Novembre '10
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Novembre '10
Numero Novembre '10
EDITORIALE
Come forse avrete già saputo leggendo le news di questo sito, è “Gretchen pensa troppo
forte” di Simona Gretchen ad aggiudicarsi l’edizione 2010 del premio “Fuori dal Mucchio”,
riservato agli album di esordio italiani usciti nel periodo compreso tra il 1 settembre 2009 e il
31 agosto 2010. A decretare la vittoria del debutto della giovane cantautrice romagnola è
stata una giuria composta dal nostro staff – Beppe Ardito, Alessandro Besselva Averame,
Gianni Della Cioppa, Loris Furlan, Federico Guglielmi, Damir Ivic, Giovanni Linke, Marco
Manicardi, Francesca Ognibene, Aurelio Pasini, Andrea Provinciali, Elena Raugei, Giorgio
Sala, Hamilton Santià, Gianluca Veltri, John Vignola e Fabrizio Zampighi – affiancati come
sempre da alcuni addetti ai lavori “ospiti”, vale a dire Fausto Murizzi (Rockit), Marina Pierri
(Vitaminic, Rolling Stone), Gianluca Polverari (Radio Città Aperta), Ricky ed Elisa Russo
(Radio/TV Capodistria, Il Piccolo), Eliseno Sposato (Radio Libera Bisignano) ed Enrico
Veronese (Blow Up, Italian Embassy). Al secondo posto e distaccata di soli due voti si è
classificata l’opera prima de Il Pan del Diavolo, seguita da quelle di Dino Fumaretto, Heike
Has The Giggles (tutte distanziate di due voti le une dalle altre) e, parecchio distanti, i
rimanenti lavori in gara, a testimonianza di un’annata caratterizzata da alcune produzioni di
assoluto livello ma da una qualità delle uscite non straordinaria.
Questa, nel dettaglio, la lista delle nomination:
2Pigeons, “Land” (La Fabbrica)
Airìn, “Il regalo” (Adesiva Discografica)
Brown And The Leaves, “Landscapes” (Red Birds/Audioglobe)
Ciclope, “Una notte all’Inferno” (Green Fog/Venus)
The Crazy Crazy World Of Mr. Rubik, “Are You Crazy Or Crazy Crazy?” (Locomotiv)
Criminal Jokers, “This Was Supposed To Be The Future” (Iceforeveryone/Audioglobe)
Il Disordine delle Cose, “Il disordine delle cose” (Tamburi Usati/Venus)
The Dissuaders, “Minutes To Go” (Hate)
Eterea Postbong Band, “Epyks 1.0” (Trovarobato/Audioglobe)
Dino Fumaretto, “La vita è breve e spesso rimane sotto” (Trovarobato/Audioglobe)
Simona Gretchen, “Gretchen pensa troppo forte” (Disco Dada/Venus)
Heike Has The Giggles, “Sh!” (Kitano/Goodfellas)
La Linea di Greta, “Cani di banlieue” (autoprodotto)
Maciste, “Maciste” (Devil’s Ruin)
Micol Martinez, “Copenhagen” (Discipline/Venus)
Il Pan del Diavolo, “Sono all’osso” (La Tempesta/Venus)
Davide Tosches, “Dove l’erba è alta” (Contro)
UnePassante, “More Than One In Number” (Anna The Granny)
Verlaine, “Rivoluzioni a pochissimi passi dal centro” (70 Horses)
Vinegar Socks, “Vinegar Socks” (Grinding Tapes)
Il disco della Gretchen va così ad aggiungersi all’elenco delle opere premiate negli scorsi
anni, vale a dire – in ordine cronologico dal 1998 al 2009 – “Ogni città avrà il tuo nome” dei
Santa Sangre, “Tempo di vento” di Lalli, “Sussidiario illustrato della giovinezza” dei
Baustelle, “Rise And Fall Of Academic Drifting” dei Giardini di Mirò, “Capellirame” dei
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Valentina Dorme, “The Mistercervello LP” degli es, “Pai Nai” dei Methel & Lord,
“Socialismo tascabile” degli Offlaga Disco Pax, “Setback On The Right Track” dei Tellaro, “I
Am The Creature” dei MiceCars, “Canzoni da spiaggia deturpata” de Le Luci della
Centrale Elettrica e “Beach Party” di Samuel Katarro. La premiazione avrà luogo nella
serata del 26 novembre al teatro Masini di Fenza (RA), nell’ambito del MEI – Meeting degli
Indipendenti, kermesse all’interno della quale sarà presente come d’abitudine anche il
“Mucchio” con un suo stand.
Nel fare i complimenti a Simona Gretchen e nell’invitarvi a venirci a salutare di persona in
occasione del Meeting faentino, non ci rimane che augurarvi buona lettura con questo
nuovo, ricco numero di “Fuori dal Mucchio” e, naturalmente, buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Filippo Andreani
Viene da una città d’acqua dolce (Como, con le sue storie “scure” e frontaliere). Maneggia
chitarre elettriche e acustiche con sapienza. Canta con una timbrica vocale che non può che
far pensare a De André. Scrive testi da navigato autore pensando, come disco d’'esordio, un
concept album intenso, profondo, impeccabile: una storia d’'amore, piombo e morte, con in
testa gli anni bui del fascismo e nel cuore le vite spezzate dei due partigiani (il capitano Neri
e Gianna).
Ne “La storia sbagliata” (autoprodotto/Venus) ci racconti di Luigi Canali e di
Giuseppina Tuissi. Ci racconti dell'Italia del fascio e della Resistenza, ma anche
d'amore e morte. Quando la storia dei due partigiani è entrata nella tua vita così
prepotentemente da spingerti a raccontarla?
È successo durante la lettura di un libro scritto da Giorgio Cavalleri e pubblicato da Nodo
Libri, circa dieci anni fa. La vicenda mi è sembrata sin da subito troppo appassionante
perché restasse “solo” il ricordo di quel centinaio di pagine stampate. Ho sentito
immediatamente la necessità di riviverla a fondo, di provare a rinarrarla con la voce della
passione. In breve, me ne sono innamorato all’istante.
Il disco è un concept e un esordio. Esordire con un concept non è cosa tanto
frequente. Come si è svolto tutto il lavoro di ricerca, documentazione e scrittura che
dall'ascolto appare molto approfondito?
È stata la parte più bella: ogni giorno un nuovo incontro o una nuova lettura aggiungevano
un tassello alla trama del disco, che piano piano prendeva forma. È stato un lavoro molto
lungo, fatto di colloqui con testimoni ancora viventi, di pagine e pagine tra memoriali e
pubblicazioni varie. E ancora non avevo messo insieme due note o due parole in rima!
Insomma, se mi guardo indietro mi do del matto, ma tanto era l’amore che nemmeno sentivo
la fatica.
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Di solito i dischi d'esordio son figli dell'impellenza e dell'impazienza. Come hai
resistito?
Il mio desiderio era di fare un disco al massimo delle mie possibilità. Questo mi ha fatto
resistere all’impazienza, che peraltro è parte non secondaria del mio carattere. Volevo
pronunciare la parola “finito” solo una volta conseguita la soddisfazione piena. Dei testi ho
curato tutto fino al particolare, cambiando più volte addirittura articoli e preposizioni! Sono
sempre stato maniaco della lingua cantata, con tutte le paranoie che questo comporta.
La tua musica è un folk italiano ben definito, senza eccessive stravaganze. Suoni
tutto e arrangi le canzoni come un artista navigato, ma di te sappiamo poco. Quando
hai cominciato? E nel disco, come hai sposato le parole con le note?
Tra tutte le virtù umane la più importante è la sincerità, credo. Quindi, ti confesso volentieri
che senza Davide Lasala – chitarrista e caro amico – gli arrangiamenti e le musiche
sarebbero state molto meno interessanti. Filippo ama scrivere, ma è solo un suonatore e
non un musicista. Tra l’altro dico suonatore con un certo orgoglio perché – a proposito di “da
dove vengo” – sin da ragazzino ho amato alla follia Joe Strummer. Un poeta, ma non
propriamente un polifonista fiammingo. Quanto al connubio tra note e parole: prima le
seconde. Per me il testo, il “cosa dire” e soprattutto il “come dirlo”, sono fondamentali. A
volte penso che potrei mollare la chitarra, ma per niente al mondo mollerei la penna. Questo,
me ne rendo conto, a volte penalizza l’aspetto musicale. Ecco perché ci ho lavorato con
Davide: le musiche di Filippo sarebbero state all’esclusivo servizio del testo, con ovvio
disappunto di qualunque impianto stereo.
Il richiamo di De André è inevitabile. Lungi da noi tentare un paragone, ma la
timbrica, le rime perfettamente cesellate, la cadenza vocale portano inevitabilmente al
genovese. Come ti trovi di fronte a questa associazione? È un peso o una lusinga?
È certamente una lusinga, posta in questi termini. Diventerebbe invece un peso se mi si
contestasse un atteggiamento emulativo. Anche perché se avessi avuto come scopo quello
di imitare qualche grande del passato, avrei scelto una sfida più semplice e non De André.
Da lui ho imparato tanto sulla scrittura in musica ed è naturale che l’operato dei maestri
finisca per caratterizzare quello degli alunni. Ma tutto qui. Sorrido solo all’idea del paragone,
che fai bene a non tentare (il risultato sarebbe fatto da due elenchi sterminati: uno di lodi a
lui, l’altro di insulti a me).
Il disco dura quasi un'ora ed è un racconto. Dal vivo come lo presenti? Suoni e canti
tutto dall'inizio alla fine?
La forma cambia a seconda della situazione: ci sono occasioni (ad esempio nelle librerie)
dove presentare questa Storia vuol dire innanzitutto presentarne i testi. In altri casi, invece,
senza una sezione ritmica che martella la buona riuscita sarebbe compromessa. Ad ogni
modo, cerco sempre di parlare quanto più possibile al pubblico per facilitargli la
comprensione della vicenda canzone dopo canzone. Per me è importante che la gente
capisca cosa dico e non solo che ascolti gli accordi che suono.
Ho letto da qualche parte che ti definisci un avvocato che non esercita la professione
perché farebbe la fine del medico di Spoon River (ed ecco che, insieme a Edgar Lee
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Masters, torna De André). Fuggi quindi da una vita che ti costringe alla falsità fatta
professione?
No, non è per la falsità di quella professione che ne ho smesso l’esercizio, quanto perché –
come il Medico - sarei presto finito a vendere elisir di giovinezza (fuori di metafora, sarei
andato a rubare per non morire di fame). Rifiutando il patrocinio a circa il 51% dei potenziali
assistiti non si può campare. Ma io ho sempre messo davanti il cuore e – tanto per farti un
esempio pratico – non avrei mai richiesto l’esecuzione di uno sfratto o di un pignoramento
per poi spendere il mio onorario al ristorante. Ho dei principi, alcuni dei quali possono magari
sembra idioti, ai quali voglio necessariamente essere fedele. Mi sarebbe piaciuto fare
l’avvocato, ma il 49% restante non sarebbe bastato nemmeno alle spese di studio. Ne ha
perso il mio ego (mi piaceva l’idea dell’Avv. davanti al cognome), ma ne ho guadagnato in
bellezza quando, la sera, mi guardo allo specchio.
Tutto sommato “La storia sbagliata” potrebbe essere l'elisir che vendi, ma un elisir
che funziona, una pozione vera. Stai già pensando al prossimo intruglio, nel tuo
laboratorio?
Ci penso costantemente... Ogni giorno trovo nuovi ingredienti. Ad esempio, proprio ieri ho
finito un bellissimo libricino su Sabra e Chatila e la descrizione dei cadaveri è talmente
realistica che ti invoglia a scriverci una canzone per ogni morto. Non farò, comunque, un
disco su questo. È solo per dirti che ho continui stimoli e che non vedo l’ora di dire “Ecco! Ci
siamo! Questo è l’intruglio giusto” e buttarmici dentro di testa (e di cuore).
Contatti: www.myspace.com/filippoandreani
Marco Manicardi
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Francesco Lucarelli
Secondo titolo in catalogo per la neonata etichetta Route 61 – che nel sottotitolo recita
programmaticamente “Americana Made in Italy? Perché no!” – l’esordio del romano
Francesco Lucarelli si contraddistingue per solida scrittura e un cast veramente d’eccezione
(da Graham Nash a Jeff Pevar). Mixato a San Francisco dal celeberrimo Stephen Barncard,
“Find The Light”, tra chitarre resofoniche, echi jazz e profumi West Coast, trasuda la stessa
passione con la quale il suo autore ci ha piacevolmente sommerso di parole.
