giusta amalgama ed il collante adatto a tenere in piedi un disco privo
d’incertezze. Caratteristiche che delineano una band sì derivativa, ma che riesce a brillare di
luce propria e di una personalità che esce fuori senza troppa timidezza. Un disco italiano che
non ha – fortunatamente, visto il contesto – nulla di italiano.
Contatti: www.myspace.com/feelmauve
Luca Minutolo
Pagina 45
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Numero Marzo '11
Med In Itali
Bruco
Hertz Brigades/Mood
La copertina del CD è una farfalla blu, il titolo è “Bruco”: l'associazione mentale è facile, non
la spieghiamo. Dentro al CD, invece, questo ve lo spieghiamo, ci sono sei canzoni, per un
totale di venticinque minuti, che sono il seguito dell'EP “Soluzione”, esordio dell'anno scorso.
Nelle canzoni, infine, c'è un basso esageratamente funky, una chitarra nervosa e poco
presente, una batteria e una voce anch'esse molto funky, con tanto di spostamento d'accenti
e melodie sghembe, e un sax abbastanza invadente che copre un po' tutto il disco e che,
alla fine, diventa quasi antipatico. Ora, non è che noi si voglia tagliare le ali ai torinesi Med In
Itali, però l'associazione mentale che ci eravamo fatti all'inizio, quella della farfalla e del
bruco, viene un po' a cadere, e sembra quasi che il bruco stenti a bucherellare la sua
crisalide, rimanendo imbrigliato in un canone funky anche un po' cantautorale, ma
decisamente inquadrato e con poco brio. Impeccabili gli arrangiamenti, anche dove
rimangono volutamente sporchi. Ma non bastano, probabilmente, per spiccare il volo.
Contatti: www.medinitali.info
Marco Manicardi
Pagina 46
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Numero Marzo '11
Owls
The Night Stays
Rare Noise
C'è poco da fare: se avete anche solo un'oncia di simpatia per la wave darkettona anni 80 la
voce di Tony Wakeford dei Sol Invictus non potrà che suonarvi inevitabilmente seducente.
Tanto più che il nostro amico pare ormai definitivamente fatto pulizia delle stronzate in
gioventù (iscriversi al British National Party, citare a cazzo Evola, flirtare pesantamente con
la galassia neo-fascista facendoci pure l'attivista). La deriva di certa dark wave e di tutto il
caravanserraglio neo-folk verso il nazistoidismo è una barzelletta che non ha mai fatto
ridere, è bene ripeterlo sempre e comunque conservandone memoria, senza limitarsi a certe
asettiche ed aproblematiche ricostruzioni da comunicato stampa. Nel progetto Owls
Wakeford comunque si è preso dei compagni di viaggio al di sopra di ogni sospetto, gli
italiani Eraldo Bernocchi e Lorenzo Esposito Fornasari. Il primo, soprattutto, è uno dei best
kept secret della scena nostrana, musicista e produttore in grado di parlare da pari a pari
con alcuni dei maggiori jazzisti e sperimentatori a livello mondiale. La sua mano si sente:
l'uso dell'elettronica è elegante ma si accompagna sempre e comunque ad una cultura
musicale che incorpora la wave anni 80 per frequentazione diretta e non solo per sentito
dire. Il risultato è un disco che riesce a suonare abbastanza attuale e strettamente filologico
al tempo stesso. Un ibrido tra folk, new wave e trip hop dove forse mancano picchi
compositivi eccelsi ma dove la qualità è comunque costante ed interessante. Brano più
riuscito è “The New Parade”, dove si incontra il miglior equilibrio tra voce, arrangiamenti e
cambiamenti dinamici della struttura del pezzo – insomma, è la traccia più fluida e al tempo
stesso la più affascinante. Riassumendo: cibo per nostalgici ma con una qualità e una
vivacità creativa sufficiente a non farsi derubricare come stanco revivalismo, accattivante
bignami per i giovinetti che certe sonorità le hanno conosciuto solo per sentito dire (tipo
grazie ai DJ da circolo ARCI che, almeno una volta a sera, un pezzo dei Joy Division nei loro
set lo mettono).
