Numero Gennaio `11

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Gennaio '11
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Gennaio '11
Numero Gennaio '11
EDITORIALE
Anno nuovo vita nuova, si dice. Un proverbio che non vale per “Fuori dal Mucchio” e per il
suo staff, che – reduce dalle festività natalizie – si appresta ad affrontare il neonato 2011 con
il medesimo spirito e la medesima attenzione nell’ascoltare, selezionare e valutare
solamente il meglio di quanto proposto dalla iperprolifica scena underground tricolore. Un
compito non facile, che richiede un certo tempo per essere svolto come si deve. Pertanto
non disperi chi ci ha fatto pervenire il proprio materiale spedendocelo anche parecchie
settimane fa oppure consegnandocelo di persona al MEI, né abbia troppa fretta: tutto quanto
viene sentito, e se ritenuto valido viene trattato sul “Mucchio” mensile oppure in questo
spazio.
Ciò detto, non ci rimane che fare a tutti quanti voi lettori i nostri migliori auguri di un felice
2011, nonché – come d’abitudine – di buone letture e buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Denise
Scambio di mail con Denise Galdo, in arte semplicemente Denise, all’esordio sulla lunga
distanza con l’interessante “Dodo, do!” (Al-Kemi/Warner). Una voce dalle idee chiare e
aperta al contempo ai contributi esterni, proiettata verso una forma-canzone internazionale
eppure in grado di ritagliarsi uno spazio all’interno del nostro panorama.
Dopo l’EP “Carol Of Wonders”, quali erano i propositi per il tuo primo disco?
Volevo che mostrasse tutti i lati del mio progetto, da quello più giocoso a quello più
malinconico. Volevo che fosse molto omogeneo e allo stesso tempo ricco di spunti creativi,
una piccola fotografia del mio passato e del mio presente, senza troppe pretese.
Com’è avvenuto l’incontro con Gianni Maroccolo, decisivo sia in fase di produzione
sia nel sodalizio con Al-Kemi? Che rapporto si è instaurato?
Gianni è una persona fantastica. Dal momento in cui ha sentito i miei pezzi, si è
letteralmente innamorato del progetto e ha deciso di accompagnarci in questo importante
passo. Ricordo che, quando lo incontrammo la prima volta a Milano, rimasi sconvolta per il
numero di lodi ricevute, ero imbarazzatissima perché, trovandomi di fronte un artista di tale
calibro, ero preparata più a farne di complimenti che non a riceverne. Lui, invece, non fece
altro che lodarmi per tutta la serata, fu davvero stranissimo per me. Il suo ruolo nella
produzione del disco è stato principalmente quello di prendermi per mano, impostare
insieme a me l'organico dei pezzi che abbiamo poi realizzato in studio e soprattutto darmi
degli ottimi consigli sull'evoluzione di certi arrangiamenti.
Altre due figure importanti nella realizzazione di “Dodo, do!” sono stati Lorenzo
Tommasini e Alessandro Di Liegro.
Beh, Alessandro, oltre a essere mio compagno di vita, è il mio fidatissimo collaboratore e
compositore di molti brani del progetto, per cui il suo apporto è fondamentale per me. Nel
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corso degli anni abbiamo appreso un nostro linguaggio e questo ci è servito molto anche
durante le registrazioni di “Dodo, do!”, dove l'intesa tra noi era davvero alla base di tutto. Lui
ha una scrittura secondo me fantastica e mi sorprende sempre tantissimo constatare quanto
i nostri tocchi siano complementari. Lorenzo Tommasini, invece, l'abbiamo conosciuto
proprio in studio e devo dire che con il suo stile molto pulito, quasi brillantino, è stato
importantissimo in quanto ha conferito quella dose di maturità e trasparenza che non guasta
mai. Tra l’altro, questa sua indole naturalmente pop si è contrapposta divinamente all'animo
rock di Gianni e si è creato un mix eccellente, a mio avviso molto bilanciato.
Nelle tue canzoni misceli pop e folk, modernità e tradizione, orecchiabilità e
ricercatezza. Si tratta di connubi voluti o casuali?
Voluti e casuali. In realtà tutto ciò che mi interessa trasmettere all’ascoltatore è una buona
sensazione, simile alla gioia ma meno viscerale. Non mi soffermo mai sulla necessità di
rendere più o meno “orecchiabile” un pezzo, perché credo che questo significherebbe in
qualche modo renderlo meno naturale, più macchinoso e meno sincero. La mia identità pop,
accennata nel disco, non è altro che la voglia di rivelarsi in tutta semplicità. Non mi piacciono
le cose troppo concettuali e cerebrali, quello che mi interessa è sempre mostrare il succo,
quello vero. Per questo motivo mi piace spaziare anche in ambito folk, lo sento mio fin dagli
inizi, non fermandomi necessariamente a questo o a quel genere, anzi prevedo in futuro
moltissime sorprese in tal senso. Mi piacerebbe molto, infatti, riuscire a incontrare diversi
modi di essere e fare musica toccando punte estreme, come possono esserlo l’R&B o il soul.
Il tono fanciullesco, i riferimenti alla natura e la policromia dei pezzi sono una specie
di risposta alla cupezza della realtà circostante?
Esattamente. È il mio modo personale - ahimé, sono così anche nel quotidiano - di
combattere il grigiore che accompagna la nostra epoca. Vedo sempre meno persone
sorridere, me compresa, ed è inconcepibile. Siamo tra le generazioni più ricche a livello di
risorse creative ma più povere a livello spirituale, sembriamo un esercito di insoddisfatti e
questo di certo dipende molto anche dalla situazione storica che stiamo vivendo e dalla
mancanza di certezze e sicurezze che siamo tenuti a sopportare. Il fatto che non si intraveda
un futuro roseo, fa sbollire gli entusiasmi e anche il buonumore, insieme alla nostra capacità
di sognare. Le mie canzoni provano a far chiudere un attimo gli occhi, come se niente di
tutto ciò esistesse, come se una diversa realtà fosse ancora raggiungibile.
Come ti poni rispetto al lavoro sui testi? Hai deciso sin dall’inizio di esprimerti in
inglese o hai valutato la possibilità dell’italiano?
L’inglese lo sento mio perché mi dà la possibilità di esprimermi al meglio, proprio come se la
mia voce fosse uno strumento, colorato e vibrante, ma questo non esclude l’uso dell’italiano.
Adoro scrivere nella mia lingua e in passato ho vinto anche alcuni premi letterari. Credo che
l’italiano sia molto complesso da musicare, necessita di una scrittura compositiva diversa,
una scrittura su cui possa adagiarsi al meglio, divinamente. Forse in questi mesi è nato il
primo pezzo in italiano ma shhh!, è ancora tutto “in progress”.
I paragoni che ricorrono più frequentemente sono Björk, Emiliana Torrini e, restando
all’interno dei nostri confini, Elisa dei primi dischi. So che è una domanda che ti sarà
stata rivolta varie volte, ma cosa ne pensi e quali sono gli altri riferimenti per te
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significativi?
Tra i nomi che citi, quello che sento più mio è Emiliana Torrini, che ho scoperto tra l’altro
grazie alla mia prima recensione: ricordo che la citarono come mio riferimento, mentre io
all’epoca neanche la conoscevo. Ci sono molti artisti ai quali sono legata e andiamo dalla
musica italiana anni 50/60 a gruppi come Coldplay, Kings of Convenience, Radiohead o
autori come Elliott Smith, Feist, Fionn Regan o la fantastica Carole King. Potrei farti una lista
lunga tre pagine, che faccio, continuo?
Sei stata inserita all’interno della raccolta “La leva cantautorale degli anni Zero”.
Come hai recepito un simile riconoscimento e come valuti la nuova scena italiana?
Ne sono stata lusingata e credo che in Italia in questo momento ci siano molti talenti in
azione, molte proposte interessanti. Non ascolto molta musica italiana, per una questione di
gusti personali. Tutto quello che posso dirti è che, sarà per l’inglese, sarà per il tipo di
scrittura, sarà per il mood, ma non riesco a sentirmi simile a nulla di ciò che ascolto in giro.
Se non erro, hai dato il via al tuo progetto nel 2005, a soli diciannove anni. Perché
credi sia così difficile, soprattutto in Italia, essere giovani e riuscire al contempo a
esprimersi, farsi ascoltare?
Sì, in realtà avevo diciotto anni quando iniziai con il mio progetto solista ma prima c’erano
stati altri due anni di esperienza con un altro gruppo e quasi dieci anni di attività corale. Mah,
il discorso è lungo e complesso. La musica è in crisi ovunque, non solo in Italia, nonostante
qui ci sia un mercato ristretto, principalmente centrato sull’italiano e su un certo genere, oltre
il quale purtroppo non si riesce proprio ad andare. Questo è un limite molto grande e chiude
le porte a molti giovani artisti, talentuosissimi e maturi, sui quali però nessuno ha il coraggio
di investire realmente. Io sono nata a Salerno e questo di sicuro ha reso quello che era già
difficile in partenza, ovvero riuscire a farsi notare, un'impresa quasi impossibile. È tutto
estremamente complicato e poco stimolante, ma forse provare a crederci è l’unico modo per
tentare di far qualcosa di concreto.
L’album è contraddistinto da una certa ricchezza, varietà strumentale. Come lo
proporrai dal vivo?
Ho un gruppo molto fidato e funzionale, che varia dal trio acustico (chitarra, voce e
violoncello) alla band di sei elementi con basso, batteria, violoncello e violino, aggiunti a
chitarra e voce. Penso che la chiave sia trovare l’essenza dei pezzi e riproporla in diverse
forme. Non importa se le canzoni sono accompagnate o meno da orchestrazioni,
l’importante è mandare il giusto messaggio. Attualmente in Italia non ci sono tanti piccoli club
capaci di mettere in condizioni tecniche discrete e pochi sono in grado di dare sicurezza,
sempre tecnicamente parlando, per la tua esibizione. Questo porta ovviamente a
semplificare il semplificabile, piuttosto che creare live confusi o muri di suono in situazioni
che tecnicamente sarebbe davvero complicate o del tutto impossibili da gestire, che
limiterebbero certamente la comprensione da parte del pubblico.
Per finire, raccontaci come hai scelto il simpatico titolo di copertina e come è nata
l’idea per il grazioso artwork di Francesco Galdo.
Il titolo “Dodo, do!” l'abbiamo scelto io e Alessandro, un giorno che eravamo insieme a
Francesco Galdo e stavamo ipotizzando una serie di nomi e artwork che potessero
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racchiudere tutto quello che il disco voleva comunicare. Iniziammo a fantasticare con le
parole e inaspettatamente venne fuori il dodo, così simile per certi versi alla nostra musica,
posto in quell’eterno limbo tra realtà e fantasia. Piano piano, tra mugugni e balbettii creativi,
uscì il gioco di parole “dodo, do!” che, oltre a essere simpatico nella pronuncia, era
un’esortazione per questo magico dodo ad agire nella realtà e così nell’arco di mezz’ora
avevamo già le idee chiare sulla direzione da prendere. Francesco Galdo (Artedit) è un
creativo incredibile, con anni e anni di esperienza alle spalle. Ho voluto coinvolgerlo perché il
suo modo di illustrare in pastelli è adatto al mood del progetto, estremamente sognante e
fanciullesco. Lui, oltre a conoscermi bene trattandosi di mio padre, cosa che mi ha fatto
grande onore, è riuscito a cogliere perfettamente il senso dell’album e ciò che visivamente
volevo esprimere, lasciandomi la possibilità di intervenire e partorire assieme un progetto
grafico davvero interessante. Sono molto felice di questo.
