Sviluppo_atipico_e_contesti_familiari_

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SVILUPPO ATIPICO E CONTESTI FAMILIARI
di Roberta Federico
INDICE
Prefazione
Pag.
2
I.
La famiglia del diversamente abile
“
3
II.
Relazione genitore-bambino
“
5
III.
Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA)
“
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IV.
Genitori e figli con DSA
“
8
V.
I Disturbi dello Spettro Autistico (ASD)
“
9
VI.
Genitori e figli con ASD
“
10
VII.
Il Ritardo Mentale (RM)
“
11
“
12
VIII. Genitori e figli con RM
IX.
La sindrome di down (SD)
“
13
X.
Genitori e figli con SD
“
14
Bibliografia
“
17
Fonti
“
21
1
Prefazione
Nelle buone pratiche, diverse sono gli esempi in cui è dimostrata l‟importanza dell‟azione educativa
dei genitori.
Ciò è ampiamente risaputo per la generalità dei casi ma, come insegna l‟esperienza
nell‟ambito delle disabilità, soprattutto per i soggetti a sviluppo atipico, cioè per i bambini
“speciali”. È dimostrato infatti che competenze e abilità educative della coppia genitoriale
determinano la variabile indipendente che segnerà e determinerà gran parte della vita in essere del
“bambino speciale”.
Fin dai primi istanti di vita, giorno dopo giorno i genitori si trovano nella necessità di
interpretare correttamente e rispondere con competenza ai suoi bisogni, armonizzando i propri
interventi educativi con quelli delle indicazioni medico-sanitarie e /o riabilitative.
Tutto ciò costituisce una sfida di non poco conto, sia per i molti dubbi che assalgono talora in
merito all‟efficacia dei diversi trattamenti che vengono prescritti, sia per le dinamiche personali
connesse all‟accettazione del “figlio speciale”.
In questi ultimi anni, grazie a una rinnovata sensibilità nei confronti dei problemi dello
sviluppo e dell‟educazione dei bambini a sviluppo atipico, si sono moltiplicati gli sforzi e le
iniziative volte ad assicurare interventi precoci, sia nel settore riabilitativo, sia in campo psicologico
e pedagogico. In particolare, gli addetti ai lavori hanno finalmente preso atto che, il ruolo educativo
svolto dalle figure genitoriali, non solo ha importanza cruciale, ma va anche sostenuto e formato.
La stessa modalità di approcciarsi alla studio della famiglia, in cui è presente un disabile, è
mutata profondamente rispetto al passato. Nel passato,
infatti, si teneva in maggiore
considerazione, direi anche “quasi esclusivamente” della madre e/o del rapporto madre-bambino,
mentre erano ignorati o posti in secondo piano altri fattori che investono direttamente e
quotidianamente il ruolo del padre, dei fratelli e degli altri familiari.
Altro cambiamento significativo ha interessato alcuni aspetti metodologici. In effetti,
l‟attenzione scientifica si è spostata progressivamente dall‟analisi delle reazioni intrapsichiche della
figura materna a quello delle condotte educative della coppia genitoriale, delle dinamiche
relazionali delle stesse, degli effetti e delle ricadute sull‟equilibrio emotivo-affettivo del bambino,
nonché del rapporto tra tale equilibrio e il realizzarsi dello stesso sviluppo cognitivo.
Per ciò che attiene alle dinamiche di disadattamento-sofferenza-riadattamento vissute dalla
madre e dalle altre figure del nucleo familiare, determinate dalla nascita del bambino “atipico”,
sono stati ulteriormente chiariti gli intrecci e le dinamiche dei processi che regolano l‟adattamento
complessivo del nucleo familiare per fare fronte a tale evento.
Pertanto, come già sostenuto dalla gran parte degli studiosi, l‟evento della presenza di un
bambino così speciale, produce i suoi effetti negativi anche sulle dinamiche relazionali del sistema
(famiglia), anche se tali effetti e ripercussioni possono sembrare non direttamente collegate.
I ricercatori si sono resi conto, in sostanza, che affrontare i problemi della famiglia di questo
bambino speciale, solo in un‟ottica intrapsichica e/o d‟intervento terapeutico riabilitativo, significa
perdere di vista le caratteristiche essenziali di questa entità sociale. Così si è potuto evidenziare che
l‟entità famiglia, anche se spesso travolta da difficoltà apparentemente insuperabili, non è
necessariamente destinata a crollare ed entrare in crisi, ma possa sopravvivere, adattarsi e trarre in
alcuni casi perfino effetti positivi.
Va precisato che tale sopravvivenza può avvenire non per un evento miracoloso, ma per una
serie di interventi specifici, per un cambiamento di ottica del problema, ma soprattutto per
cambiamenti delle singole persone.
Allo stato attuale della ricerca, rispetto alle necessità e ai problemi della famiglia, si ritiene
che l‟approccio di maggior efficacia sia quello di fare affidamento sulle risorse, forse non palesi nel
passato, presenti proprio nelle persone (genitori, adulti, ecc.), piuttosto che insistere, anche se in
un‟ottica terapeutica, sulle dinamiche connesse alla problematicità e difficoltà dei familiari e delle
relazioni degli stessi con questo bambino speciale.
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L‟obiettivo primario di questo lavoro diventa, pertanto, quello di favorire il potenziamento
delle abilità educative dei genitori, attraverso l‟acquisizione e il consolidamento delle stesse in una
prospettiva longitudinale: ovvero formazione, educazione e sostegno in itinere alla coppia (parent
training).
Come è risaputo, la prima e la seconda infanzia rappresentano un periodo in cui è possibile
incidere maggiormente sullo sviluppo cognitivo di ogni bambino. È un periodo molto delicato, in
cui si registra la maggior frequenza di errori di tipo educativo, commessi e reiterati da parte della
coppia genitoriale (cfr. Bonomo, 2000).
I. La famiglia del diversamente abile
È da alcuni anni che lo studio delle tematiche inerenti la famiglia del soggetto “diverso” si è
modificato significativamente, passando dall‟analisi di problemi e difficoltà alla individuazione dei
suoi punti di forza, delle sue risorse e competenze. È il sistema famiglia, infatti, che, in presenza di
un soggetto “diverso”, riscopre le necessarie risposte per far fronte al problema, attivando risorse sia
interne sia esterne.
“Tra gli ambienti che partecipano alla e della vita dell‟uomo, la famiglia occupa senza alcun
dubbio un posto privilegiato. La trama dei suoi legami, governata da regole, sotto l‟aspetto
pedagogico si costituisce come archetipo relazionale, suscettibile o d‟incanalare e incrementare o di
svilire e pregiudicare le potenzialità individuali” (Pati, 2004).
È proprio quando nasce un figlio “diverso” che nella famiglia si verificano cambiamenti nelle
relazioni familiari e nelle dinamiche psichiche, che dagli studiosi vengono suddivise in tre momenti.
Nel primo momento la famiglia, ignara e impotente rispetto alla nuova situazione che si è
generata al suo interno, è sconvolta dalla novità e dal dolore a cui seguono atteggiamenti
sostanzialmente di rimozione della realtà, caratterizzati dalla speranza nell‟errore diagnostico, in
una condizione patologica di minore gravità e reversibile; la famiglia tende a negare la condizione
patologica del bambino, una reazione negativa che voglia quasi mettere in dubbio l‟esistenza stessa
del bambino.
Un vissuto che conduce alla depressione e che può tradursi in dolore cronico. Lo stato
depressivo viene rappresentato attraversa le fasi di una vera e propria elaborazione del lutto:
 incredulità - in questa fase il soggetto ha rappresentazioni sensoriali visive o uditive circa la
presenza della persona persa, con tendenza a leggere allucinazioni;
 protesta – rabbia o sensi di colpa che possono essere presenti o meno;
 disperazione – il soggetto è depresso, apatico, rassegnato;
 accettazione – fase di realizzazione e riorganizzazione del proprio progetto di vita (Viorst,
2004).
In verità, il soggetto non transita da una fase all‟altra in maniera sequenziale, ma può oscillare
alternativamente tra l‟una e l‟altra. La fase depressiva consiste nel promuovere nel familiare un
momento di riflessione, tale da far valutare in lui il vuoto percepito a seguito della perdita e a
consentire una riprogrammazione del progetto della propria vita.
Il processo di elaborazione del lutto dura solitamente dai 6 mesi ad un anno. Anche se
dolorosa, il momento depressivo rappresenta una prima fondamentale fase di presa di
consapevolezza rispetto al problema, poiché rende possibile il passaggio dall‟idea del figlio
“normale” alla accettazione della realtà del figlio disabile.