Sei maggiormente conosciuto come l'eroico fondatore della fanzine "Wooden Nickel",
nonché autore dell'enciclopedica opera in tre volumi "Crosby, Stills, Nash And
Sometimes Young", eppure la tua storia di musicista comincia addirittura sulle assi
del Folkstudio. Cosa è successo prima di “Find The Light”?
Quando nacque "Wooden Nickel", a fine 1983, avevo già una piccola esperienza musicale:
c'erano state alcune apparizioni al Folkstudio Giovani, lo spazio domenicale che Giancarlo
Cesaroni dedicava agli esordienti, e avevo suonato con Marco Martella a Londra, come
busker, raggranellando qualche sterlina. A metà anni Ottanta, dall'incontro con Stefano
Frollano, nacquero i Blue Flares; suonavamo musica acustica: chitarre, armonica e qualche
tastiera. Nel 1987 registrammo un demo che finì nelle mani di Billy Talbot, il bassista di Neil
Young & Crazy Horse. Talbot se ne innamorò e lo fece ascoltare ad alcune persone della
WEA, che mostrarono un certo interesse. Sembrava potesse uscirne qualcosa ma non se ne
fece nulla. L'anno successivo, durante un mio viaggio a Los Angeles, Elliot Roberts –
manager storico di Young, ma anche di Dylan e Petty – che in qualche modo aveva avuto
una copia di quel nastro, mi propose un contratto per le edizioni musicali delle mie canzoni.
Rimasi a bocca aperta. La sua proposta, sorprendente, mi diede una bella carica,
confermando che c'era del buono in quello che scrivevo.
Decisi che era giunto il
momento di dare un senso a quanto avevo accumulato in quegli anni e nel 1990 registrai
otto pezzi in studio, una collezione di canzoni che considero essere il mio primo disco, anche
se fatto circolare solo su un’audiocassetta realizzata con pochi mezzi. Il titolo era “Root Hog
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Or Die” e da lì è tratta "Echoes Of War", una delle mie due canzoni pubblicate tra le "Songs
Of The Times" sul sito di Neil Young. Dal 1990 all'uscita di “Find The Light” sono successe
molte altre cose, soprattutto per quanto riguarda la mia attività dal vivo, ma a livello di studio
di registrazione niente di significativo, a parte l’incisione di una mia canzone insieme ai
Crazy Horse e alcuni demo in italiano, che potrebbero costituire la base del prossimo
progetto.
A proposito: la registrazione del disco è stata lunga e travagliata, come si può
apprendere dal bel booklet che lo accompagna. Secondo che criteri ti sei mosso?
È vero, il disco ha avuto una lunghissima gestazione. Le prime registrazioni risalgono
addirittura al 1997, quando il progetto iniziò come disco a due, insieme a Stefano Frollano.
Dopo circa un anno, ci fermammo. Stefano proseguì per conto suo. Io ripresi in mano le
vecchie registrazioni solo nel 2005. Nel frattempo avevo maturato l'idea che mi avrebbe
guidato nella realizzazione del mio progetto: riunire gli amici con i quali avevo fatto musica e,
per quanto possibile, alcuni dei musicisti che mi avevano ispirato. Per me la musica ha
sempre significato condivisione e per questo la trovo fortemente ed intimamente collegata al
significato di amicizia. Così, quando ho iniziato a costruire le basi dei pezzi, immaginavo chi
avrei potuto invitare su ciascuna canzone. Avevo già ben chiari i suoni e gli arrangiamenti
che desideravo e sapevo di poter contare su un numero nutrito di amici talentuosi e di artisti
straordinari. Non mi restava che scegliere le persone più adatte ad ogni brano. Alla fine ce
l'ho fatta con quasi tutti, anche con Graham Nash: era da cinque anni che ne parlavo con lui
e con David Crosby, e il mio desiderio era avere le loro voci sui cori di "If Trees Could Talk".
Con Crosby non è semplicissimo combinare, a meno che non sia già in studio con gli altri.
Alla fine dello scorso anno, Graham mi ha chiesto un rough mix per ascoltare il lavoro e ha
scelto di cantare su "Mr. Sunshine". Quando mi è arrivato il pronto-ascolto realizzato da
Nash, mi sono passati davanti tutti gli anni in cui ho inseguito il sogno, fin dal momento in cui
misi sul piatto "Déjà Vu" per la prima volta.
La tua cifra stilistica è indiscutibilmente più "americana" che italiana, a cominciare
dai testi tutti in inglese. Hai mai avuto paura che in qualche modo ciò possa
ghettizzarti?
Non ci ho mai pensato. Quando scrivo, mi lascio semplicemente trasportare dal flusso di
coscienza. Lascio che le immagini e i pensieri scorrano liberamente e poi si compongano in
parole e musica con naturalezza. Quando la musa si ricorda di te, non possono esistere
ostacoli razionali o barriere di altra natura. Il rischio è quello di perdere la spontaneità e la
freschezza di quanto sta nascendo. E così, nei preziosi momenti in cui l'ispirazione apre
l'anima, non mi fermo a pensare se sia meglio usare l'italiano o l'inglese. L'aver composto
molti più pezzi in inglese è la naturale conseguenza del fatto che io mi senta più vicino ai
singer-songwriter americani che ai nostri cantautori. Per "Find The Light", ho registrato
canzoni in inglese perché questo è il mio omaggio alla West Coast e non potevo fare a meno
di sdebitarmi nei confronti di un suono, di una visione, di un linguaggio compositivo e degli
artisti che mi hanno ispirato. Comunque nei miei cassetti esistono anche un po’ di canzoni in
italiano e magari il prossimo disco sarà proprio in italiano e con suoni meno morbidi di "Find
The Light". Ho idee diverse che mi piacerebbe realizzare e non ho timore di vedermi
affibbiate eventuali etichette. Ci sono abituato fin dai tempi in cui mi proponevo ai locali con
qualche cover-band di Neil Young e i cosiddetti direttori artistici mi rispondevano: "Ah, allora
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fate country!". La cosa più divertente era poi guardare le loro facce quando nel set elettrico
suonavamo pezzi come "Hey Hey, My My" o "Rockin' In The Free World".
Contatti: www.francescolucarelli.com
Carlo Babando
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Madame Lingerie
Dopo dodici anni di attività, esce “D’amore, soldi e vendetta”, il primo album di Madame
Lingerie da Roma, che raccoglie il loro meglio ma trasuda anche una forza incredibile,
dettata dalla rabbia, da un istinto musicale tenuto a bada per troppo tempo che qui esplode e
i testi in italiano molto forti, le melodie irresistibili, e una voce, quella di Alessandro possente
e ficcante: sono tutti elementi che ci protendono all’ascolto continuo di questo disco e di
questa band che spero finalmente possa uscire dall’oblio.
Come mai questo disco esce autoprodotto?
Siamo stati prodotti tre anni fa conto terzi e per tre anni siamo rimasti chiusi in uno studio,
dove ogni giorno venivano rinviate una serie di promesse; a quel punto ci siamo stufati, ci
siamo licenziati e abbiamo deciso di fare per conto nostro. Questa era la nostra seconda
produzione infruttuosa e vista la situazione critica abbiamo deciso di fare tutto il passo per
conto nostro. Abbiamo lavorato fisicamente e seriamente. Abbiamo messo un po’ di soldi da
parte per tentare un’uscita che fosse quantomeno dignitosa.
Quando pensavate ancora all’idea di gruppo cosa era fondamentale per voi?
Per noi fondamentale è suonare e poi cerchiamo sempre di fare delle canzoni che portino
dentro di sé una schiettezza, un messaggio, qualcosa per cui un ascoltatore si fermi ad
ascoltare e non ad intrattenersi: per quello ci sono tante altre cose che si possono fare.
Quando voi ascoltate la musica degli altri qual è la cosa che vi affascina sempre?
Personalmente è l’insieme. Non sono mai riuscito a scindere, tipo “senti che bella voce o
che bell’ arrangiamento, che bel testo”. Deve essere tutto insieme. Non posso scindere le
cose. Ascolto tantissima musica con magari bei testi che vanno a finire sempre in quel
cantautorato che comunque più di tanto non ascolto essendo di matrice rock. O belle
canzoni rock a cui mancano dei testi che portino dentro di sé un significato molto evidente.
Ultimamente, sono rimasto folgorato da Il Teatro degli Orrori e adesso dal nuovo dei
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Massimo Volume.
In effetti il tuo cantato ricorda a tratti quello di Pierpaolo Capovilla del Teatro degli
Orrori: quindi l’hai un po’ assorbito nel tuo background naturale?
In realtà sì, non lo nego, perché comunque finché ci paragonano ad una cosa che ci piace
ci sta bene. È anche vero d‘altra parte che i Madame Lingerie sono dodici anni che esistono
e che fanno più o meno quel genere di musica quindi in realtà è l’influenza a monte simile in
entrambi i casi.
Voi ci siete da dodici anni, ma andando ancora più indietro, chi ti ha suggerito di
cominciare a scrivere canzoni? O è stata una tua consapevolezza che ad un certo
punto è arrivata?
In realtà la cosa che mi piace per quanto riguarda me è il fatto che se potessi non lo farei. È
un’esigenza. Io mi diverto molto di più a suonare e basta che a suonare, cantare e scrivere.
Però è più forte di me. Vorrei non esserci all’interno del nostro gruppo, figurati. Mi
piacerebbe fare come Brian Wilson scrivere e basta per poi starmene a casa.
Quando scrivi i testi pensi a chi ti ascolterà? E questo ti influenza?
No. Non ci penso. No non mi influenza. Rispetto alla prima versione dei pezzi ci son
tantissimi cambiamenti all’interno dei testi e della stesura dei pezzi stessi. Noi partiamo da
pezzi che durano sette minuti e poi cominciamo a fare dei tagli senza pietà togliendo tutto il
superfluo nel testo e nella musica. Quindi quando facciamo un pezzo e lo mettiamo su disco,
in realtà è quella cosa più vicina a quella che volevamo. E ci sono dei tempi vuoti che sono
voluti.
Dove e come è stato registrato questo disco?
A Roma, nello studio di un nostro amico che fortunatamente ci ha dilazionato anche le
spese, altrimenti ancora non avremmo potuto farlo uscire. Tra una pausa pranzo o a fine
lavoro ci siamo rinchiusi in sala, sotto stress perché dopo otto ore di lavoro è stressante
mettersi lì e continuare ad essere concentrati però abbiamo cercato di mettere questa
frustrazione all’interno dei pezzi. Abbiamo lasciato anche delle imperfezioni, quando con il
computer avremmo potuto intervenire tranquillamente, ma ci piaceva di più così.
Questo disco è più arrabbiato o rassegnato?
È un’arrabbiatura dovuta alla rassegnazione. No, scherzo. In realtà siamo dei finti ottimisti o
dei pessimisti in pensione. Non lo so. Io personalmente ci trovo sempre una chiave di lettura
positiva nonostante si spari un po’ contro tutto, ma non c’è mai autocommiserazione.
Dall’ultima ondata di positività, pensando a questo disco che doveva uscire che
difficoltà avete riscontrato avvicinandovi alla musica in questo periodo?
Vedo cerchie sempre molto ristrette. Tante piccole entità che tentano di portare avanti le
proprie cose e ovviamente non c’è spazio per altre persone. E quindi per chi vuole uscire è
dura. Noi in realtà non ci siamo neanche posti il problema, perché eravamo stanchi di tutte
queste situazioni. Noi ci siamo messi un po’ di soldi da parte e abbiamo fatto le nostre
mosse con quello che volevamo fare, dove volevamo arrivare e stiamo cominciando ad
avere i primi risultati fortunatamente.
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Autopresentatevi. Tu, sei Alessandro Di Luca, poi ci sono Luciana Luccini e Luca
Cartolano. Come siete?
Ti devo subito smentire. Come accade spesso, c’è l’elemento che registra con il gruppo e
alla fine decide di lasciar perdere. Questo elemento per noi è stato Luca. Adesso siamo io e
Luciana per quanto riguarda la formazione ufficiale, poi dal vivo siamo accompagnati da
Valerio Fisik degli Inferno alla chitarra e da Fabrizio Baioni dei Drunken Butterfly alla
batteria. Abbiamo cercato dei compagni di avventura che volessero fare i musicisti sempre e
comunque, cosa molto difficile perché si pensa che arrivi prima o poi qualcuno con una
ventiquattrore piena di soldi. Per noi, è fondamentale suonare perché si ha voglia di
suonare. Punto primo. Poi ci sono tutta una serie di altre cose: la passione per il cinema e la
letteratura, e siamo molto interessati a strumentazioni vintage e alla ricerca sonora.