Contatti: www.deniseproject.it
Elena Raugei
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Iosonouncane
Jacopo Incani alias Iosonouncane ha esordito nel 2010 con “La macarena su Roma”
(Trovarobato/Audioglobe), un album di cantautorato difficilmente inquadrabile, attraversato
da schegge elettroniche ed elementi eterogenei, per chi scrive uno dei più interessanti esordi
dello scorso anno. Ne abbiamo parlato con lo stesso Jacopo.
Ascoltando per la prima volta “La macarena su Roma” colpisce subito, al di là della
tua personale interpretazione del "formato" cantautorale, a livello di testi e
arrangiamenti, il lavoro certosino sui suoni, che immagino sia frutto di un lungo
lavoro di messa a punto e assestamento. Sembra, insomma, che le fasi siano state
due, la scrittura della canzoni e il loro collocamento in un universo sonoro peculiare
(che va, a grandi linee, giusto per mettere qualche boa e paletto, da “Anima latina” di
Battisti agli Animal Collective), è un’impressione corretta?
Quando il progetto è nato sapevo chiaramente cosa avrei voluto fare ma non come arrivare
a farlo. Un progetto cantautoriale slabbrato, con una forma canzone quasi informe, e con
una commistione, per quanto riguarda suoni e strumenti, tra folk di confine (appunto, tanto
“Anima latina” quanto “Sung Tongs” degli Animal Collective) ed elettronica a bassissimo
costo. Dovevo ripartire quasi da zero, musicalmente, avendo suonato per quasi un decennio
sempre e solo in uno stesso gruppo. Mi sono affidato da un lato alla scrittura di canzoni
tradizionalmente intese (l'unica cosa che sapevo di saper fare) e, dall'altro lato, al gioco
totalmente improvvisato su campionatore e loopmachine, comprati quasi alla cieca. Dopo un
anno passato in casa a registrare, provare, scartare, scremare fino ad ottenere sei canzoni
“finite”, ho passato un anno e mezzo a fare solamente concerti. I concerti hanno imposto un
approccio nuovo all'esecuzione, inevitabilmente. Quando sono entrato in studio ho cercato di
fondere le due esperienze, i due approcci, quello domestico, senza vincoli, e quello live, con
tutti i limiti dati dalla necessità di riprodurre dal vivo certe sonorità, certe strutture, certi beat.
“La macarena su Roma” è solo una delle possibili forme di questa fusione. Non
necessariamente quella che perseguirò.
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Il brano che credo rappresenti meglio l'anima del disco, quello che mi colpisce di più
e che personalmente trovo più originale ed emotivamente coinvolgente, è “Il corpo del
reato”. Lì, partendo da una piccola storia, apri uno scorcio sulla società, senza per
questo essere esplicitamente politico. Nelle tue canzoni, insomma, c'è il bisogno di
raccontare le contraddizioni di questo paese, in modo obliquo ma comunque
evidente. Ti ritrovi in questa descrizione?
Le contraddizioni di questo Paese sono, anzitutto, le mie. I protagonisti delle canzoni fanno
considerazioni aberranti. Sono anche mie. Da sempre scrivo (e scrivo di me) non perché io
creda in una qualche rilevante missione sociale, ma esclusivamente poiché pendo dalle
labbra del mio bisogno di esorcizzare questioni private mai superate. Al fondo, quindi, c'è
inerzia infantile e poco più. Queste canzoni le ho scritte così, le prossime ancora non so. Le
canzoni non risolvono niente, non cambiano nulla, non fermano guerre, non fanno
rivoluzioni. Viviamo in una società che strabocca di informazioni. I cantanti impegnati sono
trascurabilissimi. Io non farò il cantante impegnato. Le canzoni fanno una ed una sola cosa:
incidono sulla formazione del gusto. Questo lo so bene. E credo che oggi resistere significhi,
in primo luogo, smarcarsi dall'abitudine e dalla ritualità del gusto. Butto via tutto e tengo
questo come faro. Il mondo della musica indipendente è capace d'una rincorsa
all'autoconservazione che farebbe impallidire il peggior parlamentare. Non ho e non voglio
averci nulla da spartire.
L'unico brano parlato, “I superstiti”, in pratica un monologo, lo hai comunque
“messo in musica”: le voci si sdoppiano e si inseguono. Le “voci” del disco sono un
altro elemento fortemente caratterizzante, mi pare di poter dire che l'espressività
vocale ha la stessa importanza di contenuti e suoni, diventa anch'essa un suono
nell'insieme...
Esattamente. Una delle idee portanti del progetto è proprio l'utilizzo della voce anche come
elemento ritmico e sonoro. In questo quadro si inserisce “i superstiti”. Questo pezzo è, per
me, un primo esperimento in questo senso. Vi sono differenti possibili sviluppi. Di questo
primo disco, in generale, mi rimane soprattutto questa sensazione: la possibilità di prendere
una marea di strade differenti. Ho solo da selezionare, da divertirmi, da giocare. Posso far
tutto, non ho nulla da perdere, non devo render conto a nessuno. L'unico limite enorme che
mi trovo, sempre, a dover fronteggiare, è la mia proverbiale pigrizia. Ogni volta che finisco di
scrivere una nuova canzone mi dico: bene, non ho più niente da dire: è successo anche ieri.
“La macarena su Roma”: c'è una via d'uscita al carrozzone carnevalesco lanciato
verso il nulla dipinto dalla canzone, credi che esista la possibilità di uscire da questa
corsa in modo dignitoso, magari reimpostando le priorità, cercando di diventare
autonomo dalla società dell'apparire che ci circonda?
Non sono affezionato alla mia dignità. O, quantomeno, non credo che ritenersi parte d'una
parte illuminata serva a qualcosa. Certo, permette di andare a dormire tranquilli, con la
pseudocoscienza da pseudoribelli rinvigorita, ma, personalmente, non me ne faccio nulla. La
canzone che dà il titolo al disco (così come il disco nel suo intero) parla di certe cose
piuttosto che di altre. Parla soprattutto di un'idea di partecipazione che non si ferma al
televoto e non si ferma al pubblico di Maria De Filippi. Non so cosa sia la società
dell'apparire, e non credo che debba essere una persona che ogni due giorni sale sul palco
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mostrando a tutti il proprio essere infantile ed egocentrico a dover dare risposte, soluzioni o,
semplicemente, “spunti intelligenti”. Io credo nella politica e nell'idea tradizionale di partito:
bisogna nuovamente riempire le sezioni, di quartiere in quartiere. Tutto il resto è solo un
accumulo di discussioni che servono a non discutere ma che, per contro, permettono sonni
un po' più tranquilli. In un pezzo parlo di “igiene settentrionale, coscienza da incorniciare”. In
un altro di superstiti incatenati alla libertà di potersi incatenare. Quel che penso l'ho messo
nel disco. Non saprei dirlo differentemente, non ho nient'altro da aggiungere.
La prima volta che ti ho visto su un palco è stato in occasione dello scorso
“Indipendulo”, all’interno del MEI di Faenza: su disco i brani hanno maturato una
complessità che non sempre, immagino, dev'essere agevole riportare sul palco.
Questo tuo percorso in studio ha modificato il tuo approccio al live?
Per quanto mi riguarda il progetto è tutt'ora un cantiere aperto. Questo investe tutto: la
scrittura di nuovi pezzi, il lavoro sull'elettronica, l'idea di live, la strumentazione che porto sul
palco. Accetto l'idea che live e disco siano due cose differenti. Non tutti i pezzi mi piace farli,
sul palco, così come si possono sentire nel disco. Diciamo che in linea di massima all'interno
del set live i due estremi (elettronica e canzone “classica”) sono maggiormente enfatizzati.
Per cui ci sono momenti molto raccolti e momenti molto rumorosi, ossessivi. Non so
veramente cosa succederà. La mia unica preoccupazione è e deve essere quella di suonare
e farlo sempre meglio. Ho molto rispetto per il pubblico. Per questa ragione cercherò di non
essere accomodante. Mai.
Contatti: www.iosonouncane.it
Alessandro Besselva Averame
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Love In Elevator
L'ultimo disco dei Love In Elevator "Il giorno dell'assenza" (Epic & Fantasy/Go
Down-Audioglobe), rivoluziona il loro approccio musicale. Si lasciano andare ai propri
desideri dentro lo studio di Marco Fasolo dei Jennifer Gentle e intraprendono diverse strade,
dall'indie-rock, al pop e al noise, cantando per la prima volta in italiano. Quale genere
sceglieranno o se continueranno così lo capiremo il prossimo disco, intanto hanno
focalizzato la line-up: voce, basso e batteria. Ne parliamo con la cantante, Anna Carazzai.
Dopo qualche anno passato a trovare i componenti giusti, direi che il trio ormai si è
consolidato.
Ma pare di sì questa volta. Ormai sono due dischi con Cristian Biscaro e Roberto Olivotto.
Adesso siamo in quattro, perché anche se il disco nuovo l'abbiamo registrato noi che siamo
il nucleo centrale, per riprodurlo completamente abbiamo un quarto elemento, Marco
Ghezzi, che è anche il co-fondatore dei Sakee Sed.
Cantare per te è diventato più importante adesso, rispetto al disco precedente
"Re-Pulsion" o semplicemente volevi sperimentare il cantare in italiano?
Sì, è diventato più importante. In “Re-Pulsion”, cantare non era il mio ruolo, perché prima
c'era Giulia Volpato nel gruppo, e ci pensava lei. Mi ci sono trovata e in realtà era una cosa
che non ho mai amato fare, anche se facevo i cori con lei, ma niente di più. Invece per
questo disco cantare è stato un piacere che sta ancora maturando e aumenta tutti i giorni. E
anche i testi sono diventati più importanti, per scelta.
Quando scrivi le canzoni guardi fuori dalla finestra o dentro di te?
Guardo fuori dalla finestra cercando me stessa... Scherz! In realtà scrivo in base alla
melodia. Comunque ho studiato lingue e letterature, per cui sono sempre stata appassionata
di letture e di scrittura e ho sempre scritto poesie. I nostri testi non spiegano niente, ma
sento d'aver parlato, anche nei dischi precedenti, dell'uomo in generale non di me stessa,
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della nostra condizione di esseri umani in una maniera che mi riesce facile che è quella
surrealista.
Com'è cambiato il vostro modo di scrivere e comporre in generale?