Durante la seconda fase si contrappongono sensi di colpa a stati di rabbia. Dalla prima
disomogenea fase del pensiero, si passa ad una seconda più attiva, prevalentemente caratterizzata
da pensieri negativi. L‟alternanza di sentimenti negativi, di rabbia e frustrazione, producono
nella famiglia il senso del rifiuto e a desiderare la non sopravvivenza del figlio, a disconoscerne la
gravità della patologia, a rifiutare le cure e ad emarginare il figlio dalla vita familiare.
È nella terza fase, definita da Cunningham e Glenn dell‟adattamento, che i genitori accettano
il problema ed esercitano le “risorse emozionali” necessarie ad accompagnare la crescita del figlio,
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anche se si possono presentare crisi riconducibili alle antecedenti fasi, pur superate. È in questa
fase, nella convinta accettazione del problema, che registriamo una concreta operatività finalizzata
alla migliore crescita possibile del figlio.
In situazioni di maggiore gravità, in ciascuna delle tre fasi, la famiglia necessita di sostegno
psicologico mediante counseling psicologico o sedute di psicoterapia.
La nascita di un soggetto “diverso” risveglia sopiti stati di angoscia legati a precedenti vissuti
che turbano l‟equilibrio della famiglia e ne mettono in crisi il prestigio sociale, a testimonianza del
permanere dei condizionamenti in una società che si dice democratica ed egualitaria. Purtroppo, è
ancora presente il pregiudizio secondo cui l‟ereditarietà del problema può portare al suo
nascondimento e rifiuto, ritardando così i possibili interventi mirati e conducendo, in seguito, ad
esasperazioni terapeutiche nella speranza di esiti miracolosi. Con la nascita di un figlio “disabile” è
implicita la paura di altri concepimenti, non di rado accentuati da confusi e dubbi atteggiamenti
parentali che pregiudicano la vita sociale dei coniugi.
Conseguentemente alla consapevolezza della gravità del problema, accompagnata dalla
volontà di operare per il bene del figlio, occorre promuovere iniziative atte al sostegno e all‟uso
delle risorse interne alla famiglia, come la conoscenza del problema, la capacità di affrontare
razionalmente le situazioni problematiche, la sicurezza nei propri mezzi, la competenza
nell‟affrontare i problemi di rapporto con i figli, quali quelli educativi, la creazione di una
situazione di benessere psicologico in famiglia.
In tal guisa, la famiglia diviene soggetto attivo nel governare il suo problema e non
dipendente da servizi e prestazioni esterne. Nel contempo, si promuove ad esempio, stimolo e
risorsa per altre famiglie con azioni di mutuo sostegno. Contestualmente cresce nei soggetti
coinvolti sia la fiducia in se stessi, la convinzione di poter operare positivamente sia la fiducia nei
servizi, formali e no, operanti in un territorio, perché ispirati al principio delle community care
(Venturelli, Banai, 1994).
Gli interventi intrafamiliari in presenza di un bambino “disabile” sono fondamentali affinché
si attivi il percorso personalizzato, a patto, però che la famiglia sia capace di prendere
consapevolezza in tempi brevi della realtà del bambino e sia capace di una reale elaborazione del
lutto.
Se ciò non dovesse accadere, sia perché la famiglia ricerca la guarigione tramite il ricorso
ossessivo a cure specialistiche sia perché ritiene di poter agire in modo del tutto autonomo, la
famiglia correrebbe il rischio di non riconoscere il bambino per ciò che è, negandogli di poter
vivere in un contesto che, per quanto protettivo, sia prima di tutto emozionalmente dinamico
(Cerruti, 1995).
Viceversa, quando il bambino è considerato per ciò che è e identificato come soggetto
autonomo, si pongono le condizioni per un concreto percorso di crescita; condizione
imprescindibile per assicurare al bambino una evoluzione positiva è che non si desideri che sia
altro da quello che è (Mannoni, 1964).
Soltanto quando si realizzano le condizioni rappresentate, la famiglia diviene il contesto di un
effettivo sostegno dei possibili progressivi miglioramenti del bambino “disabile” e potrà
ulteriormente incidere durante il percorso del bambino a contatto con le differenti realtà con le quali
si dovrà confrontare, dalla scuola, agli specialisti, agli amici. A tal guisa, la famiglia sosterrà
psicologicamente il bambino negli ambiti che sono in lui i punti di debolezza: potrà stimolare,
fornendo un vocabolario più ampio, i soggetti con carenze di sviluppo del linguaggio; potrà
promuovere iter esperienziali di senso a soggetti con deficit cognitivi. La famiglia allora diviene
promotrice di risorse per la crescita del bambino “speciale”.
Tra i principali ostacoli al percorso evolutivo del figlio rileviamo la mancata previsione per
lui, da parte dei genitori, di prospettive di emancipazione e indipendenza. I genitori, o i familiari,
che si sostituiscono al figlio con deficit non fanno altro che peggiorarne la condizione, innescando
una infinita spirale che sfocia in una assoluta dipendenza del bambino e ad una sua esistenza senza
prospettive. I genitori devono poter scoprire in sé quelle risorse per la valorizzazione dei punti di
forza del figlio, a partire dalla madre. Anche un bambino “disabile” è in grado di crescere, di
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evolversi, di migliorare la propria autostima se i genitori lo sosterranno affettivamente e saranno
capaci di apprezzarne i progressi e accettarne gli insuccessi, invece di iperproteggerlo e di sostituirsi
a lui, negandolo.
La famiglia può configurarsi come la base, il punto di partenza per il successo del figlio
“speciale”, come può anche essere di nocumento al suo percorso di crescita, se non è consapevole
della necessità di fornire a questo suo membro speciale tutto l‟aiuto e il sostegno necessario
affinché egli sviluppi al meglio le sue risorse in funzione del miglior progetto di vita possibile.
Pertanto, è fondamentale che, superato il sopravvento di dolore, vergogna e sensi di colpa, la
famiglia si renda anche conto della necessità di chiedere aiuto.
Ciascuna famiglia usa strategie diverse in funzione dell‟adattamento: alcune preferiscono
vivere la nuova realtà giorno per giorno, altre adottano la strategia del colloquio aperto e franco tra i
coniugi in funzione della soluzione dei problemi che la realtà pone. Diverse coppie di genitori
affermano di aver tratto forza dai loro vissuti e di essersi arricchiti in termini di crescita personale. È
evidente che non è soltanto la reale gravità della situazione a determinare il livello di stress quanto
la rappresentazione percettiva che se ne ha.
L‟arrivo di un figlio con deficit in una famiglia può far registrare diverse reazioni, sia per
specificità di ruoli che per identità sessuali, possono anche portare alla rottura del rapporto di coppia
o generare una situazione di dipendenza reciproca che possono ostacolare l‟intervento esterno,
vissuto come prevaricatore e non necessario.
Un problema serio che si pone alla famiglia del soggetto “diverso” è quello del
“distanziamento educativo”. Educare significa anche fornire le competenze perché l‟educando
possa poi da solo muovere i suoi passi.
Con il “disabile” accade invece che si attui un processo di disadattamento, siamo in presenza
di una situazione di “troppo vicino”.
Con il “disabile” è molto difficile trovare il modo di promuovere in lui la giusta autonomia
incoraggiando un graduale allontanamento, come accade normalmente con tutti i figli, per
accompagnarlo nel percorso di conquista della propria autonomia, del pieno possesso della propria
esistenza.
La separazione è condizione indispensabile per la conquista da parte del figlio della propria
autonomia, ma questa può suscitare nel genitore sensi di colpa, in genere nascosti; si tratta, per il
genitore, di sostenere uno sforzo psicologico non indifferente, in particolare quando non gode del
supporto di esperti in grado di affiancarlo nella progettazione di un traghettamento verso un mondo
non facile né sicuro.
Si può ritenere che la non accettazione della separazione, vissuta come un rifiuto, dipenda
dalla paura di affrontare l‟inevitabile separazione rappresentata dalla propria morte.
Pertanto, si dovrebbe lavorare con i genitori perché si rendano conto che accompagnare il
figlio alla propria autonomia e indipendenza sia il miglior modo per progettare il «dopo di noi».
