Numero Giugno `05 - Il Mucchio Selvaggio

Numero Giugno '05
EDITORIALE
Eccoci al secondo appuntamento con la nostra “estensione” in Rete di “Fuori dal
Mucchio”, rubrica che appare regolarmente sulle pagine del mensile Il Mucchio
Selvaggio.
Per chi non lo sapesse, “Fuori dal Mucchio” - nella veste parallela di inserto mensile
da 16 pagine e rubrica settimanale da due - è stato dall’aprile 1996 al dicembre
2004 il più ampio strumento di informazione critica esistente nell’editoria italiana a
proposito del panorama rock (in senso molto lato) nazionale più o meno “di nicchia”:
il posto dove l’attività dei nostri gruppi o solisti inquadrabili come “Emergenti
Autoprodotti Esordienti Sotterranei Di culto” ha insomma potuto essere
propagandata in modo dignitoso. L’intenzione è quella di rimanere fedeli a tale
filosofia anche in questa “seconda vita” che si svolge in massima parte in Internet,
seria come la precedente per quanto riguarda la scelta degli argomenti - i dischi e gli
artisti continuano a essere selezionati con cura - e il modo di affrontarli.
Come già detto, almeno per un po’, la struttura del “Fuori dal Mucchio On Line” sarà
diversa da quella “definitiva”: la necessità di recuperare un gran numero di lavori
pubblicati nel periodo della nostra (seppur non totale) assenza ci consiglia infatti di
privilegiare recensioni e interviste, tagliando gli spazi dedicati ad altro (notizie,
concerti, demo, retrospettive) che saranno via via ampliati e ripristinati con il
normalizzarsi della situazione. Un nuovo “Fuori dal Mucchio On Line” sarà
“pubblicato” su questo sito all’inizio di ogni mese, più o meno in contemporanea
all’uscita nelle edicole del Mucchio... al quale, è ovvio, vi rimandiamo. Buona lettura.
Federico Guglielmi
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Giugno '05
Deep End
Kiss The Light Goodbye
Fratto9under The Sky–Zahr/Goodfellas
Dopo un ep datato 2001 (“Tsunami”) e un dieci pollici condiviso con i Giardini di
Mirò, è giunta l’ora dell’esordio vero e proprio per i Deep End da Alessandria,
formazione dedita a un post-rock che col passare del tempo si è progressivamente
avvicinato agli stilemi della canzone più propriamente detta, pur non perdendo un
gusto tutto particolare per le ripetizioni e le stratificazioni progressive. Caratteristiche
che si trovano in abbondanti quantità anche in “Kiss The Light Goodbye”:
co-prodotto dalla cagliaritana Zahr e dalla Fratto9under The Sky, l’etichetta di
Gianmaria Aprile degli Ultraviolet Makes Me Sick, il disco presenta una doppia
alternanza fra brani cantati e strumentali e fra episodi brevi e altri dal minutaggio più
abbondante, quasi a dimostrare che il quartetto se la sa cavare bene anche in
ambiti relativamente diversi. Già, perché non è difficile trovare una matrice comune
agli undici titoli in programma, che partono, come si diceva, da un post-rock più o
meno matematico e lo ibridano con istanze post-core e con un gusto più
propriamente indie, dando vita a composizioni circolari scandite da una sezione
ritmica mai troppo prevedibile e dai continui intrecci fra le chitarre, con la voce e un
uso parsimonioso di elettronica e sax a fare da contorno. E, a conti fatti, il risultato di
tale operazione convince e avvince, specie quando lascia da parte certi paradigmi
ormai fin troppo sfruttati in favore di qualcosa di maggiormente personale o,
perlomeno, inaspettato (“When Juliet Was A Jerk”) (www.deepend.info).
Aurelio Pasini
Casa del Vento
Sessant'anni di Resistenza
Mescal/Sony
Sembra ieri che l'esperienza di "Materiale Resistente", compilation-manifesto
organizzata dal Consorzio Produttori Indipendenti, aveva segnato
inequivocabilmente un'intera generazione rock che eccoci, dieci anni dopo, a
segnalare altre iniziative per non dimenticare la pagina storica della Resistenza. Ne
sono in questo caso titolari gli aretini Casa del Vento, da sempre attivi nel sociale,
che già avevano disseminato i loro precedenti lavori di "ricordi in musica". Ed è
proprio partendo da brani già noti quali "Settanta rose" e "Notte di San Severo" che
il gruppo ha costruito "Sessant'anni di Resistenza", quindici pezzi che sono in realtà
quindici significativi episodi della resistenza nel Casentino e nell'Aretino.
A dare maggior forza alle parole contribuiscono arrangiamenti scarni ed essenziali
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per la maggior parte di sola voce e chitarra, e uno splendido libretto che racconta
nel dettaglio i fatti tratteggiati dal canto di Luca Lanzi. Un lavoro talmente accurato e
apprezzabile da godere del patrocinio della Provincia di Arezzo e della Comunità
Montana del Casentino, che hanno individuato in un mezzo, la musica, troppe volte
"povero", il veicolo per trasmettere valori e ideali assoluti. Forse ci dovremmo
concentrare maggiormente sugli aspetti artistici, ma pur trovando perfetti brani come
"I cinque fiori della speranza" e "Fuochi sulla montagna" non possiamo non pensare
che stavolta il significato valga molto di più del modo in cui è espresso (
www.casablancabazar.it).
Giorgio Sala
Aidoru
13 piccoli singoli radiofonici
Snowdonia/Audioglobe
“Aidoru” è il modo in cui i giapponesi pronunciano la parola inglese “Idol”. L’idolatria
è un aspetto tipico della cultura rock, che si esplica sia nell’adorazione dei musicisti
da parte dei fan, sia nella devozione degli artisti per determinati generi musicali o
aspetti culturali. Tutto ciò non ha nulla a che fare con il quartetto autore di “13 piccoli
singoli radiofonici”; del resto la contraddizione si coniuga perfettamente sia con
l’approccio distorto e trasversale caratteristico delle produzioni Snowdonia, sia con
l’indefinibile cifra stilistica della band che - usando un termine abusato ma efficace potremmo senza dubbio definire eclettica.
Volendo per forza procedere per stereotipi, dovremmo altresì inquadrare gli Aidoru
nel multiforme universo del post-rock; ma faremmo loro un grande torto, giacché la
ricerca stilistica e strutturale operata da Mirko, Michele, Dario e Diego trascende
ogni forma fissa e spazia con estrema disinvoltura dall’effettistica digitale e
analogica alla più elettrica tradizione rock, citando Chopin e inventando atmosfere
policrome d’ispirazione cinematografica. Si recupera così quel principio creativo
votato alla sperimentazione a tutto campo, che ancor prima degli anni ’90 già
informava le creazioni dei primi esponenti del progressive inglese. Personalità,
padronanza tecnica e trasporto emotivo rendono dunque quest’album così intenso e
genuino da fare onore alla scena indipendente italiana (www.snowdonia.it).
Fabio Massimo Arati
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Babyruth
Mr. Right Hand Man
Go Down/Audioglobe
Anche se i confini del rock’n’roll si sono svincolati da tempo dalla rigidità
angloamericana, difficilmente ci saremmo immaginati che da Padova potesse
arrivare una band così solida e coerente. Ma i Babyruth, che giungono all’esordio
dopo la solita manciata di demo, sono una sorpresa solo per chi non ha avuto
occasione di vederli e ascoltarli sul palco, situazione dove hanno duellato alla pari
con gruppi ben più famosi ai quali hanno fatto da spalla (L.A. Guns, Pretty Boy
Floyd, Hanoi Rocks e Bang Tango, per esempio) e in alcuni casi li hanno anche
surclassati. Il CD in questione è il risultato di tre settimane trascorse in Svezia ai
Sunlight Studio sotto la direzione di Tomas Skogsberg, uno che ha domato gente
come Backyard Babies ed Hellacopters e che ha scelto di lavorare con questo
quintetto dopo averne ascoltato un semplice provino.
“Mr. Right Hand Man” presenta dodici canzoni, almeno la metà delle quali degne dei
nomi più in vista di quell’intruglio tra punk, hard rock e pop che sta conquistando le
classifiche del nord Europa. Accordi fumosi che setacciano melodie cantabili dal
primo ascolto e che raccontano di scazzi, sfighe e donne inarrivabili con un tocco di
sana goliardia e tanta, tantissima energia. “Go!!!”, “Song For The Damned”,
“Honey”, “The Others”, “Fat Ass Rockstar”, “Time To Fuck”, “Rock Me On”, “Like
Toys”, come dire i soliti accordi a cui è impossibile resistere. I love rock’n’roll! And
you? (www.babyruth.it)
Gianni Della Cioppa
Lana
C’è il sottile dentro e sotto i ponti
Jestrai/Venus
Varie le novità rispetto a “Esiclonica”, che un paio d’anni fa aveva segnato l’esordio
dei bergamaschi Lana: anzitutto una sezione ritmica nuova di zecca (anche se in
sette dei dieci episodi qui inclusi dietro le pelli siede Benny dei Gea), poi la
produzione di Amaury Cambuzat degli Ulan Bator, a cui naturalmente bisogna
aggiungere la maggiore esperienza acquisita in due ulteriori anni di concerti. Ecco
perché ci aspettavamo da “C’è il sottile dentro e sotto i ponti” un passo in avanti.
Che c’è stato, ma meno deciso di quanto potessimo sperare.
In effetti, il gruppo ora pare più consapevole dei propri mezzi, e il suono d’insieme è
in una certa misura più organico e vario. Il problema è che il genere di riferimento
rimane sempre lo stesso: il post-grunge, con tutto il suo corredo di ritmiche
telluriche, scatti nervosi, distorsioni graffianti e psichedeliche, alternanza di
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aggressione e apparente dolcezza e una particolare ricerca melodica. Una strada
che ormai è stata percorsa fino in fondo da altri, anche non lontani dagli ambienti
Jestrai, e che quindi non ha più molto da offrire in termini di sorpresa e innovazione.
Certo, non sempre sono queste le doti richieste a un disco rock, ma sarebbero
comunque state sintomo ulteriore di una personalità che invece emerge solo a tratti,
specie in qualche dettaglio o passaggio ben riuscito, esattamente come avveniva
nel debutto. Dal vivo i quattro sono una forza della natura, e la loro onestà non è in
dubbio, ma non sempre ciò è sufficiente a supportare come si deve quelle buone
idee che sanno avere (www.lanaweb.it).
Aurelio Pasini
Lomé
Fiori su Marte
L’Eubage
“La classe non è acqua” cita un vecchio detto ormai desueto per l’ambito pop-rock
nazionale che stavolta pare il caso di risumare. I Lomé sono all’esordio discografico,
ma i musicisti che ne fanno parte assommano molte solide esperienze e una
raffinata formazione jazzistica. Con questo progetto hanno però deciso di affinare un
modo di far canzone elegante, colto, intelligente nell’approccio lirico e compositivo:
viene subito alla mente la trasversale e atipica canzone d’autore dei Quintorigo,
grazie soprattutto all’eccellente ed istrionico cantato di Riccardo Ruggeri, davvero
bravo nei suoi esuberanti equilibrismi sempre funzionali all’intensità interpretativa.
Ma la personalità palesata in “Fiori su Marte” è tale da eludere ogni presunto
modello di riferimento, con il gran merito di saper riesumare e ravvivare uno
spaccato delle migliori stagioni ed espressioni della canzone italiana più nobile in
una scrittura variegata, polimorfa, ricca di spunti che sanno differenziare con
eleganza ogni brano: dal deciso incedere di “Non è niente” all’arabeggiante “Blubù”,
dalla decadente, struggente melodia della title track alla leggerezza pianistica di
“Guests Of The Nation”, passando per le evoluzioni vocali da crooner francese di
“La Pierre”. Nella padronanza e sensibilità del quartetto piemontese - Andrea
Beccaro, che con Ruggeri forma anche il duo sperimentale Le Lavatrici Rosse, alla
batteria e alle percussioni, Luca Bertinaria al contrabbasso e Andrea Manzoni al
pianoforte - si coagula una chiara forza stilistica, così marcata e fruibile eppure così
inusuale in un contesto italiano che i fiori di queste undici canzoni, profumati di jazz,
cantabilità e poesia, paiono davvero alieni (www.lome.it).