In generale non è cambiato niente. Di solito, si parte da un riff di chitarra o dalle melodie di
voce, poi Roberto inizia a lavorare sulle batterie e Cristian sui giri di basso e quando il pezzo
ci convince registriamo e ascoltiamo tutto dal di fuori, si fanno i provini e si va a registrare.
Per quanto riguarda la lingua italiana, rispetto a prima, i pezzi nascono comunque in inglese
per la melodia e poi cerco di adattare in italiano delle cose che abbiano senso per me.
Qual è stata la prima canzone de "Il giorno dell'assenza" e se vi ha indicato la nuova
strada?
La più vecchia è "Mancubus" che suonavamo già ai concerti. Ma è un disco molto vario che
ha tante direzioni diverse, questo però non perché siamo confusi e non sappiamo cosa fare,
ma perché volevamo fare tutto quello che ci andava, passare da un pezzo molto calmo
come "Honey" che parte con l'intro di piano, senza batteria, molto melodico; e passare ad
una cosa alla Melvins come "Consigli di un bruco". Perché noi siamo tutte le cose solo che
adesso in uno studio adeguato abbiamo avuto la possibilità di esprimere tutto quello che
volevamo esprimere, però non c'è una direzione precisa. "Re-pulsion" era più unidirezionale
come disco, più secco, più diretto. Questo qui si fa più fatica a capirlo.
Il disco nuovo esce per un'ottima produzione e distribuzione.
Diciamo che sono aumentate le persone intorno al nostro progetto. Oltre al gruppo abbiamo
avuto un produttore artistico d'eccellenza quale è Marco Fasolo dei Jennifer Gentle e poi c'è
la Go Down come etichetta e distribuzione e abbiamo come supporto questa neonata
etichetta di Verona che è la Epic & Fantasy che ci ha sempre seguito. Sono cambiate un po'
di cose non essendo più con la Jestrai, comunque siamo sempre indipendenti nel vero
senso della parola. Autonomi nelle scelte e nelle cose che si fanno ed è bello vedere che si
creano una rete di rapporti di collaborazioni esterne.
Questa distribuzione a proposito di reti vi farà arrivare all'estero. Ma pensate possa
danneggiarvi, adesso che avete iniziato a cantare in italiano?
Le prime due date del tour le abbiamo fatte in Germania e la gente ha accolto
entusiasticamente anche i pezzi in italiano. Comunque, penso conti soprattutto l'energia che
viene fuori non tanto i testi. Inoltre suonare spesso e volentieri in Italia, mi ha portato a
questa scelta dell'italiano per una questione personale di scrittura che mi fa sentire più vera.
Quindi non credo ci danneggerà.
Ma ci sono dei dischi o degli artisti che considerate i vostri fari?
Dopo tanti anni posso dirlo con certezza: i Motorpsycho. Una band che è partita dal metal e
ha attraversato tutti i generi possibili e immaginabili nella musica rock.
Tornando all’album: dove e come è stato registrato?
L'abbiamo registrato a Polesella che è dove si è trasferito l'Ectoplasmic Studio di Marco
Fasolo che ha prodotto il disco artisticamente. A giugno siamo entrati in studio e ne siamo
usciti in ottobre. L'abbiamo registrato completamente in analogico, non utilizzando nessun
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mezzo digitale, dalla registrazione delle prese, alle voci, ai mix. Il master è tutto in analogico.
Una novità per noi che abbiamo fatto sempre metà e metà nei dischi precedenti. Si partiva in
analogico e si riversava tutto su digitale andando avanti in quella maniera. Invece questa
volta, abbiamo usato un banco degli anni 70 che proveniva dalla RAI di Roma e abbiamo
suonato tutto quello che c'era a disposizione in studio.
Marco Fasolo vi ha dato anche dei consigli?
Marco è stato una guida. Ci ha dato dei consigli su ogni canzone, ma più che altro è stato
decisivo nella scelta dei microfoni. Io pensavo stessimo perdendo un sacco di tempo, perché
cambiavamo un sacco di microfoni al giorno, per riprendere una chitarra piuttosto che una
voce o un pianoforte. E invece, ho scoperto col senno di poi che anche queste scelte di
provare e riprovare a riprendere il suono da punti diversi o con microfoni diversi è stato
determinante per il suono che ne è venuto fuori: particolarissimo e originale. Abbiamo
lasciato anche un sacco di imprecisioni a partire dalle batterie, ma siamo partiti proprio con
l'idea analogica dell'errore e dell'imperfezione per concepire qualcosa di unico.
C'è un gruppo in Italia che trovate affine al vostro modo d'intendere la musica?
Tantissimi, dai Verdena, a Il Teatro degli Orrori, ma soprattutto i Lucertolas che adoro come
attitudine e come musica. Abbiamo le stesse idee sul come si fanno le cose e come andare
a farle. E come loro i Jennifer Gentle.
Contatti: www.loveinelevator.com
Francesca Ognibene
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Ovlov
Gli Ovlov da Brescia sono un trio, nato dalle ceneri di Black Eyed Susan. Il loro esordio
"Margareth, Frank And The Bear" (CasaMolloy/Audioglobe) li avvia verso una strada
sicuramente più leggera e spontanea rispetto al primo gruppo. Gli Ovlov cercano le ali, un
universo di fantasia di cui delineano anche già le fisionomie degli abitanti, e così si rifugiano
in questa enorme bolla pop invitando anche gli altri ad entrare per proteggersi dalle brutture
del mondo reale. Ne parliamo con la cantante Luisa Pangrazio.
Ti avevamo conosciuta per Black Eyed Susan e a te in particolare con le Mulu
assieme a Marilù; e adesso con questo nuovo trio che sono gli Ovlov ti ritroviamo
assieme a Michele Marelli alla batteria e Luigi Ancellotti al basso. Come sono nati?
Sono nati dopo che Giovanni il nostro chitarrista ha lasciato il gruppo, perché era troppo
impegnato con i Don Turbolento, e il nostro vecchio batterista ci aveva lasciati già da tempo,
quindi eravamo in fase di cambiamento. Dei Black Eyed Susan eravamo rimasti io e Gigi, e
abbiamo incontrato Michele, giovane chitarrista bresciano che ha contribuito a formare il trio;
in questo modo io e Gigi abbiamo potuto continuare a suonare assieme, come facciamo da
dieci anni a questa parte. E con Michele abbiamo dato un taglio nuovo rispetto ai Black Eyed
Susan, anche per quelle che erano le strutture delle canzoni.
Biro si è occupato della parte grafica. Vuoi descriverla e raccontarci del suo autore?
La parte grafica è stata molto importante per noi per questo disco nel senso che crediamo
molto ci debba essere una contaminazioni di varie forme artistiche. Il nostro simbolo era
l'orso e da quello è nata l'idea di creare una copertina che fosse affine ai nostri pezzi, quindi
sintetica, semplice ed efficace e allora abbiamo lavorato in questa direzione anche con la
grafica. Biro, aveva curato anche la copertina dei Black Eyed Susan. La sua linea e il suo
modo di disegnare ci piacevano molto. E poi gli avevamo rubato l'orso da un quadro che lui
aveva fatto così la grafica è diventata sua di diritto. Poi anche nella presentazione del disco
mentre noi suoniamo, Biro disegna con il computer e video proiettore dietro di noi, quindi
racconta a fumetti la nostra musica.
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Con questo disco sembrate ringiovaniti rispetto a Black Eyed Susan. C'è un disco, un
evento che pensate vi abbiamo ispirati verso questo cambiamento oltre quello che è
successo che vi ha praticamente obbligati?
Non credo sia tanto la musica perché io, come ascolti, ultimamente ho ripreso i Led
Zeppelin e gli AC/DC; più che altro è stata un’esigenza. Ci siamo trovati in tre invece che in
quattro, quindi da due chitarre, basso, batteria e tre voci, ci siamo ridimensionati in basso,
chitarra, batteria e una voce: la mia. Pertanto, per non fare troppo di tutto abbiamo cercato di
essere lineari e semplici; e quindi da lì sono nati i pezzi degli Ovlov, semplicemente per una
questione di esigenze tecniche.
Ma com’è cambiato il vostro modo di scrivere e comporre, rispetto ai Black Eyed
Susan?
Beh, prima con Black Eyed Susan, spesso succedeva che Giovanni o Gigi portavano i pezzi
già pensati in sala prove, poi insieme si arrangiavano. Con Ovlov invece i brani
tendenzialmente nascono in sala prove. Si abbozza un giro, si inizia a suonare sopra questo,
io abbozzo un cantato e il testo lo scrivo successivamente alla canzone, quindi
tendenzialmente avviene tutto in sala prove. Non c’è niente di studiato a casa e di pensato
prima: è tutto molto istintivo.
Quando canti a chi ti ispiri?
Sicuramente PJ Harvey è stata una delle donne che mi ha ispirato molto per il timbro che ha
nel modo di cantare che ho simile al suo. Però ultimamente come cantante mi piacciono
molto i Gossip e anche Animal Collective.
E invece ascoltavi gli Smiths quando è nata “Up & Down”?
No, però anche gli Smiths sono sicuramente tra i miei ascolti. Io non pensavo di essere new
wave, ma credo di dovermene fare una ragione.
Chi sono “Margareth, Frank And The Bear”? Ci racconti i protagonisti di questo
disco?
La storia di “Margareth, Frank And The Bear” potrebbe essere lunghissima, ma te la posso
sintetizzare. All'inizio il disco doveva chiamarsi “Polar”, perchè Ovlov è il contrario di Volvo e
volevamo creare un richiamo con la Volvo Polar, l'orso polare, il Polo Nord e così via. Poi
però, scrivendo i pezzi e vedendo che insieme raccontavano la storia di Margareth e
Franklin, questi due personaggi che sono un po' i protagonisti del disco, abbiamo pensato di
usare quei nomi come i nostri alter ego. Io Margareth, Gigi Frank e The Bear il nostro
batterista che è un po' orso, appunto.
Da quanto tempo sono nati gli Ovlov?
Un anno e mezzo, perché Giovanni è andato via e abbiamo iniziato subito a lavorare; non
siamo riusciti a suonare fin da subito proprio perché avevamo deciso di fermarci un po' per
creare i pezzi e registrare il disco, e quindi avere già un prodotto finito per poter uscire. Il trio
ci piace molto. E suonare dal vivo in tre è anche molto più semplice, così come anche in sala
prove mettersi d'accordo su come fare il pezzo e come farlo girare. Nel disco abbiamo anche
dei synth che però dal vivo non portiamo perché i pezzi sono nati come trio e funzionano
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bene anche chitarra, basso e batteria. Semplici.
Invece le Mulu che nominavamo prima?
Con Mulu adesso siamo in studio. Stiamo componendo pezzi nuovi, quindi siamo in fase di
definizione per il nuovo disco. Adesso abbiamo una linea più dance rispetto al passato.
Dove e come è stato registrato il disco?