II. Relazione genitore-bambino
Un aspetto fondamentale che emerge dagli studi sulla relazione madre-bambino, è che i vissuti
relazionali avuti nei primi anni di vita influenzano in maniera determinante i processi mentali
durante l‟arco della vita (Venuti, 2007). Predisposizioni strutturali, funzionali e temperamentali del
bambino interagiscono con le predisposizioni dell‟adulto a fare il genitore e a condividere
empaticamente e sintonicamente gli stati mentali del bambino. Da questo gioco di scambi interattivi
e di comunicazione hanno origine la reciprocità relazionale e l‟intenzionalità del bambino, elementi
necessari per l‟attivazione delle strutture mentali più evolute tra cui la comunicazione gestuale e
verbale. È in questo gioco interattivo che si sviluppano le strutture e le funzioni cerebrali sulla base
del modo in cui le esperienze, in particolare quelle legate alle relazioni interpersonali, influenzano i
programmi di maturazione geneticamente determinati del sistema nervoso. La relazione fa dunque
da cornice allo sviluppo mentale (comunicativo, cognitivo) e cerebrale e ciò che attiva e regola la
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relazione sono le interazioni affettive. Se si verificano delle alterazioni o alle predisposizioni del
bambino o a quelle del genitore lo scambio interattivo può subire notevoli modificazioni che
porteranno ad alterazioni nella relazione e nell‟attivazione della reciprocità, della intenzionalità e
quindi nelle acquisizioni mentali e cerebrali ad esse connesse. Ciò appare in maniera evidente nelle
situazioni di sviluppo atipico, di cui le forme più frequenti sono i disturbi dello spettro autistico
(ASD) e il ritardo mentale (RM), che saranno descritte nei prossimi paragrafi.
III. Disturbi Specifici dell'Apprendimento (DSA)
Secondo una definizione del National Joint Committee on Learning Disabilities (in Cornoldi,
1999): “i disturbi specifici dell’apprendimento costituiscono un termine di carattere generale che si
riferisce a un gruppo eterogeneo di disordini che si manifestano con significative difficoltà
nell’acquisizione e uso di abilità di comprensione del linguaggio orale, espressione linguistica,
lettura, scrittura, ragionamento o matematica. Questi disordini sono intrinseci all’individuo, legati
a disfunzioni del sistema nervoso centrale e possono essere presenti lungo l’intero arco di vita.
Problemi relativi all’autoregolazione del comportamento, alla percezione e interazione sociale
possono essere associati al disturbo di apprendimento, ma non costituiscono per se stessi dei
disturbi specifici di apprendimento. Benché possano verificarsi in concomitanza con altre
condizioni di handicap (per esempio danno sensoriale, ritardo mentale, serio disturbo emotivo) o
con influenze esterne come le differenze culturali, insegnamento insufficiente o inappropriato, i
disturbi specifici di apprendimento non sono il risultato di queste condizioni o influenze.”
La definizione di DSA di cui sopra mette in rilievo la complessità di questa categoria di
disturbi. Da un aspetto, infatti, se ne evidenzia la specificità: i DSA sono caratterizzati da un deficit
funzionale a livello neuropsicologico identificabile attraverso precisi test strutturati e sono definiti
nei sistemi classificatori delle patologie mentali come Disturbi evolutivi specifici delle abilità
scolastiche (ICD-10) o Disturbi dell’apprendimento (DSM-IV-TR). Da un altro punto di vista,
però, si utilizza una categoria diagnostica declinata al plurale (“un gruppo eterogeneo di
disordini”), poiché comprende al suo interno diverse tipologie specifiche di disturbo (spesso
compresenti, almeno in parte, nello stesso individuo), ciascuna riferita ad una abilità: lettura
(comunemente definita Dislessia), scrittura, calcolo.
Secondo la definizione dei DSA del Njcld vengono evidenziati anche alcuni problemi
comportamentali che, sebbene non siano costitutivi né debbano essere definitori del disturbo
specifico, frequentemente sono associati ad esso. Generalmente si riscontrano nei bambini con DSA
difficoltà nell‟interazione sociale e nell‟autoregolazione del comportamento, con conseguenti
ricadute sul processo di socializzazione. Inoltre l‟autostima e la motivazione allo studio sono spesso
francamente minate.
Si ritiene significativa la proposizione di una riflessione su come il recente Manuale
Diagnostico Psicodinamico (PDM, 2008) sottolinei che lo sviluppo emotivo-relazionale generale
dei bambini con DSA è normale fino a quando non viene chiesto loro di eseguire compiti di
lettura/scrittura/matematica. Con l‟ingresso a scuola, l‟imbarazzo per il fatto che non sono in grado
di fare ciò che altri bambini riescono a fare facilmente, può interferire nelle relazioni con i pari. Il
ripetuto imbarazzo dei bambini con difficoltà può alla fine portare a problemi di autostima. Il
diverso funzionamento neuropsicologico del bambino con DSA diventa Disturbo quando si incontra
(e scontra) con il mondo, corredato di aspettative, valenze e preconcetti, in cui il bambino si
immerge dal momento in cui intraprende il suo percorso nella scuola dell‟obbligo, anche per via
delle ricadute personali e sociali che il suo deficit comporta. La conseguenza al deficit è, nella
psicologia di ogni individuo e in questa patologia in particolare, la compensazione: attraverso
strategie interne faticose e dolorose, attraverso strumenti esterni (quando questo disturbo sia
riconosciuto e certificato), o l‟ipercompensazione, come mostrano i numerosi casi di dislessici
famosi.
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Negli ultimi anni i DSA sono stati posti all‟attenzione di numerosi studi e approfondimenti.
Questi sono serviti anche per mettere a punto un iter diagnostico che fosse uniforme e
condivisibile. A tal fine, successivamente ai lavori promossi nell'ambito della Consensus
Conference del settembre 2006 e gennaio 2007 è stato prodotto un documento che indica le linee
guida per la diagnosi di DSA.
È opportuno rilevare che è molto importante ai fini dell'apprendimento scolastico e del
benessere dell‟individuo che la diagnosi venga effettuata il più tempestivamente possibile. Proprio
per la sua natura, il Disturbo si manifesta in modo evidente solo a partire dai primi anni della
scolarizzazione, quando il bambino entra in contatto con l'apprendimento della letto-scrittura; il
riconoscimento molto presto nel corso della carriera scolastica ne minimizza le conseguenze
negative.
È accertato che l‟età minima per la diagnosi di Disturbo Specifico della Lettura corrisponda
al completamento del 2° anno della scuola primaria (2^ elementare), considerato che quest‟età
coincide con il completamento del ciclo dell‟istruzione formale del codice scritto, mentre, per il
Disturbo Specifico del Calcolo, l‟età minima sarebbe il 3° anno della scuola primaria (3^
elementare). Tuttavia, già alla fine del 1° anno della scuola primaria (1^ elementare) nel caso di
bambini con profili funzionali molto compromessi e in presenza di altri specifici indicatori
diagnostici (pregresso disturbo del linguaggio, familiarità accertata per il disturbo di lettura) è
possibile effettuare una ragionevole ipotesi diagnostica, da verificare in momenti successivi, al fine
di un precoce intervento sia abilitativo che didattico.
Il protocollo diagnostico suggerita dalle linee guida prevede una fase di valutazione clinica,
necessaria alla definizione nosografica del disturbo, e una di approfondimento clinico e funzionale
(Stella, 2003).
 Diagnosi clinica
Per procedere alla classificazione categoriale dei disturbi bisogna far riferimento ai criteri di
inclusione e di esclusione. Secondo il criterio di inclusione, affinché si possa effettuare diagnosi di
DSA, bisogna che si verifichi la condizione di discrepanza tra abilità nel dominio specifico
interessato - lettura, scrittura, aritmetica - che deve risultare deficitaria di almeno 2 ds in rapporto
ai risultati attesi per l’età e/o la classe frequentata, e l’intelligenza che deve essere nella norma.
Per ottenere queste informazioni vengono utilizzate prove specifiche per l’accertamento dell’abilità
compromessa (decodifica e comprensione della lettura, ortografia e grafia, numero e calcolo) e
prove standardizzate per la valutazione del livello intellettivo (per esempio con la scala WISC-III).
Per effettuare diagnosi di DSA è, poi, necessario escludere la presenza di patologie o anomalie
sensoriali, neurologiche, cognitive e di gravi psicopatologie.
 Diagnosi funzionale
Nell‟ambito di un quadro diagnostico complessivo, sia per le funzioni deficitarie che per le
funzioni integre, è fondamentale una adeguata rappresentazione funzionale del disturbo.