Loris Furlan
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Sinistri
Free Pulse
Hapna/Wide
Secondo una certa scuola di pensiero l’avanguardia, ponendosi al di fuori della
tradizione consolidata, sarebbe impossibilitata a essere giudicata a fondo,
mancando i parametri applicabili a nuove regole. E un disco come questo targato
Sinistri, il nuovo nome che gli Starfuckers si sono dati indicando una pressoché
totale identificazione con il metodo di lavoro che li ha portati ad incidere, qualche
anno fa, un album che era intitolato proprio così, è davvero difficile da valutare
secondo parametri comuni. Per poterlo fruire occorre come minimo avere familiarità
con i seguenti concetti: destrutturazione, pieno, vuoto, asimmetria. Le composizioni
del disco rileggono infatti con lenti distorte, sminuzzando e ricomponendo le figure, il
funk, il blues e una certa vena improvvisativa appartenuta al Miles Davis più
sperimentale, fedeli ai dettami del titolo (“pulsazione libera”), utilizzando un alfabeto
con il quale non è sempre facile entrare in sintonia. La ricerca dei lavori precedenti
continua, sempre su direttive ostiche e a un passo dalla incomunicabilità. In ogni
caso, questo occorre ammetterlo, il gruppo continua a portare avanti un discorso
unico nel suo genere. Difficile da giudicare, come dicevamo all’inizio, ma senz’altro
personale e lontano dalle strade più battute (www.sinistri.org).
Alessandro Besselva Averame
Love In Elevator
Sue Me
Jestrai/Venus
Circa un anno dopo l’ep d’esordio, “Venoma”, i Love in elevator tornano sul mercato
con un album ricco di personalità e screziato di gradevoli sfumature. Ha smussato
gli angoli, la band veneziana, migliorando sensibilmente la qualità del songwriting e
aprendo le porte ad un universo, quello indie, che era rimasto fuori dall’ep, più
orientato verso sonorità garage e noise. Ora, invece, c’è spazio per virate oblique
che contaminano il background del gruppo, vicino a certi Sonic Youth o agli Yeah
Yeah Yeahs.
I Love In Elevator, la cui formazione è per tre quarti al femminile, non esitano a
sporcarsi nei gironi più scuri e rumorosi, ma sono capaci di virate più intimiste
confermate dalle liriche di Giulia Volpato - riuscito esempio di Kim Gordon all’italiana
- che spesso abbandonano i binari del realismo per spostarsi su piani decisamente
immaginifici e spersonalizzati, come in “Pomme d’amour” e “White Room, White
Piano”. Non mancano, ovviamente, i richiami a Jon Spencer, ma la sottile linea che
separa l’ispirazione dal clichè non viene fortunatamente superata in nessuno dei
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tredici episodi, che riescono a mantenersi freschi nonostante la parziale mancanza
di originalità. Impreziosisce il tutto la cover di “Afterhours” dei Velvet Underground,
registrata da Alberto Ferrari dei Verdena, che riporta ancora una volta alle radici
come un suggestivo carrillon sferragliante. Un passo avanti importante quindi, che
rischia però di restare ingolfato in una produzione realmente eccessiva, ma che può
spiccare negli scaffali degli appassionati in compagnia di Motorama, One
Dimensional Man, Intellectuals o Super Elastic Bubble Plastic (www.jestrai.com).
Giuseppe Bottero
Audiorama
Audiorama
Terzo Millennio/Self
Come Audiorama sono agli esordi, ma come Suburbia hanno alle spalle un album “La tua spesa falla qui”, 2002 - e una discreta gavetta fatta soprattutto in ambiti
milanesi, gli stessi dai quali sono emersi Le Vibrazioni. Una falsariga, quella degli
autori di “Dedicato a te”, che la band, forte di una nuova ragione sociale e diventata
un quartetto con l’arrivo del chitarrista Emi Besana, parrebbe intenzionata a
percorrere. Prima tappa, questo cd omonimo, frutto di un lavoro produttivo di tutto
rispetto, curatissimo anche nella grafica (e nei videoclip a esso collegati), che nelle
intenzioni vorrebbe coniugare spirito rock’n’roll e accessibilità pop. Intento nobile,
ma che non sempre viene portato a compimento, perché se non mancano i momenti
gradevoli, tanto tra quelli più veloci (“Vengo da te”, “Non capisco gli umani”, anche la
cover di “Svalutation” di Celentano) quanto tra le immancabili ballate (“Il resto è tutto
uguale”, “Morning Light”), alla lunga ciò che emerge è una certa carenza di
personalità, non sempre compensata dalla freschezza e da una autoironia che, anzi,
paradossalmente rischia di rivelarsi più dannosa che altro (“Il rock’n’roll ti manda in
gol”, il titolo dice tutto).
Mettiamola così: pur nella sua onestà, come disco rock non graffia abbastanza, né
d’altra parte ci pare avere quel qualcosa in più in grado di fargli raggiungere le hit
parade. Tutt’altro che spiacevole, in altre parole, solo un po’ troppo, per così dire,
innocuo. Alla sensibilità e al gusto di ognuno decidere se e quanto possa essere un
difetto (www.audiorama.biz).
Aurelio Pasini
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Macno
A pochi passi da qui
Load Up–Lake/Venus
Solidi, compatti, potenti, ma anche poetici e attenti ai dettagli. Ecco, in estrema
sintesi, i Macno. Caratteristiche che avevamo riscontrato qualche anno fa
ascoltando un loro demo, e che ritroviamo in una forma più compiuta in questo
debutto dove le promesse fatte allora sono puntualmente mantenute. Figli della
new-wave e del pop chitarristico inglese (dai Joy Division agli Smiths, per intenderci)
come del rock tricolore (Afterhours, i primi Litfiba, ma ancora di più Marlene Kuntz
ed Estra), i brani contenuti in “A pochi passi da qui” si muovono lungo strade
abbastanza definite, ma lo fanno con una sicurezza e un piglio tali da impressionare
positivamente. Notevole, infatti, il lavoro svolto dalle chitarre, che tra arpeggi e
accordi, suoni puliti e distorsioni più o meno appuntite, sono responsabili di sbalzi
emotivi ideali per contrappuntare le melodie e, soprattutto, i testi, di qualità
decisamente sopra la media. E, a chiudere il cerchio, una sezione ritmica
semplicemente impeccabile per robustezza e precisione.
Una formula classica ma sempre efficace, un concentrato di rabbia e lirismo che è il
frutto di una lunga attività concertistica, il cui potenziale è qui ulteriormente
amplificato dalla presenza in cabina di regia di David Lenci. Chi ha un debole per i
nomi citati più sopra, specie per gli ultimi due, non potrà che provare un brivido di
piacere ascoltando le varie “Uno schianto”, “Fragile” e, soprattutto, “Le stesse
vanità”, un gioiellino di elettricità chiaroscurale (www.macno.org).
Aurelio Pasini
Klasse Kriminale
Klasse Kriminale
Tube/Venus
Un nome, quello dei Klasse Kriminale, che da solo è un po' la storia di quasi tutto il
movimento street-punk italiano; logico quindi che ogni uscita della formazione di
Marco Balestrino susciti curiosità. Un disco fortemente sentito e voluto, come si può
già intuire dal fatto che non abbia un titolo, quasi a voler stabilire che questo è il loro
sound oggi. Un ulteriore affrancamento dagli stilemi, ormai logori, dell'Oi! in favore di
una maggiore apertura musicale, che guarda allo ska, al reggae e al rock'n roll più
grezzo, aiutata a emergere anche dalla presenza dell'evocativo Hammond di Vic
Ruggiero. Anche le liriche sono un ulteriore passo in avanti nella continuità: da una
parte i Klasse Kriminale non abdicano al ruolo di coscienza critica che,
costantemente on the road, si sono costruiti, dall'altro migliora però la musicalità dei
testi, meno sloganistici ma non per questo meno efficaci. A Marco si affianca inoltre
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Emanuela, alla voce della quale sono affidate le parti più riflessive di un disco
comunque sulle barricate, con titoli quali "Reclaim the Street" o "Produci, Consuma,
Crepa!". Un lavoro sfaccettato ma che suona compatto e omogeneo, ottimamente
prodotto e con una manciata di canzoni che non faranno certo rimpiangere gli
evergreen cantati dai kids di ogni nazione. Fortunatamente esistono band capaci di
pubblicare dischi solo quando ne hanno una reale necessità creativa; i Klasse
Kriminale appartengono decisamente alla categoria (www.tuberecords.it).
Giorgio Sala
Morose
People Have Ceased To Ask Me About You
Suitside/Audioglobe
Dopo “La mia ragazza mi ha lasciato”(2003), trovarsi tra le mani un disco con un
titolo come “People Have Ceased To Ask Me About You” (“La gente ha smesso di
chiedermi di te”) fa capire di trovarsi davanti a una mini discografia concettuale: i
Morose (in inglese il “morose mood” indica un’umore irascibile e depresso, ma nel
nome si nasconde un ovvio doppio senso tutto italiano) raccontano stavolta la fine
della fine, la sua nostalgia e dunque il suo ritorno. Il silenzio eloquente degli altri si
traduce in spazi acustici liquidi dai quali si cerca di nuotare via in fretta pur
godendosi la vertigine del naufragio, duplice aspetto di cui “Words Are Playthings” e
lo slowcore “Cascando” costituiscono la prova. La discesa avviene nel segno dei
Black Heart Procession (“Some Squeaking Bones”) e di certa scena di San Diego,
ma Davide Speranza, soci e numerosi collaboratori internazionali - tra cui il duo
francese misto YePee alle prese con il brano “Une Plaisir Funeste” - inciampano
anche nelle ascendenze sonore più morbide di Yann Tiersen (“Francoise e
Christophe”) e dei Dirty Three. La tracklist procede leggera, secondo le coordinate
di un verticale discendente materializzato in pianoforti, violoncelli e i singulti di
glockenspiel; finché arrivati al quasi-folk notturno di “Lonesome”, ci si accorge
finalmente che dal fondo la superficie ha un’aria molto diversa (
www.moroseismoroseismorose.com).
Marina Pierri
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Melloncek
Melloncek
Ghost/Audioglobe
“Massa e calore, volume e colore: suoni a tinte forti, tenui sfumature e tonalità
accese. Il quadro di un paesaggio all’apparenza immobile, ma in continuo
sconvolgimento”. Questo, in sintesi, il progetto di intenti per la nuova avventura di
Andrea Castelli, apprezzato bassista nonché fondatore degli Shandon, e del
batterista Matteo Noviello. “Melloncek” - che, inizialmente, si sarebbe dovuta
intitolare “Dietro ai rami”, proprio a sottolineare il carattere intimista delle nove
composizioni - è una di quelle opere che sorprende, dalla prima all’ultima nota;
innanzitutto, è completamente strumentale, costruita su continui, perfetti intrecci tra
chitarra, basso e batteria su cui, solo in un secondo momento, si innestano
strumenti a fiato (piacciono molto la tromba ed il trombone di “Hank” come pure il
sax tenore di “El Jaber”) e piano elettrico (“Elwood Blues”, “Russian Sick Sound”).
Senza troppa originalità si potrebbe scomodare un termine assolutamente
inflazionato (si, proprio post-rock) e che però, nel caso dei Melloncek, non si
discosta troppo dalla realtà: in effetti, i brani piacciono non solo perché sono
registrati in presa diretta, quasi che si trattasse di una sorta di esecuzione live, ma
anche perché hanno un senso del movimento e del ritmo che, per vivacità, non è un
sacrilegio affiancare alle cose migliori di June Of ’44 e Tortoise. Tanto che il “rischio”
- rigorosamente tra virgolette e sempre che di rischio si posa parlare - è uno solo:
quello di avere più estimatori all’estero che non in Italia. In effetti, sonorità tanto
avvolgenti, evocative e suadenti forse sono sprecate per un pubblico che continua a
mandare in classifica Jovanotti e Pelù (www.ghostrecords.it).
Gabriele Pescatore
Mariposa
Nuotando in un pesce bowl
Lizard-Trovarobato/Audioglobe
Non sono passati che pochi mesi dall’uscita del doppio “Pròffiti Now!” ed ecco che i
Mariposa tornano alla carica con un nuovo disco, le cui registrazioni risalgono però
a quattro anni fa. Fu allora, infatti, che un discografico propose al sassofonista
Enrico Gabrielli di realizzare un album di rielaborazioni di brani della tradizione
napoletana. Detto fatto, scelte cinque composizioni tutte precedenti al 1921, il
musicista si è chiuso in studio con la band e il risultato è appunto questo “Nuotando
in un pesce bowl” (bizzarra italianizzazione di una frase di “Wish You Were Here”
dei Pink Floyd), che vede la luce solo ora che il suddetto discografico è uscito di
scena.
