Giugno '09
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Giugno '09
Numero Giugno '09
EDITORIALE
Con l’estate che si avvicina a grandi passi, ecco che ha inizio anche la stagione dei festival,
sia quelli di dimensioni ragguardevoli che quelli più di nicchia e con nomi meno mainstream,
quando non decisamente sotterranei. Proprio questi ultimi rappresentano un’occasione
importante per toccare con mano lo stato di salute di una scena quantitativamente mai così
vitale e, magari, per acquistare qualche CD o, meglio ancora, qualche vinile. Perché,
chiamateci nostalgici, ma rimaniamo convinti che certe emozioni i file non potranno mai
restituirle. E proprio di due di questi festival (e di un concorso: un appuntamento che, se ben
organizzato, può rivelarsi utile per la crescita di una band) ci occupiamo nella sezione “Sul
palco” di questo numero di “Fuori dal Mucchio” on-line, cercando di ricatturarne non soltanto
i suoni ma anche i sapori e il clima. Come sempre, però, la parte del leone la fanno interviste
e recensioni, ancora una volta in quantità considerevole. Non perdiamo dunque altro tempo
in convenevoli, e vi lasciamo rinnovandovi l’appuntamento al mese prossimo, sempre su
queste pagine virtuali (ma non solo, se siete tra coloro che si stampano la versione in PDF,
disponibile cliccando sull’apposito link). Buona lettura, allora, e soprattutto buoni ascolti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Giugno '09
2Hurt
Passare dalle chitarre fragorose dei Fasten Belt ai rigagnoli acustici dei 2Hurt è un percorso
che può solo profumare di sincerità e maturità. Paolo Bertozzi non rinnega niente di quegli
anni fatti di energia e rabbia e viaggi e sfide, ma l’oggi si chiama 2Hurt (ragione sociale
condivisa con la violinista Laura Senatore): un’invocazione soffusa ma forte per un mondo
che sappia guardare al passato e proiettarsi nel futuro, con musiche che sono vita e
tradizione di e per tutti.
Paolo, una prima domanda è inevitabile: che percorso hai compiuto per passare dal
rock corposo dei Fasten Belt ai suoni dilatati e desertici di questo tuo esordio solista?
Insomma perché ad un certo punto ti sei guardato allo specchio e hai capito che il
rock non era abbastanza?
PB: Il tempo inevitabilmente ci cambia. A volte lievemente altre profondamente. Certamente
l’esperienza Fasten Belt è indimenticabile ed è parte importante della mia vita come uomo e
musicista. Comunque, per rispondere alla tua domanda, devo dire che la mia attitudine punk
rimane, ma non volevo assolutamente fare il disco del chitarrista dei Fasten Belt e alla fine
sono usciti i lati più oscuri del mio background musicale.
In fase compositiva come ti sei mosso, considerando che le undici canzoni sembrano
un unico viaggio lieve e silenzioso, direi quasi sciamanico? C’è un legame che salda i
brani o si tratta di frammenti di immagini?
PB: Ho vissuto un paio di anni bui durante i quali per combattere una depressione profonda
e pensare il meno possibile mi sono chiuso in casa con la chitarra acustica a suonare,
semplicemente, senza una particolare intenzione compositiva, Poi pian pianole cose che mi
piacevano le registravo, fissavo le idee e andavo avanti. Ciò che unisce i brani al di là del
sound credo sia il mio particolare mood del periodo, il cantato sussurrato e scuro e il suono
del violino melanconico e onirico, vero collante e sottile filo conduttore del progetto.
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Puoi fornire un’interpretazione sui testi di qualche canzone a cui tieni
particolarmente? E la copertina cosa rappresenta?
PB: Credo che il testo di “Like Another Dope” metta bene a fuoco il discorso riguardante le
liriche (“Give me strenght, give me hope, don’t think of me like another dope”). Tra
immaginario e realtà c’è sempre un “qualcuno” che chiede aiuto per andare avanti, che non
vuole essere una droga per nessuno ma semplicemente un uomo libero di sbagliare e anche
capace di chiedere scusa dei propri errori. La copertina è una vecchia foto che ho trovato
datata fine ‘800 che ho rielaborato al computer e mi ha commosso perché rappresenta un
agente degli Stati Uniti che interroga un nativo Navajo “colpevole” di abitare quelle terre. Da
questa immagine mi è nata l’idea del titolo del disco. Ho suonato musica in libertà e parole in
libertà, vuole essere un piccolo pensiero rivolto agli oppressi.