La valutazione del DSA si approfondisce con l’analisi qualitative delle caratteristiche,
specifiche per individuo, coinvolte nell‟abilità deficitaria (linguistiche, percettive, prassiche,
visuomotorie, attentive, mnestiche). Vanno, inoltre, esaminati i fattori ambientali e le condizioni
emotive e relazionali, al fine di una presa in carico globale della situazione del bambino.
In considerazione delle caratteristiche del disturbo, sarebbe opportuno che il processo di
diagnosi si avvalesse della collaborazione di diversi professionisti sanitari i quali, ciascuno per le
proprie competenze, contribuiscano con approccio interdisciplinare alla definizione diagnostica per
ciascun bambino. Le figure professionali solitamente coinvolte sono lo psicologo o il
neuropsichiatra infantile per la valutazione degli aspetti cognitivi e affettivi (e per il referto
diagnostico) e il logopedista per la valutazione specifica degli aspetti relativi agli apprendimenti
scolastici. In ogni caso è opportuno che il professionista abbia un'adeguata e specifica formazione
sui DSA.
Per la redazione della diagnosi funzionale il referto dovrà indicare le abilità specifiche
deficitarie e le risorse del bambino e del suo ambiente di riferimento, nonché gli aspetti affettivi in
gioco e i suggerimenti psico-pedagogici e didattici.
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IV. Genitori e figli con DSA
Pur in presenza di limitati studi sull‟interazione madre-bambino con DSA, sono state comunque
rilevate alcune caratteristiche distintive generalmente riscontrate in bambini di età prescolare. Come
le madri di bambini con altri disturbi dello sviluppo, le madri di bambini con DSA sembrano avere
una tendenza ad un maggiore controllo e ad una maggiore direttività, mostrando in particolare più
tentativi di agganciare l‟attenzione del bambino soprattutto attraverso approcci di tipo fisico
(Kasari, Sigman, Mundy & Yirmiya, 1988; Lemanek, Stone & Fishel, 1993).
Infatti, i genitori, assumendo comportamenti protettivi, sono spesso portati ad anticipare
azioni e ad eseguirle al posto del bambino ed è per questo che si riscontrano il più delle volte
significative ripercussioni anche nell'autonomia personale, ed è anche per questo motivo che il
bambino affetto da DSA possiede livelli di autonomia quotidiana piuttosto bassi in relazione all'età
cronologica. Le difficoltà di coordinazione psicomotoria interferiscono infatti nelle sue prestazioni,
che risultano goffe, impacciate, lente e imprecise; le difficoltà più frequentemente riscontrate sono
le seguenti:
- difficoltà nell'esecuzione autonoma delle attività quotidiane (vestirsi, lavarsi, prepararsi lo
Zaino, ecc.);
- difficoltà ad eseguire attività quotidiane che richiedono una adeguata coordinazione oculomanuale e motoria (tagliarsi la carne, mangiare con precisione, allacciarsi le scarpe, ecc.);
- difficoltà ad orientarsi nello spazio a disposizione;
- difficoltà a localizzare i materiali che servono in un determinato momento;
- difficoltà a tenere in ordine i propri materiali;
- difficoltà nel gioco costruttivo da effettuare su modello dato;
- difficoltà ad orientarsi nel tempo quotidiano: essere puntuali, saper aspettare il momento
giusto, sapere con precisione che momento della giornata stiamo vivendo;
- difficoltà a sapere più o meno che ore sono;
- difficoltà ad orientarsi nell'orario scolastico (successione delle materie, organizzazione dei
compiti, ecc.);
- difficoltà ad orientarsi nel tempo prossimale (ieri, oggi, domani, ecc.);
- difficoltà a leggere l'orologio;
- difficoltà a memorizzare i giorni della settimana;
- difficoltà ad orientarsi nei giorni della settimana (che giorno è oggi... che giorno era
ieri...che giorno sarà domani...);
- difficoltà a memorizzare i mesi dell'anno e ad orientarsi rispetto alle festività.
Normalmente, per la generalità dei genitori la scuola è importante, è al primo posto nella vita
dei bambini e dei ragazzi, tutto il resto viene dopo e, se la scuola va male, ne sono insoddisfatti e
chiedono al figlio un maggiore impegno. Non di rado si sente dire ai genitori rispetto alla difficoltà
del figlio: “Non me lo aspettavo… mi è sempre sembrato un bambino intelligente…".
La frequenza della scuola elementare ha, in questi casi, fatto evidenziare un problema: il
bambino presenta delle differenze di apprendimento rispetto ad altri, che sanno già leggere e
scrivere, invece lui… Inizia così l‟avventura del bambino – scolaro, una storia che, in certi casi, ha
risvolti davvero drammatici, non si riesce a comprendere tutta quella serie di “perché” che
permetterebbero di intraprendere percorsi adeguati ed efficaci e si cercano soluzioni spesso
dannose, anche se decise in buona fede. Ecco allora che si sottopongono i figli ad estenuanti esercizi
di recupero pomeridiano, si elargiscono punizioni (niente più sport, niente più videogiochi…) e,
talvolta si arriva anche a far cambiare scuola al figlio.
Anche se oggi si parli molto di queste problematiche, si rileva ancora una insufficiente
conoscenza e non sempre la diagnosi funzionale perviene in tempi accettabili, cosicché bambino e
famiglia vivono esperienze ansiogene, in un clima affettivo non certamente favorevole.
Ai fini di un corretto intervento pedagogico, certamente la famiglia deve collaborare,
consentendo al bambino la conquista graduale di nuove competenze legate all'autonomia personale,
evitando così che egli possa sentirsi incapace non solo in ambito scolastico, ma anche nella
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quotidianità e facendo leva sulle reali capacità individuate nel corso dell'osservazione (cfr. SIMPIA,
2006).
V. I Disturbi dello Spettro Autistico (ASD)
I disturbi dello spettro autistico (ASD) raccolgono un insieme di quadri patologici caratterizzati da
una generale difficoltà nello stabilire relazioni intersoggettive causati da alterazioni neurologiche
nello sviluppo cerebrale. Alterazioni che durante il percorso di sviluppo determinano molteplici
disfunzioni nell‟elaborazione delle informazioni, nella regolazione delle funzioni di base,
nell‟integrazione dei comportamenti, nella vita relazionale ed emotiva (Trevarthen, 1998; Venuti,
2003; Gotham, Risi, Pickles & Lord, 2007).
Gli ambiti che risultano maggiormente compromessi riguardano:
 L‟ambito interattivo: che si esprime nelle difficoltà di interazione sociale e mancanza di
reciprocità emotiva;
 L‟ambito comunicativo: che si esprime attraverso le difficoltà di comunicazione e
immaginazione;
 L‟ambito comportamentale: che si manifesta attraverso un repertorio ristretto e ripetitivo di
attività.
Diversi sono i fattori che possono determinare questi disturbi: in alcuni casi essi sono dovuti a
fattori genetici, in altri casi derivano da problemi specifici associati a particolari condizioni cliniche.
I vari risultati della ricerca condotta negli ultimi decenni (Peeters & Gillberg, 1999) hanno
evidenziato che possono essere presenti differenti forme di disfunzione cerebrale che danno come
risultato lo sviluppo di un ASD. Studi condotti mediante la risonanza magnetica funzionale hanno
evidenziato che le aree cerebrali più colpite sono:
1. il tronco cerebrale e il sistema limbico, in cui hanno sede vari sistemi automatici che
presiedono alla regolazione dei ritmi, della memoria, della capacità nel coordinare l‟interazione
sociale e affettiva (Adolphs, Sears & Piven, 2001; Bauman & Kemper, 1985; 1988; Raymond,
Bauman & Kemper, 1996);
2. il cervelletto, le cui alterazioni si esprimono in difficoltà nella coordinazione dei
movimenti motori, deficit di interazione sociale e appiattimento affettivo (Bauman & Kemper,
1995; Courchesne et al., 1994; Schmahmann & Shermann, 1998);
3. i lobi frontali e prefrontali, associati alle funzioni esecutive, alle capacità legate alla teoria
della mente e all‟attenzione visiva (Minshew, Luna & Sweeney, 1999). Nei soggetti con autismo, le
alterazione dei lobi frontali potrebbero essere responsabili di alcuni sintomi tipici quali il distacco
sociale e l‟incapacità di generalizzare (Luna et al., 2002; Ozonoff, Pennington & Rogers, 1991;
Rapin, 1999), di comprendere storie (Happe et al., 1996), di ricercare visivamente figure nascoste
(Ring et al., 1999), di processare stimoli sociali (Mountz, Tolbert, Lill, Katholi & Liu, 1995).