Il disco lo abbiamo registrato a Brescia al T.U.P, studio di registrazione di Stefano Moretti
dei Pink Holy Days e Pierluigi Ballarin dei The Record's, produttori artistici del disco come K
Production, che hanno curato molto gli arrangiamenti e la fase di registrazione. È stato molto
interessante lavorare con loro e ci è servito per sistemare i pezzi. Abbiamo registrato a
gennaio del 2010, quindi è un po' che il disco è pronto, ma cercavamo un modo per farlo
uscire bene, così ci siamo presi i nostri tempi e adesso a metà novembre sarà disponibile
grazie ad Audioglobe.
E grazie a CasaMolloy. Ma voi vi siete rivolti ad altre etichette prima di trovare
questa?
Sì, noi abbiamo chiesto un pochino in giro, ma il mondo delle etichette alla fine, a parte
alcuni casi veramente rari in cui ci si mette ancora energia, in generale le offerte che ci sono
state fatte erano, prendete il mio logo e vi arrangiate a stampare con tutti i costi, così
abbiamo trovato un buon compromesso con CasaMolloy che ha co-finanziato il disco.
Praticamente ce lo siamo pagati noi con un contributo dell'etichetta e un contributo del
laboratorio artistico “L'Ozio” che è quello di cui fa parte anche Biro.
Ma secondo te rinasceranno mai, Black Eyed Susan?
No. È un capitolo chiuso. È stato un bellissimo momento della nostra vita musicale, ma
comunque mi sento molto distante da quella musica in questo momento.
Contatti: www.ovlovmusic.it
Francesca Ognibene
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Numero Gennaio '11
Bluejane
Sober
autoprodotto
Non capita spesso di ascoltare in Italia gruppi che prendono in mano la lezione del post
grunge, se mai è davvero esistito qualcosa con questa definizione, visto che si tratta di un
genere nato dalle ceneri del grunge e che è stato addomesticato per le radio, perdendo così
le sue caratteristiche alternative. Oggi in America chi meglio rappresenta il post grunge sono
i Creed e i loro discepoli Alter Bridge, anche se a essi tale definizione non solo non piace,
ma la detestano. Questa premessa per inquadrare in qualche modo l’esordio autoprodotto
dei bergamaschi Bluejane, un quartetto che ha tutte le caratteristiche per trovare consensi
tra chi apprezza riff potenti e melodici, conditi da una voce baritonale che ha sempre il
controllo della situazione. Un bell’ascoltare, ma che alla lunga diventa ripetitivo, perché le
nove canzoni possiedono poche impennate, e a livello compositivo non sono in grado di
offrire alternative al fraseggio riff/cantato/refrain. Si elevano “Day Of Grey” con un taglio
malinconico coinvolgente, la title track con un’andatura funky rock ben modulata dalla voce
di Fabio Polini e la conclusiva “Big Sweet Eyes”, sorta di ballata vitaminizzata che potrebbe
funzionare come ipotetico singolo. Altrove invece si respira un’aria sin troppo fedele al
canovaccio dei gruppi citati sopra. In sintesi, un buon punto di partenza, ma per uscire dalle
secche dei buoni replicanti si richiedono una maggior personalità e maggiori varianti negli
arrangiamenti.
Contatti: www.myspace.com/thebluejane
Gianni Della Cioppa
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Numero Gennaio '11
Blugrana
Blugrana
autoprodotto/Wondermark
Inveire sul corpo morto di un genere mai esistito, il grunge, è una pratica che ha dilettato nel
tempo svariate pseudo-band. Dai Bush, giunti sul campo di battaglia con imbarazzante
ritardo, ai Creed, cover band alle prime armi di Eddie Vedder e soci, passando per molteplici
copie ricalcate su carta carbone.
I piacentini Blugrana sono una nostalgica band grunge fuori tempo massimo. Rinchiusi in
atmosfere consegnate alle mani sicure della storia, e posseduti dallo spettro del già detto,
già visto e già sentito, aleggiante in tutte le undici tracce dell’esordio omonimo dai contorni
lineari e fin troppo prevedibili. Fra ballate intrise di spleen esistenziale (“L’apparenza”), pene
amorose espiate in chitarroni dopati (“Comemaledire”) e sfruttamento di cliché (il singolo
apripista “Desmael” e “Babel”),” Blugrana” scorre via senza particolari colpi di scena,
nonostante una produzione molto precisa e attenta, e l’apporto vocale imponente e corposo
del frontman Marcello Mautone. Sei-corde ruggenti, voci melodiche e sonorità fin troppo
levigate oggi non stupiscono più. Se aggiungiamo anche testi intrisi di banalità “mocciana”
(“se potessi crescere con il figlio che assomiglia tanto a te” sembra trafugata da un
qualsivoglia muretto di scuola media) il danno è fatto. Abbiamo bisogno di qualcosa in più, e
Blugrana è sintomo di ispirazione latitante e identità non ancora ben definita. Profanare le
spoglie lise del grunge, oggi, è una pratica che puzza di macabra necrofilia musicale.
Contatti: www.blugrana.it
Luca Minutolo
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Numero Gennaio '11
Canada
Afterimage
Andromeda Relix
Le storie musicali ripescate dagli anni Ottanta sanno spesso di primordi new wave o heavy
metal, due strade che correvano in parallelo in quell’inizio di decennio, invaghite dei nuovi
fervori britannici. Meno ovvio ritrovare i Canada, che del panorama metal avevano in serbo
qualche sferzante riff chitarristico, orientati piuttosto verso sonorità cosiddette AOR (il
famigerato “adult oriented rock” tanto in voga negli USA), dunque più ariose e melodiche.
Quelle melodie che preferiscono raccontare di innamoramenti e amori infranti, che la band
riminese seppe ribadire dal 1987 al 1995 con classiche songs come “Broken Heart”, “Never
Surrender”, “Angel Of The City”, esaltate dalla tipica ballad “Goodbye Patricia”. Un recupero
dunque persino atipico, che sa riscoprire quelle atmosfere rock dolciastre e romantiche con
qualche ammiccamento tastieristico hard-progressive, associabili ad esempio ai Survivor di
“Eye Of The Tiger”, inevitabilmente senza la stessa classe e con una qualità di registrazione
un po’ deficitaria come capitava in quegli anni pionieristici di riproposizione heavy-rock in
Italia. Con intento completistico “Afterimage” raccoglie anche tre bonus track cantate in
italiano, discutibile tentativo di depistaggio dai boulevard americani. Un documento
comunque interessante pur con le sue ingenuità, perdonabili per quei tempi, nostalgico per
qualcuno, coerente con le strategie della label Andromeda Relix, condiviso di certo
amorevolmente da Massimo Cillo, basso-tastiere-voce e anima della band, incorniciato
ottimamente dalla bella, trasognante copertina.
Contatti: www.canadaprog.net
Loris Furlan
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Cantina Sociale
Cum lux
Electromantic
Vogliamo parlare di rock progressivo oggi in Italia? Ci tocca sorvolare sulla maggior parte
delle cosiddette nuove leve, succubi spesso di derive emulative (perlopiù esterofile) e
tecnicisti che, e rivolgere la nostra attenzione a una realtà di assoluto rilievo come quella dei
Cantina Sociale. E si sa che non è un ensemble di primo pelo (ci torna il solito sospetto che
si tratti di una questione culturale-generazionale), comunque mirabile per la propria
interpretazione di lunghe elaborazioni , a dispiegarsi come un libro che si sviluppa su più
capitoli e diversi piani narrativi. Dunque niente stucchevoli operazioni oleografiche che
ritritano in superficie i soliti luoghi comuni di genere, ma solo tanta sostanza espressiva e
poetica. È pur vero che il settetto astigiano, vincitore peraltro dell’Omaggio a Demetrio
Stratos 2003, si avvale di un cantante fuoriclasse, Iano Nicolò, che è molto più della sua
elegante vocalità, grazie a un ispiratissimo connubio interpretativo, teatrale e poetico (si
offenderà se lo collochiamo idealmente tra il miglior Renato Zero e lo stesso Demetrio?), che
trova pochi eguali nel mondo underground e oltre. Ma tutta la band merita un convinto
applauso, a cominciare dalla sorprendente presenza femminile (Carla Viarengo al sax e
voce, Rosalba Gentile alle tastiere, Marina Gentile alle chitarre) che davvero non è
trascurabile, altresì per lo sviluppo compositivo, ricco di cambi di scena e sfumature
armoniche, evocativo nell’accompagnare le parole che sanno di esistenza, di sociale e di
umanità. Nessuna inutile ridondanza né stantio odore settantiano, pur in una similare
attitudine creativa, nemmeno nei venti minuti di “Cum lux” coi suoi tratti struggenti, che solo
reclamano un’attenzione diversa che per un brano radiofonico. Ma se costasse troppa fatica
suggeriamo la pirandelliana “Unonessunocentomila”, il crescendo avvincente di “Kantele” o
la breve citazione stratosiana finale “Luce”. Tutto particolarmente intenso e suggestivo, a
ribadire dopo il già eccellente primo CD “Balene”, una Cantina Sociale (più istanze individuali
e sociali che vino) sui piani alti del prog italiano, ma per la quale vorremmo auspicare una
meritevole “mescita” ben al di là degli steccati di genere.
Contatti: www.myspace.com/wwwmyspacecomcantinasociale
Loris Furlan
Pagina 19
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Numero Gennaio '11
Dance For Burgess
SSA
Mashhh!/Halidon
I Dance For Burgess, ovvero Iacopo Bigagli e Marco Da Collina, potrebbero benissimo
essere una band inglese dell’era Madchester. Una considerazione che nasce sia dal
background del duo di Lucca - dalla registrazione londinese con Rory Attwell dell’EP
“Bratwell Sessions” alla partecipazione al festival dell’isola di Wight, su invito di Tim Burgess
- sia dall’ascolto del loro primo album, “SSA”. C’è innanzitutto la scelta di affiancarsi a
un’etichetta coraggiosa come la Mashhh! Records, che opta in tal caso per il solo vinile
coadiuvato da una distribuzione in digitale, seguita dall’intuizione di registrare su bobina, in
una baita nei boschi di Lavarone. Una ben precisa posizione attitudinale che va però di pari
passo con canzoni abbastanza attuali nel miscelare new wave nevrotica, post-punk
tagliente, melodie di stampo anglosassone e ritmi non di rado spinti. Chitarre che
sferragliano, bassi che pulsano, drum machine che scandisce il tempo e voci irrequiete
trainano i dieci brani in scaletta, quando più aggressivi (“Twisted Shark”, “Tape”), quando più
orecchiabili (“Cocktail Flu”, “PLRG”), quando più ballabili (“I’m Wired”). Si pensa, dunque, a
New Order, Stone Roses, Happy Mondays, Charlatans o Primal Scream (inevitabili punti di
riferimento), così come ai conterranei Hacienda (spiriti affini). Messe da parte eventuali
pretese di originalità, una proposta credibile e alla prova dei fatti molto più piacevole di tante
revivalistiche new sensations strombazzate oltremodo dall’NME. Può bastare e far riflettere.
