Søren Kierkegaard
Questo articolo vuole essere un omaggio a
Søren Kierkegaard, non ha la pretesa di
essere esaustivo nell'esporre la Filosofia di
questo Pensatore, ma vorrebbe essere una
celebrazione sincera di alcune frasi del
pensiero kierkegaardiano.
Ho pensato anche di tentare un confronto
con l'Io di Max Stirner...
Ad ogni modo spero che chi legga questo
scrittarello possa ritenerlo utile e possa
trovare magari conforto nell'avvicinarsi ai
libri di questo Filosofo...
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Qui sopra, i bellissimi disegni di Bretzeloye, che
potete trovare su DeviantArt
Max Stirner e Søren Kierkegaard:
due pensatori agli antipodi.
Egotico, idealista assoluto, anarchico e
ribelle il primo, angosciato (e angosciante),
riflessivo e tormentato il secondo.
Eppure c'è un elemento che li accomuna:
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l' IO.
Un Io visto come "Egoismo dell'intelletto e
del cuore" (per usare l'espressione di
Roberto Calasso nel suo libro "I 49
Gradini") nel caso di Stirner, ma anche in
Kierkegaard, perché nel suo "faccia a faccia
con Dio" non vi è posto per l'altro, che è
visto come "peccatore estetico" (si veda il
personaggio del "Don Giovanni").
Egoismo come autorealizzazione non solo
del proprio Io e dei desideri corporali, come
troviamo in Stirner
(ma si veda anche l'Altro concepito nelle
opere di de Sade) ma anche, in Kierkegaard,
un io visto come silenzio-raccoglimento del
e nel proprio spirito, in una comunione
autocannibalica tra il proprio sé e Dio.
(Kierkegaard era avverso alle gerarchie
ecclesiastiche)
Altra particolarità di questo Pensatore, fu
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che, apparentemente senza motivo, ruppe il
fidanzamento con la sua adorata Regina.
I motivi non sono stati chiariti del tutto, ma
l'ipotesi più attendibile è che Søren fosse
rimasto paralizzato dalla paura delle
conseguenze che il matrimonio avrebbe
apportato alla sua vita e soprattutto a
quella di Regina.
...Ma forse... si può interpretare questo suo
gesto anche così...
Søren si rese conto che il suo animo cupo e
tormentato avrebbe offuscato la bellezza e
la serenità di Regina, e temendo questo,
preferì lasciarla, per non "contaminarla"
con il suo malessere.
Amare così tanto una persona da rinunciare
a lei pur di non trascinarla con sé
nell'Abisso....
Kierkegaard è stato tra i pensatori più cupi
tra i filosofi cristiani e non stupisce che
venga considerato il padre spirituale di tutti
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gli Esistenzialisti (anche di quelli atei) così
incentrati su un IO non comunicabile,
desolato, e "gettato", abbandonato nel
silenzio, da un Dio che "guarda" ma non
interviene...
Non a caso, l'evento biblico che più
ossessionerà Kierkegaard sarà quello di
Abramo...
Il sacrificio richiesto, il sangue
dell'agnello... l'innocenza dei figli per
"lavare" le colpe dei padri... (un concetto che
permea l'intero Antico Testamento...).
La fede, vista come salto nell'assurdo, che
"bisogna fare" per poter sopportare
l'Angoscia.
Ma questo Pensatore non si limita solo a
questa riflessione.
La scrittura di Kiekegaard, febbrile,
cupissima, trova a mio parere il suo culmine
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in quel gioiello nerissimo che è il libro
dedicato al dolore e all'angoscia: "La
Malattia Mortale".
Lo stile di Kierkegaard in quest'Opera
raggiunge vette di ineguagliato
autocompiacimento, quasi masochistico, del
dolore:
dolore visto come abbandono, angoscia dei
se e delle possibilità delle scelte, di se stessi
e di Dio.
Vediamo qualche frase...
"La disperazione è chiamata la Malattia
mortale: quella contraddizione tormentosa,
quella malattia dell'io di morire
eternamente, di morire eppure di non morire,
di morire la morte...
La disperazione è un'autodistruzione, ma
un'autodistruzione impotente, che non è
capace di fare ciò che essa stessa vuole.