Le diverse basi biologiche che possono essere responsabili di queste patologie giustificano
sempre di più la presenza di diverse tipologie di autismo che vanno da forme più lievi (come nella
Sindrome di Asperger) a quelle più gravi (Ballerini, Barale, Gallese & Ucelli, 2006).
L‟Autistico (descritto per la prima volta da Kanner nel 1943) è la forma più grave delle
alterazioni dello sviluppo neurologico nella prima infanzia. Attualmente, utilizzando un criterio di
inclusione restrittivo, si stima che la sua incidenza è di 24,8:10000 (Baird et al., 2006).
La presenza di un disturbo dello spettro autistico produce notevoli ripercussioni sullo sviluppo
della personalità e sul suo modo di relazionarsi agli altri e al mondo esterno, che si manifestano in
diversi ambiti dello sviluppo:
Intersoggettività - come dimostrato da diversi studi osservativi nei bambini con ASD fin
dalle prime fasi di sviluppo sono carenti gli scambi basati sulla comunicazione emotiva tipici
dell‟intersoggettività primaria. Le difficoltà sensoriali possono alterare la presenza di quei giochi di
scambio vocale, visivo e tattile dei primi mesi di vita. Nell‟intersoggettività secondaria si genera
una profonda alterazione per la mancanza di indicazione e della capacità di leggere le espressioni
9
emotive sul volto dell‟adulto, con conseguenti carenze nella “Teoria della Mente” (Baron-Cohen,
1995; Baron-Cohen, Leslie & Frith, 1985; Surian, 2002). Deriva da ciò che le fasi di sviluppo
maggiormente compromesse sono quelle della intersoggettività secondaria e la fase successiva
caratterizzata dal gioco simbolico che risultano profondamente correlate alle abilità di attenzione
condivisa. Avviene quindi che potenzialità mentali proprie del soggetto non vengono attivate in
quanto manca l'incontro e lo scambio reciproco con un adulto. I deficit nell‟intersoggetività sono
alla base anche delle difficoltà che i bambini con ASD hanno nell‟imitazione, così come nelle
relazioni sociali. Sembra che la presenza di un deficit nell‟intersoggettività sia responsabile
dell‟incapacità a formarsi un‟immagine interna dell‟altro come partner nelle interazioni reciproche,
e con cui sperimentare la condivisione di attenzione su un oggetto, scambiare sentimenti circa le
azioni, gli oggetti, gli eventi e cooperare in compiti.
Interazione: le difficoltà nelle dinamiche intersoggettive e nello sviluppo comunicativo
sono causa di notevoli deficit e carenze nello scambio interattivo, come espresso dalla mancanza di
volontà e di reciprocità, componenti focali per lo sviluppo delle interazioni. Le difficoltà principali
si hanno nella difficile responsività e nel coinvolgimento attivo dell‟adulto. Le madri pur essendo
capaci di adattare il loro linguaggio alle capacità del bambino e di adattare il loro gioco a quello del
bambino (Venuti, Mazzeschi, Rossi & Soperchi, 1997), appaiono spesso “asincroniche” nella
relazione probabilmente (Shapiro, Frosch & Arnold, 1987) perché sono incapaci di adattare i
“dialoghi” e di “mantenere l‟attenzione” con il loro bambino, che non è prevedibile e che non
risponde nel modo con cui sono predisposte per rispondere. La sollecitazione, la stimolazione, il
richiamare l‟attenzione - modalità tipiche della relazione adulto-bambino – nel bambino con ASD
non attivano le risposte attese e probabilmente determinano in lui ancora maggiore confusione e
senso di frustrazione per l‟incapacità di comprendere o di rispondere.
Cognizione: in molti soggetti la presenza di un disturbo autistico è associato ad un ritardo
mentale, ma – anche nei casi di autismo con quoziente intellettivo nella norma – si osservano alcune
modalità di pensiero differenti in modo specifico, quali ad es. problemi di attenzione, di
integrazione percettiva, che inficiano le capacità di interpretazione del mondo e di se stessi.
Quanto più vi è precocità di cattivo funzionamento delle facoltà cerebrali tanto più viene
impedita l‟attivazione di quelle predisposizioni strutturali e funzionali proprie di ogni bambino con
sviluppo tipico, predisposizioni che permettono un‟integrazione rapida tra risorse ambientali,
relazionali e patrimonio genetico. Non venendo attivate queste interazioni si compromette in
maniera sostanziale la capacità di adattamento del bambino.
VI. Genitori e figli con ASD
La riduzione di interazione sociale rappresenta non solo un sintomo diagnostico della sindrome
autistica (DSM-IV-TR) ma altresì uno degli aspetti più drammaticamente sconvolgenti di questa
patologia. Secondo alcuni studi recenti anomalie in alcune forme precoci di interazione sociale sono
già presenti nel primo anno di vita (Osterling & Dawson, 1994) mentre tradizionalmente il deficit si
fa risalire alla fine del secondo anno di vita. Quale che sia l‟evoluzione del deficit, è indubbio che
siano i genitori i primi a sperimentarne le conseguenze, nonché coloro che fronteggiano più a lungo
le difficoltà connesse all‟interagire con un bambino poco responsivo e socialmente chiuso (Venuti,
2007). Nonostante ciò, sono poche le ricerche in letteratura che attualmente si focalizzano sulle
caratteristiche della relazione madre-bambino con ASD (Doussard-Roosevelt, Joe, Bazhenova &
Porges, 2003; Dolev, Oppenheim, Koren-Karie & Yirmiya, 2009).
Comunque, degli studi hanno messo in evidenza come i bambini affetti da autismo mostrino
una maggiore propensione verso approcci materni basati sulla fisicità e sull‟uso non verbale di
oggetti (Doussard-Roosevelt et al., 2003). In uno studio esplorativo condotto sui filmati familiari
realizzati nei primi 18 mesi di vita di 5 soggetti successivamente diagnosticati come autistici,
confrontati con altrettanti bambini con sviluppo tipico, non sono emerse differenze significative nel
livello della disponibilità emotiva dei genitori misurato attraverso le Emotional Availability Scales.
10
Già da queste prime fasi dello sviluppo inizia ad essere evidente però una minore tendenza del
bambino a coinvolgere il genitore iniziando scambi comunicativi.
In un altro studio, è stato messo in evidenza come atteggiamenti materni, finalizzati a
stimolare l‟attenzione del bambino autistico, diano luogo a lungo termine ad un maggiore sviluppo
del linguaggio (Siller & Sigman, 2002).
Si può supporre che le dinamiche interattive dei genitori di bambini con ASD variano nel
corso dello sviluppo. Nei primi mesi di vita, quando i segnali della patologia non sono ancora
palesi, i genitori mettono in atto dei comportamenti di cura “tipici”, che sono il semplice risultato
delle predisposizioni innate, degli apprendimenti culturali e della loro personalità. È solo in un
secondo momento, quando iniziano ad essere evidenti le risposte atipiche dei loro figli che il loro
atteggiamento viene a modificarsi nel tentativo di adattarsi ma anche in risposta alla frustrazione.
Sfortunatamente non ci sono molti studi che hanno verificato tale andamento evolutivo, anche
perché naturalmente non è possibile monitorare in modo programmatico le fasi precoci di sviluppo
dei bambini che sono diagnosticati come autistici a partire dai 2 o, più spesso, 3 anni.
VII. Il Ritardo Mentale (RM)
La condizione patologica del Ritardo Mentale ha come caratteristica principale l‟insufficienza nello
sviluppo intellettivo che si manifesta in una varietà di quadri clinici legati ad un‟ampi spettro di
possibili fattori causali: genetici, prenatali, perinatali, postnatali e psicosociali (Venuti, in press).
La ricaduta di questo disturbo non è facilmente interpretabile, i dati del DSM-IV-TR e quelli
di Baroff (1996) concordano su una stima, dell‟1% nella popolazione generale. Inoltre le statistiche
più recenti mettono in luce che, nel nostro paese, i soggetti con ritardo mentale rappresentano circa
il 2-3% della popolazione totale (Buono & Di Nuovo, 2004). Inoltre, è necessario aver presente che
il 30-40% dei casi di ritardo mentale non ha una precisa definizione eziologia.