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Paragonato al resto della produzione dell’ensemble di stanza a Bologna, il lavoro
presenta notevoli differenze. O, meglio, l’approccio ironico e “decostruttivo” è in
fondo lo stesso di sempre, ma questa volta viene convogliato in un contesto non
solo completamente strumentale, ma anche più “colto”. Le melodie originali vengono
qui scomposte fino a divenire praticamente irriconoscibili, e gli strumenti (fiati
soprattutto, ma anche tastiere e molto altro ancora) si alternano e si rincorrono,
dando vita a scenari sfuggevoli e improntati a un suggestivo minimalismo
cameristico. Nessuna concessione al ritmo e all’impatto, allora, quanto piuttosto un
susseguirsi di partiture ambientali ai confini con l’improvvisazione, avvolgenti e
intriganti. L’ennesimo scarto in una carriera che ha fatto della non linearità la propria
bandiera (www.naufragati.com).
Aurelio Pasini
Timet/Mariposa
Metamorfosi di canzoni napoletane
Dischi Forma/Trovarobato
Come ti declino la canzone partenopea in elettronica. Altrimenti: come trasfigurare il
genere più cartolinato e cantabile in piccole sinfonie, paesaggi sonori allucinati e
allucinatori. È un’operazione complessa quella compiuta da Lorenzo Brusci in
“Metamorfosi di canzoni napoletane”: discorso metacompositivo di terzo grado, che
parte dagli originali, molti risalenti a prima del 1921, passando per il disco dei
Mariposa “Nuotando in un pesce bowl. È quest’ultimo il passaggio obbligato per
arrivare alle “Metamorfosi”: è il disco di Brusci, alias Timet, ne rappresenta il sequel
discografico, la degenerazione o la sintesi finale. Conservando di quel lavoro la
biologia sottacquatica e visionaria, le “Metamorfosi” scompongono e dilatano le
canzoni della tradizione napoletana come gocce multicolore e traslucenti,
concentrandosi su particelle ritmiche o melodiche. Così “Ciuccio” recupera una
vitalistica trance dentro i suoi patterns ossessivi in 5/4, la danza minimale di
“Cammello” si avvita su pulviscoli desertici e “Guarracino” mette in scena una Napoli
liquida, sotterranea e sommersa.
Verrebbe da dire, citando il compositore Girolamo De Simone, che “Napoli non
canta”. E - toh! - cosa chiude la scaletta delle “Metamorfosi”? Una “guest piece”
proprio di De Simone, uno dei massimi artefici della trasformazione creativa d’uno
stereotipo, del ri-utilizzo del folclore partenopeo: “giochiamoci a costo di rovinarlo,
macchiamolo, alteriamolo, confondiamolo” (www.naufragati.com).
Gianluca Veltri
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In My Room
Saturday Saturn
Suiteside/Audioglobe
C’è il modo di mettere in contatto due mondi così diversi come Nick Drake e la
laptop music di ultima generazione? Domanda interessante, alla quale i parmensi In
My Room, gruppo nato inizialmente come progetto solistico del cantante e
chitarrista (ma anche addetto al PC) Marco Monica e ora diventato vero e proprio
quartetto, comprendente basso (Emanuele Missorini), seconda voce (Agnese Roda)
e violino (Deborah Penzo), cerca di dare una risposta in questo “Saturday Saturn”,
debutto su Suiteside che fa seguito ad un CD-R autoprodotto e in seguito distribuito
dalla genovese Marsiglia Records, “Three Good News In October”.
L’abbinamento, lungo gli scarsi quaranta minuti di scaletta, funziona bene, mettendo
insieme frammenti di folk crepuscolare, voci lievi ma sufficientemente evocative,
qualche riferimento alla poetica filigranata di scuola 4AD (“One Day, Then Another
Day”, con il suo violino brumoso, sarebbe piaciuto ai This Mortal Coil). L’incedere
trasognato della chitarra in “The Wizard Lady”, brano dalla cristallina melodia pop,
arricchito di fruscii e lievi disturbi elettronici, fa venire in mente la scuola avant folk di
Animal Collective & soci, mettendo in evidenza la statura internazionale del
progetto. Chi ben comincia, come si dice, è a metà dell’opera (www.suiteside.com).
Alessandro Besselva Averame
Corleone
Wei Wu Wei
Etnagigante-V2/Edel
Non è certo facile spiegare in parole semplici cosa sia in realtà questa entità
denominata Corleone. Possiamo partire innanzitutto da chi l'ha pensata: Roy Paci, il
siciliano giramondo che ha smesso per un attimo i panni di "boss" degli Aretuska
per indossarne di meno rassicuranti. Sì, perché "Wei Wu Wei" si discosta
radicalmente dal percorso più conosciuto del Nostro e va a lambire territori di
avanguardia jazzistica poco noti ma decisamente stimolanti. Un album-concept sia a
livello di intenzioni che di struttura, costruito attorno al numero 7 che, difatti, vi
ricorre innumerevoli volte. Sette i componenti della band, sette gli skit tra un brano e
l'altro (durata 77") affidati ad altrettanti ospiti, e la melodia di base composta da
sette note. Quello che ne viene fuori può essere paragonato ai lavori più
comunicativi di quel genio di John Zorn, laddove il sax del maestro viene sostituito
alla tromba dell'allievo, e questo legame ci viene confermato da “Tutto diventerà
rosso", che vede ospite alla voce quel Mike Patton che ha più volte collaborato con
il più eccentrico dei newyorkesi. Il giudizio? Trattandosi di musica d'avanguardia
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l'ascolto rimane forse confinato agli estimatori del genere, ma pur non trattandosi di
un capolavoro assoluto è, sicuramente, un passo coraggioso per costruire una
sperimentazione che prenda spunto anche dalla "nostra" tradizione musicale. E Roy
Paci ci sembra la persona più autorevole per tale scopo (www.cor-leone.com).
Giorgio Sala
Del Sangre
Terra di nessuno
Bandone Music/audioglobe
Già duo acustico raddoppiatosi in quartetto, vincitori del Premio Ciampi 2003, i Del
Sangre approdano all’esordio discografico sulla lunga distanza. Al front-man
(autore, cantante, chitarrista) Luca Mirti e al bassista Marco Lastrucci si aggiungono
Francesco Bocciardi alla seconda chitarra e l’ex-Litfiba Renzo Franchi alla batteria.
Il Del Sangre-pensiero è granitico, ispirato a valori da combattimento sanguigni, di
sacrosanta indignazione. Non a caso padrini del debutto sono i fratelli Severini, i
signori Gang. Sono loro (con Modena City Ramblers, Springsteen, Mellecamp) a
definire i contorni stilistici della band, partecipando a “Genova” (“un sogno da
difendere”) e a “L’oro del diavolo”, cantata da Mirti alla maniera di Finardi, come
pure “Radio Aut”, dedicata a Peppino Impastato. Onesto e tambureggiante, non
fulgido per originalità - delle liriche, delle armonie - l’album è ben suonato e
piacevolmente on the road. Generoso come un bicchiere di rosso robusto, con il
country-yodel-blues di “Parte il treno”, la ballata morale “Il libro della verità” con
chitarrona larga e armonica, le ritmiche western di “Quando Gesù Cristo tornerà”
(con corredo di banjo) e quelle rhythm&blues di ”E fuori continua a piovere”, la cui
strofa ricalca la dylaniana “Tombstone Blues”. Un universo rassicurante, quello di
“Terra di nessuno”, nel quale non è difficile trovarsi a proprio agio per il pubblico a
cui è diretto. Ci piacerebbe però che la prossima volta i Del Sangre provassero
anche a metterci un po’ a disagio (www.delsangre.it).
Gianluca Veltri
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Blessed Child Opera
Looking After The Child
Seahorse/Goodfellas
Muovendosi in un territorio musicale che parte dal paisley underground degli anni
’80 per arrivare al sad-core dei primi ‘90 - zona Red House Painters - l’esordio di
Paolo Messere a nome Blessed Child Opera si dimostra maturo e con una sua
ragion d’essere, in grado di esprimere una buona personalità e una discreta
padronanza della materia trattata sebbene i punti di riferimento siano talmente chiari
da perdersi, talvolta, in una scrittura un po’ didascalica. Difetto che non attacca però
la qualità delle canzoni, tutte di livello medio-alto e che svolgono il loro compito con
efficacia: partendo dalla kozelekiana “Pimba Cattiva” e passando attraverso gli
scenari desertici delle malinconiche “The View” e “Paradise Found” per arrivare alla
catarsi rock di “Blue Station”, “Looking After The Child” mostra senza vergogna un
lato della musica che, grazie a formazioni come Mosquitos e Franklin Delano, sta
ora arrivando con maggiore frequenza sui nostri palcoscenici.
La scelta di atmosfere elettroacustiche, un’attitudine a metà tra il folk e il blues, la
voce sussurrata e una propensione alle code strumentali à la Thin White Rope
diventano quindi tratti stilistici che riconducono l’opera ad una determinata scuola di
pensiero. Idea che identifica il lavoro e lo guida verso un pubblico capace di
ritrovarsi in queste tredici canzoni di retroguardia ma evocative e di grande fascino.
Un buon esordio che ha tutte le carte in regola per preparare un brillante futuro (
www.seahorserecordings.com).
Hamilton Santià
Inner Glory
Remains Of A Dream
Hau Ruck/Tesco
“Remains Of A Dream” è il compendio dei primi tre anni di attività degli Inner Glory.
L’atteso debutto sulla lunga distanza giunge all’indomani del 45 giri di esordio e di
un pregevole 10", divenuti entrambi oggetti da collezione. Lodevole pertanto la
scelta di recuperare ben quattro canzoni già apparse in codesti lavori: un più vasto
pubblico avrà così l’opportunità di apprezzare il fiero incedere di “Human Tragedy”,
l’impeto epico di “Domination”, la nostalgica dolcezza di “War Is Forever”, lo schietto
vigore di “The Joy Of Nothing”.
Senza rinnegare le radici stilistiche e culturali di una tradizione radicata nel cuore
d’Europa, la formazione veneziana riesce ad affrancarsi dagli stereotipi imposti da
Death In June e Sol Invictus, inquadrando le prerogative marziali degli uni e le
aspirazioni avanguardiste degli altri in una formula espressiva propriamente folk e
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non certo post-industriale. Violoncello, contrabbasso, pianoforte e chitarra
costruiscono architetture acustiche di grande immediatezza e di trascinante energia,
pagando il tributo a una formazione musicale più classica che non stradaiola. Tra
l’altro la scelta di cantare in inglese permette agli Inner Glory di non scadere in
quella retorica di contenuti che - seppur per opposto segno - attanaglia da sempre le
proposte di altri gruppi indipendenti di estrazione folk, quali Modena City Ramblers e
Yo Yo Mundi (www.innerglory.com).
Fabio Massimo Arati
Io e i Gomma Gommas
Honeky-Donkey
Ammonia/Edel
Premessa: in California c'è un gruppo estemporaneo, formato da membri di NOFX,
Foo Fighters e Lagwagon, che si fa chiamare Me First and the Gimme Gimmes e si
(ci) diverte a rivisitare in chiave punk brani tipici americani. Ecco, Io e i Gomma
Gommas sono l'italianizzazione di quell'idea, e "Honkey-Donkey" ne è l'esordio
discografico: un esordio che, per rendere ancora più saldo il legame con i colleghi
d'oltreoceano, i Nostri hanno pensato di mixare e masterizzare negli studi di Ryan
Greene, ovvero colui che è dietro le quinte di quasi tutti i lavori delle band già citate.
I quindici brani che compongono il cd sono un tuffo nei gloriosi anni '60: si passa
dall'Equipe 84 di "Io ho in mente te" ai Rokes di "C'è una strana espressione nei tuoi
occhi", il tutto rivisto in chiave ipercinetica e guitar-oriented, con la voce di Teo a suo
agio in quasi tutte le situazioni, che si tratti di rifare Mina o Edoardo Vianello. Quello
che a mio parere costituisce il più grosso difetto di questo "divertissement" sono
però gli arrangiamenti: mentre i modelli sono geniali, incastrando ad esempio
"London Calling" in mezzo alla mielosa "Eleonor", con i Gomma Gommas c'è un
generale appiattimento sulla forma-canzone tipica dell'hardcore melodico, il tutto a
scapito della longevità di un disco che, ascoltato una volta, diverte, ma oltre rischia
di annoiare. Se è un progetto con un futuro speriamo sappiano stupirci, in caso
contrario è stata comunque una bella cura ringiovanente per la canzone italiana (
www.gommagommas.it).