Contatti: www.rarenoisestore.com
Damir Ivic
Pagina 47
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Numero Marzo '11
Phaedra
Ptah
autoprodotto
Abbracciando la soluzione del concept album, fra le più tipiche e storicizzate dell’epopea del
progressive settantiano, i trentini Phaedra confezionano finalmente il loro ufficiale debutto
discografico, a coronamento di un’attività quasi ventennale. “Ptah” è un racconto in musica
che covava da anni nelle intenzioni e nelle composizioni di Claudio Bonvecchio (basso,
chitarre acustiche), Stefano Gasperetti (chitarre, tastiere), Claudio Granatiero (voce, testi),
ipotesi di un pianeta distrutto da cui fuggire. Dunque il distacco ed il viaggio verso un nuovo
mondo per il protagonista Ptah e suoi simili diventa inevitabile. E allora via, attraverso la
leggenda di Atlantide, con appresso un bagaglio di malinconica nostalgia, lasciandosi cullare
da fragranze elettro-acustiche, in un viatico sinfonico a tinte folk, arricchito da violini e flauto,
in un gradevole gioco di intarsi. Il peccato originale del rock progressivo (detto con ironia,
perché ibridazione e contaminazione dovrebbero comunque far parte di una cultura musicale
aperta), ovvero l’incontro tra rock e musica classica, concede dunque nuove fascinazioni, nel
caso dell’ensemble trentino senz’altro impreziosite dalla sezione “cameristica”. Un connubio
da cui scaturisce una buona unitarietà stilistica, certamente debitrice, crediamo con
orgoglio, di nomi come Yes (la timbrica e la vocalità di Granatiero ad esempio, pur non
sempre ottimale), Genesis, Le Orme, ricca di momenti spesso pastorali, a volte pieni di
enfasi. Il viaggio, invero un tantino estenuante (75 minuti), non persegue del resto brame di
originalità, bensì accoglienti ed evocative tessiture e melodie. Sonorità dunque epiche e
rassicuranti dunque, più della controversa avventura di Ptah, che infine fugge dagli esseri
umani, deluso dall’odio e dalla propensione alla guerra in cui ricadono ineluttabilmente.
Quanto basta per poter dare invece un convinto benvenuto ai Phaedra nel mondo
(discografico) dell’art-prog-rock, assieme a ragguardevoli concittadini come i Runaway
Totem e gli Universal Totem Orchestra. Tutte storie tuttora attive, mica da poco.
Contatti: www.phaedramusic.it
Loris Furlan
Pagina 48
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Numero Marzo '11
Public
Oracolo
Lavorare Stanca-Fosbury/Audioglobe
Si sente un po' la mancanza, nel panorama musicale della penisola, dei Northpole, band
protagonista di una coraggiosa evoluzione in direzione di un pop sofisticato e immediato allo
stesso tempo, cantato in italiano, che non ha mai raccolto quanto seminato in una lunga
gavetta. I Public colmano in qualche modo quell'assenza, ma per vie differenti, al di là della
presenza in formazione di Paolo Beraldo, voce e chitarra del gruppo veneto. Il talento pop,
l'immediatezza spigolosa dei Northpole si immerge in un panorama più vario, che ama
indulgere in deviazione e cambi di atmosfera, mettendo insieme una certa stilizzazione new
wave con, ad esempio, assoli di chitarra vagamente jazzati ma robusti, mai eccessivi,
comunque densi e corposi (un nome che ci viene in mente a tratti? Karate), facendo
supervisionare l'operazione a Fabio Del Min dei Non Voglio Che Clara, il quale si spinge e
rinforzare con (azzeccatissimi) fiati e tastiere vintage la sofisticata “Storia di una ballerina”.
Fiati che si fanno ancora più robusti e quasi funk ne “Il Lato magico della strada”, mentre
“Nel 2020” spinge fino a fondo l'animo rock del progetto. Difficile scegliere il meglio tra
canzoni tutte quante di buona caratura, ciascuna ha il pregio di indagare una atmosfera
particolare senza perdere di vista una scrittura mai banale.