C’è un gruppo che amate tanto da scambiarvi una canzone? Nel senso che voi
cantereste una loro canzone e loro una vostra?
Con Il Teatro degli Orrori, Verdena, Marlene Kutz, Massimo Volume o Afterhours, volentieri,
ben venga. Con tutti loro.
Dal vivo suonerete in quattro quindi?
In quattro come formazione base e per alcuni eventi anche in cinque con Mattia Candeloro
dei Fumisterie che è anche quello che ci ha registrato il disco, alle tastiere e oggettini vari. E
dal 29 ottobre su wondermark.com troverete il cd in download a pagamento o potrete
richiederne copia fisica.
Contatti: www.madamelingerie.it
Francesca Ognibene
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ZEUS!
Gli ZEUS! debuttano ufficialmente lo scorso anno su vari palchi con una violentissima ed
eterogenea miscela giocata sul dialogo incessante tra basso e batteria, il primo imbracciato
da Luca Cavina (Calibro 35, Transgender, Beatrice Antolini), responsabile anche dei pochi e
distortissimi interventi vocali, la seconda percossa da Paolo Mongardi (Transgender, Il
Genio, Jennifer Gentle): abbiamo intervistato quest'ultimo a proposito del disco d'esordio del
duo, che arricchisce le trame elaborate durante i concerti con l'intervento di alcuni ospiti.
Come nascono gli ZEUS!? A quanto ci è dato sapere si è trattato di un incontro
estemporaneo che però ben presto ha assunto una identità tutta sua, in primo luogo
sul palco. Immagino che il tutto nasca da una comune passione per determinate
sonorità estreme, jazzcore, noise e dintorni... In che modo avete deciso di unire le
vostre forze, e in questo modo?
Gli ZEUS! nascono dalla passione più genuina di tutte, quella che prescinde dalla
tassonomia, o dalle sonorità, quella cioè per l'organizzazione di riff di un certo tipo i quali,
messi insieme in un certo modo, fanno esclamare: “Spacca il culo!”. Le combinazioni che
avremmo sempre voluto sentire nei nostri dischi preferiti, ma che non abbiamo mai trovato,
ce le siamo fatte noi. È un bagaglio adolescenziale che ci piace portare dietro, perché non si
tratta di “unire le forze”, ma di ricordare le pulsioni del primo approccio, delle prime volte,
usandole attraverso il linguaggio che ci si è costruiti nel tempo a forza di darci. E noi ci
abbiamo dato un bel po'. C'è voluta una decina d'anni di confusione tra progetti vari, sala
prove non-stop e registratore sempre acceso per avere chiaro che potevamo fare le cose di
cui sopra anche in due. Per esordire poi dal vivo è bastato puntarci alla tempia una semplice
pistola, complici i simpatici amici Mariposa. In generale credo che gli dobbiamo molto.
È stato difficile ricondurre quella che nasce come una esperienza live (e chi ha
assistito ad un concerto degli ZEUS! sa quanto le dinamiche della vostra musica
siano amplificate in concerto, soprattutto a livello di dialogo tra i due strumenti) ad un
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discorso di studio di registrazione? Ascoltando il disco si percepisce il bisogno di
non limitarsi a riproporre le energie del palco, e di azzardare qualche movimento
ulteriore, allargando il tutto a ospiti e strumenti...
Volevamo un disco che fosse saturo e grezzo, che andasse a inzaccherare l'altro lato, il più
calcolato. Volevamo delle micro-composizioni-marce. Quindi, dopo un po' di training
autogeno, un po' di stretching e qualche iniezione abbiamo registrato tutto d'un fiato, in
cantina e in diretta. Gli orpelli (pochi ma buoni) sono arrivati a mente fredda a completare un
quadro che era giusto terminare. Ed eccoci quindi in compagnia di alcuni stimati amici come
Enrico Gabrielli al tastierame, Valerio Cané al theremin, Andrea Mosconi all'assolo
bruciatasti. Il tutto poi impastato dalle manine d'oro del dott. Favero, specialista in
macellazione a cuore aperto.
Al di là della violenza sonora, il dato che emerge dal vostro progetto è il fatto che vi
divertiate parecchio... non solo da un punto di vista di dinamica tra strumenti, ma
anche perché non amate prendervi troppo sul serio direi, lo testimoniano i titoli
paradossali che avete dato ai pezzi. Vi riconoscete in questa esigenza?
Si tratta di un divertimento molto serio, perché ZEUS! ama la vita in tutte le sue forme e per
dimostralo usa la violenza. Ma sono proiettili buoni i nostri, che fanno bene a tutta la famiglia
e sono suffragati da titoli di raro acume, che esprimono tutta la profondità di questi
melodrammi alla nitroglicerina.
Qualcuno tirerà inevitabilmente in ballo la definizione di improvvisazione, in realtà i
vostri brani sono in gran parte “scritti”, l'idea che emerge dai vostri concerti è quella
di un canovaccio di base sul quale, di volta in volta, potete inserire un ampio numero
di variazioni: nasce così il repertorio degli ZEUS!?
Puoi tranquillamente togliere le virgolette da “scritti”, perché se improvvisassimo questa
roba allora saremmo anche in grado di prevedere le calamità naturali; semmai ci sono delle
sponde ben nette dentro le quali ci permettiamo di rimbalzare, ma intendiamoci, sono binari
che portano in una sola direzione, verso una terra chiamata Libertà.
Il progetto nasce estemporaneo e ora ha una via tutta sua, su disco e sui palchi:
quale sarà l'evoluzione, anche in rapporto alla necessità di far collimare gli ZEUS! con
gli innumerevoli altri progetti di cui fate parte?
ZEUS! è spontaneo sì, ma per nulla estemporaneo, è anzi frutto di inflessibili riflessioni
interne ed esterne atte alla conquista del mondo, isole comprese. La conciliazione di questo
desiderio, a dir poco utopico, con i nostri numerabili progetti, rende il processo più lento, sì,
ma inesorabile.
Contatti: www.myspace.com/zeuspower
Alessandro Besselva Averame
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Numero Novembre '10
Alex Cambise
Tre vie per un respiro
AIPM/Self
Di gavetta ne ha fatta Alex Cambise, chitarrista e autore, passando per diverse
collaborazioni (Massimo Priviero, Masimo Bubola, Gang, Andrea Parodi e altri) fino a un
percorso musicale che è sempre andato di pari passi con una certa etica professionale.
Lodevoli infatti sono l’insegnamento dal 1996 al 2000 presso il carcere minorile “C. Beccaria”
di Milano insieme a Walter Lupi e Antonio “Toto” Testa e il lavoro di restauro e remastering
del repertorio di Gorni Kramer che il nostro ha curato nel 2007 per la Duck Records.
Produzioni, collaborazioni che lo hanno portato al fatidico disco di esordio “Tre vie per un
respiro”, brani del suo canzoniere riarrangiati e confezionati per dare un senso di
omogeneità. A dare spessore al disco collaborano artisti come Massimo Previero, Riccardo
Maffoni, Massimo Maltese, Massimo Gazich, per una reunion fra colleghi-amici con cui
condividere ideali e progetti. Il risultato è un rock senza novità sostanziali, con buoni spunti
melodici, volutamente diretto e senza fronzoli, come nei brani di apertura “Oltre il tempo” e
“Dimmi dove sei” che rimandano ai Nomadi o al Ligabue d’annata (“Diogene nel fango”). “La
ragazza di Longarone” viaggia su coordinate folk sospese fra i Modena City Ramblers e
Massimo Bubola, la dilanyana “Faccia di pietra”rivela notevoli aperture melodiche mentre la
strumentale. “Tre vie per un respiro” ci presentano il lato da “guitar heroes” di Cambise,
dettaglio non trascurabile delle sue potenzialità mentre “Ore piccole”, in duetto con Riccardo
Maffoni, è una piacevole sorpresa pop-jazz con un lodevole assolo finale di Massimo
Maltese. Un lavoro in definitiva che è un ottimo inizio come rock d’autore confidando in una
prossima ricerca musicale più personale e originale.
Contatti: www.alexcambise.com
Beppe Ardito
Pagina 15
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Numero Novembre '10
Andrea Cola
Blu
Aidoru-A Buzz Supreme/Audioglobe
Andrea Cola, già nei Sunday Morning, esordisce sulla lunga distanza nei panni solistici con
“Blu”, destreggiandosi bene fra voci e chitarre e facendosi accompagnare dall'arrangiatore
Dario Giovannini, da Glauco Salvo e Diego Sapignoli, senza dimenticare Andrea Comandini,
che produce il tutto e dà una mano con le parole. L’intento è virare verso una forma-canzone
maggiormente cantautorale: lo si capisce innanzitutto dal passaggio testuale dall’inglese
all’italiano, che frutta immagini non di rado surreali, così come dalla scelta di sonorità che,
pur non perdendo in impatto prettamente rock, si avvalgono di innumerevoli sfumature.
Merito di una strumentazione che, oltre a chitarre, basso e batteria, abbraccia organo, synth,
pianoforte, fiati e violini. Gli undici brani in programma, nuovi di zecca nella resa effettiva
seppur recuperati in parte da un EP pubblicato soltanto on line lo scorso anno, funzionano
bene e scorrono con indiscussa gradevolezza, risultando nell’insieme compatti, ben disposti
l’uno dopo l’altro. La vivace “La mattina presto”, le più morbide “Legno bianco” o “Se io, tra
voi” disegnano un pop di spessore che può ricordare Alessandro Fiori, ma vi sono persino
chicche di garage-blues tra Doors e Jon Spencer (si senta “Il cuore trema”), episodi dalle
melodie classiche, a presa diretta (è il caso di “Piove a Milano”), intimisti episodi
filo-battistiani (“Prima comunione”) oppure composizioni maggiormente articolate, come
“L’isola” e “Anna, senti che tamburi”. Il songwriter di Cesena possiede le carte in regola per
continuare a giocare la sua interessante partita in proprio.
Contatti: www.andreacola.it
Elena Raugei
Pagina 16
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Numero Novembre '10
Arturo Fiesta Circo
E lo chiamerai Giovanni
ViaAudio/Venus
Arturo Fiesta Circo è un progetto che ruota attorno all’esperto cantante e chitarrista
italo/belga Sergio Arturo Calonego, supportato da una specie di “personalissima orchestra
portatile”. I compagni di avventura sono Fabio Giussani alla batteria e alle percussioni, Fabio
Bianco al basso, Giuseppe Magnelli dei Grenouille alla chitarra e agli effetti e Sara Denova,
già esordiente come solista, al pianoforte, ma segnaliamo anche la partecipazione della
corista Sara Giolfo e del compositore Armando Illario, prestato alla fisarmonica. Dopo
“Distratto a Sud”, registrato in presa diretta nel 2008, “E lo chiamerai Giovanni” alza la posta
in gioco: i dieci brani in scaletta rivelano una ricchezza notevole, tanto negli arrangiamenti,
raffinati e stratificati, quanto nei testi, che vanno a posizionarsi in un vero e proprio concept
dalle temerarie aspirazioni letterarie. Trattasi di una fantasiosa, metaforica “Rivisitazione
delle Sacre Scritture, del Nuovo Testamento come storia di tutti i giorni, come storia di oggi”:
per rendere l’idea, Gesù di Nazareth, indiscusso protagonista, diventa Geniale Pianista,
mentre l’Arcangelo Gabriele fa l’Acrobata e ama Maria la Ballerina. Tornando alla musica, i
costanti punti di riferimento sono il blues e il jazz, la canzone d’autore italiana e francese,
caposcuola come Vinicio Capossela o Bandabardò, la nobile tradizione degli storyteller:
sebbene non si punti a “fare niente di innovativo”, la varietà è assicurata con chanson
d’atmosfera, esplosioni di folk da piazza, ouverture strumentali, ballad classicissime,
aperture rock. Ascoltare per... credere.
Contatti: www.arturofiestacirco.it
Elena Raugei
Pagina 17
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Numero Novembre '10
Carrick
Nasty Affair
EnZone/Audioglobe
Cerchiamo di capirci, una band che sceglie il suo nome in onore di un tignoso
centrocampista inglese che probabilmente avrebbe meritato tutt’altra carriera e suona una
musica fuori tempo massimo di almeno dieci anni e non si preoccupa nemmeno di
dissimulare merita rispetto a priori. Però bisogna dirlo subito. I problemi fondamentali di
“Nasty Affair” sono due. E sono belli grossi: la qualità delle canzoni e della registrazione. Se
per le canzoni non possiamo certo farne una questione personale (oh, ci sta, non è che
siamo tutti in grado di scrivere grandi pezzi), per il suono invece si poteva lavorare di più. La
batteria dei Carrick è registrata “malissimo”. Si sente la cinghia del pedale della grancassa e spesso questo sovrasta addirittura il kick in sé - e mancano profondità e dinamica.