Giorgio Sala
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Cinemavolta
Weekend
Casasonica/Emi
Continua l’attività di talent scouting di Casasonica, la quasi neonata etichetta di
proprietà dei Subsonica, che dopo avere portato nei negozi un pugno di mesi fa il
debutto dei cagliaritani Sikitiki (l’interessante “Fuga dal deserto del Tiki”), ora fa
altrettanto con l’opera prima dei Cinemavolta da Montechiari, Brescia. Un nome, il
loro, che circola già da un po’ di anni, visto che la formazione, tra cambi di organico
e passaggi dall’italiano all’inglese e ritorno, ha avuto modo di realizzare un paio di
demo parecchio apprezzati e di prendere parte con successo ad alcuni importanti
concorsi musicali. Un percorso lungo e ricco di soddisfazioni, che con “Weekend”
guadagna finalmente tutti i crismi dell’ufficialità.
Prodotto da Max Casacci e forte della collaborazione con il poeta e scrittore Luca
Ragagnin, l’album si snoda all’insegna di un frizzante pop-rock sospeso tra indie e
new-wave, chitarristico nell’impostazione ma incline a gustose contaminazioni con
elettronica vintage, che alla bisogna sa essere atmosferico e potente, seppure gli
spigoli non siano mai troppo appuntiti e gli estremi vengano accuratamente evitati.
E, volendo, proprio la scelta di non sporcarsi abbastanza le mani ci pare il principale
difetto di un disco formalmente ineccepibile, ché con un po’ di sudore e sangue in
più determinate buone intuizioni avrebbero reso ancora meglio. Resta comunque il
fatto che non tutti - esordienti o meno - possono permettersi canzoni come, solo per
citarne un paio, la delicata “Primula” o Nel temporale”; e questo non può che
impressionare favorevolmente, nell’immediato come in prospettiva futura (
www.cinemavolta.it).
Aurelio Pasini
Namb
Namb
Mescal/Sony
Esordiscono tardi, i torinesi Namb, dopo una carriera decennale che li ha portati a
esibirsi in compagnia di Blonde Redhead, Michael Franti e a collaborare, fra gli altri,
con Bluvertigo e Madaski, qui in veste di produttore. E proprio l’esperienza recita
una parte importante tra i solchi di quest’album omonimo, permettendo una visione
musicale equilibrata ed omogenea, priva delle ansie e del massimalismo che
spesso caratterizza gli esordi. Così, fra episodi strumentali non lontani da atmosfere
ambient, riescono a emergere brani di sicuro impatto come “Fermo” e “Un anno fa”,
sospesi fra fisicità rock e concettualità elettronica, che coniugano bene l’amore per
la sperimentazione e la fascinazione per le timbriche sicure e “pesanti” in perfetto
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stile Depeche mode.
Qualcuno, per contestualizzare Namb, ha tirato in ballo gli ex compagni di label e
concittadini Subsonica, ma sarebbe sbagliato associare le due realtà: sia per le
trame dell’album, maggiormente deviate, che per il percorso alle spalle, onesto
abbastanza da evitare cadute di stile in favore delle correnti più in voga. E mentre
rileggono “Black Hole Sun” dei Soundgarden, poi divenuta - complice Mtv evergreen generazionale, Davide, Canna, Branco e Andrea riescono a coniugare
impeto e passione, istinto e un talento che, grazie anche a Madaski, invoglia
all’ascolto e fa sperare di incrociare sotto il palco la band torinese, sicuramente
portatrice di valori “altri” rispetto alle manifestazioni organizzate da cornetti, coche
cole e birre che nella bella stagione riempiono piazze, palle e portafogli (
www.mescal.it).
Giuseppe Bottero
Monjoie
Il bacio di Polifemo
Ethnoworld
Sul loro sito scorre la scritta “musica trovatorica del XXI secolo”, epigramma
descrittivo curioso ma assai attendibile per un progetto fra i più originali nel vasto e
variopinto catalogo dell’Ethnoworld. Stiamo parlando dei savonesi Monjoie, nome
ripreso dal grido di battaglia dei cavalieri franchi ma non per questo minacciosi nelle
proprie rifinite trame perlopiù acustiche.
“Il bacio di Polifemo” ribadisce il suono già palesato nell’esordio “Contravveleno”
(2002), orientato con ulteriore decisione e perizia su una canzone ritualistica
disposta a contaminazioni etniche mediorientali, tribalità indiane e suggestioni
medievali su cui porre in rilievo parole visionarie nella voce calda e pacata da
cerimoniere di Alessandro Brocchi. Ed è d’indubbio fascino l’incedere ipnotico di
sonorità ancestrali, evocative nella propria atemporalità, caratterizzate da musettes,
darbouka, tabla, bendir, tampura, udu, bouzuki, ocarina, didgeridoo, mandolino e
prevalenti chitarre acustiche, non disgiunte da una marcata connotazione
cantautoriale e velati riflessi gothic-wave. “In cerca di una dimora per la notte”,
soffuso e immaginifico presagio, apre il varco verso immagini crepuscolari di un
viaggio inesausto dell’anima (emblematica è “Viaggio all’interno”), dispiegato in
angoli di mondi remoti e lontani (“nell’attesa liminare brancolo nella luce di un
incerto albeggiare”). Un persistere di metafora esistenziale e di incanto in tredici
brani dove anche “Il bacio di Polifemo” diviene estasi sensuale, in un peregrinare in
chiaroscuro, tra pace e inquietudine (www.ethnoworld.it).
Loris Furlan
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Viboras
Wrong
Ammonia/Edel
Cosa succede se a un classico power-trio punk rock aggiungiamo la grinta e la
voce di una ragazza terribile? Se siamo in Italia, magari nell'hinterland milanese,
allora la risposta potrebbe essere i Viboras. Un esordio di rilievo, quello messo a
segno dall'Ammonia con una band che, pur senza volerlo, ha tutto ciò che occorre
per piacere ai punk italici nel 2005: un punk veloce di matrice Hellcat Records (e
quindi Rancid et similia) con una cantante che inevitabilmente rimanda a Brody e ai
Distillers. Un mix esplosivo che, di questi tempi, garantisce di per sè una certa
curiosità per il progetto, curiosità che "Wrong" soddisfa in maniera decisamente
positiva. La solidità di Sal e Beppe, ex Berenice Beach, è difatti garanzia di un punk
rock che guarda alla strada senza difettare in melodie accattivanti, ed Eerie ci
sembra almeno una delle tre migliori interpreti femminili in Italia, sia per energia che
per credibilità.
La registrazione, come ormai abitudine per l'etichetta, è targata West Link, studio
ormai al top per queste sonorità, e titoli quali "Guns" e "Big Dream" sono tra le cose
migliori ascoltate di recente. Continuo invece a non capire la necessità di inserire in
questi lavori cover di brani da classifica: "Don't Let Me Get Me", portata al successo
da Pink, non aggiunge nulla a quanto fatto dai Viboras, e ci sembra anzi una piccola
caduta di stile. Comunque, parafrasando il titolo, in questo disco i Viboras hanno
davvero ben poco di "sbagliato" (www.viboraspunk.com).
Giorgio Sala
3eem
Essence Of 3eem
Small Voices
Affidano tutto ai loro strumenti, i 3eem; non una parola, non una nota di troppo nel
loro cd di debutto. Bisogna cercare sul web per scoprire che i tre musicisti, tutti attivi
sin dagli anni ’80, hanno precedentemente militato in altri gruppi. Fabrizio Bazzoni
ha plagiato il proprio sax prima col crossover radicale dei Nasty Nurses e poi col
progressive rumorista dei dBuzz; di quest’ultima formazione ha fatto parte anche il
chitarrista Danilo Corgnati, la cui estrazione è però più vicina al punk e al grunge;
Valerio Zucca, infine, ha già all’attivo tre album - due dei quali per l’olandese
Staalplaat - sotto l’acronimo di Abstract Q: costui è la mente elettronica che ha
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modellato i sei movimenti di “Essence Of 3eem”.
Tutto parte dall’idea di far interagire manipolazioni digitali e strumenti tradizionali
processati in presa diretta. Tra gli ascendenti più facilmente individuabili non
possiamo esimerci dal citare Coil, Clock DVA, Bill Laswell. D’altro canto lo sforzo
compiuto dal terzetto per affrancarsi dai luoghi comuni della sperimentazione
elettronica merita di essere apprezzato, giacché questo debutto - confezionato con
meticolosa perizia e indubbio gusto - propone scenari sonori ipnotici e ammalianti.
Tuttavia, sulla lunga distanza emerge il limite espressivo di uno stile che ben poco
concede all’immediatezza del pop e all’esuberanza della dance: un incedere freddo
e imperturbabile che sacrifica ogni emozione in nome di una pur sopraffina
ingegneria strumentale (www.3eem.it).
Fabio Massimo Arati
Chiave Di Volta
Ritratto libero
Lizard/Audioglobe
Strana malattia il rock progressivo: si pasce di amore e odio, quasi mai di
indifferenza. Eppure c’è stato un tempo dove tutti i grandi gruppi, per avere il
lasciapassare della critica per la notorietà, dovevano necessariamente passare da
questi suoni. Dimenticati i fasti del passato ed esaurita la spinta vitale tanto del new
prog targato Marillion quanto del metal prog innalzato dai Dream Theater, il genere
vive oggi di sporadici sussulti, privo di identità e costretto a subire l’ira della stampa
musicale; nonostante ciò, esiste un nugolo di appassionati che si rinnova a ogni
passaggio generazionale e che ama cercare nei cunicoli dell’underground emozioni
nuove, commuovendosi quando si imbatte in piccole realtà come questi Chiave Di
Volta che sin dal nome rievocano il pop italiano anni ’70, quando a dominare erano
PMF, Banco ed Osanna.
Dopo anni spesi ad emulare gli eroi di cui sopra, questo quintetto toscano ha
edificato un proprio repertorio, giocando tra il ricordo e il desiderio di soddisfare il
proprio gusto. Ne viene fuori un lotto di brani riverente e perfettamente incastonato
in quell’epoca, che persuade anche quando si dilunga in effusioni strumentali come
in “Onirica Mente”, “Involuzioni Rapide” e “Ritratto Libero”. Non convincono invece
alcuni interventi vocali e la scelta di certe tastiere troppo sintetiche, ma quando si
accende la magia è di sicuro un bell’ascolto (www.chiavedivolta.org).
Gianni Della Cioppa
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Moopo
The Only Word Of My Prayer
Seahorse/Goodfellas
Il campo d’azione degli italo-canadesi Moopo è lo stesso dei compagni d’etichetta
Blessed Child Opera: un folk che rimanda all’underground americano e al sad-core,
sporcato però con un po’ di elettronica da cameretta, qualche arrangiamento di
tastiera e non pochi rimandi - soprattutto nel modo di cantare - a Nick Drake e Syd
Barrett (“Urinary Sand”). Queste ottime premesse devono però fare i conti con
qualche carenza d’originalità che arriva a colpire la qualità delle canzoni: infatti, a
qualche ottima intuizione (“The Place”, “Above Me”, “Up”) si alternano momenti dove
la monotonia, più che permeare una certa atmosfera, rischia di portare alla pura e
semplice noia.
È un vero peccato, perché questo “The Only Word Of My Prayer” contiene alcuni
spunti e qualche brano che riescono a vivere nel fascino notturno (ad esempio la
title-track) che spesso aiuta lavori del genere. Ma è sulla lunga distanza che il disco
dimostra di non avere abbastanza resistenza: il fiato diminuisce e non riesce a
essere efficiente per tutti i suoi cinquantasette minuti. Il livello d’attenzione rischia di
calare perché è una musica che necessita di particolare concentrazione, peculiarità
che - per le ragioni sopra esposte - non sempre riesce a guadagnare. Più che
un’occasione sprecata consideriamolo un bicchiere mezzo vuoto. Qualcosa c’è e
siamo ottimisti riguardo un futuro in cui può diventare, senza problemi, mezzo pieno
(www.seahorserecordings.com).
Hamilton Santià
Stefano Saletti & Piccola Banda Ikona
Stari Most
CNI
Una koinè mediterranea, dalla tradizione sefardita a quella siciliana, dai Balcani alla
Francia. Il simbolo di questa koinè è il ponte di Mostar, abbattuto nel 1993. Quel
simbolo univa l’Europa all’Est, era la sintesi di un incontro che si voleva non più
vitale, distruggendolo. E invece il Mediterraneo, pur nelle mille insenature delle sue
mille storie, continua a parlarci di incontri e mescolamenti. È questo il senso della
Piccola Banda Ikona, un combo trasversale che raccoglie elementi dei Klezroym
(Gabriele Coen), rubando agli Agricantus (Mario Rivera, Elvira Impagnatiello) e ai
Novalia (Giovanni Lo Cascio), attingendo agli Acustimantico (Carlo Cossu) e ai
Beatipaoli (Alessandro Mancuso). Il tutto sotto la regia del band-leader Stefano
Saletti, a sua volta fondatore dei Novalia, che imprime al lavoro un sentore di
concept.