Contatti: www.myspace.com/danceforburgess
Elena Raugei
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Deadpeach
2
Go Down/Audioglobe
Si definiscono un trio che armeggia con chitarra, basso e batteria, con un sound a base di
riff, energia, atmosfere liquide e psichedeliche, e sembrano assolutamente disinteressati a
tutto ciò che è successo nel rock degli ultimi trent’anni (qualcuno potrebbe chiedere: ma è
successo qualcosa?). Un secondo album; che arriva dopo un girovagare di etichette, tra
singoli, EP e un esordio sulla lunga distanza “Psycle”, replicato in vinile dalla nota label
Nasoni, mentre per questo “2” la Go Down ha giocato d’anticipo è l’ha pubblicato in vinile e
in una fredda versione digitale, che oggi non si nega a nessuno, perché il mondo lo vuole, la
tecnologia lo vuole, anche se poi i conteggi dicono che le band emergenti vendono, nel
mondo, ben una decina di copie digitali all’anno. Queste otto canzoni musicalmente si
muovono su tracciati che chi ama lo stoner e dintorni ben conosce, ma la carta vincente del
trio l’utilizzo del cantato in italiano, scelta che evita di impantanarsi nella laguna dei milioni di
imitatori dei Blue Cheer/Kuyss; se poi si aggiunge che i Deadpeach adorano l’arma
dell’ironia (“Cameriere”, “Universo”) e in alcuni casi dello sberleffo (“Le scarpe nuove”), ne
viene fuori un disco che si ascolta e piace, almeno per quella mezz’ora che gira sullo stereo,
e di questi tempi e molto di più che una cosa banale. Come per molti dei protagonisti di
questa scena, il consiglio è di vederli dal vivo: tutt’altra suggestione
Contatti: www.myspace.com/deadpeach
Gianni Della Cioppa
Pagina 21
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Exposurensemble
Grunt 223
autoprodotto
Capita talvolta, pur raramente, di imbattersi in situazioni in cui la musica ha una valenza di
linguaggio così intensamente ed esaustivamente strumentale che pare persino deleterio
infilarci dentro del cantato e delle parole. E si sa quanto le parole possano delimitare
percorsi compositivi col proprio fardello estetico e retorico. Allora i goriziani
Exposurensemble, parte della rara stirpe summenzionata, che fanno? Risolvono da subito la
pratica con una bella, toccante poesia nei primi 54 secondi di “La conta degli abbracci”, e poi
aprono il sipario su dieci tracce strumentali dall’immaginifica forza espressiva, senza mai
reclamare fretta. In un soppesato clima cameristico che non disdegna umori popolari
scorrono sequenze lievi, tinte dalle melodie soffusamente jazzistiche del sax di Graziano
Kodemarz e dal violino di Simone Kodemarz, supportate dal tessere sapiente del basso ed
e-bow di Mauro Bon e dalle chitarre di Roberto Duse. Si susseguono episodi di grande
fascino, dalla “Coda di serpente” all’agreste “Il salto del grillo”, dall’incalzante “O rango o
tango” (un tango poco raccomandabile alle balere) alla serafica “Topolò Circus”. “Bon Bon
Bay Road” lascia respirare piano i suoi dodici minuti di ritualistica spiritualità, quasi
un’inconsapevole scia ancestrale di certi Popol Vuh, mentre “Grunt 223” affila le proprie armi
in direzione avant-jazz-prog-rock, col suo obliquo scarto chitarristico un po’ frippiano. Al
gracidare delle rane in “Ranakropolis” rispondono il sax soprano e il violino con accorato
lirismo solistico. I diciotto minuti di “Improvvisamente” sciolgono ulteriormente le briglie in
favore di libere, stranianti divagazioni. Magnificamente in bilico tra certe colte propaggini
avant-jazz di marca Cuneiform e ambientali fragranze acustiche, tutto il disco, custodito in un
originale packaging cartonato (e annessi dipinti di Luciano Gironcoli), trova il suo comune
denominatore in una poetica emozionante e di peculiare sensibilità corale.
Contatti: exposurensemble.blogspot.com
Loris Furlan
Pagina 22
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Flavio Poltronieri
Vestito per amare
autoprodotto
Il Cohen scaligero targato Flavio Poltronieri fa tris. Dopo “Come tradire L. Cohen” e “Nudo in
ombra”, terza puntata: “Vestito per amare”, altro lavoro collettivo dedicato al songwriter di
Montreal.
Quando l’originale è di livello così alto, si ha molto da rischiare e da perdere, e a chi ritiene
che le riletture dei grandi maestri siano operazioni a rischio di superfluo, “Vestito per amare”
non è consigliabile. Ma vanno sottolineate la classe e il buongusto con cui l’impegno è stato
approcciato. Intanto complimenti per il lavoro di trasposizione in italiano, condotto sotto la
cura di Marco Ongaro, che non fa mai gridare al sacrilegio, e, trattandosi dell’opera di un
poeta vero, è già un’impresa. Dunque diciassette canzoni di Cohen vengono interpretate in
italiano da diversi artisti. È piacevole scoprire tante interpreti femminili: Marcella Garuzzo (“In
My Secret Life”, che diventa “Nell’oscurità”), Laura Facci (“La finestra”, ovviamente “The
Window”), Veronica Marchi (“Un miglio in fondo al cuore”, ossia “A Thousand Kisses Deep”),
Raffaella Benetti che traspone “Hey, That’s No Way To Say Goodbye” in “Il modo di dire
addio” con un elegante quartetto da camera, Valentina Amandolese, che veste “Storia di
Isacco” di suoni ghiacciati e allucinati alla Björk. Marco Ongaro si cimenta con personalità
con il Cohen spectoriano di “I Left A Woman Waiting”, Ruben tenta di scalare “The Ballad Of
The Absent Mare”. Vecchia irrisolta questione, quella delle cover. Tradurre o tradire? Il
rispetto per il fantastico repertorio, nonché la gentilezza e lo stile degli artisti coinvolti,
escludono qui operazioni dirompenti, impedendo (con qualche eccezione) di distanziarsi
troppo dagli originali. Quindi, in media belle e buone versioni, ma – per lo più – non si
registrano declinazioni particolarmente inattese. Se da un’operazione di “coveraggio” ci si
attende la messa in luce di aspetti che l’originale conteneva soltanto “in nuce”, Poltronieri e i
suoi ospiti hanno semplicemente intrapreso un’altra via.
Contatti: www.leonardcohenfiles.com/vestito.html
Gianluca Veltri
Pagina 23
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Helene’s Mates
It’s Easy To Beat
Vina Records
Il beat, il rock, un accenno di psichedelica. Biella sembra Liverpool, ed ecco gli Helene’s
Mates che fanno un’autoironica “excusatio non petita” già nella prima traccia, il singolo “We
Are Not The Beatles”, non siamo i Beatles. A scanso di equivoci.
Il duo composto da Sir Richard Blu e The Bure è piemontese ma british fino al midollo.
L’urgenza e l’immediatezza dell’impatto sono tali che due degli undici brani non arrivano ai
due minuti. L’esigenza degli “amici di Helene” è quella di giocare col beat come fa il gatto col
topo, smontarlo e ricostruirlo con consapevolezza odierna, amarlo e sfotterlo, come avviene
in “Blah Blah Blah Yeah Yeah Yeah”. Dai Kinks ai Clash. Filologia non ossessiva, semmai
giocosa e citazionista, dalle “Jelly Bean”, le caramelle colorate americane a forma di fagiolo,
al Kafka di “Not All Of Samsa’s Friends Are Insects In The End”, la cui strofa è
armonicamente identica a “One More Cup of Coffee” di Bob Dylan. Un pezzo è
un’autodedica, nel senso che si intitola come il gruppo – “Helene’s Mates” – ed è uno
schiaffone punk che va di fretta, una di quelle due tracce di meno di due minuti (l’altra è “We
Are Not The Beatles”). Il miraggio californiano occhieggia da “Lost Angeles”: lì, nella città
degli angeli, è stato effettuato il prestigioso mastering dell’album da Kevin Bartley nei Capitol
Studios. Non cercate parole definitive né la scoperta di formule: è solo rock’n’roll. Un lavoro
godibile e grintoso, capace di dispensare a piene mani energia positiva.
Contatti: www.myspace.com/helenemate
Gianluca Veltri
Pagina 24
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Honeybird & The Birdies
Mixing Berries
Duckhead Green Music
Il debutto degli Honeybird & The Birdies colpisce subito per due fattori: la policromia
fumettosa del digipack e la ricchezza del materiale proposto, articolato in ben quindici brani.
Policromia e ricchezza, al di là dell’estetica e dei meri dati statistici, sono del resto le
principali caratteristiche del trio di base a Roma. Basti pensare che Honeybird (charango,
strumenti a corda e voce), P-Birdie (batteria, percussioni e voce) e Gino “Ginobird” Guain
(basso) provengono rispettivamente da Los Angeles, Catania e Anzio, oppure che le tracce
in scaletta sono scritte in inglese, spagnolo, francese, svedese, portoghese e arabo ma
persino nel dialetto catanese, nello yiddish e nello tzutujil. Tutto ciò per restituire la varietà di
contenuti del dischetto, orientato verso una forma moderna di world music, attenta alle
contemporanee influenze estere, aperta ai contributi esterni – da ballerine a poeti - e capace
di inglobare al suo interno pop, rock, funk, folk, jazz e quant’altro. Per ribadire, invece,
l’estrosità del progetto: l’intro “B+” è una lista di parole che iniziano con la lettera B, mentre la
conclusiva “B-“ non è che la sua versione mandata al contrario. Se “Don’t Trust The
Butcher”, al pari orecchiabile e singolare, è stata inclusa nella colonna sonora del film “La
Passione” di Carlo Mazzacurati, non tutto convince appieno, con la medesima incisività.
Però gli intenti e i risultati complessivi sono sicuramente godibili, da lodare. Proprio perché
coraggiosi e fuori dai canoni.
Contatti: www.honeybird.net
Elena Raugei
Pagina 25
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Ifsounds
Apeirophobia
Melodic Revolution
Negli strani cunicoli della discografia di oggi, può tranquillamente succedere che una band
italiana pubblichi i propri album per una label americana, non necessariamente più
importante e prestigiosa di una tricolore o europea, ma semplicemente perché è l’occasione
migliore o addirittura l’unica. In effetti ascoltando gli Ifsounds – molisani, ma guidati dal
mastermind Dario Lastella che vive in Spagna – viene da chiedersi chi in Italia avrebbe
puntato sulla loro musica armoniosa e leggiadra, con basi di new prog (quello che abbelliva
la terra d’Albione nei primi anni Ottanta, con Marillion, Pallas e tanti altri) che poi si
estendono verso orizzonti meno definiti? Esiste ancora in Italia, quella che una volta era la
patria del rock progressivo, una label capace di dare voce alla classicità di questo genere?