Insomma, un lavoro mediocre. Le canzoni invece hanno il problema di essere così
effettivamente “brit-pop” da cadere in quella zona grigia in cui “brit-pop” vorrebbe voler dire
Oasis ma finisce per essere Hurricane #1. Un surrogato di un surrogato di un surrogato
senza nemmeno troppa grinta e qualità. Roba che può andare bene per divertirsi – e in
effetti l’ascolto di “Nasty Affair” non provoca quell’endemico fastidio che i dischi di chi si
crede più furbo degli altri provocano – ma non per spenderci dei soldi. Non è abbastanza.
Poi dipende dalle ambizioni di ognuno, ma i Carrick dovrebbero cercare di scrivere qualche
ritornello veramente convincente per giustificare la loro pur onestissima adesione fuori
tempo massimo a un canone culturale così connotato.
Contatti: www.myspace.com/carrickita
Hamilton Santià
Pagina 18
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Numero Novembre '10
Casa
Peggioramenti

Dischi Obliqui
I Casa sono da sempre una questione di attitudine. Un flusso di sperimentazione che
macina musica, parole, situazionismo, performance, immagini. Come dimostrano anche i
concerti del gruppo o i video che girano in Rete, non ultimo un testamento biologico in piena
regola sottoscritto dai musicisti coinvolti nel progetto (www.youtube.com/user/casamusic).
Materiale che, se fossimo in Inghilterra, finirebbe magari su una rivista come “The Wire”,
mentre in Italia non trova sbocchi, complice l'approccio da intellettualoidi e la scarsa
attitudine alla vita on the road dei Nostri (parola di Filippo Bordignon). 
Eppure
l'immaginario scardinato e virtuoso del quartetto (chitarra, tastiera, basso, batteria) non cede
di un millimetro, arrivando con “Peggioramenti” al quarto disco pubblicato in tre anni. Un
ipertrofismo creativo che fa il paio con il “solito” eclettismo musicale, capace di conciliare
jazz (“No”), blues-soul à la Archie Shepp (“Volontè Blues”), elettronica (“Intro”), kraut
(“Caltrano”) e una vocalità che ricalca le svisate teatrali di un Demetrio Stratos destrutturato
e aggiornato ai giorni nostri. 
Dedicato a quaranta artisti di colore che hanno
influenzato la band (si va da Blind Willie McTell a Richard Pryor, da Malcom X a The Last
Poets, da John Coltrane a Grandmaster Flash) il disco raccoglie numerosi ospiti (tra cui
Andrea Garbo) e riesce nell'intento di riconfermare una realtà brillante, atipica e decisamente
poco in linea con un indie autoctono talvolta fin troppo standardizzato nelle aspirazioni.
Contatti: www.myspace.com/casamusic
Fabrizio Zampighi
Pagina 19
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Numero Novembre '10
Central Unit
I See You
MP Records
Sono trascorsi ormai trent’anni dal giorno in cui i Central Unit mossero i loro primi passi nel
pionieristico mondo della musica indipendente italiana. Trent’anni che valgono come due
secoli, se solo si pensa alle differenti prospettive che si avevano allora, non solo per quanto
concerne l’aspetto culturale – per cui suonare certe cose rappresentava davvero
un’alternativa al grigiore dilagante – ma anche e soprattutto per il progresso mediatico e
tecnologico intervenuto nel mentre; sufficiente ricordare che una volta c’era solo il vinile e
oggi a malapena i cd, né ci si poteva avvalere di internet o di posta elettronica per diffondere
suoni e idee.
Oggi la band di Riccardo Lolli non è più il gruppo di ingenui e intraprendenti sognatori che fu
ai tempi dell’ep di esordio o del successivo memorabile long playing, pubblicato
proditoriamente dalla CGD nel 1983; oggi l’ensemble ha forse una cognizione più distaccata
del fare musica, meno impulsiva intendo, e proprio per questo più matura. Tale approccio
emergeva già dal loro precedente album – “Internal Cut”, che ormai risale a sei anni orsono
– e adesso è meglio definito in “I See You”, opera di grande eleganza, suonata ed arrangiata
in maniera impeccabile.
Un disco di questo genere un tempo si sarebbe detto “prog”, più di recente lo avremmo
etichettato come “post-rock”. All’ascoltatore l’onere tutto formale di definirlo come meglio lo
aggrada; chi vi scrive preferisce usare il proprio spazio per encomiarne la ricchezza
strumentale, la laboriosità delle trame sonore, il gusto con cui le basi elettroniche, i fiati e le
linee vocali (sostanzialmente in lingua inglese) s’intrecciano in un garbato e avvincente
equilibrio.
Contatti: www.centralunit.com
Fabio Massimo Arati
Pagina 20
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Numero Novembre '10
Electric Sixty Nine
Cornelius The Colonel & The Hot Air Balloon Club
Face Like A Frog/Goodfellas
Tagliano il traguardo del terzo disco gli Electric Sixty Nine, band italiana solo di passaporto,
visto che l’anima è il cantante e chitarrista Maury Wood, uno zingaro che ha girato il mondo
e da questo vagabondare hanno ereditato il gusto per un rock ad ampio respiro, che ama
collocarsi in un contesto decisamente seventies, diciamo tra Rolling Stones e Black Crowes,
ma che non disdegna anche influenze più vicine a noi, seppur sempre con un taglio
retrospettivo. Per esempio “Heart Of The Hurricane” è una ballata intensa, che sembra
estirpata di sana pianta dal repertorio dei Soul Asylum (qualcuno se li ricorda ancora?). Ma
non è l’unico esempio, infatti altre parti del disco hanno quell’aroma intenso tipico di certo
rock americano degli anni 90, che amava guardare alla classicità, con qualche riferimento
più moderno e penso a Gran Lee Buffalo e Crash Test Dummies. Con una simile attitudine
inevitabilmente “Cornelius The Colonel & The Hot Air Balloon Club” finirà con il trovare
stimatori tra un pubblico intenzionato a dedicare il proprio tempo non solo ai vecchi leoni del
rock, ma anche a giovani interpreti che con passione e rispetto cercano di ereditarne se non
la classe almeno il gusto. In questo senso l’album, trentacinque minuti in tutto – che
bellezza! – offre almeno tre delle nove canzoni, assolutamente degne di diffondere il
testimone di un rock vintage, godibile. Personalmente segnalo “Magnolia”, un hard’n’roll di
scuola Stones, “Muddy Roots”, con un’andatura alla John Mellancamp, e la citata “Heart Of
The Hurricane”, forse il brano di punta dell’album.
Contatti: www.myspace.com/electric69band
Gianni Della Cioppa
Pagina 21
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Numero Novembre '10
elio p(e)tri
Non è morto nessuno
Matteite/Venus
elio p(e)tri – si scrive con le minuscole, così recita la scheda tecnica – nasce su MySpace –
c’è scritto anche questo, sulla scheda tecnica – quando viene contattato da Matteo Dainese
detto “Il Cane” – sempre da scheda tecnica – e insieme lavorano sull’esordio del primo come
cantautore. “Non è morto nessuno”, però, sarà per via dell’esser figlio di MySpace, viene
così così, una raccolta di dieci canzoni tutte della stessa pasta, un po’ tutte uguali, anzi,
troppo uguali, perché già dal primo brano, che è anche il singolo di lancio – dice la scheda
tecnica – si entra in una fase di noia dalla quale si esce soltanto, e sperabilmente, dopo la
fine del disco. Una voce monotona e leggermente fuori tono poggia su delle chitarre appena
sfiorate e su basso, rumori, batterie, percussioni, drum-machine, piano elettrici, un
mandolino e un violino, quest’ultimo onnipresente. Verso la metà del disco, traccia sei,
“Sentiero rosso”, la noia è già padrona dell’atmosfera, e non aiuta una voce che non cambia
mai su testi che si ripetono e spesso cadono sulle ultime sillabe delle strofe. La musica, poi,
non decolla mai davvero, rimane troppo rarefatta. La penna di elio p(e)tri – con le minuscole
– compone testi al limite della comprensione, ed è un peccato, un’altra lingua non avrebbe
guastato, perché – stando sempre alla scheda tecnica – si tratta di un disco interamente in
italiano, ma che di italiano ha solo i testi. E alla fine siamo completamente sprofondati nella
noia. A questo punto, per rimanere sul genere, meglio ascoltare Alessandro Raina o
Moltheni. Ma non fa niente, in fondo. Non è morto nessuno.
Contatti: www.myspace.com/eliopetri
Marco Manicardi
Pagina 22
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Numero Novembre '10
7Grani
Di giorno e di notte
autoprodotto/Venus
Qualcuno ha mai fatto il censimento di tutti i gruppi che, in Italia, sfoggiano un certo
istrionismo in levare, coadiuvato di volta in volta da riferimenti stilistici che possono essere
un po' balcanici, un po' mediterranei, un po' folk oppure un po' etnici? Beh, sarebbe ora di
farlo, e di incominciare a suggerire una politica di contenimento, prima che invadano del tutto
le cantine del paese. Tornando seri, vi possiamo dire che il brano più convincente di questo
album, “Faccia da sospetto”, appartiene alla tipologia succitata, mentre il resto del
programma si assesta su uno stile radiofonico melodico e medio che a tratti potrebbe far
pensare a Ligabue, o a Umberto Tozzi, o a qualcosa di un po' più ambizioso ma egualmente
datato. Una soluzione stilistica che non scontenta nessuno ma che, soprattutto, non
accontenta nessuno: o, perlomeno, non può soddisfare nessuno che abbia un'idea di rock
melodico italiano successiva ai modelli musicali che furoreggiavano nelle classifiche del
1988. Esiste sicuramente un pubblico che gradisce questo genere di proposta, il problema è
che si tratta di un ambito dove c'è molta concorrenza, e molti professionisti navigati
occupano quel settore da decenni. Ragion per cui auguriamo ai 7Grani tutto il meglio: ma la
loro idea di musica è, come dire, piuttosto lontana da quella di chi scrive.
Contatti: www.7grani.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 23
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Numero Novembre '10
Emanuele Bocci
Un po’ gabbiano
Horus/Audioglobe
Il logorio della vita moderna è affrontato con ironia dal cantautore toscano Emanuele Bocci,
esordiente come solista, ma già frontman della Compagnia Musicale di Grosseto delle Voci
del Vicolo. L’album, prodotto e registrato dal chitarrista di Gino Paoli Riccardo Cavalieri,
arriva dopo l’uscita del tragicomico singolo + video “Non ci sono più parcheggi”, interpretato
dall’attore Paolino Ruffini. La proposta di Bocci si situa in una zona assai frequentata della
nostra canzone, quella degli autori swinganti, paradossali, teatrali e lunatici. Le canzoni del
disco sovente hanno l’aria d’essere racconti da palcoscenico; Bocci porta in giro uno
spettacolo di teatro-canzone, dal titolo “Un clima nuovo”, ed è pressoché fatale che le tracce
di un CD gli stiano strette. Siamo “parte di un circuito”, canta il cantautore maremmano in
“Sono un automa”, dedicata all’assurdità dell’amore moderno, sacrificato in miseri fazzoletti
di tempo. “Un po’ gabbiano” è il più propriamente caposseliano dei pezzi in scaletta, “Gli
sfollati” è un randagio elogio per senzatetto, alla Peppe Voltarelli. Anche se Bocci è un po’
troppo pulito e bravo ragazzo, poco arruffato per entrambi i paragoni (metaforicamente,
s’intende). “Senza vedere” ci porta dalla parte degli Avion Travel (e se non è zuppa è pan
bagnato) e “Nunca mais” è un De André klezmer. “Il musicista” è un crepuscolare valzer
finale, un dialogo dell’autore tra se stesso e il suo strumento (la fisarmonica). In definitiva un
lavoro di originalità non travolgente, con una scrittura ancora in cerca di una sua cifra più
personale.