... Ma quanta più consapevolezza è in un
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tale individuo sofferente, tanto più la
disperazione si eleva a potenza per
diventare il demoniaco...
Un io che disperatamente vuol essere se
stesso, si addolora di quest'io, di quell'altro
difetto penoso che ormai non si può più
togliere o separare dal suo io concreto.
Proprio su questo tormento gli concentra
tutta la sua passione, che finalmente
diventa una frenesia demoniaca.
Ora se Dio nel cielo e tutti gli angeli gli
offrissero di trarlo dalla sua pena, no, ora
egli non vuole più, ora è troppo tardi.
Una volta avrebbe dato volentieri tutto per
essere liberato da quel tormento, ma lo
facevano aspettare e ora il tempo
è passato. Ora vuole infuriare contro tutto,
vuol essere colui che è maltrattato da tutto
il mondo, dal'esistenza.
Ora l'essenziale per lui è badare di avere
sempre a portata di mano il suo tormento,
l'essenziale è che nessuno glielo tolga...
Ah, che follia demoniaca, egli smania
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soprattutto per il pensiero che all'eternità
potrebbe venire in mente di liberarlo
dalla sua miseria."
E ancora:
"Questo è lo stato dell'anima in
disperazione.
Per quanto questo sfugga al disperato, per
quanto gli riesca (il che vale soprattutto per
quella specie di disperazione
che ignora di essere disperazione) di perdere
completamente il suo io e in maniera che
questo non si faccia più sentire per niente,
l'eternità rivelerà pure che il suo stato era
disperazione e lo inchioderà al suo io
in modo che diventi pure il suo tormento
non potersi liberare da se stesso. E allora si
manifesta che era un'illusione esserci
riuscito.
Disperarsi per se stesso, voler
disperatamente liberarsi da se stesso, è la
formula per ogni disperazione...
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...Nonostante tutti gli sforzi della
disperazione, quella potenza è più forte di
lui e lo costringe ad essere quell'io che egli
non vuol essere... Essere un io come vuole
lui, sarebbe (pur essendo, in altro senso,
ugualmente disperato) tutta la sua gioia; ma
venir costretto ad essere un io come non lo
vuol essere, è il suo tormento, il tormento di
non potersi liberare da se stesso."
Leggiamo ancora, nella bella analisi fatta
da Lev Sestov in "Kierkegaard e la Filosofia
Esistenziale", nel quale Sestov raccoglie e
commenta alcuni passi kierkegaardiani:
"Lo stato di innocenza comporta pace e
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quiete ma allo stesso tempo implica
qualcos'altro...che cosa dunque?
Il Nulla.
E quale effetto genera il Nulla?
Esso genera l'Angoscia."
Mentre nel "Diario" del 1846 troviamo
scritto:
"Io sono un essere infelice nel senso più
profondo del termine, un essere
costantemente inchiodato, fin dalla sua più
giovane età, a una sofferenza che raggiunge i
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limiti della follia e che è causata
probabilmente da un certo malinteso tra la
mia anima e il mio corpo... Ne ho parlato al
medico, e gli ho chiesto se tale anomalia
possa essere guarita in modo da permettermi
di realizzare il generale.
Ha manifestato dei dubbi.
Allora gli ho chiesto se non ritenesse
possibile che lo spirito, attraverso la
volontà mutasse o migliorasse in qualche
maniera questo innato malinteso.
Di nuovo sembrava dubitare.
Mi consigliò anche di non tendere tutta la
forza della mia volontà perché sapeva che
avrebbe potuto far scoppiare tutto.
A partire da quel momento ho preso la mia
decisione.
Ho accettato questa triste anomalia e queste
sofferenze (che avrebbero potuto spingere al
suicidio la maggior parte degli uomini
capaci di immaginare tutta la tortura di tale
orrore) come una scheggia nelle mie carni,
come il mio limite, la mia croce, il prezzo
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smisurato a cui Dio mi ha venduto una
potenza spirituale che non ha eguali fra i
contemporanei.
Per quanto mi riguarda, fin dalla mia più
giovane età mi è stata inserita una scheggia
nelle carni: non fosse per essa, già da tempo
vivrei della vita di tutto il mondo.....
Aiutato da questa spina nel piede, io salterò
più in alto di chiunque abbia piedi sani."
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