L‟American Association of Mental Deficiency - AAMD (Fredericks & Larry Williams, 1998)
e l‟Organizzazione Mondiale della Sanità, definiscono il ritardo mentale oltre che come deficit
intellettivo, come “una inadeguatezza del funzionamento adattivo, ovvero un’incapacità del
soggetto a corrispondere agli standard propri della sua età o della sua cultura in aree specifiche
quali l’autonomia, la responsabilità sociale, la comunicazione, le attività della vita quotidiana,
l’indipendenza personale e l’autosufficienza” (WHO, 2001).
Il manuale diagnostico DSM-IV-TR definisce il Ritardo Mentale come “un funzionamento
intellettivo generale significativamente al di sotto della media (Criterio A) che è accompagnato da
significative limitazioni nel funzionamento adattivo in almeno due delle seguenti aree delle
capacità di prestazione: comunicazione, cura della persona, vita in famiglia, capacità
sociali/interpersonali, uso delle risorse della comunità, autodeterminazione, capacità di
funzionamento scolastico, lavoro, tempo libero, salute, e sicurezza (Criterio B). L'esordio deve
avvenire prima dei 18 anni (Criterio C). Il Ritardo Mentale ha molte diverse etiologie e può essere
visto come la via finale comune di vari processi patologici che agiscono sul funzionamento del
sistema nervoso centrale”.
Sono state classificate diverse varianti del RM, che raffigurano livelli graduali di gravità del
disturbo definito dal quoziente d‟intelligenza. In base al quoziente di intelligenza è possibile
distinguere quattro principali categorie: il ritardo lieve, medio, grave e gravissimo, che esprimono il
diverso grado di disorganizzazione delle funzioni cognitive e il modo in cui essi si riflettono sullo
sviluppo globale dell‟individuo.
Le caratteristiche tipiche del funzionamento mentale dei soggetti con ritardo mentale sono: in
primo luogo la tangibilità e la rigidezza del pensiero, difficoltà di pianificazione delle attività,
deficit nelle capacità di creatività ed immaginazione, un‟esperienza percettiva, che appare
caratterizzata da lentezza e imprecisione e sincretismo; memoria limitata, in modo particolare quella
a breve termine. Per quanto riguarda le abilità linguistiche sono compromesse in diversi modi a
seconda dei soggetti e del livello di ritardo mentale che questi presentano: possono essere
11
compromesse sia la comprensione che l‟espressione verbale, si può riscontrare povertà lessicale,
semplicità e/o scorrettezza nella struttura sintattica, difficoltà a livello pragmatico, difficoltà a
livello fonologico e articolatorio. Sono spesso rintracciabili in bambini con ritardo mentale deficit
dell‟attenzione, in particolare negli aspetti di attenzione sostenuta e selettiva.
VIII. Genitori e figli con RM
Per i bambini con ritardo mentale, così come per gli altri bambini, lo sviluppo è notevolmente
influenzato dalla qualità dell‟interazione con il genitore (Brinker, Seifer & Sameroff, 1994;
Greenspan, 1997). Invero esso deriva fortemente, oltre che dai limiti imposti dalla patologia, dal
tipo di interazione che i genitori riescono ad instaurare con il loro bambino, interazione necessaria
per fornire l‟incoraggiamento e la stimolazione adeguata a fronteggiare i limiti imposti dalla
patologia (Pino, 2000).
La maggior parte degli studi si è focalizzata su alcuni aspetti circoscritti delle modalità
interattive caratteristiche delle madri di bambini affetti da ritardo mentale, con particolare
riferimento all‟atteggiamento fortemente autoritario che è stato concordemente riscontrato in queste
madri (Beeghly, Weiss-Perry & Cicchetti, 1989; Cielinski, Vaughn, Seifer & Contreras, 1995). A
questo proposito, l‟origine, il significato e la funzione di tale comportamento direttivo sono stati
spesso oggetto di studi che hanno offerto sostanzialmente una visione contrapposta (Marfo, 1990;
Marfo, Cynthia, Dedrick & Barbour, 1998; Roach, Stevenson Barratt, Miller & Leavitt, 1998).
Alcuni lavori evidenziano che il riscontro delle effettive difficoltà mostrate dal bambino
persuaderebbero le madri a considerare l‟approccio didattico come il più appropriato all‟interazione,
dando luogo così ad uno approccio direttivo che, qualora non esasperato, si tradurrebbe in un
atteggiamento efficace ed adattivo (Cieliesky et al., 1995; Crawley & Spiker, 1983; Marfo, 1990).
Secondo altri autori, il vissuto di disillusione e preoccupazione connesso alla nascita di un figlio
“disabile”, insieme con le effettive difficoltà ad interagire con un bambino con caratteristiche
deficitarie, sarebbero alla base di un atteggiamento direttivo connotato da aspetti negativi quali
intrusività e, in definitiva, scarsa sensibilità (Berger & Cunningman, 1983).
Questo confronto di interpretazioni, se elude il rischio di un‟adesione semplicistica e riduttiva
ad una sola delle due interpretazioni contrapposte, mette il luce la natura complessa dell‟interazione
madre-bambino con ritardo mentale e la necessità di un approccio a tale argomento quanto più
globale e completo è possibile che tenga conto dei contributi di entrambi i membri della diade alla
qualità globale della relazione affettiva.
Per una madre, crescere un figlio con deficit mentale è una sofferenza (Hodapp, 2002) sia in
conseguenza di patologie spesso collaterali al ritardo mentale, sia per la difficoltà ad accettare
pienamente il proprio figlio quando si comporta diversamente dagli altri bambini, mostrando
sempre più aree di ritardo rispetto agli altri. Generalmente, la madre reagisce con un forte, se non
eccessivo, coinvolgimento nelle cure del figlio, a cui si accompagna un profondo senso di
frustrazione e preoccupazione. Queste reazioni emotive influenzano le modalità di rapportarsi al
figlio dando luogo, come si è detto, ad atteggiamenti controllanti e talvolta intrusivi che, se
eccessivi, non giovano allo sviluppo del bambino.
Se studi sull‟interazione madre figlio è stata ampiamente investigata solo recentemente è stato
attenzionato dai ricercatori il ruolo della figura paterna nelle disabilità (Glidden, Billings & Jobe,
2006; Olsson & Hwang, 2001; Shin et al., 2006). Quello che emerge da questi studi è che i padri dei
bambini con Sindrome di Down (SD) percepiscono i propri figli meno compromessi nel livello di
adattamento ambientale e con tratti di personalità migliori mentale (Hodapp, 2002; Ricci &
Hodapp, 2003; Senese, La Femina, Buro, Saladino & Di Lucia, 2008; Stoneman, 2007),
percepiscono la loro relazione con il figlio più armoniosa rispetto ai padri di bambini con altre
forme di ritardo.
Come già accertato nello sviluppo tipico, vari aspetti del coinvolgimento paterno nella cura
dei figli sono collegati positivamente al processo evolutivo degli ambiti sociali, cognitivi ed adattivi
12
del bambino (Cabrera, Tamis-LeMonda, Bradley, Hofferth & Lamb, 2000; Tamis-LeMonda &
Cabrera, 2002). In modo più specifico, appare che il ruolo paterno nello sviluppo del bambino sia
mediato dalle attività di gioco (Caneva & Venuti, 1998; Hewlett, 1992).
IX. La sindrome di down (SD)
Bambino affetti dalla sindrome di down, con difficoltà nei vari ambiti psicomotori e con turbe
affettive e relazionali, in tempi non lontani venivano inseriti in istituti e strutture speciali, dove si
sottolineava la loro incapacità di essere autonomi e di poter sviluppare le potenzialità possedute;
tale prospettiva “spingeva” gli altri a svolgere tutte le attività al loro posto, ignorando in questo
modo il loro corpo, i loro sentimenti e i loro desideri (Albertini, Biondi, Cuomo, 1992).
Convinzioni errate da parte di medici, psicologi, educatori, operatori sociali, nei confronti di
questi bambini, inseriti in contesti privi di stimoli, con pochi rapporti sociali e in situazioni passive
e monotone, ostacolando lo sviluppo delle loro potenzialità cognitive e relazionali, sfociava, come
logica conseguenza, nella “profezia che si auto avvera”. L‟apertura mentale associata alla legge che
ha consentito l‟integrazione nelle scuole aperte a tutti ha determinato migliori condizioni di vita e
una straordinaria evoluzione nella maturazione cognitiva, facendo crollare antichi pregiudizi
secondo cui le loro potenzialità di sviluppo erano fortemente limitate (Contardi, Vicari, 1995).