Contatti: www.emanuelebocci.it
Gianluca Veltri
Pagina 24
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Numero Novembre '10
Enrico Farnedi
Ho lasciato tutto acceso
Sidecar
Uno con un curriculum come quello di Enrico Farnedi potrebbe fare grandi cose, grandi e
pompose. Già tromba e voce dei Gangsters Of Swing, collaboratore di gente del calibro di
Good Fellas, Vinicio Capossela, Cochi e Renato, e tanti altri, fino a Cesare Cremonini,
invece di provare a strafare, lui prende un ukulele, un banjolino e altri chitarrini, registra e
pubblica un disco solista dal profilo bassissimo ma dall'arrangiamento esperto. “Ho lasciato
tutto acceso” è un condensato in quindici tracce di suoni pizzicati cantati in italiano e un paio
di canzonette pop pronunciate in inglese, una cinquantina di minuti che vola via veloce, col
sorriso. Forse quindici pezzi sono troppi, forse si potevano evitare le due canzoni in inglese,
perché quelle in lingua madre sono davvero composte con una grazia fuori dal comune, nei
testi e nella musica (“Cuore a metano”, per dirne una, è un gioiellino breve e melanconico in
punta d'ukulele, così anche “Ci penserò lunedì”, per dirne un'altra, dove l'ukulele si distorce
meravigliosamente; poi la title track ha un ritmo che ricorda da lontano i Tinariwen e non
capisci perché, mentre il finale “Quanto piangere” è una diretta emanazione di Capossela),
ma proprio stiamo cercando il pelo nell'uovo. In “Ho lasciato tutto acceso” ci sono anche un
banjolele, basso, batteria, un synth, tamburello, shaker, glockenspiel, una tromba giocattolo
e dei tegami. Ed è strano sentire come uno con il curriculum come quello di Enrico Farnedi si
metta a fare queste cose piccole, scanzonate e dal profilo bassissimo. Ma se son fatte così,
l'accoglienza è quasi un'ovazione.
Contatti: www.myspace.com/enricofarnedi
Marco Manicardi
Pagina 25
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Numero Novembre '10
Fist Of Rage
Iterations Of Reality
Andromeda Relix
Il piglio e il nome sono di quelli giusti quando si entra in materia hard & heavy. Fist Of Rage,
sestetto Goriziano, dimostrano una volta di più che il livello medio della riproposizione di
stilemi heavy metal e affini in Italia, e non solo, è parecchio cresciuto nell’ultimo decennio, ed
è più facile imbattersi in giovanissimi gruppi che non hanno nulla da invidiare, se non nelle
più ricche produzioni in studio, a certi blasonati nomi stranieri. Potenza dell’induzione
mediatica o della precocità? Forse entrambe assieme, e questi ragazzi friulani ci sanno fare
davvero: grande impatto, riff ben assestati a sostegno di un’efficace scrittura e di accattivanti
melodie. Piace soprattutto che il modello di riferimento stia circa sul confine tra “antiche”
rimembranze hard rock e vitaminiche, sferzanti dinamiche metal, così da sembrare persino
naturale l’omaggio ai Deep Purple con la bonus track “Might Just Take Your Life”. Per il resto
sempre di canzoni stiamo parlando, e i Fist Of Rage ne sanno sciorinare altre nove di
impressionante forza melodica ed esaltante heavy rock’n’roll, sempre attrezzate di refrain
vincenti, con l’elegante voce di Piero Pattay in grande evidenza. Ineccepibilmente funzionale
il lavoro ritmico e solistico delle chitarre di Davide Alessandrini e Marco Onofri, ma tutta la
band sa disporre di carte vincenti in termini di coesione, affiatamento, trascinante freschezza
e dinamicità. Difficile scegliere i momenti migliori in un contesto stilistico consapevolmente
non originale ma dallo standard elevato, in cui più o meno tutti i brani potrebbero
rappresentare dei potenziali hit singles. Tuttavia l’irresistibile ritornello di “Loving In Vain”,
l’immancabile struggente ballata “The Clown’s Crying”, l’incalzante “Walking In The Edge” li
collochiamo in un ideale juke-box, insieme a qualcosa di Glenn Hughes e Whitesnake.
Probabilmente una compagnia molto gradita.
Contatti: www.fistofrage.eu
Loris Furlan
Pagina 26
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Numero Novembre '10
Gualeve
L’età del ferro
autoprodotto
Se ci fosse un santo protettore dell’indie-rock italiano non potrebbe non prendersi in
simpatia le sorti dei Gualeve, giovane band salentina che resiste ai margini underground dal
2003. Non è una questione particolare di talento, ma è così visceralmente ruvido il loro
suono, senza fronzoli, né derivative smancerie anglofone, che pare un po’ rassicurarci su
possibili ipotesi di autenticità e vitalità di rock nostrano. Una volta tanto niente scimmiottature
sculettanti, niente rock’n’roll, nienti titoli cool, nemmeno palesi indizi di emulazione, bensì il
peso specifico di parole semplici e immediate, talvolta sussurrate, talvolta urlate, che
scorrono assieme ad asperità elettriche, atmosfere tese e malinconiche, con sincera
coerenza. L’efficace produzione del rinomato Fabio Magistrali, di suo buon grado, ha saputo
lievitare echi noise, stridore di chitarre deflagranti e tamburi intrusivi. Così “L’età del ferro”
reclama la sua dignità nel territorio del rock del disagio, coi benevoli fantasmi dei CSI e
Marlene Kuntz, ma con apprezzabile consapevolezza, non presunzione, del proprio mondo
espressivo. La dolcezza estatica di “Edera” può sembrare fuorviante laddove le ballate non
sono tali, ma canzoni dalle movenze cadenzate, ritualistiche, crude e visionarie al contempo,
tra quiete e rabbiose esplosioni. Buon esempio ne siano le tensioni indie-punk di “Vendetta
& Perdono” in cui s’infila una brezza di mellotron, il crescendo disperato di “L’oro di Mida”
striato da un theremin. Curiosa e personale la reinterpretazione della “Leggenda di Natale” di
De André, non banale ed affine al suono della band. Un ulteriore margine di maturazione lo
si può intravedere, ma se ci fosse quel santo protettore dell’indie-rock una benedizione ai
Gualeve per ulteriori fervidi auspici non la negherebbe di certo, assieme alla nostra.
Contatti: www.myspace.com/gualeve
Loris Furlan
Pagina 27
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Numero Novembre '10
Johnnie Selfish & The Worried Men
Committed

autoprodotto
Difficile immaginare Big Pink che trasloca in un quartiere milanese, e San Vittore non sarà
mai Folsom, ma Johnnie Selfish e i suoi sodali sembrano non preoccuparsene più di tanto.
Nel loro disco autoprodotto di Milano c'è ben poco, e c'è invece molta plausibile
America(na). Del resto, fatti i debiti paragoni e tenendo conto degli oceani non solo
geografici di mezzo, Robbie Robertson, prima di prendere in mano qualche libro di storia e
scrivere “The Night They Drove Old Dixie Down”, di confederati e yankee ne sapeva il
minimo indispensabile per non fare brutte figure. Ma prima di essere accusati di bestemmia,
ci fermiamo, e ci limitiamo a dire, al di là della simpatia e della convinzione con cui il gruppo
si immerge nell'immaginario della frontiera statunitense, che queste canzoni hanno una loro
dignità di per sé e una energia rustica ed espressiva piuttosto convincente, con canzoni
solide e intrise di atmosfere roots come “Let's Get To LaJolla”, quasi un omaggio allo spirito
di Johnny Cash, il bluegrass di “Burn Burn Burn”, “Deep End” e la sua armonica
inevitabilmente nostalgica. Al punto che pure la decisione di trasformare “About A Girl” dei
Nirvana in una fantasia a base di banjo, slide guitar e twang assortiti, una specie di nebbioso
canto carcerario, sembra la più naturale possibile.
Contatti: www.myspace.com/johnnieselfish
Alessandro Besselva Averame
Pagina 28
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Numero Novembre '10
Kyô
Kyô
Mousike Lab
A sorpresa e un po’ in sordina, esce direttamente dai cassetti del prolifico Marco Messina
(99 Posse, Resina) l’omonimo disco dei Kyô, progetto del 2008 che vide coinvolto lo
stesso Messina insieme a due nomi di rilievo della scena teatrale italiana: Monica Nappo
(prima donna a vincere il premio “La Zanzara d’Oro”) e Michelangelo Dalisi (regista e attore
di “Per Amleto”, in scena anche quest’anno con gli ottimi Villano e Caruso). Kyô vede
un’elettronica minimale entrare in punta di piedi in uno spazio vuoto, dove è compito della
voce e della parola evocare immagini. Il matrimonio non è dei più inconsueti, specie per gli
spettatori più curiosi, ma è ben più atipico ritrovarlo su disco. Da un lato il supporto annulla
l’emotività che è propria dell’istante teatrale, dall’altro supera eccellentemente la prova
raggiungendo un livello di coinvolgimento del tutto nuovo. La musica non si limita ad
accompagnare, il più delle volte sembra suggerire la direzione da prendere, come parte
integrante del dialogo. Azioni e reazioni che nel limite di un supporto digitale, sembrano
continuamente rinnovarsi. I testi scelti per questo lavoro, poste un paio d’eccezioni e la
strumentale “Passabuio”, portano le firme di autori e universi distanti tra loro (da Emily
Dickinson ad Antonin Artaud passando per Guido Cavalcanti, Heiner Müller e Giacomo
Leopardi) ma l’ascolto attento offre innovativi punti di contatto, rendendo ancora più
organiche le dodici tracce e di conseguenza, più intenso e personale il viaggio. Ora che è
finalmente nei negozi, vale la pena dedicargli il vostro tempo.
Contatti: www.mousikelab.blogspot.com
Giovanni Linke
Pagina 29
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Numero Novembre '10
La Mela e Newton
Immagini di repertorio
autoprodotto
Se volessimo metterci a fare diagrammi e schemi, considerazioni millimetriche e in qualche
modo in grado di ridurre gli album a formule, potremmo dire che questo esordio autoprodotto
(con la supervisione di Amerigo Verardi) dei bolognesi La Mela e Newton si trova
esattamente ad un ipotetico crocicchio tra Fiorella Mannoia, Elisa, Alice e Lalli, con gli
arrangiamenti delle prime due, certi accenti, nel canto, propri della quarta, e un un'aura di
nobile distacco che ci può far venire in mente la terza. Questo, a livello più astratto e,
almeno in parte, a livello di intenzioni, visto che alla fine ciò che ne viene fuori è qualcosa di
un po' più addomesticato rispetto al cantautorato al femminile che si vorrebbe esprimere:
intendiamoci, non che sia particolarmente brutto questo disco, è solo decisamente
prevedibile, e le sue sonorità assolutamente radio friendly, levigate, impeccabili
formalmente, non ci riescono a togliere del tutto l'impressione di un talento potenziale ma un
po' troppo legato a schemi consolidati e un poco annacquati, un buon esercizio di maniera
poco propenso a far venire fuori una voce più autentica: Insomma, c'è da lavorarci sopra e,
naturalmente, non tutto è perduto. Tanto per incominciare, ci piacerebbe un po' più di
coraggio.
Contatti: www.lamelaenewton.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 30
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Numero Novembre '10
Le Braghe Corte
Hey Hey Hey
Maninalto!/Venus
Chiamatemi diffidente, ma l'idea che un gruppo collabori con Rocco Siffredi, prima con un
video e poi con un cameo nell'album, non è di quelle che mi entusiasmano. Per fortuna l'idea
che il gruppo sia tutto fumo e niente arrosto è svanita ascoltando "Hey Hey Hey", ultima
fatica de Le Braghe Corte. Il combo bolognese, ormai al tredicesimo anno di attività, ha
infatti affinato le armi confezionando un album davvero variegato che ha innestato alla solita
matrice ska-rock le influenze più disparate, dallo swing alle suite passando per l'hip hop e
finendo con il punk a la Clash. Apre le danze "Edgar's Suite", brano in tre parti che il gruppo
ha preparato ripensando ai '70 e che mostra tutte le capacità espressive della band, capaci
di picchiare ma anche di farsi delicati e quasi ska-jazz. Da qui in avanti è un delirio
abbastanza organizzato, tra l'intervento di Piotta in "Bullshit" al punk con fiati di "Speed Up"
fino a "Qualunque cosa farò", unico brano in italiano del disco e, a mio parere, il punto di
partenza per il futuro de Le Braghe Corte, che vedrei bene esprimersi nell'idioma di Dante.
Un lavoro più che discreto che mette in luce le qualità compositive ed artistiche del gruppo,
non un lavoro scritto pensando solo ai concerti e all'aspetto più festaiolo di questo genere
come spesso accade con questo tipo di produzioni.