Ho letto che definisci il vostro primo album, “Words In Freedom”, un tributo alla
musica di confine, fornendogli un’ottica americana, ma i confini li abbiamo anche qui
in casa nostra e sono anche chiusi e rigidi. Hai scelto una rappresentazione
statunitense, perché non portare anche un po’ di tradizione nostrana?
PB: Il sound è certamente di confine e desertico aggiungerei spoglio, scheletrico e si sposa
bene con le storie che racconto. Storie di persone in qualche modo perse e senza speranza
che con un filo di voce chiedono aiuto o si ribellano. Conosco bene i problemi di casa nostra
e sono molto avvilito per quanto accade, ma scrivendo in inglese non volevo assolutamente
ignorare la nostra situazione e credo che in fondo i personaggi che canto vivano in ogni
paese.
Sul CD hai suonato tutti gli strumenti, ma dal vivo, escludendo la veste acustica, con
che musicisti vi presentate Laura e tu, e proponete anche qualche rifacimento, magari
dei nomi che citi come influenze Ry Cooder e Mark Lanegan?
PB: Abbiamo fatto un paio di showcase acustici suonando io e Laura, ma ora che iniziamo a
suonare il disco in giro i 2Hurt sono diventati una band di cinque elementi. Oltre a noi due ci
accompagnano dal vivo Franco Fosca alla chitarra e armonica, Michele Mancaniello al
basso (ex AK47) e alla batteria e percussioni il mio fedele amico, anche lui ex Fasten Belt,
Marco Di Nicolantonio. Nessuna cover in particolare. A volte ci piace suonare “Cortez The
Killer” di Neil Young.
Laura, suonando uno strumento come il violino, mi incuriosisce il tuo bagaglio
precedente a questa esperienza. Un percorso che parte dalla classica per arriva al folk
rock ?
LS: Il mio bagaglio più ampio appartiene sicuramente alla musica classica. Ho iniziato a
studiare violino a cinque anni e in realtà quello che ascoltavo, quindi suonavo, di più era
proprio ciò che, in parte erroneamente, viene definita classica. Ma a vent’anni i miei orizzonti
musicali si sono allargati in maniera esponenziale e tutto d’un tratto. Ho iniziato a suonare in
un gruppo cover di Franco Battiato, poi in formazioni acustiche di vario genere fino persino al
tango. Poi, ancora, è arrivata la passione giovanissima per il flamenco e quindi l’incontro con
Paolo. Tante cose, è vero, ma tutte credo coerenti con la mia visione della musica: un amore
totale.
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In che modo hai contribuito alla stesura dei pezzi e quanto ti senti partecipe e
complice dei 2Hurt?
LS: Per quasi tutti i brani il mio ascolto è arrivato dopo la prima stesura. Paolo mi faceva
conoscere le cose nuove scritte e io in prima battuta di istinto, poi con un lavoro di revisione,
aggiungevo le linee del violino. Dal mio punto di vista è stata la maniera più vera e musicale
di sentire i brani. I 2Hurt sono frutto della grande esperienza e ricchezza musicale di Paolo
Bertozzi, ma, grazie soprattutto alla sua grande generosità artistica e umana, per me
rappresentano nient’altro che una creatura anche mia, che amo e che rispetta come non mai
la mia idea di fare musica.
Paolo, hai preso “Hurt” dei Nine Inch Nails e l’hai spogliata di tutti gli addobbi gotici,
magari guardando alla versione di un maestro come Johnny Cash. Ma questa
operazione di sottrazione dimostra che forse c’è un legame anche tra artisti
apparentemente lontani. Tu pensi che ci sia una continuità tra il rock di ieri, oggi e
domani, capace anche di superare questioni di appartenenza e stilistiche?