In tempi relativamente recenti, a seguito di studi, ricerche ed esperienze innovative, hanno
evidenziato che, nonostante la presenza di un ritardo mentale, i soggetti affetti da sindrome di Down
o trisonomia 21 possono raggiungere dei buoni risultati nello studio, come nel famoso caso di Pablo
Pineda, primo ragazzo spagnolo laureato e di Andrea Brambilla, laureato in Storia alla Statale
(Sacchi), e nella vita affettivo-sociale. Lo sviluppo delle potenzialità dipende molto dall‟aspetto
socio-culturale familiare, dal contesto educativo e sociale in cui il soggetto è inserito; grazie
all‟inserimento in un ambiente stimolante e, in particolare, specifico rispetto alle esigenze e alle
capacità di ogni persona con sindrome di Down e ad interventi precoci è molto probabile che il
soggetto impari tutto ciò che è necessario per condurre una vita soddisfacente e autonoma (Zambon
Hobart, 1996).
Tra le convinzione più diffuse troviamo quella secondo la quale i “Down” presenterebbero
tutti le medesime tipicità, sarebbero tutti uguali: sono tutti affettuosi, simpatici, amanti della musica,
ecc. Tale stereotipo trae origine dall‟accento che già i primi studiosi di questa sindrome ponevano
sulla somiglianza. Fu infatti John Langdom Down, che per primo si è interessato a tale deficit nel
1866 e da cui trae il nome, che notò in alcuni individui con ritardo mentale delle caratteristiche
somatiche comuni. Nel 1876, altri due studiosi Fraser e Mitchell sottolineavano la somiglianza tra
soggetti con sindrome Down, “se li mettessimo tutti insieme troveremmo che si assomigliano tra
loro in modo impressionante. Ma l‟aspetto più impressionante è la somiglianza tra loro per quel che
riguarda il carattere, i gusti, le abitudini, i difetti […]”. L‟uniformità è stata una delle caratteristiche
sempre evidenziata in merito ai soggetti con sindrome Down, mentre se ne sono ignorate la
specificità e l‟unicità.
Solo nel 1959 un genetista francese, Jerome Lejeune, scoprì l‟origine genetica della sindrome.
L‟anomalia cromosomica responsabile della sindrome è la trisonomia 21, cioè la presenza di tre
cromosomi, anziché due, nella ventunesima coppia, quindi il numero dei cromosomi in ogni cellula
è 47, e non 46 (Zambon Hobart, 1996).
La presenza di un cromosoma in più determina delle caratteristiche somatiche e fisiche
comuni e la sintomatologia del ritardo mentale. Nel soggetto con Sindrome di Down il corredo
cromosomico è sempre anormale.
Specificatamente, la causa della Trisomia 21 può essere:
- libera o da non disgiunzione (93% dei casi), quando, nella divisione cellulare, migrano a
un polo cromosomi in numero maggiore rispetto all‟atro e in tutte le cellule dell'organismo vi sono
tre cromosomi 21 invece di due;
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- da traslocazione (3% dei casi), se, nel corso della divisione cellulare, un segmento di
materiale cromosomico è attaccato o fuso ad un altro cromosoma e di solito è il numero 14, 21, o
22;
- da mosaico (2% dei casi): cui nello stesso individuo sono presenti cellule di due tipi diversi
e cioè alcune con 46 e altre con 47 cromosomi, facendo coesistere due linee cellulari. In questa
particolare condizione genetica alcune cellule avranno il numero normale di cromosomi mentre
altre avranno materiale genetico in eccedenza (Mayer, 1994).
In uno studio del 2004 Di Giacomo e Passafiume scrivono: «Nella patologia della sindrome di
Down è possibile parlare di ritardo mentale non in termini generici e assolutistici, ma è necessario
suddividere e distinguere soggetti affetti da questa patologia in base ad almeno due criteri
fondamentali: il livello di gravità del ritardo mentale e le caratteristiche del contesto socio-culturale
in cui è inserito, in quanto esso stesso può svolgere un ruolo di stimolazione intensa, quindi
promuovere la maturazione, o interferire negativamente nell‟acquisizione delle autonomie del
soggetto Down». Lo sviluppo di una persona e le sue capacità, o meno, di avere una vita sociale
adeguata sono fortemente influenzati da fattori ambientali, oltre che da quelli costituzionali.
Pertanto, ogni individuo è unico ed irripetibile, perché è un intreccio di capacità, conoscenze,
esperienze, motivazioni, autonomie, sogni, desideri, aspettative, ma anche di condizioni fisiche e
ambientali che hanno un peso rilevante nello svolgersi di ogni progetto di vita (Gelati, Calignano,
2003).
Nella crescita di un bambino in generale, e quindi di un bambino con sindrome di Down in
particolare, si possono individuare quattro aree di sviluppo ben distinte tra loro, ma nello stesso
tempo interdipendenti l‟una dall‟altra. Lo sviluppo motorio fa riferimento sia alla motricità globale,
grazie alla quale il bambino impara a muovere il proprio corpo (torso, braccia, gambe), sia alla
motricità fine, intesa come capacità di compiere movimenti precisi e dettagliati, come quelli che
riguardano i muscoli delle mani, delle dita, del viso; lo sviluppo cognitivo è inteso come sviluppo
della capacità mentale di formulare pensieri, di ragionare e di risolvere problemi. Altra area di
sviluppo è quella affettivo-sociale inerente alla capacità di stabilire rapporti con gli altri; il bambino
stabilisce inizialmente dei legami con i genitori e con gli altri membri della famiglia e sulla base di
questi svilupperà la capacità di relazionarsi con altre persone e di comprendere e rispettare le regole
sociali. L‟ultima area di sviluppo è quella legata alla capacità di autonomia: da una situazione di
totale dipendenza dalla madre si passerà ad una progressiva capacità del bambino di prendersi cura
di sé, di essere autosufficiente; ciò comporta un rafforzamento della stima di sé, cioè della fiducia
nelle proprie capacità autonome (Zambon Hobart,1996).
X. Genitori e figli con SD
Secondo gli studi di Di Giacomo e Passafiume (2004) è fondamentale per lo sviluppo integrale del
bambino il ruolo dei genitori, i quali, durante i primi anni di vita del piccolo, metteranno in atto
delle dinamiche interattive che produrranno la maggior parte dei cambiamenti nelle attività motorie,
cognitive, comunicative e relazionali.
Specificatamente, sono molti gli studiosi che concordano sulla tipicità della figura materna
che, con la sua personalità, sensibilità e azione di supporto promuove la reciprocità, l‟iniziativa e
l‟esplorazione attiva.
Sin dalla nascita i bambini vivono una relazione simbiotica con la madre, sentono di essere
tutt‟uno con lei, ma con lo sviluppo motorio tenderanno a considerarsi come un‟entità separata e
indipendente. Tale percorso può trovare degli ostacoli nel caso di bambini con sindrome di Down,
poiché una prolungata dipendenza fisica corrisponderà una maggiore dipendenza psichica dalla
madre. Quanto più tale rapporto si protrae nel tempo, tanto più difficile sarà l‟inserimento del
bambino nella società. L‟inizio della deambulazione è una tappa fondamentale per il bambino e per
la madre, poiché rappresenta l‟entrata del bambino nel mondo adulto (Zambon Hobart, 1994).
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In questa fase dell‟infanzia la presenza della madre è fondamentale, in quanto essa deve avere
fiducia nel proprio figlio e assecondarlo; come risposta il bambino proverà piacere a scoprire la sua
identità, la sua autonomia e la sua capacità di relazionarsi con il mondo che lo circonda.
Ancora oggi gli studiosi si pongono delle domande: quanto il danno organico, genetico,
neurofisiologico può influire sulle relazioni e sulle qualità delle stesse? (Elia, 2002). Ben sappiamo
che la qualità di un legame dipende fortemente dalla storia delle interazioni che il bambino ha
sviluppato con i suoi genitori o con altri adulti di riferimento, e un bambino con problemi di salute
presenta comportamenti o ritmi di sviluppo diversi rispetto a quelli di un bambino sano. Anche lo
stesso pianto, segnale vitale di uno stato di insofferenza o di disagio nei bambini con problemi di
salute, risulta essere diverso: nei bambini con sindrome di Down, il tono del pianto è più basso e
viene percepito come “meno urgente”.