Contatti: www.lebraghecorte.com
Giorgio Sala
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Numero Novembre '10
Lingalad
La Locanda del Vento
La Locanda del Vento
In Italia ci piace fare chiacchiericcio su tutti, compresi gruppetti e gruppuscoli rock e dintorni
che vivono un paio di stagioni di presunta gloria per poi, spesso giustamente, inabissarsi nel
dimenticatoio. È il potere della novità, del sentirsi sempre sull’ultimo treno in corsa, di quella
sensazione strana che ci fa sentire “trendy” se conosciamo e diffondiamo per primi ciò che
nessuno ancora conosce. Poco importa se gruppi come i bergamaschi Lingalad, con la loro
semplice coerenza e con la loro musica, da un decennio siano noti ben al di là dei confini
nazionali e – oltre a una discografia di quattro album (cinque se consideriamo il lavoro
solista del leader Giovanni Festa), di un bellissimo DVD e persino di un libro biografico, edito
da Bastogi e scritto dal giornalista Donato Zoppo – vantano una carriera concertistica
internazionale che pochi possono esibire in Italia. La musica dei Lingalad ha ispirazioni
antiche, pesca alla tradizione celtica, suona leggiadra e festosa, richiama sagre paesane,
stornelli di vita e d’amore da menestrello e canti religiosi. Giovanni Festa con la sua voce
pacata e melodica, e l’accompagnamento strumentale fatto di chitarre acustiche, steel guitar,
flauto, bouzuki, ci trascinano – come spiegano loro stessi - nel mondo fatato di storie che
camminano in bilico tra l’oblio del passato, storie che il vento raccoglie e porta lontano. Nella
musica dei Lingalad non ci sono artifici, c’è una toccante purezza di fondo, chiusa in un
mondo dimenticato, che questa musica aiuta a schiudere e a riportare tra noi.
Contatti: www.myspace.com/lingalad
Gianni Della Cioppa
Pagina 32
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Numero Novembre '10
Loners
I Remember A Dream
Boom Devil
Non si sa mai se sia un complimento dire a una band che “non sembra italiana”. Il fatto è
che se facciamo sentire “I Remember A Dream” a qualche orecchio della generazione dei
nostri padri, questi non è che possano immaginarsi che i Loners vengono da Siracusa. E
infatti, leggiamo le note allegate al disco e scopriamo che Salvo Rizzuto, il frontman
voce-e-chitarra del gruppo, nel '78 un viaggetto a Londra se l'è fatto, e lì ha pubblicato
canzoni e dischi, per poi tornare dopo trent'anni nella sua isola al largo della punta dello
stivale a scrivere, suonare, cantare e comporre. Carlo Barbagallo arrangia e produce, e
suona un sacco di strumenti, ma l'esperienza di Salvo esce da ognuno dei dieci pezzi che
compongono il disco. Blues, soul e rock anglosassone in tinte pop si districano in una foresta
di chitarre, bassi, batterie, percussioni, tastiere e pianoforti, violini, sassofoni, flauti e trombe.
“I Remember A Dream” sembra sospeso nel tempo e in volo tra le due sponde dell'Atlantico,
nel suo suono “classic” completamente anglosassone, nella sua pronuncia impeccabile,
nella pulizia del suono e nell'accuratezza delle registrazioni. Niente che faccia immaginare al
centro del Mediterraneo. Provateci, fatelo sentire all'orecchio di qualche vostro parente della
generazione dei nostri padri, potrebbe chiedervi di comprargliene una copia, ché i Loners nel
frattempo avranno pescato in tutto il suo background solleticandone la curiosità. Perché, in
fondo, i Loners, come dire, non sembrano italiani.
Contatti: loners.bandcamp.com
Marco Manicardi
Pagina 33
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Numero Novembre '10
Lorenzo Monni
Grey Swans Of Extremistan
Zeit
La Lizard, label che da oltre un decennio alimenta il rock progressivo in tutte le sue
numerose forme e non forme, ha creato la succursale Zeit per dare voce ad artisti più di
avanguardia. Curiosamente Lorenzo Monni, chitarrista veneto, ma di origini sarde, pur se
non declinabile in un unico contesto sonoro, non è necessariamente più sperimentale di altri
nomi che hanno gravitato nel catalogo della Lizard. Infatti questo “Grey Swans Of
Extremistan”, diviso in due atti e interamente scritto e suonato dal titolare, ad esclusione di
alcune parti di batteria, pur se collocabile in un alcuni contesti vicini al Robert Fripp dei King
Crimson anni Ottanta, sa anche distinguersi per una propensione melodica che alimenta
tabulati che rievocano escursione strumentali tra The Cure prima maniera e – perché no? –
lo shogazing più lineare. Infatti “Cascade”, “Contrary Winds” e “Dagged Of The Deep”, legate
al primo atto “The Landscape Of Extremisant”, pur se variegate e complesse, hanno
saliscendi melodici di indubbio richiamo, mentre “The Mysterious Cyclist Of Cyclette”,
inaugurazione del secondo atto “Grey Swans”, sembra una marcetta folkloristica in chiave
moderna. ‘Amarcord’ ha passaggi etnici che guardano a Sud, mentre nei brani finali altrove
emerge la verve avanguardistica del musicista isolano, che illustra passioni per Klaus
Schultze e Brian Eno. In sintesi “Grey Swans Of Extremistan” è la somma di tanti spunti ben
amalgamati, ma non così estremisti come si potrebbe immaginare.
Contatti: www.lorenzomonni.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 34
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Numero Novembre '10
Love In Elevator
Il giorno dell’assenza
Epic & Fantasy/Go Down-Audioglobe
Nel mare elettrico delle distorsioni messe su dai Love In Elevator (giunti qui al terzo album
in quasi dieci anni di attività) spunta fuori quella voce e subito uno si mette a pensare: “Ma
dove l’ho già sentita?”. Alla fine il riferimento più vicino è quello dei Blonde Redhead. Solo a
quel punto ci si rende conto di quanto siano coraggiosi questi ragazzi capaci di coniugare
testi “impressionisti” in italiano – non sempre felicissimi, va da sé, ma apprezziamo lo sforzo
– e un solidissimo impianto musicale erede diretto dello shoegaze e del post-grunge.
Cantare come Kazu Makino non è semplice: il confine tra ridicolo e autoparodia è molto
labile ma Anna Carazzai dimostra di saperci fare. La sua è una voce convincente proprio
perché conosce il suo ruolo e si “limita” a essere un raccordo sonoro tra gli strumenti. Spazio
alla musica, quindi. Coordinate che si muovono in libertà in un luogo della mente tra Sonic
Youth e My Bloody Valentine – per andare oltreconfine – e Verdena (per restare a casa
nostra). “Il giorno dell’assenza” può poi contare su alcune canzoni decisamente riuscite
come la title track (da prendere a esempio per chi vuole fare indie rock in italiano senza
essere spernacchiato), “Dune” (escalation di chiassoso rumore bianco) e “I cieli di Munch”,
sospesa tra lirismo narciso e cascate di Big Muff. In un panorama in cui spesso ci si
dimentica qual è la cosa veramente importante, i Love In Elevator dimostrano che quando
sai scrivere pezzi convincenti, il resto dei discorsi valgono come un due di picche.
Contatti: www.myspace.com/amoreinascensore
Hamilton Santià
Pagina 35
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Numero Novembre '10
Low Frequency Club
West Coast
Foolica/Halidon
Quattro quarti costanti, basso, sampler, tastiere, una voce cantilenante, una chitarra ben
nascosta, quasi impercettibile, sotto una foresta di campioni e groove: “West Coast” è un
disco electro, ci sono pochi dubbi. Oltre mezzora di sculettamento e poco altro, e dieci pezzi
che non fanno altro che ribadirsi a vicenda, sono tutto ciò che i Low Frequency Club hanno
da dire. Il suono è una specie di omaggio alla DFA e al clubbing del nylon (la megalopoli
immaginaria che collega quotidianamente i pendolari yuppie tra New York e Londra) e
ognuno dei pezzi che stanno dentro l'album è una papabile hit da DJ set, di quei DJ set con
le strobo al limite dell'epilessia, il fumo denso, l'atmosfera cupa, carne mezza nuda, ettolitri
d'alcol e chissà cos'altro. I tre Low Frequency Club sono fedeli alla linea: pettinatissimi,
fashion addicted e ogni tanto urlano, come a voler inserire delle grida raznoriane nelle fila
dei Daft Punk. Poi ci sono le voci robotiche, c'è il basso funky, c'è l'house, c'è l'acid, ci sono
gli anni 80, 90 e 00. Alla fin fine, “West Coast” è un disco “di genere”, ascoltabile, quindi,
quasi ed esclusivamente da amanti, appunto, del genere. Per tutti gli altri, se proprio
volessero approcciarsi al trio, a loro rischio e pericolo, sconsigliamo l'ascolto casalingo:
meglio in macchina, nel traffico, o dalle casse tirate al massimo di un club metropolitano.
Luoghi adatti, se non altro, a un quattro quarti nervoso, ai sampler, al movimento.
Contatti: www.myspace.com/lowfreqclub
Marco Manicardi
Pagina 36
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Numero Novembre '10
Madame Lingerie
D’amore, soldi e vendetta
autoprodotto/Wondermark
Esordio della band romana guidata da Alessandro Di Luca (voce, chitarra e batteria),
Luciana Luccini (basso, cori) e Luca Cartolano (chitarre, cori). Quest’ultimo una volta pronto
il disco, ha lasciato il gruppo, ed è stato sostituito da Fabrizio Baioni (Drunken Battlefly) e da
Valerio Fisik (Inferno). Quindi adesso sono un quartetto. Queste canzoni hanno un piglio
efficace, superbo, quindi rock. È come se Capovilla e Godano facessero l’esperimento della
mosca di Cronemberg e ne venisse fuori una forza nuova, magnifica. Un disco questo, però,
che poggia bene i piedi e ricerca il giusto modo di non essere superficiale, ma neanche
troppo pretenzioso. I testi sono chiari, lucidi e raccontano dei loro guai con le etichette
discografiche (“Titanioc”), dei loro dissapori amorosi (“Non avrò paura”), di illusioni nei
confronti della società, del partner, di episodi del quotidiano, di sogni infranti, di voglia di
rivincita, di vendicarsi per il proprio idillio tradito. L’inizio del disco con “Più niente” è
appropriatissimo in quanto riesce a farne un sunto. Non conta più niente, continua a ripetere
la voce di Alessandro e riesce a fare un j’accuse che spezza il cuore e scuote certe corde.
Musicalmente c’è un andirivieni di dolcezza e ruvidezza che non spezza, ma alterna invece
le dinamiche espressive delle melodie. L’unica traccia strumentale è “Il centro commerciale
di notte” con l’ospite Mattia Candeloro al glockenspiel e all’organo. Un brano che riesce a
stupire per ogni passaggio, creando brividi e giochi con dei movimenti fluorescenti. Davvero
interessanti.
Contatti: www.madamelingerie.it
Francesca Ognibene
Pagina 37
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Numero Novembre '10
Nadiè
Questo giorno il prossimo anno
autoprodotto
I Nadiè, formatisi a Catania nel 2000, hanno elaborato la loro proposta nella maniera
migliore, ovvero suonando spesso dal vivo, dividendo il palco con musicisti come Mario
Venuti, Max Gazzè, Uzeda e altri. Giovanni Scuderi (voce, chitarra elettrica e acustica, piano
e basso), Federico Tutino (chitarra elettrica ed e-bow) e Alfio Musumeci (batteria) si sono,
insomma, dati da fare sul campo, prendendosi tutto il tempo necessario - a seguire il singolo
“Glicine” del 2006, qua peraltro riproposto - per dare forma a un soddisfacente esordio sulla
lunga distanza. “Questo giorno il prossimo anno” si fa ascoltare con piacere, sia perché il
rock melodico del trio siciliano riesce a diversificarsi di traccia in traccia, senza arenarsi in
soluzioni univoche, sia perché il tutto suona molto bene, grazie alla produzione artistica del
navigato Massimo Roccaforte, da sempre al fianco di Carmen Consoli. Se Roccaforte suona
per l’occasione anche vari strumenti, compresi mandolino e clarinetto, la lista degli ospiti
prosegue con Salvo Farruggio dei Lautari alle percussioni, Tiziana Cavaleri al violoncello e
Adriano Murania al violino e alla viola. Si sente, com’è ovvio che sia, l’influenza degli
apripista degli anni 90 - dagli Afterhours ai Marlene Kuntz, dalla stessa Consoli a Moltheni ma il desiderio di camminare sulle proprie gambe si traduce in canzoni dagli apprezzabili
testi in italiano e dalle fragranti, efficaci policromie, in bilico fra pezzi più tirati (“Cara
rivoluzione”, “Laurea in Lettere e Filosofia”) e ballad eleganti (“Franti” o “Roman Polanski”,
che cita persino Who ed Eels).
Contatti: www.myspace.com/nadict
Elena Raugei
Pagina 38
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Numero Novembre '10
New Candys
New Candys EP
autoprodotto
Nella foto sul retrocopertina del loro primo EP (stampato in sole 300 copie, ma disponibile in
free download sul sito della band) i trevigiani New Candys sono colti in uno foto virata in
rosso che a chi scrive ricorda vecchie pose di band come gli Spacemen 3 o i Telescopes.