PB: Sono convinto di sì e ritengo fondamentale non chiudersi a chiave all’interno di un
genere. Vedo la musica come la vita e quando conosco persone diverse da me che ritengo
affascinanti pur provenendo da luoghi o esperienze a me sconosciute sono stimolato ad
approfondirle sia personalmente che musicalmente. La musica è una cosa meravigliosa e ci
dà la libertà di tentare nuove strade mai percorse e mantenere vivo il fascino della scoperta,
è quello che ancora mi spinge a suonare. Hurt cantata da Johnny Cash ha accompagnato i
primi incontri con Laura e così abbiamo voluto suonarla nel disco a modo nostro, tenendo
bene a mente la lezione del maestro e svuotandola da ogni orpello, sperando di non essere
stati troppo presuntuosi. E per completare l’opera al momento di scegliere il nome della band
abbiamo pensato che essendo in 2 in fissa per “Hurt” il nome giusto fosse 2Hurt.
Contatti: www.myspace.com/2hurtmusic
Gianni Della Cioppa
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Baby Blue
In un primo pomeriggio di sole ci siamo seduti al tavolino di un bar insieme a Serena Altavilla
(voce) e Mirko Maddaleno (chitarra e seconda voce), per parlare - tra un caffè e qualche
risata - di “Come!”, vivace esordio sulla lunga distanza del quartetto di Prato.
Cosa vi interessava mettere maggiormente in luce con “Come!”?
MM: L’omonimo ep del 2006 era molto rock, ma stavolta era importante esprimere bene
tutte le sfumature dei nostri pezzi, che sono parecchio diversi fra loro.
Come procedete nel songwriting?
MM: I brani sono scritti da me, sia per quanto riguarda le musiche che le liriche. In realtà
Serena ha contribuito alla stesura di un paio di testi, ma non abbiamo potuto specificarlo per
via della SIAE. In un secondo momento io e lei lavoriamo insieme, cambiando con libertà
quel che c’è da cambiare. Il materiale di solito viene fuori già strutturato, dopodiché andiamo
alle prove e arrangiamo il tutto.
L’album è prodotto da Paolo Benvegnù, che suona anche in alcuni brani e aveva già
lavorato con voi al precedente EP.
MM: L’incontro con Paolo risale alla nascita dei Baby Blue. Conoscevamo il suo batterista,
Andrea Franchi, che abitava vicino a casa mia quando ero piccolo. In una giornata io e
Serena completammo “River”, che decidemmo di fargli ascoltare. Lui ci consigliò vivamente
di formare un gruppo, che all’epoca ancora non c’era. Il fatto che provenisse da un mondo
musicale lontano dal nostro ci faceva un po’ paura, ma alla fine ci ha fatto riflettere su un
sacco di aspetti e ha ampliato la nostra prospettiva. Durante la realizzazione di “Come!” è
andato tutto liscio, non ci sono state divergenze ed eravamo sulla stessa lunghezza d’onda.
Come avete reclutato Duccio Burberi e Graziano Ridolfo?
SA: Avevamo già suonato con loro in altre band, per cui sono stati il primo bassista e il
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primo batterista che ci sono venuti in mente.
“Come!” trasmette una sensazione di freschezza e spontaneità. Le registrazioni si
sono svolte velocemente?
SA: Sì, il disco è stato registrato in una sola settimana e mixato in altri sette giorni.
MM: Ci fa piacere che si avverta.
L’opposizione fra melodie e chitarre, i cambi veloci mi hanno fatto venire in mente
gruppi indie-rock come Pixies, Throwing Muses, Vaselines o le prime Sleater-Kinney,
ma mi sembra che anche il blues giochi una parte fondamentale.
MM: Non ci rifacciamo alla scena indie-rock, anche perché non ne siamo particolarmente
esperti. Conosciamo i Vaselines e soprattutto i Pixies. Per il resto, sono un grande
appassionato di Robert Johnson e del vecchio blues in generale, ma i nostri ascolti sono
eterogenei e comprendono anche il jazz.
Gli ultimi due pezzi del disco si differenziano dal resto della scaletta.
MM: “Old Story” suona diverso perché per la sua metà è stato l’ultimo che ho composto,
due settimane prima di andare a incidere. “About It” - che è stato scritto molto prima, anche
se il più vecchio di tutti è “Miss” - è stato invece l’unico brano registrato in una volta sola, per
di più in un corridoio e non in studio. C’era un microfono che riprendeva me che suonavo e
cantavo, mentre la voce di Serena è stata aggiunta dopo. Alcune tracce risalgono addirittura
a cinque o sei anni fa, prima che io e Serena ci trovassimo. Insomma, le canzoni coprono un
lungo arco di tempo e le più datate sono state via via perfezionate. Siamo arrivati a
registrare il disco con le idee abbastanza chiare.