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L’idea di incontro assume una necessità programmatica (interna al progetto),
veicolata dalla musica, dai suoni, dalle parole. Come quelle di “Chayalim” (“Soldati”),
cantati da Gabriel Zagni: “Ci sono state feste in cui noi tutti ridevamo / e adesso
siamo tutti soldati”. O quelle cantate dalla Impagnatiello nella bellissima “Vasa
Miskin”, ispirata alla strage del mercato di Sarajevo, che sembra tratta dal repertorio
di Kate Bush. Incontro sincronico di modi e timbri, del darbouka e dei
programmings, di noises e oud. Mediterraneo di Padrag Matvejevic, lo scrittore
croato che ha ispirato molti angoli di “Stari Most”; del poeta Izet Sarajlic ma anche di
Archiloco e Aristofane, che hanno dettato i testi di diversi brani, tra cui “Aion”, nella
quale Saletti scorazza con la e-bow guitar. Dai classi greci a Robert Fripp, perché
no (www.cnimusic.it).
Gianluca Veltri
Hello's Punk
Container
Derotten
Ormai si sfiora la noia parlando di quanto il nord-est abbia dato in questi anni al
punk nazionale, ma è inevitabile affrontare l'argomento occupandosi di "Container",
opera prima dei vicentini Hello's Punk. Le nuove leve crescono e per farlo si
affidano alla "vecchia guardia": non per niente l'etichetta coinvolta nel progetto è la
Derotten, sempre in primo piano quando c'è da scommettere sui giovani talenti.
Scommessa qui a base di hardcore in italiano che si riallaccia a quanto già sentito
nel genere ma aggiornandone le caratteristiche musicali, in questo caso una
velocità elevata condita da stacchi mozzafiato e tanta melodia.
Mezz'ora abbondante registrata al West Link di Pisa dove però non si riesce a
superare un difetto ormai cronico: la pochezza espressiva dei testi. Davvero l'unica
cosa possibile da dirsi sul sistema scolastico suona più o meno "queste le materie
che non mi va di fare, non voglio andare a scuola, non voglio studiare"? Dispiace, e
spiace ancor di più proprio perché gli Hello's Punk sanno il fatto loro, e quando
vogliono scrivono musica e parole davvero bene, e gli esempi in questo caso
possono essere "Soldati" e "Diritto dovere". A dir la verità i momenti riusciti sono la
maggioranza, ma basta anche solo una banalità a rovinare un risultato che
nell'insieme convince e ci lascia ben sperare per il futuro. Al gruppo lanciamo l'idea,
agli ascoltatori diciamo di dare fiducia e di continuare a far crescere e fiorire tutto il
"marcio" che c'è nel triveneto (www.hellospunk.it).
Giorgio Sala
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The Zen Circus
Una cosa è sicura: agli Zen Circus non piace restare fermi. Dopo un paio di ottimi
lavori all’insegna di un croccante folk-punk alla Violent Femmes e un terzo, “Doctor
Seduction”, dai toni marcatamente pop, ecco che “Vita e opinioni di Nello
Scarpellini, gentiluomo” rappresenta un’ulteriore scarto: verso sonorità più ruvide e
variegate, grazie anche all’uso, per la prima volta, della lingua italiana in alcuni
brani. Con il leader della formazione, Andrea Appino, abbiamo parlato del presente
e di un futuro caratterizzato da progetti ancora una volta sorprendenti.
Come è nato “Nello Scarpellini”?
Le canzoni erano già pronte da qualche tempo. Come sempre ci capita, al momento
di fare uscire un disco abbiamo già praticamente buttato già tutte le idee per quello
successivo. Nello Scarpellini era un amico del nostro bassista Ufo, un signore che
purtroppo è morto prima che anche noi potessimo conoscerlo bene. Girava per
Marina di Pisa, raccoglieva oggetti vecchi di ogni tipo lungo il litorale e li conservava
in un enorme magazzino. E poi era un punk ante litteram, visto che girava vestito
come Kurt Cobain nonostante avesse più di novant’anni. Un personaggio come lui
era perfetto per simboleggiare un progetto come il nostro, una specie di grande
mescolone di quella che è la storia del rock italiano, dal pop al beat.
Detta così sembra una cosa parecchio ambiziosa.
Non è che siamo partiti già con l’idea di dar vita a una summa degli ultimi decenni di
musica, semplicemente ci siamo resi conto che le canzoni che avevamo in mano
permettevano un’operazione di questo tipo. L’unica maniera per dare un senso di
continuità a materiale così eterogeneo era quella di fare nostro lo spirito di Nello,
cioè ricoprire il tutto con uno strato di polvere e metterlo da parte per un po’.
In sostanza, allora, il tentativo di non ripetersi è per voi una cosa
assolutamente spontanea.
Per fortuna sì, anche se prima o poi capiterà per forza di ripassare su territori già
battuti in precedenza. Una delle cose che ci permette di andare avanti senza tornare
sui nostri passi è l’equilibrio fra il mio approccio alla musica e quello di Ufo. Lui ha
una cultura enorme e una marea di dischi, tanto che più che il musicista potrebbe
fare il giornalista, mentre io, di contro, sono più un ascoltatore medio. Questo mi
permette di scrivere canzoni nella più completa libertà, non facendomi influenzare
da nulla semplicemente perché i miei ascolti sono del tutto casuali, tanto poi ci
pensa lui a trovarci i riferimenti del caso.
Per la prima volta un vostro disco è multilingue.
La cosa divertente è che negli scorsi anni tantissime persone ci avevano fatto
notare che avremmo dovuto cantare in italiano, senza sapere che io brani nella
nostra lingua li avevo già scritti, solo che aspettavo il momento migliore per tirarli
fuori. Non si è trattato, comunque, di un’operazione difficoltosa, anzi, il tutto si è
svolto in maniera assolutamente naturale. Il che, fra l’altro, ha ampliato
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ulteriormente i nostri orizzonti, tant’è che una volta resici conto che la musica di “Les
poches sont vides, les gens sont fous” sarebbe stata bene con un testo in francese
non ci siamo fatti problemi a comporlo. Voglio dire, se lo fa Manu Chao perché non
possiamo farlo noi?
Come cambia il tuo approccio alla scrittura in funzione della lingua?
Direi che non cambia, perché in un certo senso le canzoni nascono da sole, sono
figlie dell’istinto del momento. In ogni caso, considera che questa è la prima volta
che tentiamo qualcosa di simile, quindi probabilmente non sono ancora in grado di
dare una risposta vera alla tua domanda.
In che modo siete entrati in contatto con I Dischi de l’Amico Immaginario?
Inizialmente avremmo continuare con la Self, solo che loro non ci hanno dato la
garanzia che avrebbero fatto uscire il disco entro l’anno, mentre noi avevamo
urgenza di pubblicare le nuove canzoni. Oltretutto, a differenza di quanto avevamo
fatto con “Doctor Seduction”, era nostra intenzione fare un album registrato quasi
interamente in presa diretta, e ci è venuto spontaneo rivolgerci a Maurizio Borgna, il
nostro tecnico del suono dal vivo, che ci ha parlato di questa piccola etichetta che
voleva fondare con Cristiano dei Perturbazione. Così abbiamo preso armi e bagagli
e siamo andati a Torino a registrare.
Ma nasce prima la canzone “L’amico immaginario” o il nome dell’etichetta?
All’inizio dovevamo registrare una canzone per una compilation de L’Amico
Immaginario, e siccome avevo questo testo pronto a cui mancava il ritornello, ho
pensato di infilarci dentro quella particolare espressione. Non potevamo certo
immaginare che la compilation non sarebbe mai uscita, mentre sarebbe stato
proprio L’Amico Immaginario a pubblicare “Nello Scarpellini”.
Visto quello che dicevi prima, cosa puoi anticiparci dei vostri progetti futuri?
Ci piacerebbe scrivere le canzoni in quattro o cinque lingue diverse, e registrarle nel
paese in cui si parla il rispettivo idioma. Il tutto, naturalmente, con un forte intento
ironico di fondo. Il titolo c’è già: “Capitan Pistachio”. Se viene come deve venire,
sarà una cosa unica nel suo genere, anche perché vorremmo abbinarvi un film vero
e proprio. Dopodiché potremmo ritirarci dalle scene, rimanere dietro le quinte a
comporre i pezzi e mandare a suonare in giro la nostra cover-band, un gruppo di
diciottenni che abbiamo scoperto a Pisa lo scorso inverno. Sarebbe come i Menudo
in Sud America: passata una certa età bisogna lasciare il gruppo e cedere il posto a
qualcuno più giovane.
Aurelio Pasini
Contatti: www.thezencircus.com
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Sikitikis
Primo gruppo pubblicato dalla neonata Casasonica, etichetta fondata dai
Subsonica, i cagliaritani Sikitikis rileggono l’immaginario lounge e cinematografico
alla luce di una line-up inusuale, che fa a meno delle chitarre, e di riferimenti a
psichedelia, stoner e surf. Ne abbiamo parlato con Diablo (voce, effetti elettronici) e
Jimi (basso).
Partendo dal nome e dal titolo del disco (il Tiki è il dio polinesiano le cui
raffigurazioni introdussero la moda exotica negli Stati Uniti del dopoguerra,
NdI) è inevitabile tirare in ballo parole come exotica, lounge, cocktail
generation. Provenendo da storie musicali molto differenti, qual è stato il
vostro punto d’incontro?
(Diablo) Ciò che ha reso possibile il fatto che persone così diverse musicalmente si
incontrassero è stato il riferimento comune al cinema. Il progetto ha come base la
passione per le colonne sonore. Inoltre, nel nome c’è una componente “tiki”, come
dicevi tu, ma anche una “siki”, ovvero il termine inglese “sick”, “malato, morboso”,
che noi abbiamo sgrammaticato per rendere il nome palindromo: c’è quindi anche
una forma di iperrealismo, una caricatura di tutto quel mondo legato alla cultura
exotica, la quale, attraverso la contaminazione con il rock’n’roll, ha dato vita al surf,
e in seguito ha influenzato la musica da film.
(Jimi) Noi due suonavamo nei Cani da rapina, una band di crossover ancora più
eclettica di questa, ma anche più ingenua, che aveva una predilezione non solo per
le colonne sonore ma anche per l’immaginario di certi film: gangster, noir,
poliziottesco, generi che abbiamo sempre amato. Sciolta la band, entrambi abbiamo
fatto un programma radiofonico in diretta, dove trasmettevamo colonne sonore, jazz
d’avanguardia, surf. Terminata questa esperienza abbiamo pensato di creare una
band lounge, e suonare temi da film. I Sikitikis sono nati così, Daniele ed Enrico
(tastiere e batteria, NdI) hanno sposato la causa, uno perché amava il latin jazz,
l’altro perché amava il “poliziottesco”. Dopo abbiamo riscoperto le canzoni vere e
proprie, perché all’inizio facevamo quasi esclusivamente temi strumentali: il
rock’n’roll americano ma anche quello della tradizione italiana, gli urlatori ad
esempio. Abbiamo frullato poi il tutto alla luce di ascolti altrettanto fondamentali
come John Zorn, i Mr. Bungle e i Fantomas di Mike Patton, che utilizzano i nostri
stessi ingredienti ma in modo diverso.
Le cover che avete scelto: Mina (“L’importante è finire”), che non è lounge ma
riporta ai primi ‘70, Morricone (“Milano odia: la polizia non può sparare”),
inevitabilmente, ma anche un pezzo insolito, “Metti un tigre nel doppio
brodo”, dal film di Bruno Bozzetto “Vip, mio fratello superuomo”...
(D) L’incontro con “Metti un tigre nel doppio brodo” è stato per quanto mi riguarda
illuminante. Jimi è arrivato con la colonna sonora di Franco Godi, pensava che il
pezzo fosse fighissimo e infatti siamo usciti fuori di testa, perché è raro trovare un
brano in cui confluiscono così tanti elementi. In comune con le altre due cover ha un
aspetto morboso. Il filo conduttore da cercare, sia nell’album che nella scelta delle
cover, è proprio questo aspetto profondamente “malato”: la malattia della
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lobotomizzazione della pubblicità, la malattia della sessualità distorta, e la malattia
che emerge dalla colonna sonora di uno dei film polizieschi metropolitani più duri
della storia del cinema....