L’immaginario messo in moto da queste cinque canzoni cantate in inglese va in quella
direzione: foschie purpuree, stati di alterazione, giacche di cuoio, distorsioni, elettricità e
vaghe reminiscenze shoegaze. Ma il concetto di rock psichedelico – di questo si parla, va da
sé – caro al gruppo è molto più ampio, e abbraccia con padronanza storica riferimenti
diversi: dal riverbero cattivo in stile Davie Allan & The Arrows di “Surf Little Surfer” (titolo fin
troppo didascalico) al dondolarsi pigro e orientaleggiante di “Involution”, che nel suo riff
ripetitivo omaggia certe cavalcate tossiche dei Brian Jonestown Massacre, dall’interessante
incrocio tra Oasis e chitarre acidissime memori del Paisley (True West? Thin White Rope?)
di “Dry Air Everywhere” - decisamente il brano più bello in scaletta - per finire con la
sghemba filastrocca country-psicotica di “Childhood Ballad” e l’incedere heavy di
“Volunteer”, che più che ai Jefferson Airplane guarda ai Black Angels. Registrato con l’aiuto
di Matt Bordin dei Mojomatics, questo EP potrebbe rappresentare un corposo antipasto a un
primo piatto gustosissimo, in grado di farsi apprezzare anche fuori dai nostri confini
Contatti: newcandys.bandcamp.com
Carlo Bordone
Pagina 39
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Numero Novembre '10
Nichelodeon
Il gioco del silenzio
Lizard/BTF
Ci sono dischi incredibilmente facili da incasellare per generi di riferimento e influenze; altri,
invece, risultano in tal senso assai ostici, rendendo pressoché impossibile qualsiasi tentativo
di definizione. Appartiene senz’altro a quest’ultima categoria “Il gioco del silenzio”, opera
seconda – e prima in studio, ché il precedente “Cinemanemico” era un live – dei
Nichelodeon, formazione milanese di sette elementi che si muove all’interno di un’area
talmente vasta da comprendere sperimentazione e free jazz, influssi etnici e prog,
decostruzioni post-punk e rumorismo, new wave e persino la canzone d’autore italiana. Le
composizioni, mediamente piuttosto lunghe, si arrotolano per poi aprirsi all’improvviso, si
disgregano e si ricompongono, si gonfiano di teatralità e si svuotano, con tasti e corde a
creare incroci imprevedibili insieme alle percussioni, mentre il cantante Claudio Milano è
protagonista di intensi tour de force vocali ed interprete (oltre che autore) di versi profondi e
inquietanti. Nell’insieme, una proposta non proprio di semplice fruizione, a tratti persino
minacciosa, ma non priva di un suo fascino oscuro, densa a tal punto da renderla
sconsigliata per un mero ascolto di sottofondo. Richiedono molto le dodici tracce qui
raccolte, ma se le si avvicina con mente aperta e voglia di mettersi in gioco possono
regalare parecchie soddisfazioni.
Da segnalare l’uscita, in contemporanea al CD, di un DVD (realizzato in collaborazione con
Andromeda Relix) intitolato “Come sta Annie?”, che documenta un concerto dell’ensemble al
Bloom di Mezzago (MI), al cui interno trova posto anche un originale omaggio ai vent’anni di
“Twin Peaks”, di cui viene sonorizzato in diretta il celebre e controverso finale.
Contatti: www.myspace.com/nichelodeonband
Aurelio Pasini
Pagina 40
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Numero Novembre '10
Nicolas Joseph Roncea
News From Belgium
I Dischi del Minollo
Nicolas Roncea è giovanissimo, ma non è uno alle prime armi. L'abbiamo visto distruggere i
palchi di mezza nazione, per esempio, con i Fhu e gli Io monade stanca, e da queste
premesse ci aspetteremmo di sentirlo maltrattare qualche altro strumento, anche da solo.
Invece no, “News From Belgium” è un disco in punta di dita, dita che arpeggiano
ossessivamente una chitarra acustica in piccole ballate tra il blues e l'indie-pop, come un
Bob Corn giovane e con una discreta padronanza della musica o come un Conor Oberst in
miniatura, con tutte le dovute distanze del caso. Il disco d'esordio di Nicolas da solo è una
raccolta di otto canzoncine tutte uguali, eppure ognuna col proprio piglio particolare, tra
l'intimista e l'ingenuo, di quelle cose che piacciono molto ai nuovi geek musicali, ma anche al
grande pubblico, ogni tanto. Una chitarra e una voce e poco più, un paio di batterie semplici
qua e là, una tromba che squilla e un violoncello cupo nel pezzo migliore dell'album, “3-4”, ci
mostrano senza possibilità d'errore come anche un ragazzo dedito al rumore possa
chiudersi nella sua camera, in questo caso a Cuneo, e comporre canzoni “leggere” e
malinconiche. Magari qualche cesellatura nella pronuncia non guasterebbe, ma tutto
sommato “News From Belgium” si fa ascoltare con piacere, mezzora alla volta, magari col
temporale che batte sulla finestra, così, per accompagnare ogni canzone con un po' di quel
noise (in)controllato che ci ricorda un Roncea tra le fila dei Fuh o degli Io Monade Stanca.
Non male per un esordio, specie per un ragazzo classe 1987.
Contatti: www.myspace.com/roncea
Marco Manicardi
Pagina 41
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Numero Novembre '10
Orchestra Panica
Journey To Devotion
Lizard/BTF
Orchestra Panica, laddove “panico” è un aggettivo inteso nell'accezione che gli dà Alejandro
Jodorovsky, ovvero un pensiero antidogmatico, che cerca di descrivere e interpretare la
realtà andando oltre le apparenze e senza dare per scontato l'impianto razionale
tradizionalmente applicato all'interpretazione dell'esistente: il duo, orchestra intesa come
forma mentis più che nei fatti (diventa tale nei singoli pezzi, con l'arrivo di ospiti assortiti), è
un ensemble di difficile collocazione, e in questo lo spirito jodorowskiano viene
perfettamente mantenuto. Le strutture musicali sono oggetti non identificati a cavallo tra il
post-rock più emotivo e dilatato (un nome su tutti, se proprio si vuole fare un paragone: i
chicagoani The Draft), il minimalismo, certe incursioni “in opposition” nel campo della
classica contemporanea, i momenti più sospesi del Miles Davis elettrico e riferimenti
“quartomondisti” (la gassosa “Coda” che sigilla la track-list e le sue voci che si inseguono).
Materiali di partenza affascinanti ma potenzialmente pure molto noiosi negli esiti, ma
bastano i dieci minuti iniziali della apparente immobile “Tappeti cellulari pt. 1”, un inseguirsi
di chitarre circolari attraversate da trombe effettate e discrete pennellate sonore orchestrato
con grande abilità, per mettere in chiaro che questo è un disco tutt'altro che noioso.
Contatti: www.myspace.com/orchestrapanica
Alessandro Besselva Averame
Pagina 42
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Numero Novembre '10
Ovlov
Margareth, Frank And The Bear
CasaMolloy/Audioglobe
Nella loro precedente vita musicale, gli Ovlov si chiamavano Black Eyed Susan. Dopo un
rinnovamento di line up, ancora una volta con Luisa Pangrazio (la quale, nel frattempo, ha
dato vita anche alle MuLu, duo femminile con Maria Luisa Balzi, titolare di un album su
Wallace, pubblicato lo scorso anno) impegnata alla chitarra e alla voce, la nuova formazione
mantiene l'impatto rock delle origini ma sostituisce all'irruenza sporca e ruvida del passato
una veste decisamente più pop, più rotonda e snella. Le canzoni di “Margareth, Frank And
The Bear” puntano infatti ad un altro tipo di immediatezza, più d'impatto, che va a cercare
sponde in un pop'n'roll venato di atmosfere new wave (diciamo che, geograficamente
parlando, ci troviamo dalle parti della New York dei Blondie). Ne guadagna la messa a
fuoco, un po' meno l'originalità, ma il gruppo può contare su una scrittura sufficientemente
solida da non dover appoggiare tutto il peso della suggestione sui puri e semplici suoni,
accuratissimi. Come ingrediente aggiunto alla ricetta finale, per insaporire il tutto, troviamo
una buona dose di ironia, e la capacità di non prendersi troppo sul serio, come dimostrano le
divertenti citazioni beatlesiane di “Up & Down”.
Contatti: www.myspace.com/ovlovmusic
Alessandro Besselva Averame
Pagina 43
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Numero Novembre '10
Pazi Mine
Pazi Mine
Super Fake Recordings
Omonimo esordio per i Pazi Mine, stabilizzatosi come quartetto dopo numerosi cambi di
line-up: la leader Sara Ardizzoni (chitarra, voce e un passato nelle fila di Pilar Tenera e
Sorelle Kraus) è adesso spalleggiata da Francesco Artioli (basso e voce), Marco Beiato
(chitarra e synth) e Alessio Capra (batteria e percussioni). Operativa tra Ferrara e Modena,
la band fa tesoro delle differenti esperienze - individuali e collettive, come il confronto in
studio con Brian Ritchie dei Violent Femmes - canalizzandole in un rock/hardcore vigoroso e
irruente, che deve molto a modelli, sia sonori sia attitudinali, come Fugazi o Neurosis. Il
bell’artwork di Luca Zampriolo preannuncia toni cupi, che rispecchiano i disagi, le ansie
contemporanee: un mood ideale per composizioni robuste, che siano energiche o più votate
alle atmosfere. Le massicce trame strumentali, che sanno comunque deviare con improvvisi
saliscendi ritmici nonché aprirsi in passaggi impressionistici, sono così in azzeccato
contrasto con l’evocativo cantato femminile, capace in ogni caso di graffiare. Registrato da
Giovanni Ferliga (Aucan), l’album gode di altre collaborazioni di rilievo: da Giulio Ragno
Favero (One Dimensional Man, Teatro degli Orrori), che ha curato la masterizzazione
assieme a Giovanni Versari, a Gionata Mirai ai cori (Super Elastic Bubble Plastic, Teatro
degli Orrori). “Pazi Mine” non brillerà in quanto a originalità stilistica, ma non accusa cali di
tensione e non sfigura al confronto con la maggior parte delle affini proposte internazionali. Il
che non è certo un risultato da poco.
Contatti: www.myspace.com/pazimine
Elena Raugei
Pagina 44
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Numero Novembre '10
Pivirama

In My Mind

UdU
“I Love U” si posiziona con dignità tra Blonde Redhead, dEUS e un'elettronica piuttosto di
maniera; “All Grey” cita i Doors di “An American Prayer” e nel refrain pure gli Os Mutantes,
per poi perdersi in un incrocio di chitarre pseudo-grunge; “Love Affair” si lascia traviare da un
post-rock con qualche venatura prog; “Lost” saprebbe di Evanescence, se fosse un po' più
paracula; “Toxic Girl” è new wave in piena regola; “In My Mind” è il pezzo sperimentale del
pacchetto, sospeso com'è tra effluvi di synth e voci sospirate. 
Se chiedete ai
Pivirama che genere fanno, vi risponderanno “psichedelia”. Il che significa tutto e niente,
visto che nei quaranta minuti del loro secondo disco – alle spalle l'autoproduzione “Cosa
sembra” - l'unica cosa certa è che si naviga a vista tra suoni eterei, distorsioni e un cantato
che fa dell'inconsistenza psych un punto di vista privilegiato sul mondo. La band di Raffaella
Daino ce la mette tutta per confezionare un disco dal family tree identificabile e con tutti i
suoni al posto giusto, tanto che alla fine rimane ben poco da annotare oltre agli ovvi rimandi.
Il che da un lato depone a favore di musicisti capaci di riassumere in maniera ottimale
l'ampio spettro di influenze che costituisce il background della formazione ma dall'altro
denuncia forse una certa carenza di personalità.
Contatti: www.myspace.com/pivirama
Fabrizio Zampighi
Pagina 45
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Numero Novembre '10
Rodolfo Montuoro
Nacht
Believe/Egea
Gli ultimi lavori di Montuoro erano stati extended play mirati, tappe di un’opera complessiva
che adesso è giunta a compimento: “Nacht”. Un concept album dedicato alle ore di buio e
tenebra, quando i ripensamenti e le memorie senza pace risalgono a galla. L’ora del lupo di
Bergman. Quando terra e cielo si ascoltano e si toccano, meravigliandosi a vicenda; e
riceviamo una visita inattesa e fantasmatica.