SA: Era arrivato il momento di fissare in qualche maniera il materiale che avevamo a
disposizione.
Serena, non è facile imbattersi in frontwoman italiane. Come ti trovi nel ruolo e quali
sono i tuoi punti di riferimento?
SA: Mi sento “woman” ma non tanto “frontwoman”, dato che il progetto è portato avanti a
livello di gruppo. L’idea di base è quella di addolcire l’asprezza delle musiche con la mia
voce. Mi piacciono PJ Harvey, Patti Smith e Diamanda Galás, ma anche per me il
blues è un bel pozzo al quale attingere.
Come procedete con i testi e in base a cosa decidete chi canterà?
SA: Mirko mi porta i testi, che sono sempre “ad hoc”. A volte si tratta di un botta e risposta per esempio, “Eileen” - e altre volte le parole sono costruite su di lui oppure su di me.
MM: Non è sempre stabilito a priori. In certi casi scrivo immaginandomi che sia una donna a
cantare, ma la scelta diventa abbastanza chiara quando Serena prova a interpretare le
canzoni.
In certi brani avete optato per le due voci.
MM: Le due voci mi piacciono tantissimo, specie quando vanno in direzioni differenti. In tal
senso, la molla scatenante sono stati forse i Velvet Underground.
SA: Penso anche agli stessi Pixies, quando canta Kim Deal.
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La scelta dell’inglese è avvenuta in maniera naturale?
MM: Non è stata una vera e propria scelta. Le influenze che all’inizio ci hanno spinto a fare
musica erano riconducibili a gruppi che cantavano in inglese. Una volta formato il proprio
modo di scrivere, è naturale seguirlo: utilizzare l’italiano implicherebbe difatti un processo
completamente diverso. Non abbiamo mai ascoltato tanto rock italiano, per cui è difficile
trovare riferimenti che ci entusiasmino. In più ci piacerebbe proporci all’estero, quindi la
lingua ci è utile anche da quel punto di vista.
Tornando all’Italia, che ne pensate della scena toscana?
MM: I musicisti che al momento ci piacciono di più sono per l’appunto toscani: Piet
Mondrian, Samuel Katarro, ¡Viva Muerte Candita!, Dilatazione, Amore e altri ancora.
Quale è il segreto per emergere e quanto è difficile combinare vita di tutti i giorni e
musica?
SA: L’album è per forza di cose autoprodotto.
MM: Bisogna sbattersi parecchio e hai bisogno di qualcuno che ti promuova bene. È dura,
ma abbiamo comunque le nostre soddisfazioni che ci spingono a proseguire. Il vero casino è
portare avanti attività parallele: per sopravvivere devi svolgere altri lavori, ma questi lavori
devono permetterti di trovare il tempo per suonare.
Già, che mi dite riguardo ai prossimi concerti?
MM: Sul palco siamo in quatto e lo spirito di fondo è fedele al disco, sebbene alla fine si
improvvisi tanto. Magari suoneremo un po’ durante l’estate, ma la maggior parte dei concerti
arriverà a partire dal prossimo autunno.
SA: Direi che è un live scarno ed essenziale. È simpatico constatare che, specie quando
suoniamo in spazi aperti, i bambini sono gli spettatori più sfegatati in assoluto. Forse perché
colgono il lato giocoso che c’è in noi.
Vorrei chiudere parlando dell’ironica copertina del disco, che è davvero originale e di
forte impatto nella sua estrema semplicità.
MM: Lo spunto proviene da De Lise, un filosofo che scriveva anche di argomenti
cinematografici e che ho studiato al DAMS di Firenze. La copertina in bianco e nero di un
suo libro rappresentava i primi esperimenti di cinema, con un fotogramma dietro l’altro e i
vari movimenti dei soggetti: c’erano un pugile, un danzatore, un karateka e un nuotatore. Ne
abbiamo fatto per conto nostro una versione più ridicola.
Contatti: www.myspace.com/babyblue2004
Elena Raugei
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Gea
Si può apprezzare o meno la loro musica, ma la visione d’insieme, la libertà e la mentalità
dei Gea è sempre un motivo valido per fare quattro chiacchiere e fare un po’ il punto della
situazione dopo un album ambizioso – “From Gea With Love”, pubblicato solo in vinile da
Jestrai – e oltre dieci anni di carriera.