Contatti: www.publicmusic.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 49
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Numero Marzo '11
Rusties
Wild Dogs
Tube Jam/Egea
Sbagliato considerare “Wild Dogs” l’opera seconda dei Rusties, dacché il gruppo lombardo,
prima di quel “Move Along” che nel 2009 gli faceva conoscere alfine i meritati fasti, aveva già
alle spalle una solida carriera internazionale come “tribute band” di Neil Young foriera di ben
quattro tacche sul fucile (dettaglio non da poco se si considera che il disco sarà distribuito
dalla Egea in Italia e nel resto del mondo dalla stessa Glitterhouse che ha in catalogo
Wovenhand e Willard Grant Conspiracy). Lungo gli undici episodi di “Wild Dogs” – la cui
lingua continua a essere l’inglese ma che pare già suggerire tra i solchi un potenziale tutto
(in) italiano – “i rugginosi” seguitano a macinare un convincente rock di matrice americana in
cui le consuete coloriture westcoastiane vengono ora scalfite con gusto da stuzzicanti
intuizioni pop e funk (l’accalappiante “Lose My Love” su tutte). Merito di un organico oramai
totalmente in grado di misurarsi con generi non sempre affini senza sacrificare la propria
cifra stilistica, che per quanto per sua stessa natura derivativa risulta comunque piacevole e
in qualche modo “completa”. Ma, va detto, merito anche di una produzione (quella dello
stesso Marco Grompi, voce e penna principale) che ottimamente si destreggia tra country e
folk, pennellando di violino e cori inebriati d’Africa le parentesi più introspettive (“Oh Rory”,
dedicata a Rory Gallagher) e incendiando di chitarre distorte quelle più aggressive (“The
Ungrateful Child”). Un approccio viscerale e appassionato quello dei Rusties, che facilmente
fa chiudere un occhio su qualche ingenuità.
Contatti: www.myspace.com/rustiesband
Carlo Babando
Pagina 50
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Numero Marzo '11
Saint Lips
Charm
Dcave/Audioglobe
Dopo l’esordio “Like Petals”, acclamato dalla critica e dai favori del pubblico, i Saint Lips si
sono trovati ad affrontare il fatidico secondo album, che non è il terzo - traguardo con il quale
o si salta l’ostacolo o (spesso) si muore – ma rimane un punto di arrivo ugualmente
importante, soprattutto se si ha la necessità di confermare e magari migliorare quanto di
buone sin qui fatto. A conti fatti “Charm”, registrato alle Officine Meccaniche di Milano,
supera la prova, e il quintetto romano, guidato in fase di produzione da Bobby Macintyre e
circondato da ospiti importanti anche internazionali, sfodera una buona personalità, senza
stravolgere il proprio stile, che rievoca REM, Pixies, certi Nirvana meno incalzanti, ma altresì
un pop rock dal taglio femminile, tipo Garbage e Blondie, rievocato dalla voce passionale e
sicura di Valentina Barletta. Curiosamente i Saint Lips sono stati definitivi sia vintage che
moderni, a testimonianza dell’imprevedibilità del loro suono. Tra i dodici pezzi che
addobbano “Charm”, il mio gusto vi suggerisce l’opener “Saviour”, “Summer Rain”, “White
Fly” e l’andatura vagamente dark di “Angel”. Senza compiere l’auspicato salto di qualità i
Saint Lips riescono comunque a testimoniare il loro ottimo stato di forma e la qualità di certo
rock a tutto tondo italiano, ma proiettato da tempo fuori dai nostri confini.
Contatti: www.myspace.com/saintlips
Gianni Della Cioppa
Pagina 51
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Numero Marzo '11
SansPapier
Manuale d’uso per giovani inesperti
Imago Sound
Ciò che colpisce subito di “Manuale d’uso per giovani inesperti” è la particolare confezione
digipack, che si apre con tanto di corposo libretto con testi ripartiti tra prefazione, capitoli,
epilogo, glossario e indice. Una scelta che suggerisce grande attenzione per l’uso della
parola, approcciata con ottica sia cantautorale sia ironica. Al primo album a seguire l'EP
“SettevolteZeta” del 2007, i SansPapier vogliono perseguire due obiettivi: fare pop-rock e
farlo giocando, allontanandosi da ogni possibile punto di riferimento. Mica facile, eh. L’aiuto
in studio di Ottavio Leo ha spinto verso una strumentazione che ingloba persino vocoder e
percussioni giocattolo, ma le frecce al proprio arco sono attitudine stravagante, energia
comunicativa, efficace utilizzo della voce femminile e maschile. Valeria, Già, Antonio, Andrea
e Vincenzo teorizzano che “I Giovani Inesperti non sono ancora spaventati” bensì “casti e
puri nella loro natura”, mentre i “Giovani Esperti e gli adulti teorizzano paure” concludendo
che “Il disagio non è giovanile, è adulto!”. Tutto apprezzabile, così come la freschezza con
cui si succedono le nove tracce in scaletta, sebbene non sempre le ciambelle riescano con il
buco e a volte l’interesse provenga più dalle gustosissime citazioni che non dai risultati
compositivi. L’imperfezione, del resto, fa parte di una ricetta con retrogusto fra
Üstmamò, Mariposa, Piet Mondrian e S.U.S.. Una maggiore esperienza potrebbe
rivelarsi a sorpresa il valore aggiunto delle prossime mosse.