Montuoro è un incantatore, un affabulatore elettrico. Un ricamatore di onde e vertigine,
straniero tra terra e tempo, che non teme di addentrarsi nel labirinto. Nell’album sono saldati,
come capitoli di un unico libro rilegati finalmente insieme, “Orfeo” e “La svolta” (da
“Mythologies 2”); “Labirynth”, “Per incantamento”, “Mondi e popoli” e “Lola” (da “Mythologies
3”). Sono scolpite, in questo che è il terzo album sulla lunga distanza del musicista, tre
nuove tracce: “Silly Moon”, “Convergenze parallele” e la title track dell’intero progetto, la
crudele e senza patria “Nacht”. In più, due brani a completare, che si fa fatica a immaginare
concepiti per altro, tanto naturalmente trovano qui posto, misterici remix tratti dai primi due
lavori.
La notte è furibonda di colori, ribollente d’oscurità, mesmerica e fitta, da ascoltare nei suoi
sussurri, nei tramonti interiori, attraversata da lame di luce e inquietudine, sfuggente.
Monturo, che è figura di cantautore-musicista-poeta non tanto diffusa in Italia, è uno che
guarda come precedenti a Robert Fripp, Pink Floyd e Kate Bush. E restituisce, alla summa
di questo lungo lavoro, un mondo poetico elettrizzante, poco tranquillizzante.
Lo accompagna un coro di strumentisti, ognuno portatore di una “voce” speciale: il
violoncello di Naomi Berrill, il theremin di Vincenzo Vasi, le uiellan pipes di Massimo Giuntini,
il doudouk di Silvia Fontani, il violino di Ilaria Lanzoni. Tutto sotto la solida, minacciosa cura
di Gennaro e Giuseppe Scarpato.
Contatti: www.myspace.com/rodolfomontuoro
Gianluca Veltri
Pagina 46
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Numero Novembre '10
Shijo X
One Minute Before
Ideasuoni
Gli elementi ci sono tutti: Laura Sinigaglia ha una bella voce e canta bene, con anche delle
belle finezze interpretative; Davide Verticelli si muove con competenza nei segreti della
qualità del suono, dimostrando di avere davvero mestiere; la scrittura dei pezzi non è male,
e ha anzi aperture molto interessanti e mature; i testi – in inglese – sono sopra la media, non
magari sfolgoranti ma nella loro categoria (quella del pop) si è visto e si vede molto di peggio
e di più superficiale e banale. Insomma, questo “One Minute Before” è una felice sorpresa
da seguire con grande attenzione, perché davanti ai due Shijo X c'è un grande futuro? No.
Purtroppo no. Per ora no. È un po' come con la maionese, la metafora culinaria non sarà
raffinata ma rende abbastanza bene l'idea: gli ingredienti ci sono tutti, ma l'olio continua ad
essere separato dal tuorlo. Perché non sono giusti i dosaggi, o il modo in cui vengono
somministrati. Prendiamo l'esempio di “Hanry Up!!!”: è come scrittura uno dei pezzi migliori
del disco, anzi, il migliore ed è quindi veramente notevole, ma viene quasi ammazzato da un
arrangiamento lounge/drum'n'bass (più la prima che la seconda) che nei Montefiori Cocktail
o – esagerando – nei Pizzicato 5 ha senso, con una canzone come “Hanry Up!!!” proprio no.
Oppure prendiamo il caso dell'iniziale “Wesh”: ci sono tanti elementi dentro... specifichiamo:
ce ne sono troppi. L'ansia di far vedere di essere bravi, eclettici, (auto)ironici può giocare
brutti scherzi. Agli Shijo X consiglieremmo ciò che di solito è disdicevole consigliare:
prendersi più sul serio, essere più vanesi e stilizzati, più da cartolina (...assomigliare di più a
Il Genio? OK, volendo...); ecco, di solito un atteggiamento del genere è ridicola zavorra, se
non si hanno le capacità per sostenerlo, ma Davide e Laura le hanno. Però continuando per
la strada intrapresa con “One Minute Before” purtroppo non le valorizzeranno mai.
Contatti: www.myspace.com/shijox
Damir Ivic
Pagina 47
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Numero Novembre '10
Ska-J
Brube
autoprodotto/Venus
Ho la netta sensazione che nei confronti dei veneti (e veneziani) Ska-J ci sia un grosso
equivoco di fondo. Il fatto è che siccome suonano ska, e l'anima del gruppo è Marco "Furio"
Forieri fu Pitura Freska, si dia per scontato che la loro sia una musica buona per ballare e
farsi due risate. Invece gli Ska-J non son solo questo, e "Brube" dovrebbe essere l'occasione
giusta per farlo capire. Partiamo dal titolo: Bruce è un po' l'equivalente della Vespa nella
laguna veneta, una sorta di barchino con cui si esce per divertirsi e godersi il mare; insomma
una bella metafora per una musica solare come lo ska-jazz. E un brano come "So figo",
andamento swingeggiante e autoironia in quantità, è la perfetta sintesi di queste sensazioni,
ed anche la title track si muove sulla stessa lunghezza d'onda. Ma c'è anche dell'altro qui:
innanzitutto ci sono gli strumentali, alcuni veri e propri standard jazz - i nomi? McCoy Tyner
e Horace Silver - riarrangiati e riveduti, e poi ci sono gli omaggi a Mina con "Parole parole" e
a Ray Charles con "I Got A Woman", la prima molto scolastica e la seconda decisamente più
originale. Ma il pregio maggiore di questo album, ma la cosa si potrebbe estendere a molta
della produzione della band, è riuscire a far diventare godibile e ballabile quella che altrove
sarebbe definita "musica colta". E tra un frizzo ed un lazzo Furio, un profilo basso ed
un'ironia atipici nel mondo jazzofilo, ci dimostra come le distinzioni e gli steccati musicali
siano in realtà stupidi e limitanti. Lezione quanto mai utile per tutti quanti, e che speriamo
non venga recepita solo tra gli estimatori della band e gli appassionati della musica in levare.
Contatti: www.skaj.it
Giorgio Sala
Pagina 48
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Numero Novembre '10
Stardom
Soviet della moda
Danze Moderne
Onesti, gli Stardom, lo sono fin dai primi istanti del primo brano di questo disco,
perfettamente in sintonia con le influenze dichiarate nella pagina MySpace del gruppo
milanese: Diaframma, Litfiba, CCCP, Joy Division, Interpol, Editors. La new wave inscenata
in questi brani impressiona per la fedeltà con la quale vengono riprodotte determinate
atmosfere primi anni Ottanta, l'età dell'oro del “nuovo rock italiano”. I riferimenti, nei testi,
sono in parte legati a quell'immaginario (“Dresda” è il titolo del primo brano, mitteleuropeo
quanto basta), e in parte sono, com'è ovvio, aggiornati al presente, con riferimenti a Twitter e
a Facebook e quant'altro. Ci sfugge un poco, lo ammettiamo, il senso di un'operazione del
genere, ma d'altra parte non è necessario trovare un particolare significato artistico nella
devozione indirizzata a determinati stilemi estetici e musicali. Il risultato è piacevole, non ci
sono eccessive cadute di tono né momenti di imbarazzo involontariamente parodistico, non
ci sono episodi pedanti, troppo fedeli ai riferimenti originali. Solo, per l'appunto, ci chiediamo,
senza patemi ma con qualche punto interrogativo, dove possa mai portare questa diffusa
deriva manieristica.
Contatti: www.myspace.com/stardom.mi
Alessandro Besselva Averame
Pagina 49
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Numero Novembre '10
Trivision
Muoversi nel liquido
Indeed!/Halidon-Indiebox
Ci sono, anche nelle recensioni, dei segnali che il destino, o chi per esso, ti lancia. Dovevo
capirlo subito che qualcosa non andava con l'esordio dei Trivision. Prima un problema col
download del promo - colpa mia, sia chiaro - e poi, aprendo il file con l'artwork una copertina
che davvero non mi piace. Pazienza, mi sono detto, i bei dischi con copertine orribili son
tantissimi. Ed è li che ho sbagliato, non ho capito il disegno superiore. I Trivision, attivi dal
2007 e che debuttano con questo "Muoversi nel liquido" sono un quartetto dedito a un sound
indie-metal-screamo, ovvero riff iperprodotti di chitarra con un cantato -in italiano- a metà
strada tra l'urlato ed il melodico. Citano i Deftones come influenza e io ci trovo anche
parecchio metal-core recente, ma musicalmente non ci son grossi problemi, il vero punto
debole rimane a mio parere l'aspetto canoro. Non che Ivan, voce e chitarra, non sia capace
di cantare, anzi ha un timbro medio-alto interessante, ma i testi in italiano non sono
semplicemente all'altezza. Se fosse in mio potere ad esempio abolirei la possibilità di
scrivere "sei la mia vita" in un brano rock; queste frasi da cuore-amore lasciamole alla riviera
sanremese, l'italiano come lingua è un'arma a doppio taglio perché ti garantisce la
comprensione: alcune volte è l'essenza che mancava, altre scopre il vuoto che c'è. Non
prendetemi per il crudele di turno, ma il mio consiglio è un serio esame di coscienza per poi
ripartire con altre basi.
Contatti: www.myspace.com/trivisionitaly
Giorgio Sala
Pagina 50
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Numero Novembre '10
OJM
Jack The Ripper, Roncà (VR), 9 ottobre 2010
Il bravo giornalista dovrebbe sempre portare con sé un bloc notes ed una penna. Io non
sono un bravo giornalista, ma bloc notes e penna non mi mancano mai. Resta il fatto che
quando mi trovo al Jack The Ripper, fresco di festeggiamenti per i quindici-anni-quindici di
attività (auguri: siete fantastici!), tutti spesi a sputare rock’n’roll, garage, punk e dintorni, ogni
cosa passa in secondo piano e penso solo a divertirmi con la musica scatenata e selvaggia
degli OJM, su questo palco (palco?) per l’ennesima volta, per presentare la nuova fatica,
l’ottimo “Volcano”. Quindi non chiedetemi la scaletta dei pezzi, non aspettatevi una
recensione accademica, perché gli OJM tra fiumi di birra, un pubblico folto anche – ma non è
più una sorpresa – femminile, sputano fuori tutta la loro energia, tra colate di chitarre
elettrica, una sezione ritmica devastante e canzoni che si fondono e filano. É la terza
volta che assisto ad un concerto degli OJM: la prima li ricordo scolaretti beat; la seconda una
compagine di animali sguinzagliati dai Kyuss; oggi invece assumono le sembianze di una
competente, ma sempre non allineata band di stoner metal, con un organo – la vera novità
dei “nuovi” OJM – che duella con la chitarra. Su tutto la voce afona e rustica di David Martin,
cordone ombelicale tra il passato e il presente degli OJM. Interessanti anche i due gruppi di
apertura, entrambi della zona, i Kayleth, doom stoner con un bravo chitarrista, e i 3
Mexicans From Gorma, potente stoner classico. Una testimonianza, l’ennesima, di come il
verbo dell’hard rock Seventies abbia contagiato molti adolescenti italiani.
Gianni Della Cioppa
Pagina 51
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Numero Novembre '10
Tutte le storie sono storie d'amore
TUTTE LE STORIE SONO STORIE D'AMORE
“Se hai tra le mani questo disco significa che hai contribuito alla diffusione di un progetto
totalmente gratuito e unico nel suo genere”, così sta scritto sul CD, con un pennarello nero,
in tondo. Un giorno Gaël Moscarà, che suona ne El Señor Spielbergo, ha letto i
pezzi Gaia Tarini, sul suo blog (quadernodiappunti.tumblr.com), e col gruppo han deciso di
mettere della musica sotto i racconti di Gaia. Sotto, nel senso che le composizioni, di uno
shoegaze soffuso, a volte arpeggiato, stanno davvero al servizio della voce di Sergio Di
Salvo, che legge le parole scritte da Gaia con tono deciso. Mancavano le copertine, ci ha
pensato Domenico in arte _Disordine, disegnando a mano sedici copie per la prima
edizione, già esaurita e spedita gratuitamente a chi l'avesse chiesto direttamente all'autrice
dei testi. Poi altre sedici copie, già esaurite, per un'altra edizione. E ancora altre copie, per
una terza edizione a offerta libera che è in preparazione. E così via. Le storie di Gaia Tarini
sono delle piccole perle letterarie, minimali, adagiate sulla musica carezzevole de El
Señor Spielbergo; e “Tutte le storie sono storie d'amore” è tutto qui, nella sua grazia
artigiana, nella sua assenza totale di pretese, nel suo essere “indie” etimologicamente. Per
averne una copia, contattate Gaia.
Contatti: quadernodiappunti.tumblr.com
Marco Manicardi
Pagina 52
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