(J) In qualche modo le tre cover rappresentano anche una continuità con gli inizi del
progetto, due sono di ambito cinematografico e una riporta alla tradizione della
canzone italiana, alla musica italiana di quel periodo.
Nel booklet c’è scritto, con orgoglio ma anche con implicita ironia, che non
sono state suonate chitarre. Scelta o necessità?
(J) È un caso, non c’erano né divieti né il progetto di un gruppo senza chitarre. Nella
nostra prima fase la formazione era già senza chitarra, nonostante lo strumento
fosse presente negli ensemble degli anni ‘70. Abbiamo fatto un gran lavoro sugli
effetti, applicati al basso, e registrando il disco abbiamo scoperto un mondo
incredibile, che abbiamo cercato di portare anche sul palco per mezzo di alcuni
accorgimenti tecnici. È diventata una cosa molto divertente e stimolante per noi dal
punto di vista degli arrangiamenti, io suono questo basso che sembra a tratti una
chitarra, distorto. Non escludiamo tuttavia che, trovando il chitarrista giusto, le cose
cambino. Adoriamo la chitarra, la surf music, il rock’n’roll, ma ci piace pensare che
possa essere rock’n’roll anche un gruppo senza chitarra. Una specie di sfida...
(D) Quando abbiamo iniziato a progettare il disco, le chitarre potevano anche starci,
poi ci siamo detti, con Max (Casacci, NdI), che se fossimo riusciti a non metterle
affatto l’esperimento sarebbe stato interessante. E secondo me lo è stato, anche a
livello di feedback.
C’è anche qualche riferimento allo stoner rock. Del resto i Kyuss usavano la
chitarra in una tonalità più bassa, collegandola a un amplificatore per basso...
(J) Sono sicuramente uno dei gruppi che negli anni abbiamo ascoltato di più.
(D) Io quello che so fare con la voce l’ho imparato suonando il blues... e quindi la
scala pentatonica, e i riffoni. Nel momento in cui abbiamo deciso di riequilibrare la
percentuale di utilizzo di stomaco e cervello, tirando fuori un po’ più di stomaco, è
uscita fuori anche questa vena, un po’ psichedelica. E poi la Sardegna in fondo è
anche un po’ desertica, proprio come il deserto californiano...
Alessandro Besselva Averame
Contatti: www.sikitikis.it
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Settlefish
I Settlefish, quintetto bolognese collocabile tra le realtà alternative italiane più
importanti del momento, sono di ritorno dal tour europeo. Abbiamo scambiato
alcune battute con la prima chitarra Emilio Torregiani, che qui interpreta le diverse
anime sonore delle band e del suo ultimo “The Plural Of The Choir” (Unhip): un
disco che racconta in tracce il ciclo infinito delle relazioni, snodandosi
coerentemente nel segno del migliore indie d’oltreoceano senza limitarsi o farsi
inquadrare nella cornice di un unico genere.
Che ci dici del giro per l’Europa? Aneddoti interessanti?
È andata molto bene, abbiamo macinato parecchi chilometri in Inghilterra, Francia,
Germania, Paesi Bassi e Danimarca. Quanto ad aneddoti, tralasciando ciò che "va
lasciato sulla strada", posso dirti che come ogni tour abbiamo avuto il solito incontro
ravvicinato con degli hippies: casa sporca, mozziconi ovunque, incensi a celare un
fortissimo odore di qualsiasi fluido corporeo della "mandria" di gatti che abitava lì.
C'è ancora un sacco di gente che si riferisce a voi come a un gruppo “emo”. Cosa
vuol dire, per voi, questa parola?
Ho amato tantissimo alcuni gruppi che sono definiti "emo", ma ora ho ventisei anni e
non mi ci rivedo più. Mi pare che nella nostra musica altre componenti siano più
vive, anche se è vero che quello che esce fuori in definitiva è melodia a volume
molto alto. Credo che in questo essere sentiti “emo” abbia contato molto uscire per
Deep Elm, un punto di riferimento per un certo tipo di sonorità. Mi ci sono abituato
ad essere il più vecchio “emokid” di Bologna, ma non credo nè di suonare quel tipo
di musica nè di portare avanti un immaginario di cuori spezzati, montature di vinile
nero e magliette di gruppi sconosciuti acquistate a caro prezzo su e-bay.
”The Plural Of The Choir” si riconduce difficilmente ad un unico genere.
Sembra che ora certo indie-pop, ora certo noise, ora certo post-rock
corrodano i pezzi dal di dentro. È meno uniforme di “Dance A While Upset”.
All'interno c'è in effetti tutto ciò che elenchi, e sono felice che tu te ne sia accorta. Il
disco è volutamente costituito di pezzi molto diversi tra loro, ma sono le diverse
facce di una stessa medaglia: se ci fai attenzione ogni brano sfocia nell'altro e
quello che segue prende per mano quello che lo precede. È stata la forma di
racconto che abbiamo scelto, e ne siamo molto contenti.
”Sparrow You Will Fly” e “The Second Week Of Summer” ricordano i Death
Cab for Cutie. In “The Barnacle Beach” e soprattutto in “Ice In The Origin” si
sentono i Modest Mouse. Cosa ascoltano e cosa amano i diversi componenti
della band?
Io sono un ex metallaro, Bruno un fricchettone, Phil un marxista/leninista, Paul è il
“working class hero” e Jon è il dandy... un bell'assortimento, no? Ascoltiamo tutti
cose diversissime, privatamente, ma in furgone abbiamo una playlist comune: il
“White Album” dei Beatles, “Spiderland” degli Slint, “The Moon And Antartica” dei
Modest Mouse, l’ep su Monitor dei Battles, il nuovo di Akron/Family, “Toast Masters”
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degli Yuppie Flu, l’ultimo Pinback, “Woman King” di Iron and Wine e “Repeater” e
“The Argument” dei Fugazi (l’alfa e l’omega)...
Il disco è prodotto da Brian Deck. Ha lavorato con voi o ha post-prodotto "a
distanza"? Sarebbe interessante sapere che tipo è.
Brian non solo ha prodotto l’album, ma ha anche curato le registrazioni. Siamo stati
con lui per 15 giorni a incidere e mixare a Reggio Emilia. Un'esperienza bellissima,
un sogno che si è realizzato. Lui è un grande, davvero alla mano, disponibile a
parlare di tutto e incredibilmente propositivo in merito alla musica. Posso solo
parlarne bene!
In che senso “The Plural Of The Choir” va interpretato come “the five of you
against relationships”? L'artwork (autorevole peraltro) del disco raffigura una
serie di coppie che sembrano "litigare".
L'artwork è di Tae Won Yu, che ha collaborato a innumerevoli layout di dischi e
grafiche per etichette: è una sorta di omaggio alla locandina di un film molto famoso
e bello di un regista italiano. Quando abbiamo iniziato a comporre le canzoni a molti
di noi succedeva di terminare rapporti sentimentali di varie durate e non intendo solo
rapporti amorosi: anche amicizie, conoscenze, parentele. Volevamo sopperire alla
mancanza descrivendola in un racconto di perdita e ritrovamento. E sembra abbia
un lieto fine.
“We Please The Night, Drama” racconta del rapporto con Bologna. Da quali
sensazioni nasce? E' notturno, destrutturato, aperto: direi quasi che “il” pezzo
post-rock della scaletta.
Racconta di una lunga passeggiata notturna per Bologna e di come i posti fisici
siano abbastanza lenti nel loro evolvere strutturale e velocissimi nel risultare
differenti ogni qualvolta sei tu a cambiare. Ma è anche, più banalmente, un omaggio
alla notte e a una città che di notte vive moltissimo. Sperando che non cambi in
futuro, viste le ultime trovate del comune...
Bologna è la sede della Unhip Records, per la quale è uscita “The Plural Of
The Choir”. Sai di qualche progetto in cantiere per l’etichetta, dopo voi e
Disco Drive?
Unhip è gestita da ragazzi fantastici, grandi appassionati di musica: noi gli vogliamo
un gran bene! Per il futuro vi do anche un'anteprima: esce il nuovo disco dei The
Death Of Anna Karina: un lavoro no wave, post hc, urla e lamenti vari. Rimane in
ballo anche il tributo ai Red Red Meat, a cui anche noi partecipiamo, ma se i nomi
presenti saranno confermati, noi saremo sicuramente il granello più insignificante di
tutta l'operazione!
Marina Pierri
Contatti: www.unhiprecords.com
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Lo.Mo
Dallo scioglimento dei Bartok sono nati i Lo.Mo, con Roberto Binda (che canta in
italiano), gli altri due ex Tommy Canal e Raffaello Migliarini (rispettivamente basso e
batteria) e poi Darren Cinque al piano e Paolo Zangara alla chitarra. È difficile
raccontare delle proprie ferite sentimentali, ma è di questo che tratta l’album
d’esordio “Camere da riordinare”, uno struggente ritratto noir. Sfida pericolosa
ergersi al pubblico con il cuore in mano, ma i Lo.Mo l’hanno avuta vinta contro la
banalità e lo strazio. È Roberto a rispondere alle nostre domande.
“Camere da riordinare”: nel momento in cui tutto è in ordine s'innesca il
piattume della vita. Dai testi, dalle musiche sembra un disordine stabilito dalla
tristezza e dall'inquitudine, ma non è sempre così. La vostra musica non vi fa
male?
Nelle camere c’è il disordine dei sentimenti, la violenza che segue al tradimento, la
finta accettazione dell’abbandono, la malinconia legata al ricordo, le gabbie della
routine, la rabbia e le incomprensioni, insomma tutto ciò che rende magico e
insieme diabolico l’amore. Poi arriva un momento in cui il delirio comincia a farsi
insostenibile e si sente il bisogno di riordinare, dare alle parole la sua colonna
sonora e come in un film mettere la parola fine. Quindi è il vissuto a fare male ed è
la musica il mezzo per liberarsene.
Vi sentite di appartenere a questo flusso generazionale di nuovi gruppi che
nascono, o vi collochereste volentieri altrove?
Siamo cresciuti musicalmente con il post punk, l’Inghilterra dei Bauhaus e Wire o
l’America di Thin White Rope e Sonic Youth, per poi rimanere affascinati dal rock
australiano di Beasts of Bourbon e dei Bad Seeds: questo è il mondo a cui, anche
per ragioni semplicemente anagrafiche, sentiamo di appartenere.
Roberto, cosa ti è rimasto in eredità dai Bartok che hai convertito nei Lo.Mo?
L’eredità più forte è rappresentata dalla presenza in organico di Tommaso Canal e
Raffaello Migliarini, la vecchia sezione ritmica dei Bartok. Quindi, un’identica
attitudine musicale.
Le vostre storie ricordano un po' i La Crus ma anche Stefano Giaccone o
Andrea Chimenti. Riconoscete queste influenze?
Gli accostamenti che hai fatto più che influenzarci ci lusingano. Andrea è molto
poetico, la sua scrittura ha tanti riferimenti letterali, Stefano racconta storie con
grande efficacia, forse Joe è quello a cui mi sento più affine perché ossessionato
forse dalle stesse miserie. Musicalmente siamo molto distanti da tutte e tre,
compresi i La Crus a cui veniamo spesso accostati.
Raccontateci della registrazione del disco con Hugo Race come produttore
artistico e tecnico del vostro suono.
All’inizio dell’anno gli abbiamo spedito dei provini, molto lontani da quello che
sarebbe diventato successivamente il disco. Lui ci ha scritto come pensava
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andassero prodotti e incisi, ed era esattamente quello che volevamo. Abbiamo
registrato e mixato tutto in dieci giorni, suonando in presa diretta per conservare la
maggiore spontaneità di esecuzione.Dal punto di vista produttivo Hugo aveva carta
bianca, fiducia totale, e in questo siamo stati molto fortunati a essere sulla sua
stessa lunghezza d’onda; suona poi l’organo in alcuni pezzi, ne ha arrangiati altri e
ha coinvolto anche Marta Collica che con entusiasmo ha prestato la sua bellissima
voce a due canzoni.
Riadattereste ricantandolo in inglese le canzoni di questo disco? E come mai
la grande scelta dell’italiano?
Assolutamente sì. Darren, il nostro pianista, è australiano e sta già lavorando sulle
traduzioni. Inoltre il suono del disco non è decisamente italiano, e questo lascia
spazio a diverse possibilità se si aprissero porte all’estero. Le felici esperienze di
Cesare Basile con John Parish, Afterhours con Greg Dulli e Cristina Donà con
Davey Ray Moore stanno a dimostrare che la strada è quella giusta per dare
maggiore visibilità al rock italiano.Tornare a cantare nella nostra lingua era un modo
per avere una maggiore comunicabilità... una scommessa che personalmente avevo
abbandonato almeno quindici anni fa.