Contatti: www.myspace.com/sanspapierband
Elena Raugei
Pagina 52
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Numero Marzo '11
Sursumcorda
La porta dietro la cascata
Egea
Quando ti ritrovi fra le mani il doppio CD dei Sursumcorda “La porta dietro la cascata”, con
la sua elegante custodia cartonata, semplice e perfetta nella veste tutta bianca, dopo aver
sorriso pensando a un “White Album” italiano, viene da maledire il conclamato de profundis
al supporto fonografico e il downloading, con la sensazione di trovarsi al cospetto di uno
scrigno pieno di perle preziose, musicali ed emozionali, da custodire amorevolmente fra le
nostre cose care. Sia chiaro, non è solo la confezione, ma soprattutto il sospetto e la
cognizione preventiva, già conoscendo quanto di poetico e di incantevole ci aveva fatto
conoscere il quintetto toscano coi precedenti “L’albero dei bradipi” e “In volo”. E’ dapprima
una questione di sensibilità, di magia, di scrittura, poi ogni canzone o brano strumentale fa
chiarezza da sé, con stupefacente equilibrismo tra mestiere, talento e leggerezza , tra umori
folk e arrangiamenti finemente cameristici o velati delicatamente di jazz. “La porta dietro la
cascata” disvela antichi amori sopiti, con la voce da fragile, ma sicuro, crooner cantautoriale
di Giampiero “Nero” Sanzari (sovviene il poetico intimismo di Paolo Benvegnù a flirtare col
Capossela più malinconico) a suo agio fra scenari acustici da piccola orchestra, a
raccontare della “Bambina che schiaccia i pinoli”, de “La valigia di cartone”, di una “Nascita
nuova” e di amori de ”Il Palazzo”. Tante immagini e melodie toccanti, rafforzate dagli archi
filmici ed evocativi, dalle chitarre che duettano sottovoce col piano verticale. Una dimensione
strumentale che diventa efficacemente esaustiva e protagonista nelle dodici tracce
denominate “Frattale”, di cui nove sono parte del secondo cd, a ribadire la straordinaria,
struggente bellezza espressiva dei Sursumcorda, in prospettiva finemente e
fantasiosamente filmica, non a caso dediti da anni a musicare documentari d’arte (citiamo la
mostra su Liu Bolin, l’artista “Camaleonte”, che ha utilizzato le musiche di questo cd). Con o
senza parole, la meraviglia e la poesia sempre alla grande, senza flessioni, arricchite pure
da ospiti pregevoli come Massimo Germini (charango e bouzouki, già con Milva, Van De
Sfroos, Vecchioni) e Gianfranco Grisi, cristallarmonicista di Capossela.
Contatti: www.sursumcorda.it
Loris Furlan
Pagina 53
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Numero Marzo '11
Tetuan
Tela
I Dischi del Minollo/Brigadisco/Onlyfuckingnoise
I fermani Tetuan sono un power-trio invischiato nelle limacciose acque del post rock dagli
angoli acuti e pungenti. Tela, loro disco d’esordio, ha i tratti indefiniti di un EP di rodaggio
che affila sei sferzate noise rock psicotiche e corpulente, come la compianta Touch And Go
ci ha imboccato per anni. Laddove le interazioni tra chitarre abrasive, bassi distorti e batterie
incalzanti costruiscono un rock nervoso, aggressivo, colmo di contrappunti ritmici (“Dylan
Dog” colpisce dritta allo stomaco senza far complimenti) e dissonanze elettriche, il trio difetta
di personalità nelle febbrili cavalcate strumentali (“Dio? Solo un allucinazione sonora”), in cui
la totale assenza di apporti vocali pesa sulla scorrevolezza di un disco lineare, avido di
decisivi colpi di scena. Inoltre, negli episodi in cui la tensione scende, i Tetuan non riescono
a rimanere a galla tra le maree post rock psichedeliche da cui si lasciano trascinare, come
nella ossessività reiterata di “La tregua” o nel Post Rock accademico di “Apolide”. Chiude il
giro l’intreccio di dissonanze e turbamenti “Mambo Jumbo”, le cui pareti ansiogene si
spalancano in una paranoica danza noise tribale, fra percussioni in preda a sussulti
primordiali, chitarre angolari e canti atavici. Potrebbe essere questa la giusta via di fuga da
un effetto boomerang, seguendo sviluppi vocali (come l’ottima francesizzata “La chambre”) o
esplorando sentieri alternativi e sperimentali, di cui la finale “Mambo Jumbo” ne è un piccolo,
ma significativo, sussulto. Cambiando l’ordine degli addendi, in musica, il risultato cambia.