Ci ritroviamo dopo oltre tre anni da “Bailamme Generale” con un nuovo progetto, una
nuova etichetta e la decisione di fare l’album solo in vinile. Cosa è successo in questi
anni e da dove nasce questa decisione del vinile?
È successo che, come accade spesso, la celeberrima “mobilità sociale” delle band indie
italiane si è manifestata anche con noi con un cambio di line-up (turnover di bassisti). Se poi
ci metti anche nuove famiglie e figli arrivati, il gioco è fatto. La decisione del vinile invece
rispecchia varie motivazioni, sia affettive (“ci togliamo lo sfizio e facciamo un disco”) sia
musicali (“vogliamo sentire come suona la nostra musica sul vinile”). CD non se ne vendono.
Vendere per non vendere, quantomeno ci siamo levati questa soddisfazione! Nel vinile è
comunque contenuta una copia in cd del disco, in omaggio.
Il disco esce per la Jestrai, terza etichetta che vi pubblica dopo Santeria e la breve
esperienza con Il Re Non Si Diverte, come è nato questo nuovo matrimonio?
Terminata l’esperienza del Re, l’approdo a Jestrai è stato abbastanza naturale,
considerando la ormai decennale amicizia e conoscenza che ci lega. Sino ad ora i nostri
percorsi sono sempre stati paralleli e molto vicini. Diciamo che da un annetto circa si sono
anche intersecati.
Sul comunicato che accompagna l’uscita di “From Gea With Love” si legge: “... un
concept-album che sonda tutto ciò che ruota intorno al rapporto amoroso nelle sue
multiple sfaccettature”. Concept-album, vinile, una storia che si racconta... ormai siete
diventati degli inguaribili nostalgici.
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In realtà, più che di un vero e proprio “concept”, si potrebbe parlare di un “fil rouge”, di un
trait d’union tra tutte le espressioni liriche delle canzoni che concerne, appunto, l’amore.
Anche qui, è stato un caso che tutti i brani alla fine andassero a parare lì, non è stato un
processo consapevole quanto piuttosto un comune sentire che, alla fine, si è riverberato nei
testi così come li potete leggere. Non c’è stato un “disegno” preciso dietro. Sarà che di
questi tempi c’è un disperato bisogno di Amore, in giro...
È anche inteso come un regalo per i vostri fan. Quindi scelta che unisce l’utile al
dilettevole. Siete in giro da undici anni, che rapporto avete col pubblico? Qualche
tempo fa parlavamo di problemi di fruibilità per il rock cantanto in italiano, com’è
cambiata la situazione?
Non molto, purtroppo. La visibilità e gli spazi sono sempre risicatissimi, e non si vuole
investire nella musica, se non quella dal guadagno immediato. “Musica giovane” e “proposta
culturale” sono ancora parole che, messe assieme, in Italia, sono tabù: vuol dire qualcosa
tipo “Comunismo” o “spreco di danaro”... Adesso forse sembra che qualcosina si sta di
nuovo muovendo con gruppi tipo Teatro Degli Orrori, Ministri. Noi, ovviamente, per non
smentire la nostra fama di “fuori tempo” ci siamo messi a cantare in inglese! Per fortuna i
nostri sparuti ma ottimi fan ci seguono in queste nostre “peregrinazioni”.
Veniamo alle canzoni, rileggendo l’intervista che abbiamo fatto per il disco
precedente avevate dichiarato: “sei o sette anni fa era da sfigati cantare in inglese.
Oggi è il contrario. Ancora una volta, la sincerità nel porsi credo sia il fattore che
determina il successo o meno di un progetto, italiano o inglese che sia.” Il disco si
apre con una canzone in inglese ma poi ci sono anche brani in francese e altri dove
cambiate lingua addirittura nel testo... Avete composto l’album in completa libertà
seguendo l’ispirazione del momento o vi siete posti degli obiettivi più, come dire,
ambiziosi?