Non mi sembra. Detto questo, gli Ifsounds fanno la loro bella figura, con una ricerca lirica
importante, dove si esplora la paura dell’infinito (l’apeirofobia appunto) e tematiche intime,
care pure alla filosofia della loro etichetta (che si dedica anche al rock cristiano), sviluppate
su sonorità intime e melodiche, che rievocano certi Pink Floyd introspettivi e la
magniloquenza di IQ e Pendragon, soprattutto negli intrecci chitarra e tastiere. Convincono
meno invece alcune parti vocali di Elena Ricci, in possesso di buone qualità ma a cui manca,
a mio avviso, una buona guida che le indichi le strategie migliori da utilizzare. Tuttavia
“Apeirophobia” resta un album gradevole e con buone idee, su cui puntellare le speranze per
un ritorno al prog classico da parte di una nuova generazione di band italiane.
Contatti: www.ifsounds.com
Gianni Della Cioppa
Pagina 26
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Numero Gennaio '11
Ka Mate Ka Ora
Entertainment In Slow Motion
DeAmbula
Il nuovo lavoro dei pistoiesi Ka Mate Ka Ora, a seguire l’apprezzabile “Tick As The Summer
Stars”, contribuisce a gettare luce sullo stato di buona salute dell’attuale scena toscana.
Stefano Venturini (songwriting, voce e chitarra), Carlo Venturini (basso) e Alberto Bini
(batteria) proseguono a esprimersi attraverso un mix di post-rock, slowcore e shoegaze, ma
stavolta le dieci tracce in scaletta sembrano dispiegarsi con maggiore consapevolezza,
fermo restando l’abituale alternanza fra canzoni nel senso classico del termine e strumentali
immaginifici. Se l’esordio era stato prodotto da un esperto come Kramer, stavolta si punta
sul concittadino Samuel Katarro, già in passato collaboratore del trio e alla bisogna persino
ai cori, al microfono in “Back Home” e alla sei corde. Per tornare alla rete di collaborazioni
fra conterranei, segnaliamo le presenze di Wassilij Kropotkin al violino e di Serena Altavilla e
Mirko Maddaleno in “Suga”, ovvero una cover tratta dal primo album degli stessi Baby Blue:
laddove l’originale era un proiettile di melodie nervose, la rilettura evidenzia una manifesta
tendenza alla dilatazione, alla lentezza, all’eventuale dissonanza. Non è un caso ed ecco
così che il titolo di copertina diviene pertinente manifesto programmatico. Non è da tutti
saper descrivere la propria musica in poche parole. Potrebbe essere un segnale di
confortante chiarezza di vedute, a patto che nel tempo non diventi un auto-limite. Per
adesso, senza mai superare il limite di velocità, ci si diverte, appunto.
Contatti: www.myspace.com/kamatekaoraband
Elena Raugei
Pagina 27
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Le Scimmie
Dromomania
autoprodotto/Wondermark
A quasi quattro anni dalla pubblicazione di un EP d'esordio frutto in buona sostanza di una
lunga jam session e intitolato “L'origine”, questo duo abruzzese chitarra/batteria - composto
da Angelo Mirolli e Mario Serrecchia - arriva al debutto sulla lunga distanza con le idee
piuttosto chiare: l'obbiettivo è produrre un rock strumentale dai toni vagamente doom
(particolarmente pronunciati in “L'oblio mistico”) con forti dosi di stoner, noise, hardcore e
buon vecchio rock'n'roll (“Dromomania”, soprattutto) a scorrere nelle vene dei brani.
L'impresa ai due riesce piuttosto bene, e la continuità nella scaletta è fornita, al di là del fatto
che si sia scelto di impostarla come un concept album legato a quella “tendenza
nevrotico-schizofrenica a camminare di fretta senza una meta predefinita” che va sotto il
nome di “dromomania”, per l'appunto, da un suono compatto e sufficientemente duttile in
grado di non appiattire il continuo macinare riff e rullate. Una più ampia tavolozza
strumentale, a lungo andare, potrebbe probabilmente giovare alle composizioni del duo, ma
per ora i brani, l'idea stessa di musica che racchiudono, energica e priva di qualsiasi
fronzolo, funziona bene.
Contatti: www.myspace.com/lescimmie
Alessandro Besselva Averame
Pagina 28
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Leitmotiv
Psychobabele
Pelagonia/Audioglobe
Un paio di anni fa l'esordio dei brindisini Leitmotiv ci aveva fatto spendere parole
decisamente incoraggianti, trattandosi di un disco eclettico al punto da rischiare di saturare
gli spazi e disorientare, ma comunque capace di coesione e forza notevoli, con parecchie
buone idee. Il seguito, “Psychobabele”, come il predecessore prodotto da un Amerigo
Verardi nel ruolo di efficace “suggeritore lisergico” (un tocco lieve, il suo, che si nota
soprattutto nei colori di certe chitarre), mantiene le promesse e compatta ulteriormente gli
ingredienti senza per questo perdere in originalità. Il sentiero percorso con sempre maggiore
consapevolezza è quello di un rock mediterraneo che oscilla continuamente tra spunti etnici
(il Mediterraneo, per l'appunto, ma anche un po' di Balcani), una forma mentis psichedelica
(nell'accezione più autentica e curiosa) e qualche lieve coloritura progressive (la
mediorientale “La mia storia é chiara”, la title track e soprattutto, l'eccellente “Roma Beirut”),
con un certo sostrato vagamente epico che solo a tratti, trascurabilmente, se ne esce fuori in
maniera un poco scontata (“Perso”, nonostante le chitarre alla Roxy Music, “Corrente”: non
malriusciti ma un po' fuori fuoco), mentre “Paludosa” è un credibile omaggio a De André con
fiati notturni e un piglio soul in levare, e le chitarre che esplodono nel finale, che mostra
come i Leitmotiv siano ormai una realtà assodata.
Contatti: www.leitmotivonline.net
Alessandro Besselva Averame
Pagina 29
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Marlowe
Fiumedinisi
Seahorse/Audioglobe
“Fiumedinisi” è il quarto disco (lo precedono un EP e due lavori sulla lunga distanza
registrati presso gli studi Zen Arcade di Catania con l'aiuto di Cesare Basile e Marcello
Caudullo) dei siciliani Marlowe e la maturità del progetto, a questo punto, si può difficilmente
mettere in discussione. Le direttrici su cui si muove la formazione provengono da lontano (il
dark, lo shoegaze, la new wave) e si muovono verso un cantautorato cupo e carico di
suggestioni filmiche, non prima di aver incrociato per strada qualche scheggia di Americana
(“In fondo alla gola” è un esempio eclatante quanto perfettamente riuscito, desertica quanto
basta e con il contributo di Angela Baraldi alla voce). C'è poi un brano dall'autoesplicativo
titolo, “Devo tutto alla notte”, che ci porta dalle parti degli ultimi Piano Magic e chiude il
cerchio con le radici del quartetto, portando nel mentre alla luce la fine tessitura della
scrittura. I nostri se la cavano piuttosto bene anche con la lingua inglese, e “The Last Day
Swimming” sembra tendere un ponte tra gli Yo La Tengo più notturni e vaporosi e certi
crepacci new wave di quelli assai poco rassicuranti, e su tutto emerge un tocco felpato che
rappresenta, per quanto ci riguarda, la assodata cifra stilistica del gruppo.
Contatti: www.marloweband.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 30
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Numero Gennaio '11
Minioindelebile
Minioindelebile
CasaMolloy
La storia dei Minioindelebile comincia da lontano. Dagli anni Novanta. Dai primi anni
Novanta. Ed è forse per questo il motivo per cui il loro sound è così ancorato e connotato a
quel decennio, a quelle sonorità, a quelle riflessioni. Va detto che un prodotto così fuori dal
tempo ha anche un certo fascino. Ma per essere onesti, ci sono alcune cose che qui non
vanno. Prendiamo l’aspetto testuale. Spesso la band risolve la sua rabbia genuina nello
sloganismo (già i titoli parlano chiaro: "Prigione", "Giustizia" "Soldi", "Fottuta politica"): non
c’è niente di male a buttarla in caciare, ovvio, ma urlare slogan non deve essere un
elemento risolutivo, ma una marca di poetica della serie "niente compromessi, grazie" (ad
esempio, come fa il Teatro degli Orrori). La musica invece si aggira nei meandri di un eterno
passato in cui Afterhours (di "Hai paura del buio?"), Marlene Kuntz (di "Ho ucciso paranoia")
e Massimo Volume (di "Club privé") rappresentano ancora il nuovo e l’assolutamente
rappresentabile. Chiaro che ad ascoltare adesso con il cinismo degli anni passati può
sembrare un po’ fuori fuochi anche se siamo certi che la band segue un certo progetto con
una certa indubbia onestà. Chiudiamo però consigliando un approccio alla musica simile a
quello consigliato sopra: meno punti di contatto, più abrasione. Per supportare testi del
genere la musica deve essere – perdonate la licenza – una cascata di cazzotti. Non bisogna
lasciare spazio alle manovre, ai ripensamenti, alle terre di mezzo. Bisogna dire le cose
chiare e dirle forte.
Contatti: www.minioindelebile.com
Hamilton Santià
Pagina 31
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Numero Gennaio '11
MiSaCheNevica
La mia prima guerra fredda EP
Dischi Soviet Studio
Arrivano dai Disfunzione e dagli Zoo Walter Zanon, Antonio Marco Miotti e Marco Amore,
per proporci (parole loro) una “sfavillante brodetta pop e contropop con testi in italiano”. In
realtà ci pare di capire che i cinque brani raccolti in questo primo EP della formazione veneta
abbiano più a che vedere con una new wave nostrana anni Ottanta (Diaframma in testa) che
con il classico suono armonioso alla Beatles. Anzi, ad essere più precisi, con un immaginario
che mescola l'approccio diretto della citata new wave (chitarra, basso e batteria), una
vocalità che sa di canzone d'autore alla Ivan Graziani e qualche accenno alle elettricità
sdrucite tipiche dei Libertines (“Riduzione del danno”). 
Dalla multiforme ispirazione
scaturisce una formula piuttosto personale, in bilico tra melodia e spigoli e sorretta da testi
che parlano di quotidianità con leggerezza e spessore al tempo stesso. Un po' alla maniera
dei Perturbazione, se ci passate il paragone, fatti i dovuti distinguo dal punto di vista
stilistico.
Contatti: www.myspace.com/misachenevica
Fabrizio Zampighi
Pagina 32
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Numero Gennaio '11
Miss Julicka
Show Money Please
Revomuzik/Venus
Dietro al progetto Miss Julicka si celano una vocalist, Miss Julicka (all'anagrafe Aigoulya
Divaeva), per l'appunto, e Flavio Ferri, membro fondatore dei Delta V, che si occupa per
l'occasione di confezionare una veste sonora intorno alla voce della titolare della sigla.