Contatti: www.myspace.com/tetuan_ofn
Luca Minutolo
Pagina 54
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Numero Marzo '11
The Doormen
The Doormen
autoprodotto
Formati in provincia di Ravenna, i Doormen uniscono gli strumenti e le influenze musicali di
Vincenzo Baruzzi, Luca Malatesta, Marco Luongo e Nicola Monti. Una formazione classica,
con due chitarre, basso e batteria, alle prese con un mix “di punk, r’n’r, new wave e
post-rock”. Dal primo EP autoprodotto sono stati fatti non pochi passi avanti, se l’omonimo
esordio sulla lunga distanza è stato co-prodotto e mixato da un esperto come Paolo Mauri
(Afterhours e chi più ne ha, più ne metta). Oltre a prediligere sonorità analogiche, il quartetto
si impegna nel redigere testi che rappresentano le attuali difficoltà vissute dall’uomo
comune, passando dai facili costumi alla depressione, dalla vacua ossessione dell’apparire
alla timidezza che troppo spesso tarpa le ali. La traccia d’apertura, “Italy”, parla della
mancanza di controllo del nostro paese allo sbaraglio: sentirla cantare in inglese, con piglio
graffiante e un debito verso melodie smaccatamente angloamericane, fa un certo effetto. Le
sonorità del dischetto si contraddistinguono per buona fattura e non sfigurerebbero
paragonate e molte proposte internazionali, ma delle volte ciò che manca pare essere
proprio un pizzico di maggiore riconoscibilità. Sarà per via del cantato sarà per via della
cupezza delle atmosfere, vengono spesso in mente degli Interpol più aggressivi del solito,
oppure dei Maxïmo Park meno scanzonati, degli Arctic Monkeys meno adolescenziali.
Il che può far riflettere e può esser preso al contempo come un complimento.
Contatti: www.myspace.com/thedoormenmusicitaly
Elena Raugei
Pagina 55
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Numero Marzo '11
The Ex KGB
I Putin
Prosdocimi
Nome e titolo possono creare qualche imbarazzo, ma quando si innesca la miccia del primo
pezzo, dedicato al monicker del gruppo, gli Ex KGB mettono immediatamente le cose in
chiaro: poca politica e maximus rock’n’roll. D’accordo il titolo del CD, “I Putin” è bizzarro e i
testi azzardano delle lontane origini venete del leader russo ed altre stravaganti teorie, ma
nell’esordio di questo trio veneto, si ascolta prevalentemente rock ad alto voltaggio, scritto
con uno stile personale, dove la tecnica macina groove a furia di funky-rock e ritmi sincopati,
come se i Police avessero deciso i Motörhead e quindi potete immaginare il risultato. I tre
protagonisti (Alberto Stocco, batteria e voce; Emanuele Cirani, Chapman stick, baso e voce
e Mike 3rd, chitarra e voce), che hanno elaborato “It Never Stops”, “Pussy Galore”, “Super
Gas”, non sono certo da degli sprovveduti, visto che vantano collaborazioni importanti,
inoltre l’album è stato prodotto da Ronan Chrys Murphy, uno che ha revisionato le musiche
di gente come King Crimson e Tony Levin, a cui faranno a breve da apertura del tour) e
l’utilizzo del Chapman Stick dimostra la volontà di muoversi su timbriche sonore non usuali,
a cui si aggiunge un brillante lavoro di chitarra. Credetemi “I Putin” è uno degli album più
sorprendenti che io abbia ascoltato negli ultimi mesi, energia ed intelligenza, un binomio raro
e spesso poco funzionale, ma che negli Ex KGB trova la giusta alchimia.