In questo disco più che mai ci siamo permessi il lusso di fare un po’ quel diavolo che ci
intrigava di più, quindi nessun obiettivo ambizioso ma come tu dici una sana voglia di
sperimentare, di giocare con la musica e con i propri demoni ispiratori in piena libertà. È un
disco molto istintivo come concetto (credo, infatti, sia il nostro disco più “aggressivo”, dal
punto di vista sonoro. Paradossalmente, più invecchiamo e più ci si incattivisce, mah...) ma
molto elaborato come costruzione, come arrangiamento. Dal punto di vista lirico,
semplicemente, abbiamo giocato con le parole, con gli idiomi, e abbiamo usato quelli che, in
relazione al brano, lo “vestivano” meglio a nostro avviso e che ci divertivano di più.
Ad ascoltare l’album mi sembra che questo sia il vostro lavoro più ambizioso ma al
tempo stesso il più personale e “sincero”. Ormai maneggiate la vostra “materia” con
sapienza. Sono poche le band che possono vantare un percorso lungo più di dieci
anni. Come vi sentite alla fine di questo ennesimo capitolo della vostra carriera?
Molto soddisfatti, perché nonostante tutte le gabole più o meno piacevoli della vita di tutti i
giorni stiamo continuando a fare quello che più ci piace, vale a dire fare musica e cercare di
condividerla con il maggior numero possibile di persone.
Dopo quattro album di cui l’ultimo concept e in vinile, tre etichette e svariati concerti,
come vedete il vostro futuro?
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Non saprei, non ci proiettiamo mai troppo in avanti, altrimenti non riusciamo a gustarci il
presente. Penso che comunque valga per tutti noi il fatto che sino a quando riterremo
“doveroso” e “necessario” fare musica e farla in questo modo, continueremo a farlo senza
problemi. Nel concreto, credo che andremo avanti ancora per alcuni anni, tipo dodici/tredici,
poi andremo in pensione e venderemo il marchio ai nostri figli che – bontà loro –
proseguiranno a gestire la ditta di famiglia!
Contatti: www.myspace.com/geaband
Hamilton Santià
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Late Guest (At The Party)
Nel 1995 si sono conosciuti in discoteca. Sette anni più tardi hanno deciso i formare una
band, ma altrettanti ne sono passati prima che giungessero al debutto discografico, quel
“Come Back Bobby Perù” (42 Records/Halidon) che mantiene tutte le promesse contenute
nei loro demo (gli stessi provini che fecero drizzare le orecchie a Steve Lamaq, per
intenderci). Infilati a forza nel calderone punk funk, ora che di punk funk se ne parla molto
meno i Late Guest (At The Party) possono finalmente mostrarci quanto la definizione
andasse loro stretta. Colpa di una creatività che travalica la musica e che difficilmente può
essere tenuta a bada, nondimeno ricondotta ad un’unica fonte. A partire dal titolo.
Bobby Perù è una palese citazione del personaggio interpretato da Willem Defoe in
“Cuore selvaggio” di David Lynch. Quanto cinema (o quanto Lynch) c’è nella vostra
musica?
Di cinema, nella nostra musica, non ce n’è tantissimo. Ci sono molti personaggi, più che
altro. Ci piacciono i personaggi un po’ strani a cui ricolleghiamo le cose che viviamo insieme
come band. Bobby Perù è un personaggio che guardando il film di Lynch ci aveva colpito
molto per quanto è “storto”. Per i nostri brani, prendiamo questi personaggi e creiamo un
parallelo con persone che abbiamo conosciuto per davvero.
Se il titolo allude il cinema, la copertina chiama in causa il fumetto pop.
Quando ero piccolo leggevo moltissimi fumetti e solo di recentemente ho ripreso a leggerne
diversi, trascinato dalla moda delle varie trasposizioni cinematografiche. Ammetto che
l’immaginario dei fumetti mi sta influenzando abbastanza. Per la copertina abbiamo
collaborato con Thomas Ray, un artista che ci ha colpito fin da subito con le sue opere. Lo
conoscevamo e ci piaceva parecchio, dunque è stato naturale voler lavorare con lui per
l’artwork. In generale ci piace mischiare le carte, prendere da diversi immaginari. La band ha
un po’ del mosaico, prendiamo un pezzo di qua e uno di là per ricostruire ciò che vogliamo
dire. Non a caso all’interno del disco puoi trovare un’accozzaglia di immagini un po’ malate.
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Visionarie.
Dici di aver ripreso a leggere fumetti “trascinato dalla moda”, eppure sembrate tutto
fuorché persone attente a ciò che va per la maggiore. Di contro, in molti hanno
definito la vostra musica “punk funk fuori tempo massimo”. Nel mezzo, il vostro
pubblico. Loro dove vi collocano?