Non avete paura che la gente che ascolterà il disco si incupirà un bel po'?
Forse qualche pausa "solare" poteva tagliare un pezzetto di nero. Che ne
pensate?
Il disco è stato composto in un breve periodo, forse è questo il motivo per cui ha un
mood unico, piuttosto cupo... Ma non sarebbe stato onesto non seguire il nostro
stato d’animo per cercare di incontrare i gusti del pubblico.
Chi ha fatto le presentazioni fra voi e la Desvelos?
Con Giuseppe Pionca esiste un’amicizia e una stima reciproca precedente alla
nascita dell’etichetta. Ci siamo conosciuti grazie ad alcuni concerti da lui organizzati
in Sardegna quando io e Tommi eravamo negli Asphodel; poi è nata la Desvelos,
coraggiosa, che conosciamo con dischi spesso bellissimi... così è stato naturale
lavorare insieme.
A quale concerto i Lo.Mo andrebbero insieme?
Probabilmente Nick Cave, Lou Reed e Stooges.
Dove si siete conosciuti?
Con Darren è stato casuale, appena arrivato in Italia ci siamo incontrati al negozio di
dischi, proponeva il suo demo registrato in Australia per trovare persone che
suonassero con lui. Con Paolo Zangara, invece, ci lega una lunga frequentazione:
era il bassista degli IK 14, uno dei primi gruppi in Italia a fondere elettronica, drum n’
bass e avanguardia.
Sono previsti video?
A breve gireremo quello di “Dissolversi” con la regia di Carlo Ponti e Alessandro
Tibiletti. Credo che si vedrà a settembre. Successivamente lavoreremo al secondo
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video con il regista romano Gaetano Maffia.
Francesca Ognibene
Contatti: www.lomofrequenze.com
Luca Faggella
Un nuovo Faggella. A tre anni da “Tredici canti”, che proponeva un repertorio intriso
di folk, il musicista livornese da cantastorie si trasforma in rocker. “Fetish” è il nuovo
lavoro, potente e “sfiammante”, come lo definisce lo stesso Luca. Ne abbiamo
parlato con lui.
Luca, che ti è successo? C’è una bella differenza con l’ultima volta che ci
siamo parlati, ai tempi di “Tredici canti”.
Quando pubblicai quel cd misi un punto e a capo. È il mio addio al romanticismo,
alla festa, al popolo, alla musica tradizionale. Quando iniziò quel tour cambiai il mio
modo di stare in scena. Imbracciai, dopo cinque anni che la neanche toccavo, la
chitarra, e in mezzo al concerto misi in piedi una sezione che è il nocciolo da cui è
nato il nuovo album.
La sorpresa viene dalle prime dieci tracce...
Ho scritto in un anno preciso. È stata una botta di creatività come raramente ne ho
vissute. Liberata la mente da storie abbastanza ossessive (notizie, politica), si è
stappato il tappo ed è venuta fuori questa musica meravigliosa.
Troppo modesto. Ho l'impressione che il disco sia diviso in due parti distinte.
Una prima, fiammeggiante, del nuovo Faggella; una seconda, in cui mi sembra
che tu voglia tenere viva una continuità col cantore di “Tredici canti”.
È vero, ”A tu per tu”, “Maggio” e “Valzer # 2” sono un "saluto" a un genere che ho
attraversato in dieci anni. Per ora è il passato. E non credo tornerà più. Nel Fetish
Tour di quel passato resta (riarrangiata forte pulsante e rock’n’roll) “La strega”.
Diciamo che “Fetish” è il flusso dei primi dieci titoli e, naturlich, “Le carte in regola”,
una canzone che non lascerò mai.
So che le session in sala non sono state proprio una passeggiata.
Sette mesi di studio, sette fonici, trecento ore di missaggi, due masterizzazioni. La
produzione (Simone Satta, NdI) aspettava un “Tredici canti” meno radicale e più
commerciabile. Non andavo d'accordo col produttore artistico e nemmeno con l'idea
di un album simile a quello. La questione era: voglio produrlo io e niente folk, ci
vuole un altro battito, altre frequenze, altre parole. Andati all’aria arrangiamenti
folk-pop e produttore artistico, sono rimasto in studio, solo con il fonico Mamo. In tre
settimane ho buttato giù le tracce base di “Fetish”. Il produttore artistico l’ho fatto io.
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Ti sta ripagando, “Fetish”, delle fatiche costate?
Si! Stiamo suonando bene e c'è molto interesse per questo album e per il concerto.
È uno spettacolo che amo, fisicamente. Quando lo rivedo in video non ci posso
credere, con la bellezza di cantare finalmente, senza maschera attoriale, puro
suono e visione.
Tu facesti parte della spedizione umanitaria in Iraq, tre anni fa. Come vivi la
realtà attuale, dopo tutto quello che è successo nel frattempo?
Con distacco. Penso alla musica, alle cose belle. Non seguo più l'ondeggiare
maniacale e omicida dei visi pallidi e la loro faziosità. A Baghdad ho sentito e
vissuto cose spaventevoli, bambini morire davanti a me, e rientrare in Italia e sentire
dibattiti bla bla mi ha disgustato. Bambini, leucemia, acqua impotabile per decenni,
contaminazione da uranio. La cortesia e la gioia di vivere degli iracheni, la loro
vitalità in una situazione estrema è stata una lezione di civiltà.
Che musica stai frequentando? Da quali ascolti arriva “Fetish”?
Dalla musica che mi ha cambiato la vita. Quella di sempre, molto Novecento:
Debussy, Ligeti, Berio; punk e noise, My Bloody Valentine, Crosby Stills & Nash,
Neil Young, Eno, Barrett, Nick Drake, i REM di Up, diverse cose italiane
non-leggere, come Carmen Consoli quando “sfiamma” (“Amado señor”... che
bella!), Hollow Blue, Max Gazzé, Subsonica... e il Settecento italiano: Locatelli,
Vivaldi. Brel. Molta musica, ascolto o suono tutto il giorno, per fortuna.
Da cosa è influenzato maggiormente il disco?
I ricordi... in realtà tutto l'album è sui ricordi, sul ciclo delle nascite, è un disco in cui
viene fuori il mio buddhismo (filosofico: non pratico e non frequento), i sogni, la
musica sognata, i pochi devastanti amori della mia vita.
E il titolo “Fetish”?
La canzone - e tutto l'album - è sui sentimenti, la vita vista come ciclo che si chiude
per riaprirsi e richiudersi e riaprirsi. All'infinito, fino all'illuminazione. Questo pianeta
mediatizzato, massificato, in cui anche la passione diviene oggetto, lusso, miseria,
franchising. Incorporeo, serialità, “feticcio” appunto. Ho pensato a questa storia
d'amore metropolitana, amanti tra perversione e passione cieca, alle sessualità
alternative, a quanto stia prendendo piede il “fetish” come moda e modo affettivo e
sessuale.
Non è uscito nessun video?
Ci stiamo lavorando, speriamo di farcela presto. Il pezzo è “Pornostar”, la regia è di
Matteo Rovere (Tiromancino, Jovanotti...), ci sarà anche Riccardo Schicchi con un
cameo. È il mio primo video...
Altri progetti immediati, oltre al tour in corso?
Dopo il rifiuto di un editore, il mio diario di Baghdad potrebbe uscire per un altro nel
2006. Libro e dvd con immagini e una canzone che scrissi li, “Il giardino”. Uscirà
solo insieme al diario...
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Gianluca Veltri
Contatti: www.storiedinote.com
The Valentines
Non sono molti i gruppi che, in Italia, possono vantare collaborazioni con personaggi
del calibro di Daniel Rey, ed è bello che quest'onore sia toccato ai Valentines. I
quattro ragazzi bolognesi, fattisi conoscere un paio d'anni fa con il fulminante "No
Time Generation", hanno infatti realizzato un sogno lavorando con il produttore
americano (in console, tra gli altri, per i Ramones) per "Life Stinks", secondo album
che mette ancora più in chiaro la qualità della loro musica. A parlarci di tutto quanto
gira attorno a essa ha provveduto Mars, chitarra e portavoce - molto informale - del
gruppo.
Chissà quante domande vi avranno fatto sulla produzione di Daniel Rey...
Beh si, non c'è intervista in cui questa cosa non salti fuori (risate, ndr).
Immaginavo, ma in concreto qual è stato l'aspetto più importante, e più utile,
di avere a che fare con un personaggio così?
Per dirla in maniera netta è stata la prima volta in cui ho fatto il musicista vero,
concentrandomi esclusivamente sul suono e sul cercare di tirar fuori la miglior
performance possibile. In questo Daniel è stato fondamentale, perché lui è un
produttore puro e mi ha liberato di tutta una serie di incombenze che in precedenza,
per risparmio e comodità, toccavano a me. Anche il suo atteggiamento nei confronti
della musica c'è servito molto, e si può semplificare con un aneddoto che ho già
raccontato ma che rende appieno l'idea. Avevamo composto già undici pezzi, e
quindi personalmente ritenevo già esaurito il mio compito: gli ho scritto dicendo che
avevo terminato la stesura dei brani e mi ha risposto in maniera molto stringata
dicendo "non smettete mai di scrivere, il dodicesimo pezzo potrebbe essere un hit".
Abbiamo seguito il suo consiglio e ne sono venuti fuori "Blue Job" e "Listen", a
nostro parere due delle cose più riuscite del cd. Il nostro lavoro con lui è stato una
continua crescita e un enorme bagaglio d'esperienza.
Paradossalmente però avete ottenuto considerazione maggiore suonando
una settimana negli States che non girando per anni in lungo e in largo l'Italia:
concordi?
Guarda, purtroppo hai toccato un punto cruciale. Lavorando nell'ambiente sapevo
già la situazione ma con il passare del tempo mi accorgo ancora meglio di come se
vogliamo crescere dobbiamo cercarci una via fuori dall'Italia. La realtà musicale
nostrana è anche interessante, ma ci sono troppi problemi che si trascinano da anni
senza soluzione... per farti l'esempio di Bologna, realtà promettenti come i Forty
Winks in città fanno sold out ma incontrano difficoltà a suonare altrove. In America
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c'è sì una maggiore concorrenza e competizione, ma l'interesse è molto più alto che
non qui da noi. Con l'uscita del disco abbiamo ricevuto molto più feedback da
oltreoceano che non qui: laggiù le college radio ci scrivono per dirci che hanno
messo il disco in rotazione, in Italia non succede niente di tutto ciò.
Avete però partecipato al Tora Tora Festival, forse l'unica occasione per un
gruppo come il vostro di incontrare un pubblico nuovo: che esperienza è
stata?
Manuel Agnelli è una persona che stimo molto, sia musicalmente che per il suo
modo di lavorare, e ci ha fatto davvero piacere partecipare al festival. È servito
perché ha fatto girare un po' il nostro nome fuori dai soliti circuiti, andando anche a
lambire realtà mainstream. Come concerto in sé non è stato il massimo, aprivamo le
date e non ci troviamo ancora bene su palchi così grandi, ma è stato formativo
soprattutto per tutta una serie di critiche che ci sono arrivate e che ci hanno fatto
molto riflettere: una su tutte il fatto che cantassimo in inglese...
Davvero ve lo hanno rimproverato?
Sì, sembra assurdo ma certi discorsi che si facevano vent'anni fa sull'omologazione
culturale e sull'esterofilia non sono ancora morti, e alcuni giornalisti ci hanno
criticato per questa scelta. Il mondo nel frattempo è cambiato, con un sito Internet
raggiungi ogni angolo del mondo e il canto in inglese ci permette di essere ascoltati
da tutti senza distinzioni, oltre a rispondere a una scelta stilistica ben precisa.
Comunque sono anche queste osservazioni, per noi un po' superate, che ci aiutano
a prendere coscienza della situazione italiana, quindi ben vengano.
Tornando a "Life Stinks" devo dire che si nota una crescita di tutto il gruppo.
Cos'è cambiato rispetto ai Valentines di "No Time Generation"?
Davvero parecchie cose. Innanzitutto la formazione adesso si è definitivamente
stabilizzata e suona come io ho sempre immaginato dovesse suonare, e questo
equilibrio di forze è davvero stimolante per tutti noi. La differenza maggiore però, e
bisogna di nuovo ringraziare Daniel, è stata nelle voci, dove il lavoro è stato
superlativo e ci ha fatto fare miglioramenti enormi. A livello poi di scrittura dei pezzi
sto pensando sempre meno al genere che suoniamo e focalizzo la mia attenzione a
costruire un brano che sia semplicemente il più bello possibile, senza alcun
preconcetto. Logicamente le mie influenze e passioni emergono sempre, ma credo
di scrivere con maggiore libertà rispetto al passato, e questo credo che su disco si
senta.