Contatti: www.myspace.com/theexkgb
Gianni Della Cioppa
Pagina 56
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Numero Marzo '11
The Oracles
Have A Nice Trip
Nexus
Ai primi accordi capisci già come butta. It's only rock'n'roll, siore e siori. C'è da esserne
contenti. Gli indie-rocker sono ì superiori che a certe cose nemmeno ci pensano. Perché
sporcarsi con dei riff quando possiamo fare arpeggini fringuelloni e usare dei tastierini che
fanno tanto auto-ironia? Questione di scelte. Siamo perfettamente consapevoli che “Have A
Nice Trip” degli Oracles non è un disco trascendentale capace di cambiare le cose e
colonizzare lo stereo, ma è un “feelgood record” fatto da gente che ci crede il giusto e si
ascolta con assoluto piacere. Anche perché la band non solo conosce alla perfezione la
materia – divincolandosi perfettamente tra ruvide influenze americane e melodici richiami
all’Inghilterra – ma ha l’ambizione di fare le cose veramente bene. Le canzoni sono state
registrate e prodotte in Italia ma masterizzate a Londra da Mike Marsh, già al lavoro con
Oasis e Björk.
“Have A Nice Trip” suona come parecchie canzoni revival messe assieme. Un po’ di Sixties
à la Yardbirds, qualche tocco tipo “primi Blur”, riffaggio esagerato marca Sub Pop, distorsioni
spudoratamente Mudhoney. Senza dimenticare qualche tamarrata di classe qui e là.
Se proprio vogliamo dirla tutta, oltre al divertimento manifesto, quello che manca a questo
disco sono le canzoni. Nel senso: a parte l’ottima costruzione, manca proprio quel qualcosa
in grado di farsi ricordare oltre l’ascolto episodico. Ma le basi sono ottime.
Contatti: www.oraclesband.com
Hamilton Santià
Pagina 57
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Numero Marzo '11
The Snail Knows And R. Sawake
How To Fail Twice
Hysm
Dietro questo pseudonimo impossibile da tenere a mente, si nasconde Enrico Russo, ex
voce, tastiere e mente degli sperimentatori avanguardisti Muzak. Abbandonati i fasti del
gruppo madre, i Snail Knows And R. Sawake si gettano a capofitto nelle gabbie asfissianti
dello sperimentalismo più acuto ed opprimente, che fa di “How To Fail Twice” un disco di
sensazioni e umori turbati, di dissonanze elettriche ed elettroniche, dalla forma mutevole ed
imprevedibile, dove voci narcotiche si mescolano a rumorismi tetri come incubi sfocati che si
avvicendano senza sosta. Un vero e proprio flusso di (in)coscienza, dove convergono stati
ansiosi e confusionali, atmosfere ovattate ed echi lontani di singulti ritmici e dissonanze, in
cui gli unici appigli sono i fluttuanti tocchi di pianoforte che appaiono come puntelli in tutto lo
scorrere inarrestabile del disco, difficile da separare traccia per traccia, ma che va vissuto e
capito nel suo insieme. Un insieme, appunto, di umori inarrestabili e saliscendi emotivi, come
un Mark Linkous che canta dall’oltretomba in preda a turbamenti psichici. Russo si diverte a
far brandelli di stili e generi, in un miscuglio imprendibile che per convenzione chiameremo
avanguardia, ma che andando a fondo, non significa assolutamente nulla. Guardare avanti.
Tra questi solchi, piuttosto, si scava all’indietro.
Contatti: www.myspace.com/rsawake
Luca Minutolo
Pagina 58
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Numero Marzo '11
Valerian Swing
A Sailor Lost Around The Earth
Antistar/Audioglobe
Post-rock? Math-rock? Post-core? Inutile sbizzarrirsi a trovare la quadra per la definizione di
ciò che fanno i Valerian Swing, avendo la band di Correggio deciso di (e costruitasi con
talento i mezzi per) cavalcare agilmente il crinale dell'onda che separa tutti questi generi.