Innanzi tutto non so quanto il nostro disco si possa definire punk funk. Dentro ci sono molte
cose. Non credo nemmeno che come genere sia passato di moda. I gruppi continuano a
suonarlo; semplicemente si è smesso di parlarne sui giornali. Con questa premessa, devo
ammettere che quando abbiamo cominciato, per noi era più difficile portare in giro i nostri
concerti, la nostra musica. Sembra che ora il pubblico riesca a recepirla di più e più
facilmente. Forse è ora che gli si trovi un nuovo nome.
Trovane uno tu...
Il nostro ex-chitarrista è venuto a sentire un nostro concerto e lo ha definito un baraccone,
una sorta di circo. La descrizione non mi dispiace...
Eppure l’accusa di essere “fuori tempo massimo” non può prescindere dal fatto che
siete arrivati al debutto dopo parecchi anni di lavoro. C’è il rischio che questo album
suoni come la fine di un capitolo e non come l’inizio di una storia. Quanto ancora ti
senti legato alle canzoni contenute in “Come Back Bobby Perù”?
In effetti alcuni pezzi del disco hanno anche due anni e mezzo di vita, quindi in un certo
senso è davvero la fine di una storia. Dal vivo ci diverte ancora tantissimo suonare queste
canzoni, ma ora stiamo cercando stimoli diversi e quando ci ritroviamo per scrivere nuove
canzoni ci rendiamo conto di lavorare su altri livelli... sperando nel frattempo che ciò che
stiamo incubando ora non vada di moda quando verrà inciso...
L’importante è che non facciate aspettare altri sette anni per un nuovo disco.
Quella non è solo nostra responsabilità. Da una parte, quando cominci a suonare c’è
sempre molto snobismo da parte di etichette e produttori, con tutto che noi siamo riusciti a
cogliere l’occasione al volo appena si è presentata. Più che altro abbiamo scontato diversi
cambi di formazione.
Anche perché mi pare che il rapporto con la 42 Records sia molto buono.
Loro sono i primi con cui abbiamo lavorato, siamo nati con loro, loro sono nati con noi. Ci
troviamo davvero molto bene.
Ho visto che sul sito dell’album (comebackbobbyperu.com) avete lanciato
un’operazione molto interessante per il vostro prossimo video, mettendo a
disposizione la “maschera” di Bobby Perù pronta per essere stampata, ritagliata
indossata e filmata.
Stiamo provando a fare questa operazione, vedere cosa potrebbe succedere ad
assemblare queste piccole opere creative da parte di tutti, opere un po’ caotiche, per vedere
se si riesce a tirare fuori qualche cosa di interessante, di finito, con un senso. La rete si
presta a questo tipo di operazioni... speriamo che si prestino anche le persone! È solo uno
dei tanti progetti che abbiamo in mente.
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Tanti, sì. Suonare è un’attività full time per i Late Guest (At The Party)?
Al momento, tra i nostri progetti bisogna includere anche esami universitari e alcuni lavori. A
dire il vero non conosco nessuno che riesca ad essere un musicista a tempo pieno, per ora.
Eppure “Bobby Perù”, per il tipo di produzione (garantiscono Giacomo di Fiorenza e
Alan Douches, quest’ultimo già alle prese con LCD Soundsystem e Sufjan Stevens,
Ndr) e per il buon uso dell’inglese, potrebbe essere un convincente passe-partout per
un mercato non strettamente italiano.
Paradossalmente eravamo partiti dall’Estero per poi arrivare in Italia! Sono cresciuto
ascoltando esclusivamente musica anglo-americana e quindi è normale che l’obiettivo fosse
principalmente quello. La musica italiana l’ho scoperta solo negli ultimi anni. Comunque quei
contatti sono ancora vivi, le strade sono ancora aperte.
Nel frattempo vi consolate con un’intensa attività live.
Questa estate ci aspettano date molto interessanti, anche dal punto di vista del divertimento
puro, concerti sulla spiaggia... l’ideale per il nostro disco-baraccone.
Contatti: www.myspace.com/lgatp
Giovanni Linke
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Masoko
Forti del nuovo “Masokismo” (Snowdonia/Audioglobe), i Masoko tornano sotto i riflettori a tre
anni da quel “Bubù7te” che ne aveva sancito una volta per tutte il peso specifico. Una buona
scusa per riprendere contatto con la new wave fuori fase della band romana.