Parliamo di veste sonora perché ci sembra che a latitare un po', in questo esordio, siano
proprio le canzoni. Non solo perché troppi sono gli episodi in cui un parlato che tenta la via
della seduzione (non sempre convincendo) impedisce al lato più melodico, che pure ci
sarebbe, in potenza, di venirsene fuori con naturalezza, ma anche perché la via che si cerca
di percorrere, con risultati un po' ondivaghi, è quella di un impianto vagamente trip hop
aggiornato al presente e imbastardito con suggestioni più vicine all'attualità, troppo spesso,
innesti non sufficienti a levare l'impressione che si ascolti qualcosa di irrimediabilmente
datato. Non si può negare, d'altra parte, che la formula porti anche dei frutti: “A Volte Pensi”,
con quelle orchestrazioni glaciali e quelle atmosfere new wave intrecciate ad una ipotesi
rediviva di Üstmamò, ci convince sin dal primo tappeto di loop. Ma poi ci si imbatte
nella decisamente brutta “Cosa non so”, sgraziato tentativo di rifare i primi Subsonica senza
azzeccare colori e mood, e il giudizio ritorna in sospeso: ci sono potenzialità evidenti, visti
anche i precedenti musicali di Ferri, ma Miss Julicka, per chi scrive, deve ancora trovare una
sua dimensione.
Contatti: www.myspace.com/missjulicka
Alessandro Besselva Averame
Pagina 33
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Numero Gennaio '11
Morning Telefilm
O Time

Canebagnato
Folktronica, pop, psichedelia: nel suo primo disco solista Emanuele Gatti (già News For
Lulu) sonda l'indie più trasversale con un campionario di suoni e “suonini” a metà strada tra
The Calorifer Is Very Hot e Tunng. A intrecciare sampler, chitarre, synth, percussioni,
pianoforte c'è anche Cristian Chierici (cugino dello stesso Gatti), coadiuvato da Carlo
Campili, AntiteQ, Daniele Curone e Maria Panzeri. Tutti ben disposti verso una mescolanza
di linguaggi che sa di lo-fi, suona diretta, ma non disdegna l'arzigogolo. Come nell'iniziale
“Billion Billiards”, in cui basso e tastierine ammiccano a certi Fifties rielaborati per poi
lasciarti lì in sospeso ad aspettare o in una “Morganology” in cui l'italiano non è solo una
scusa per perfezionare un piano alla Kurt Weill con qualche rimando psichedelico da
cameretta. 
Un solo difetto in un'opera complessivamente intrigante: quel senso di
incompiutezza che si respira in alcuni frangenti (“Hadi”, “Wide Smile”) figlio forse della voglia
di incrociare troppi percorsi perdendo, alla fine, un po' il filo del discorso. Si tratta comunque
di un leggero spaesamento piuttosto che di un reale smarrimento, che non mina il buon
lavoro di scrittura alla base del disco.
Contatti: www.myspace.com/morningtelefilm
Fabrizio Zampighi
Pagina 34
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Numero Gennaio '11
Moro
My Favourite Season
PMS Studio
Attivo da ormai una ventina d'anni, il forlivese Massimiliano Morini ha alle spalle una
lunghissima gavetta “sommersa” e una militanza di lungo corso in vari gruppi di area
romagnola, ma solo ora approda - attraverso uno pseudonimo, Moro, che nasconde in realtà
una vera e propria band assestatasi intorno alle sue composizioni nel corso del tempo - al
debutto discografico. L'autore dei brani denuncia riferimenti che chi scrive ritrova in parte
nelle undici canzoni del disco, ma sostanzialmente come vaga suggestione, come sorta di
imprinting d'autore che rimpalla da un lato all'altro dell'Atlantico, da Paul Weller a CSN&Y,
senza tuttavia appesantire la limpidezza di scrittura di queste dieci canzoni. Gli
arrangiamenti mantengono un nucleo acustico al quale si sovrappone una elettricità dalle
radici antiche, che esplode in tutta la sua sicurezza in una “Rain On A Rainy Day” che si
situa da qualche parte tra REM e Velvet Underground, mentre “Fake It” e “Half A Man”
transitano dalle parte dei Wilco più “classici” e meno sperimentali e “The Rules Of Sleep” fa
sua l'errabonda inquietudine di Micah P. Hinson. Al netto dei riferimenti e delle possibile
assonanze, “My Favourite Season” è un gran bell'esemplare di maturo cantautorato rock
angloamericano.
Contatti: www.truemoro.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 35
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Numero Gennaio '11
Quintessenza
Nei giardini di Babilonia
autoprodotto
Forse la strada per incuriosire gli appassionati di musica può essere anche quella seguita
dai Quintessenza, che per questo nuovo disco, frutto di anni di lavoro e svariate ricerche,
hanno reso possibile l’opzione, inserendo il CD nel computer e collegandosi al loro sito, di
scaricare un intero libro che rappresenta l’ossatura che ha generato la storia alle spalle di
questo concept. Terzo album per il quintetto di Volterra che ha un’immagine metal, che da
questo genere eredita certe partiture di chitarra ritmica e alcune parti vocali stridule e roche
(penso a “Viscere”, dove uno dei protagonisti è addirittura Satana); altrove invece, tra una
voce raccontante ed uno scorrere narrativo e musicale imprevedibile, si respira un desiderio
di fusione tra passato, in chiave folk, e presente, il rock appunto, che rievoca una piccola
grande band nostra sottovalutata, i siciliani Fiaba. Proprio come gli isolani, i Quintessenza
amano convogliare diverse influenze sotto un unico tetto: metal, folk e prog le più evidenti,
ma non sono gli uniche, per un risultato non da primo ascolto; ma la forza di questo lavoro
risiede proprio nella sua non facile penetrabilità, una dote rara oggigiorno, dove tutto sembra
fatto per essere consumato in fretta. Diviso in sette capitoli, per tredici brani totali, il viaggio
artistico dei Quintessenza si avvale di vari ospiti, con voci cantate e narranti che innalzano il
tasso qualitativo di un album coraggioso e capace di regalare quella stilla di emozione di cui
abbiamo bisogno, e canzoni come “Un volo d’argento” e “Porta gialla: il giardino della terra”
hanno certamente questa dote.
Contatti: www.myspace.com/quintessenza
Gianni Della Cioppa
Pagina 36
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Numero Gennaio '11
Redroomdreamers
Roosters On The Rubbish
Happy/Mopy Records/Audioglobe
Tutto prende il via a Napoli: nel 2008 Dario Bosco (cantato e chitarre, sia elettriche sia
acustiche) e Alessio Sica (batteria, percussioni e tastiere), archiviato lo scioglimento dei
Growing Ocean, decidono di fondare i Redroomdreamers, raggiunti da Simone De Simone
(basso, ma all’occorrenza altri strumenti). Curioso che dalle ceneri di un’esperienza sia
scaturito un disco, composto e registrato nel giro di un anno, che va adesso a inaugurare
un’altra, parallela avventura, quella dell’etichetta indipendente Happy/Mopy Records.
Masterizzato in terra americana, “Roosters On The Rubbish” è votato a un’indie-rock in
inglese che non sfigurerebbe al fianco di parecchie proposte internazionali: perché ben
realizzato, perché impreziosito dall’utilizzo funzionale di loop o archi, perché in bilico fra
episodi maggiormente emozionali (“Off Star”, “Psychotheraphy” o “Bye Bye”) e scatti di
impeto (“Souvenir” o l’estesa, ondivaga “Candy Girl”). Nelle note informative si leggono i
nomi di Smog, Beck e American Music Club, ma vengono facilmente in mente persino Ryan
Adams o Pearl Jam. Ovvio che sia pressoché impossibile raggiungere i livelli di certi,
blasonati punti di riferimento, anche perché l’originalità diventa una chimera, ma la band
campana, allargata a quartetto con l’ingresso di un secondo chitarrista, riesce nella missione
di non sfigurare mai, tanto nell’impianto strettamente compositivo quanto in una curata,
matura resa formale. È lecito, dunque, continuare a coltivare i propri, piccoli sogni.
Contatti: www.myspace.com/redroomdreamers
Elena Raugei
Pagina 37
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Numero Gennaio '11
Ruben
Il rogo della vespa
VRec
Ruben ha un difetto: non sa vendersi bene, non sarà un cantante di serie A, ma è un gran
compositore, è uno che nelle canzoni ci mette del suo, nelle strutture, negli arrangiamenti,
nell’utilizzo di strumenti anomali, in quei passaggi che non sai ben definire, ma che ascolti
stupito. Ruben, con quella voce un po’ così, è uno che sa pescare effetti a sorpresa, che
scrive un rock come “Giù”, con un riff bello pompato, un funky rock gasato (“Infezione”) e poi
una ballata stralunata, “Schiuma”, alimentato da un refrain condiviso con Francesca Dragoni
dei Petramante. Ma Ruben sa anche infilarsi obliquo tra un bluesaccio da night club di terza
categoria (“Pornomane N°2”) ed un altro da pub per bevitori di periferia, “Le cose si
mettono male” meriterebbe almeno un ascolto da chi cerca cose nuove in una scena italiana
cantautoriale, sin troppo schematica. Questo è il suo quarto album in una decina di anni di
carriera solista e almeno il triplo di musica suonata e vissuta, ed è la sua opera migliore,
anche dal punto di vista strumentale, con innesti di Hammond, chitarre soliste e ospiti di
prestigio come Laura Facci in “Scirocco”, John Mario (ricordatevi questo nome) in “Letto”,
senza dimenticare una “Dare e avere” condivisa con Michele Gazich e la docile “Controluce”
cantata a due voci con la brava Veronica Marchi. In chiusura la divertente “Uno del giro” che
rievoca il grande Giorgio Gaber, a testimoniare le tante prospettive da cui attinge Ruben,
uno con una voce (e una faccia), un po’ così.
Contatti: www.myspace.com/rubenmyspace
Gianni Della Cioppa
Pagina 38
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Numero Gennaio '11
Sakee Sed
Bacco EP
autoprodotto
“Soldi non se ne vedono, quindi tanto vale fare quello che vogliamo”. Sembrano dirsi
questo, Marco Ghezzi e Gianluca Perucchini, anime e corpi dietro il progetto Sakee Sed, il
cui “Bacco EP” rappresenta un'opera seconda - seguito dell'album "Alle basi della roncola" pieno di ottime intuizioni, di libertà creativa e inventiva spesso fuori fuoco, ma
fortunatamente necessaria. Anche perché quanto tempo passiamo ad ascoltare band che si
credono geni della musica pop e passano la vita a cercare un critico compiacente (o stanco)
in grado di dirglielo? Ecco, Ghezzi e Perucchini non vogliono convincere nessuno. Fanno la
loro cosa – un rock’n’folk molto più ambizioso di quanto sembri sotto la coltre dei due accordi
e via – in totale libertà e probabilmente senza curarsi molto delle ricadute e delle impressioni
che possono ricavarne gli addetti ai lavori.
So che non c’entrano niente, ma il creativo girovagare dei Sakee Sed mi ricorda lo spirito e
l’ideologia dei cantautori “storti” di Torino: una scena comprendente loschi figuri come Deian
e Federico Cane che, di fatto, ha sempre fatto la sua cosa fregandosene di essere
etichettati, di ricercare la ricetta facile o inseguire quello che al momento va di moda (può
essere definita moda una “cosa” che piace a cento persone munite di collegamento internet?