Non è un caso, peraltro, che in consolle sieda Matt Bayles, già al lavoro con Mastodon, Isis
e Pearl Jam, e che in contemporanea all'uscita italiana questo album venga stampato dalla
statunitense Magic Bullet. Tra un omaggio ai King Crimson, quelli più spigolosi e geometrici
dell'era “Red” (“Le Roi Cremeux”, non c'è neppure bisogno di dirlo), squarci
atmosferico-elettronico-psichedelici che si insinuano tra le progressioni imponenti e snelle
del trio (“Nothing But A Sailor Lost Around The Heart”, amniotica ballata elettronica che
sfoggia un intimismo diafano ma che resta impresso), e fratture miste a crescendo in un
tripudio di colori (“It Shines”, e ancora una volta la corrispondenza tra titolo e contenuto è
azzeccatissima) che chiudono la scaletta riassumendone in maniera concisa e mirabile gli
sbalzi e gli umori, la robustezza a tratti metal e le aperture melodiche oblique, l'equilibrio
dell'insieme è impeccabile. Il tutto è incorniciato da soluzioni grafiche che rimandano ad un
antico manuale di biologia marina, suggestione che si aggiunge al giù di per sé suggestivo
impasto sonoro.
Contatti: www.myspace.com/valerianswing
Alessandro Besselva Averame
Pagina 59
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Numero Marzo '11
Vil Rouge
Immacolato caos
Studio Emme
Valeria Caliandro è Vil Rouge. Cantautrice e pianista di Prato, debutto di personalità. Al un
crocevia tra jazz, rock d’autore, classica. È come un canto notturno, quello della Caliandro,
che gioca tra paure e liberazione, senso di colpa e disobbedienza. In “Il lupo” – l’atmosfera è
alla Quintorigo ma più pop – la morale è che “l’uomo nero si nutre del tuo terrore”. Più in là,
la cantautrice si ritroverà “qua a cantare alla luna”, a riprendere il filo che aiuta a non
smarrirsi nel bosco. Il pianismo espressivo policromatico di Vil Rouge viene reso più corposo
da una band che annovera Jacopo Ciani e Elvira Muratore, violinista e violoncellista; dal
bassista Luca Cantasano (Diaframma), dal batterista e co-produttore Cristiano Bottai
(Üstmamò).
Alcuni episodi, sebbene sempre ben suonati, risultano un poco scolastici. I migliori risultati
si riscontrano nelle composizioni più rarefatte, meno “piene”, come la bella doppietta di
“Renée’s Lullaby” (due tracce consecutive con lo stesso titolo), che rimandano
rispettivamente a Kate Bush e Joni Mitchell. Melodrammatica in più d’un frangente,
progressive nella title track “Immacolato caos”, la spigliata autrice si concede una parentesi
in inglese e alt-folk-rock con “Unimpressive”, in duetto con il cantautore concittadino Sir Rick
Bowman, unico pezzo chitarristico della scaletta. Valida l’interpretazione del De André di
“Tutti morimmo a stento”: “Leggenda di Natale” al piano e per voce femminile aggiunge tinte
inattese al brano.
Contatti: www.myspace.com/vilrouge
Gianluca Veltri
Pagina 60
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Numero Marzo '11
Violaspinto
Indivenire
Mad Man
Sembra quasi che, solo perché una band sta dietro alle canzoni per due anni, poi si debba
parlarne bene per forza. Certo, il sapersi prendere i propri tempi è qualità apprezzabile in un
mercato oberato di ciarpame; ma se dopo anni le cose non vanno bene, non c’è molto altro
da dire che non: le cose non vanno bene. “Indivenire” dei Violaspinto è descritto da più parti
come un compendio (nostalgico, aggiunta mia) di indie italiani anni Novanta. Al sottoscritto,
più che un compendio, sembra un calco di umori e retoriche che, oltre a essere fuori tempo
massimo, suonano “altre”. Cioè, mesi e mesi di lavoro per partorire canzoni che ricordano
esattamente Afterhours, Marlene Kuntz, il giro Mescal, il giro Black Out e chi più ne ha più
ne metta. Non esattamente il massimo.
Ora, la domanda è: dove vogliono arrivare i Violaspinto? Chi ha una band dovrebbe essere
il più onesto possibile con sé stesso e con i suoi ascoltatori. Fare musica cercando di
inseguire non solo un modello così riconoscibile, ma un suono, un mood e un'attitudine
appartenenti a un preciso “spirito del tempo” risulta artificioso. Non metto in discussione la
passione della band, ma l’efficacia. “Indivenire” è proprio il genere di lavoro che può uscire
da una band nata nel 2000, all’apice massimo di quel movimento cui fa riferimento, e che
ancora pensa di vivere un eterno ritorno/eterna giovinezza senza considerare che il mondo è
cambiato.