Il quadro clinico induce, dunque, i genitori a modificare i propri comportamenti, le proprie
aspettative nei confronti del figlio e in particolare il modo di “avvicinarsi” e rispondere ai segnali
del bambino (Cassibba, Van-Ijzendoorn, 2005). Alcune di queste esperienze potrebbero avere
importanti ripercussioni sulla costruzione del legame affettivo d‟attaccamento. Main e Solomon
(1990) analizzarono il legame affettivo instaurato dai bambini con sindrome di Down con le figure
significative presenti nel loro contesto familiare. E‟ emerso che su 34 bambini con sindrome di
Down, 31 hanno una relazione affettiva, denominata d‟attaccamento, di tipo disorganizzato,
(Cassibba, 2003) con uno dei due genitori e non con tutte e due. Il fatto che il bambino avesse
instaurato con uno solo dei due genitori un legame d‟attaccamento disorganizzato, ha indotto gli
autori a ipotizzare che quel particolare legame affettivo, caratterizzato da comportamenti
spaventati/spaventanti da parte delle figure significative, nasceva dalla storia relazionale del
bambino con quel genitore specifico e non dall‟aspetto neuro-fisiologico. Infatti, se la relazione
affettiva si fosse stabilita solo attraverso l‟aspetto neuro-fisiologico, allora il bambino avrebbe
dovuto instaurare una relazione d‟attaccamento disorganizzata con entrambi i genitori.
Osservazioni sistematiche rivolte a bambini affetti da Trisomia 21 indicano che, comunque,
esiste un‟alta proporzione di attaccamento “non classificabile”, spesso classificato come
attaccamento disorganizzato, almeno in apparenza.
Invero, Main e Solomon, durante la Strange Situation (procedura standardizzata per la
valutazione dell‟attaccamento), osservarono il comportamento di bambini che sarebbero stati
valutati come non classificabili (CC) poiché non erano riconducibili a nessuna classificazione
indicata nella metodologia postulate dalla Ainsworth (attaccamento sicuro, insicuro – evitante,
insicuro – resistente). Gli stessi autori proposero una definizione formale per quei bambini che
sarebbero stati valutati come non classificabili (CC) in attaccamento disorganizzato. Nello
specifico l‟attaccamento disorganizzato/disorientante (D) è quella categoria d‟attaccamento
infantile in cui vi è un fallimento nella costruzione del legame affettivo con la madre o con il
caregiver poiché il bambino non è in grado di organizzare un strategia comportamentale unitaria e
coerente nel momento in cui si approccia alla figura significativa, mostrando un range
dicomportamenti atipici. In particolare il bambino manifesta comportamenti sequenziali o
contemporanei contraddittori, mal diretti, incompleti, interrotti, asimmetrici, di congelamento e/o
con stereotipie. L‟attaccamento disorganizzato/disorientato (D) è associato specificamente a
situazioni nelle quali la figura d‟attaccamento ha vissuto esperienze traumatiche (lutti, abusi
sessuali nell‟infanzia) oppure il bambino stesso è vittima di abuso e/o di maltrattamento: la fonte
stessa di sicurezza nella relazione, ossia il caregiver, è anche fonte di stress, paura e spavento
(Atkinson e al., 1995).
È pur vero che potrebbe essere ritenuto un errore voler equivalere una relazione
d‟attaccamento atipica con un attaccamento disorganizzato (Vondra, Barnett, 1999).
Uno dei traguardi più importanti che i genitori devono proporsi di perseguire con figli con
sindrome di Down è il raggiungimento dell‟autonomia; nelle prime fasi di vita, il bambino è
completamente dipendente dai suoi genitori, ma negli anni dovrà acquisire le abilità necessarie per
condurre una vita il più possibile autonoma. L‟autonomia, infatti, oltre ad essere la base per avere
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rispetto e stima in se stesso, è il pre-requisito per il processo di integrazione e per una buona qualità
della vita.
L‟acquisizione dell‟autonomia è una conquista che inizia sin dalla nascita del bambino, infatti
sono i genitori che forniscono le radici del bisogno di crescere e di acquisire certezza nelle proprie
capacità autonome (Zambon Hobart, 1996).
Così i coniugi Carbonetti, genitori di un bambino con sindrome di Down, ma anche esperti
nel settore della disabilità, sottolineano il ruolo dei genitori nella crescita del figlio: «dalla modifica
del nostro ruolo e dalla nostra autonomia come genitori e come operatori deriva direttamente
l‟autonomia del giovane handicappato che va rinforzata e alimentata, anche a costo di maggiori
ansie di fronte alle sue incapacità o alle sue velleità, ai suoi tentativi “sbagliati” o alle sue “fughe in
avanti”» (Carbonetti G., Carbonetti D., 2004). Per loro, molti e gravosi sono i compiti che i genitori
hanno nei confronti di un figlio disabile. Già al momento della nascita i genitori provano sentimenti
di shock e di delusione, perché quel bambino è molto diverso da quello desiderato e immaginato;
essi devono pian piano imparare ad accettarlo con i suoi pregi e difetti ma, al tempo stesso, devono
pensarlo capace di diventare grande, devono nutrire aspettative per il futuro, sorreggendolo nei suoi
progressi e accettando gli insuccessi (ibidem).
Non è facile accettare gli insuccessi di un figlio con problemi, ma i genitori devono imparare
a loro spese, in quanto dagli insuccessi il bambino apprende ad agire in prima persona; il bambino,
però, può sbagliare solo se i genitori gli lasciano la possibilità di farlo, evitando di sostituirsi a lui o
di iper-proteggerlo (Godelli, 2002).
Gli errori pedagogici che i genitori possono correre sono da un lato l‟iper-protezione, con
un‟impossibilità per il soggetto di sperimentare la sua vita da “grande” e dall‟altra l‟eccessiva fretta
a condurlo nel mondo degli adulti, che non consente l‟elaborazione dei limiti e delle potenzialità,
creando uno pseudo-adulto. Un ulteriore ostacolo allo sviluppo dell‟autonomia può dipendere dal
venir meno di uno dei codici genitoriali; infatti, affinché il bambino, non solo disabile, cresca
armonicamente, è necessaria la compresenza del codice materno di appartenenza e del codice
paterno di prescrizione. Di fronte al figlio “debole”, però, il codice che predomina è quello di
appartenenza e quindi non gli si mostrano le regole da seguire; il risultato sarà un‟educazione che
svalorizza il bambino prima, e il giovane poi, non consentendogli una positiva costruzione della
propria identità autonoma (Montobbio, 1997).
Identità che è la conseguenza delle azioni combinate di processi individuali e di fenomeni
collettivi e relazionali. In entrambi i meccanismi possono insorgere problemi quando si ha un figlio
disabile; da un punto di vista psicologico, infatti, i genitori hanno una determinata rappresentazione
mentale del figlio e, in base a questa, si rivolgono a lui; tale rappresentazione determina delle
difficoltà nel riconoscimento della sua alterità. Da ciò dipende un difficile meccanismo di
separazione, perché i genitori devono riuscire a fare propria l‟idea che il figlio può farcela
autonomamente, e solo se cresce in loro la fiducia per quel figlio, possono progettare buoni
interventi educativi. Come sostiene Montobbio, la maturazione affettiva dei genitori è un
presupposto necessario per creare quella distanza relazionale che porta ad una scoperta dell‟alterità
dell‟altro (Montobbio, 2004).
Una fase molto delicata è l‟adolescenza, periodo in cui il ragazzo con sindrome di Down fa
fronte personalmente al problema dell‟autonomia dai propri genitori; egli si trova tra due mondi: da
un lato il mondo familiare, protettivo che lo sostiene e di cui non può fare a meno, dall‟altro gli
amici, i coetanei che “rivendicano” continuamente la propria indipendenza. I genitori devono saper
gestire questa altalena, accompagnando il figlio nel mondo dei grandi e non considerarlo un “eterno
bambino”. Molto spesso ci si pone nei confronti del soggetto Down utilizzando modelli personali e
non riconoscendogli un ruolo sociale; se le modalità relazionali asimmetriche permangono,
l‟adolescente avrà difficoltà a costruirsi un‟identità che sia al tempo stesso autonoma e relazionale.
A causa delle difficoltà che il soggetto trova nel costruirsi un‟identità, egli si ritroverà in un
“Falso sé”, incapace di riconoscersi come un membro valido della società. (Montobbio, 1997).
Per ovviare all‟attivazione di tali meccanismi di difesa, è fondamentale che i genitori
progettino interventi in cui il soggetto costruisca sin da piccolo la propria identità, sperimentando
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situazioni di autonomia e di interazione positiva con gli altri. «La famiglia diverrà depositaria
dinamica del possibile, sarà uno stabile sostegno del poter essere» (Godelli, 2002).
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