Domanda finale: avere Vale alla voce è per voi un limite o una forza?
Personalmente non può che essere una forza e non potrei mai immaginare questo
gruppo senza la sua voce, ma anche se in questi anni abbiamo ottenuto tante
piccole soddisfazioni devo dirti che una ragazza che canta in un gruppo punk rock
non sempre è considerata come dovrebbe. Purtroppo qualche pregiudizio c'è
ancora, ma di questo ai Valentines non frega niente.
Giorgio Sala
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Contatti: www.valentinesrock.com
Brother James
Trio di Parma attivo da una decina d’anni, i Brother James (Matteo Berghenti, voce
e chitarra, Giacomo Pelagatti, basso e voce, Rodolfo Villani, batteria) tornano a
quattro anni di distanza dal precedente “Lack” con un nuovo album, “Days”, che
prosegue il discorso di un rock abrasivo, ipnotico e a tratti geometrico e contiene
due personalissimi omaggi a Lou Reed e Bob Dylan. Ecco che cosa ci hanno detto
Matteo e Giacomo.
“Days” è rimasto in un cassetto per un anno, poi vi siete imbattuti nella Black
Candy... com'è andata?
(Matteo) Nell’estate del 2004 Leonardo e Giuseppe di Black Candy, dopo aver
ascoltato il master di “Days”, ci hanno contattato dicendo che ci avrebbero voluto in
famiglia (testuali parole, con tanto di accento fiorentino), e così è stato. Per adesso
siamo molto contenti: sono due persone piene di entusiasmo con le quali ci stiamo
trovando a meraviglia e speriamo che questa sia finalmente una sistemazione
duratura, che possa consentirci di dare seguito a questi nostri primi dieci anni di
attività.
Le cover sono poco più di uno spunto, di un canovaccio per consentirvi di
elaborare qualcosa di molto personale. “One Too Many Mornings”, in
particolare, è ampiamente trasfigurata, la linea melodica quasi assente. Come
mai la scelta è caduta proprio su quei due brani?
(M) Dylan è da sempre il mio più solido punto di riferimento in campo musicale: già
in un'altra occasione almeno tentammo di ridisegnare un suo brano, “Maggie’s
Farm” se non ricordo male, ma forse non eravamo ancora maturi per farlo e
lasciammo perdere. Questa volta, invece, tutto è nato in maniera più consapevole e
forse anche il nostro stile, più marcato rispetto a qualche anno fa, ci ha permesso di
trasformare “One Too Many Mornings” in un brano dove probabilmente è difficile
sentire echi dell’originale. In realtà di Bob Dylan non ci piace tanto lo stile - o meglio,
gli stili che ha attraversato - quanto l’attitudine verso la musica e l’arte in generale,
mai prevedibile o uguale a se stessa, talvolta dissacrante nei confronti dei propri
capolavori. Per quanto riguarda la quasi assenza di una linea melodica, è una scelta
più o meno inconscia quella di lasciare il pezzo in una forma non definitiva,
incompleta, forse anche per via del mio stile vocale davvero poco incline alla
melodia.
(Giacomo) Le cover sono una bellissima palestra per lo stile di un gruppo. Su
questo disco abbiamo pagato tributo a due mostri sacri a noi cari, ma in futuro non
mi dispiacerebbe prendere un pezzo di un artista che detestiamo e farlo nostro.
C'è chi ha definito la vostra musica "abrasiva e matematica", quasi una via di
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mezzo tra certo noise'n'roll e le geometrie math rock. C'è la consapevole
scelta di un equilibrio di questo tipo?
(M) In realtà penso vi sia molto poco di consapevole in quello che suoniamo, la
musica segue di pari passo l’evoluzione delle nostre vite. Mi sono sorpreso non
poco nel leggere, nelle varie recensioni che sono state pubblicate per “Days”, che il
nostro stile risulterebbe immutato rispetto al precedente “Lack”, a più di quattro anni
di distanza. In questi quattro anni sono successe un sacco di cose, sia a livello
personale che al gruppo, e davvero non riesco a sentire questi due dischi così simili
tra loro. Da un certo punto di vista ritengo importante che l’impronta sia rimasta la
stessa, ma io colgo differenze abissali, tanto che anche nella dimensione live i pezzi
di “Lack”, se riproposti in veste originale, si inserirebbero forzatamente nel nuovo
contesto.
(G) Penso sia perfettamente naturale che dopo appena due dischi si notino più le
permanenze che non le evoluzioni. Anche se il fatto che ci sia una certa
riconoscibilità è in sé una cosa assolutamente positiva per me, credo che riuscire a
sviluppare uno stile veramente personale richieda moltissimo tempo e lavoro.
La voce è uno strumento tra gli altri. A volte è quasi “buttata lì”, con
un’attitudine che mi fa venire in mente gli Shellac. Più una faccenda di
espressività che di storie da raccontare...
(M) Esattamente. Ritengo che le liriche debbano innanzitutto inserirsi nel contesto
strumentale, perciò non scriverò mai un testo prima di aver concepito il resto del
brano. Non ritengo di essere in possesso di particolari doti poetiche, per cui non mi
sforzo più di tanto a scrivere testi scindibili dal contesto musicale. Le storie da
raccontare le lascio a chi ha le capacità di farlo, e nutro un po’ di invidia nei confronti
di chi afferma “questo brano parla di...” o cose simili: a me non capiterà mai e forse
nemmeno mi interessa, in verità. Per quanto riguarda l’uso della voce, per ora non è
mai stata preponderante rispetto agli altri strumenti, sia in termini di volume che di
presenza, in futuro non sappiamo. Ultimamente ci stiamo divertendo a provare delle
seconde voci su alcuni brani nuovi.
(G) L’ultima canzone che abbiamo partorito in sala prove è incredibilmente
orecchiabile per il nostro standard abituale, Matteo ha tirato fuori la voce come non
aveva mai fatto prima, e io ho abbozzato un paio di coretti. Il risultato ha sorpreso
noi prima di tutto.
Quella dell’analogico è una scelta che rivendicate con orgoglio. Resta il
metodo migliore per catturare i suoni, possedendo un “calore” che in digitale
non è possibile riprodurre?
(G) Non si tratta tanto di cercare di ottenere un maggiore “calore”, quanto limitare il
più possibile le manipolazioni e le alterazioni del suono che intervengono tra
l’esecuzione in studio e la riproduzione del disco da parte di chi lo ascolta. È vero
che, dovendo stampare un cd, una conversione da analogico a digitale è inevitabile.
Ma la soddisfazione di sentire, in studio, come suona la tua musica su nastro prima
di essere convertita in bit è impagabile. Il mio sogno proibito è poter fare tutto in
analogico, compresa masterizzazione e stampa su vinile bello spesso e nero. In
questo sì, mi sento totalmente “albiniano”.
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Alessandro Besselva Averame
Contatti: www.brotherjames.info
Taras Bul’ba
Non riesco più a togliere dal lettore “Incisione”, il loro cd appena uscito per la
Wallace. Ci sono gruppi che creano atmosfera, ma i Taras Bul’ba, da Milano, danno
un senso d’intrusione e irrompono fragorosi facendosi sentire e attirando
l’attenzione col loro rock pieno di buone intuizioni. Sicuramente a un loro concerto
nessuno sarà infastidito dal chiacchiericcio di chicchessia. Sarà per le melodie
incisive o per la batteria o i giri di basso, qualsiasi cosa, questi ragazzi ci sanno fare.
Com'è iniziata?
È cominciato tutto nel 1996, in un’umidissima saletta sotto un noto centro sociale. Il
progetto proviene da una costola inquieta di una band di nove elementi funky
hip-hop. Io, Roberto alla batteria con Roberto il bassista e Massimo (allora alla
chitarra), provavamo in tre solo per fare un brano perchè si favoleggiava di un
mini-cd noise da autoprodurre con tutti i crismi. Eravamo curiosi di vedere se
avrebbe funzionato. Poi ci siamo fatti prendere la mano.
Avevate già le idee chiare sul genere musicale da praticare non appena vi
siete messi a suonare o prima avete provato con qualcos'altro?
Intendevamo tradurre i nostri crescenti stati d’ansia in musica. O perlomeno
combatterli, frenarli. Insomma sarebbe dovuto trasparire un certo disagio da tutto
quel fracasso. Per ora siamo piuttosto soddisfatti e visto che la tensione persiste ci
sembra logico e naturale continuare.
Ci sono o ci sono stati altri gruppi o esperienze musicali prima dei Taras
Bul'ba?
Non siamo ventenni, bisogna dirlo, quindi tutti noi abbiamo trascorsi piuttosto
disparate. Il bassista viene dal blues e dal funky, io invece suonavo trash metal nel
gruppo dei Deathrage nei tardi anni ‘80. Noi ci siamo incontrati nella band di cui
accennavo prima. Il chitarrista attuale, Andrea, ha suonato nei Fitzcarraldo, ma
sarebbe riduttivo dire solo questo di lui per tutti i suoi meriti, in quanto incline alla
ricerca e quindi molto aperto alle collaborazioni con altri musicisti in ambiti differenti.
Vi immagino provare circondati da mura altissime e con il cielo scoperto.
Date un immenso senso di libertà, quasi come i primi Ulan Bator. Com'è nato
questo disco?
È una bella immagine. “Incisione” è solo la conseguenza di ciò che abbiamo
suonato fino a ora. La produzione ha fatto il resto. Fabio Magistrali ha compreso
molto chiaramente e in poco tempo ciò che cercavamo di realizzare e ci ha
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semplicemente agevolato trasportando su cd i nostri suoni esattamente per quello
che volevamo fossero. Nelle precedenti esperienze questo c’era riuscito solo in
parte.
Perchè Taras Bul’ba?
Non vi è un motivo preciso. Volevamo che il nome fosse musicale, chissà se lo è.
Però ci piaceva. Poi ci siamo resi conto che il personaggio di Gogol aveva delle
attitudini e un aspetto molto particolari. E poi le altre idee, poche, facevano
rabbrividire.
La vostra line-up è basso, chitarra, batteria e in due pezzi Nigè al
contrabbasso. Ci sarà anche Nigè nei vostri concerti? E come saranno
strutturati i vostri live?
Saremmo molto orgogliosi di presentare Nigè sul palco e crediamo che prima o poi
questo si possa realizzare, ma naturalmente la line-up è a tre. Per supplire a questa
mancanza suoneremo molto, molto forte e grazie all'aiuto di Claudio avremo
l’opportunità di utilizzare le nostre “voci remote” sui brani che saranno tutti quelli di
“Incisione” con in più alcuni effetti tratti dai precedenti demo.
L'uscita per la Wallace è diretta conseguenza della vostra partecipazione ai
P.O Box?
Abbiamo contattato Mirko Spino perché ci sembrava la scelta più opportuna. I nostri
lavori sono sempre stati autoprodotti, ma la Wallace è un’etichetta molto
interessante e quindi abbiamo pensato di fargli ascoltare qualcosina. Abbiamo avuto
la fortuna di aver spedito i pezzi mentre Il progetto P.O.BOX 52 era in cantiere e
così ci siamo potuti ritagliare il nostro spazio. In seguito gli abbiamo fatto ascoltare i
brani che stavamo preparando per il nuovo lavoro, abbiamo svuotato qualche
bottiglia di vino insieme e, quando il tasso alcoolico lo ha consentito, è nata questa
collaborazione. Scherzo, ma grossomodo è andata così.
Suonate spesso dal vivo?
Non così frequentemente, purtroppo, ma in futuro ci auguriamo di farlo di più.
Quali sono i vostri ascolti preferiti?
Di tutto, veramente. A seconda del periodo. E molto spesso nulla, del tutto. Non
saprei citarti qualcuno o qualcosa. In ogni caso le contaminazioni eventuali nella
nostra musica sono assolutamente casuali e non dipendono da ciò che ascoltiamo o
perlomeno, noi non ne siamo assolutamente consapevoli.
Perchè sul cd mettete solo le iniziali dei vostri nomi? Ai concerti vedremo le
vostre facce?
Non usiamo alcun tipo di maschera. Ci vedrete chiaramente. Non so se
rallegrarmene o meno, ma sarà così. Sul cd abbiamo messo solo le iniziali perché
pensiamo a Taras Bul’ba non come musicisti singoli e ben identificabili ma come a
una sola, gravosa entità.
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Francesca Ognibene
Contatti: www.tarasbulba.it
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