Contatti: www.violaspinto.it
Hamilton Santià
Pagina 61
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Numero Marzo '11
YUT
YUT
Smoking Kills/Halidon
1985: un personalissimo cult movie annuncia che “I ragazzi di Torino sognano Tokyo e
vanno a Berlino”, lasciandoci totalmente all’oscuro circa le ambizioni e le speranze delle altre
gioventù italiane.
2011: i milanesi YUT (una gioventù più onomatopeica che sonica) annunciano al mondo
che, sognando un viaggio verso la no wave newyorkese, hanno forato una gomma facendo
tappa obbligata a Firenze. La Firenze del 1985.
Non citiamo a caso. Sono queste le metropoli che disegnano i confini del loro omonimo
disco di debutto, estremi stilistici che qui si traducono in un mix di elettronica e giri di basso,
mur(ett)i di chitarre e voce cavernosa. La voce, su tutto, una volta svangata l’introduzione
strumentale, inizia a mordere il microfono e sputare veleno, tra “Rolex di merda” e
“nichilismo a pacchi”, espresso in varie combinazioni grammaticali. Si coglie dell’ingenuità
nel sentire di “politici aitanti dai sorrisi abbronzanti” e “re di una cultura morente”, con testi
che mischiano attualità e teatro ioneschiano, ma si tratta di ingenuità ed esuberanza salutari,
diversi modi di tradurre una medesima urgenza espressiva. In tal senso, pur non suonando
“nuove”, canzoni come “L’incredibile” (di cui segnaliamo anche l’ottimo videoclip), “Zion” o la
conclusiva e impietosa “Luminoso & nero” sembrano fari nella notte, specie nel mercato
dell’indie italiano così perpetuamente rattrappito nell’intimismo amoroso e nell’ironia per
pochi eletti. A New York li accuserebbero: “Yelling Useless Things!”. Qui, nell’unico posto in
cui le loro unghie potevano lasciare qualche graffio, si sono garantiti un posto caldo. Sia noi
che loro, con la prossima prova ci aspettiamo qualcosa di più.
Contatti: www.myspace.com/yutband
Giovanni Linke
Pagina 62
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Marzo '11
EureKa 2
Esattamente un anno fa, presentandovi i quattro EP della serie “EureKa”, auspicavamo che
l’iniziativa avesse un seguito. Detto fatto, la Kandinsky Records e l’associazione
BandSyndicate hanno fatto il bis, sfornando una seconda ondata di mini-CD (cinque, questa
volta) di altrettante realtà emergenti bresciane, tutti caratterizzati da un’elegante veste
grafica e distribuiti nei negozi da Audioglobe.
Primi del gruppo, in rigoroso ordine alfabetico, sono i Newdress, con il loro pop-rock in
italiano raffinato e ricco di gustose contaminazioni electro-wave. Più vicino alla canzone
d’autore tradizionale la proposta di Giovanni Peli, per lo meno dal punto di vista delle
strutture compositive, ché a giocare il ruolo principale negli arrangiamenti, insieme
all’immancabile chitarra acustica, vi sono anche ricercati e sobri tappeti di tastiere e
programmazioni (nell’iniziale “Viale Venezia”). Interamente strumentale è invece la proposta
del Quintetto Žižkov, sospesa tra jazz e surf; mentre quello dei Seddy Mellory è un rock’n’roll
energico e vibrante che fa dell’impatto la propria caratteristica principale, affiancandolo a un
buon lavoro sulle melodie. Infine con i L’Ultimo Piano si ritorna in territori pop, un pop di
classe e avvolgente.
Dischi parecchio diversi, insomma, dal punto di vista delle sonorità e degli stili, ma ognuno a
suo modo interessante, tasselli di un puzzle che cristallizza una scena cittadina quanto mai
viva e vitale. Operazione nuovamente riuscita, allora, in attesa di vedere se, come vuole la
saggezza popolare, non c’è due senza tre.
Contatti: www.kandinskirecords.com
Aurelio Pasini
Pagina 63
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