Questo è un altro discorso). I Sakee Sed hanno scelto di stare da questa parte del sole. E
hanno capito che, nonostante i risultati artistici che vedremo di qui in avanti, a fare così,
avranno sempre ragione.
Contatti: www.myspace.com/sakeesedfamily
Hamilton Santià
Pagina 39
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Numero Gennaio '11
Sybiann
Sybiann
Glue Music
È musica inquieta – e non poco inquietante – quella inclusa nell’omonimo EP dei romagnoli
Sybiann; musica difficile da maneggiare, oscura, che spiazza e sembra quasi divertirsi a non
dare all’ascoltatore punti di riferimento precisi o anche solo costanti. Dovendo definirla, è
inevitabile appiccicarle l’etichetta di “post-punk”, approfittando del fatto che si tratta di un
macrogenere dai confini quanto mai elastici. Sta di fatto che nei sette brani – per trentuno
minuti complessivi – qui contenuti si alternano e si compenetrano ritmiche nervose, linee
vocali a volte ossessive e altre catacombali, chitarre appuntite e “a strappi”, accenni di
ritmiche danzabili, riff scomponibili, rimandi alla new wave più scura e opprimente (dai Joy
Division in giù), tirate kraut-garage che non dispiacerebbero agli Oneida e squarci ambientali
che però più che a un’arcadica pace bucolica fanno pensare a cumuli di macerie
postindustriali. Materiale del più vario, insomma, che il quintetto non soltanto gestisce con
perizia e gusto, ma sa pure mescolare con personalità, ottenendo risultati inaspettati e
stimolanti (a partire da “Monsoon Breath”, uno dei vertici del lavoro), cerebrali e insieme
tremendamente fisici. Ben più che un esordio promettente, insomma.
Contatti: www.myspace.com/sybiann
Aurelio Pasini
Pagina 40
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Numero Gennaio '11
Thee Piatcions
Time EP
A Giant Leap
L'EP dei Thee Piatcions si chiama come il pezzo trainante, “Time”, presente nel disco in due
versioni, una di quattro minuti e una “extended” di sei. “Time”, la canzone, è un concentrato
di Stone Roses, Jesus And Mary Chains, Spiritualized e, insomma, tutto quello che riempie
l'atmosfera di chitarre trasognane ed elevate a potenza guardandosi un po' le scarpe e un
po' la mano che va su e giù per le sei corde. C'è della psichedelia e c'è un bel po' di delay,
mentre la batteria ritma marziale in secondo piano, il basso sorregge l'impianto e gli assolo
servono per chiudere gli occhi e continuare a sognare. Le voci, effettatissime, raddoppiate
ed eccessivamente ragazzine, come si confà al genere, non sono essenziali, ma servono
per chiudere il cerchio onirico. Poi ci sono altre due tracce, sempre sullo stesso genere ma
forse ancor più psichedeliche: “Singapore Mon Amour” e “As Seen Through A Telescope”.
Tutto qua, quattro pregevolissime cavalcate shoegaze, una specie di sogno colorato da
peperonata. Come se non bastasse, il singolo, “Time”, è stato rimaneggiato da James
Aparicio, uno che ha lavorato, appunto, con gli Spiritualized, e il suo zampino si sente.
Probabilmente il prossimo album dei Thee Piatcions sarà una specie di mattone tutto uguale,
tutto così, tutto da sognare. Il suono, certo, è un po' datato. Ma non è che sia un male.
Contatti: www.myspace.com/theepiatcions
Marco Manicardi
Pagina 41
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Numero Gennaio '11
THoC!
Nicolao
Mizar/Halidon
Questa, volenti o nolenti, è la roba che va sui dancefloor “alternativi” di questi tempi, è roba
che si balla. Batterie vere ed elettroniche in quattro quarti, spesso in levare, synth in primo
piano, sempre, e chitarre sfregate a ritmo per non perdere mai la presa sul bacino
dell'ascoltatore che, nello specifico, si spera un ballerino. E così volano via i trenta minuti e
le undici tracce di “Nicolao”, tra (i soliti e abusati) riferimenti alla new wave di una volta, i
(consueti) numi tutelari moderni come Franz Ferdinand (certi pezzi sembrano davvero
cantati da un Kapranos prestato all'elettronica), Kaiser Chief, Killers, eccetera, fino
all'attualità di MGMT e compagnia. E così non è che ci sia proprio un singolo che spicchi
nell'album, essendo tutte e undici le canzoni dei potenziali singoli ballabili. Anche se poi un
singolo designato esiste, si chiama “Garda Deutsch” (terza traccia del disco) che vuol
essere, cito testualmente, “un electro-inno semiserio dedicato ai tedeschi che invadono le
rive del Benaco d'estate” e che “si pone come la risposta ad "Azzurro" nella storica versione
del gruppo punk-rock tedesco Die Toten Hosen del 2005, dove vengono messi in risalto tutti
gli stereotipi del popolo italiano”. Si dice, poi, che dal vivo i THoC! siano soliti al
travestimento, e quindi lo spettacolo è garantito. Perché, come si diceva, volenti o nolenti,
questa è la roba che va sui dancefloor alternativi, elettro-indie, di questi tempi. E fin che
sono in ballo, i THoC!, in fondo, fan bene a ballare.
Contatti: www.myspace.com/thehouseofcaps
Marco Manicardi
Pagina 42
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Numero Gennaio '11
BAROQUE
ROCQ
(Herz Brigade)
Ci sono dischi che occorre capire da che lato prendere, e che, a seconda del punto di vista,
assumono differenti sfumature. Se prendiamo il lato ironico del progetto, senza dubbio
presente in alcuni brani, allora il tono tra il sardonico e il teatrale della voce è assolutamente
giustificato e ha una sua forza persuasiva. Ma se ascoltiamo le canzoni dei Baroque senza
questo filtro, soprattutto quando gli aspetti più teatrali (e giocosi) di un combat folk che
definiremmo d'autore si mischiano senza troppi passaggi intermedi con forme hard-rock e
proto-metal epiche (“La festa dell'Alloro”), davvero di difficile digestione ad essere buoni, il
senso del tutto un po' si va a perdere. In mezzo a tutta questa “confusione” di toni e stili
(voluta, ma pur sempre confusa), troviamo una “For You” garbata, molto british e prog folk,
imbastita come una specie di valzer campestre, dove tutti gli elementi sembrano funzionali, o
una “Scherzo in Mi Minore”, in inglese nonostante il titolo, che gira dalle parti dei Jethro Tull
fine anni '70 senza fare troppi danni. In buona sostanza ci sono molte cose da sistemare, dal
punto di vista di chi scrive, un po' di senso della misura da acquisire e la necessità di
rendersi conto che giocare con gli opposti e gli eccessi non sempre porta a risultati
memorabili. I Baroque hanno però qualche buona idea e l'augurio che ci facciamo è che
possano trovare la loro cifra poetica al più presto.
contatti: www.hertzbrigade.com
Alessandro Besselva Averame.
Pagina 43
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Numero Gennaio '11
Rock Contest
Auditorium FLOG, Firenze, 11 dicembre 2010
Come ogni anno, a dispetto delle difficoltà, il “Rock Contest” resta uno degli appuntamenti
più attesi, non soltanto all’interno dell’ambiente toscano, che pur ha giovato molto di tutta
una serie di connessioni creative innescate proprio dal concorso (basti pensare a Samuel
Katarro, l’ultimo artista veramente significativo ad aver ottenuto la vittoria, oppure ai Baby
Blue, ai Bad Apple Sons e via proseguendo). Per la sua undicesima edizione, la
manifestazione, organizzata da Controradio e dall’Assessorato alle Politiche Giovanili del
Comune di Firenze, ha avuto al solito luogo alla FLOG, raccogliendo ottimi riscontri di
pubblico. Merito degli ospiti della serata, i californiani, psichedelicissimi Warlocks, certo, ma
in primis delle sei band giunte in finale, provenienti da ogni parte d’Italia e selezionate dopo
un’agguerrita fase eliminatoria. Si parla di seicento iscritti e trentasei concorrenti che si sono
fronteggiati dal vivo: tra gli esclusi, ricordiamo almeno i validi Sarah Schuster e The Perris.
La nutrita giuria della critica, presieduta da Ernesto De Pascale, ha premiato i giovani The
Street Clerks, gruppo locale dedito a un folk acustico di indubbia raffinatezza esecutiva, di
indubbia derivazione britannica: contrabbasso e due chitarre a ben sostenere trame sonore
prettamente rétro. Se manca l’originalità tout court, il livello tecnico, insomma, si mantiene
alto. A conferma di tale tesi, ci pensano i secondi e terzi classificati: Betta Blues Society,
programmatici sin dalla sigla sociale e trainati dalle notevoli doti canore della loro
frontwoman, e i Ganzi, sestetto beat capace di approcciare con efficace ironia la nostra
tradizione melodica. Gli altre tre nomi in gara: Piano For Airport (lodevoli nel proporsi in
veste elettronica, seppur non sempre a fuoco ed eccessivamente tendenti all’uso delle voci
filtrate), Giuliano Clerico (cantautore sufficientemente abile nel destreggiarsi con le parole,
seppur troppo vicino a proposte alla Brunori SAS) e Madrake (ambiziosi nell’unire indie-pop
e musica da camera, seppur ancora lontani dal centrare il bersaglio dell’incisività
comunicativa). Bravi tutti, comunque, perché tentare di procedere sulle proprie gambe, con
canzoni al cento per cento autografe ed esibizioni rigorosamente live, è un onore a
prescindere di questi tempi.
Elena Raugei
Pagina 44
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Numero Gennaio '11
Two Bit Dezperados
Il tratto unificante delle quattro tracce del 7” “Macumba para Exù” (Shit Music For Shit
People) dei Two Bit Dezperados è il cimbalo. Un piccolo esercito di minuti piattini
accompagna la batteria ritmando tutti i dieci minuti del disco, lato A e lato B. E dove ci sono i
cimbali c'è sempre una certa solarità del suono, un piglio sixties, ancor meglio se le chitarre
sono pulite e scattanti (e una chitarra che viene dai The Rippers è una sicurezza, oltre che
un signor biglietto da visita) e se le voci maschile di Tommaso e femminile di Ângela
(sardo lui, brasiliana lei) hanno quel pelo di sguaiato inglese che rende il tutto abbastanza
estivo. E di questi tempi, con l'inverno pungente alle porte, basta avere le finestre ben
serrate, il riscaldamento decisamente alto, “Macumba para Exù” sul giradischi ed è un attimo
ritrovarsi a ballonzolare sudati per la stanza il rock'n'roll anni Sessanta di “Devil In Me”,
“Pretty Girl”, “Eu digo no” e “O-Yes”. Poi basta non riaprire le imposte, girare il lato del 7” e
ricominciare, aspettando così la bella stagione al suon dei cimbali.
Contatti: www.myspace.com/twobitdezperados
Marco Manicardi
Pagina 45
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