La prima cosa che salta agli occhi avvicinandosi al nuovo disco è il cambio di rotta
che c'è stato a livello musicale. Si bazzica sempre in territori post-punk/new wave ma
dall'approccio chitarristico del vostro primo lavoro si è passati a un mix di synth e
chitarre elettriche spiccatamente anni ottanta...
Non lo vediamo tanto come un vero cambio di rotta quanto piuttosto come un utilizzo della
stessa rotta in modo diverso. La tappa principale rimane quella iniziale. Non abbiamo mai
considerato importante rispondere a tutti quei parametri che uno stile ti chiede e in qualche
modo ti costringe a seguire. Lo stile è importante come punto di partenza ma per andare
oltre bisogna in necessariamente superarlo. A un certo punto le nostre canzoni hanno
cominciato a pretendere di più in fatto estetico: un guardaroba più ampio, parecchi accessori
a disposizione, colori non ancora indossati. Le abbiamo accontentate. Poi ovviamente le
canzoni forti dell’importanza acquistata ci hanno totalmente soggiogati e costretti a dare tutto
ciò che chiedevano, compreso un nuovo carattere. E noi abbiamo continuato ad
accontentarle, convinti di aver fatto bene. In fondo dobbiamo tutto alle canzoni. Se lo
meritano.
A questo punto verrebbe quasi naturale chiedervi che rapporto avete con certo pop
“plastificato” tanto in voga nel decennio di cui si diceva...
Siamo affezionati al suono anni 80. Agli eccessi grotteschi e spesso ridicoli che lo
caratterizzavano, a un certo uso dell’elettronica. Del resto siamo cresciuti con quel suono di
plastica, soprattutto made in Italy. Non è però l’unico periodo musicale che ci interessa.
Siamo alla continua ricerca di oscurità discografiche. E' un’attività che stimola i nostri
ascolti. Ad esempio nel bagno della nostra sala prove c’è un salmone elettronico che canta
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le canzoni di Elvis. Un grande.
Notevole anche il lavoro sui testi, che in una formula musicale sorretta dai ritmi
incalzanti come è la vostra, scandiscono, pur con il consueto surrealismo, metrica e
melodia. Che importanza ricoprono questi ultimi nell'economia globale di un vostro
disco?
Il testo ha la stessa importanza della melodia. Interagisce con essa. L’uno diventa figlio
dell’altra in una piccola evoluzione naturale che ad un certo punto si arresta, facendo
nascere la canzone. Nella prima fase di scrittura non abbiamo mai chiaro ciò di cui andremo
a parlare in un testo. Preferiamo soffermarci molto di più sulla musicalità che possiedono
vocali e consonanti. Il linguaggio vocale è anzitutto suono. Poi, come per magia, immerse in
altri suoni, quelle sillabe assumono un senso chiaro e, inconsapevolmente, diventano parole.
Quanta ironia c'è alla base del progetto Masoko?
C’è n’è tanta dicono e forse è vero. Non abbiamo mai deciso di essere ironici a priori, ci
siamo espressi da subito come ci veniva, in un modo molto simile a cui ci esprimiamo nella
quotidianità. In seguito, sentendo quello che si diceva in giro sul nostro conto, abbiamo
scoperto di essere ironici e ci fa piacere perché solitamente chi è ironico viene considerato
intelligente.
Il disco è co-prodotto da Giorgio Canali. In cosa è stato fondamentale il suo
contributo e come mai avete deciso di rivolgervi a lui?
Durante le registrazioni abbiamo sentito il bisogno di una figura esterna che sapesse
interpretare le nostre intenzioni senza il bisogno di spiegare troppo. C’era la necessita di un
deus ex machina sensibile ed autorevole che tirasse le fila del suono. Abbiamo provato a
coinvolgere un grande e fortunatamente ci siamo riusciti. Giorgio rappresenta un’autorità
musicale. Un importante pezzo di storia della musica italiana. Fidarci di lui è stato molto
facile. Quando ti ritrovi a lavorare con qualcuno e perdi più tempo a spiegargli cosa vorresti
ottenere che a suonare, c’è sempre qualcosa che non va. La prima cosa che ci ha colpiti di
Giorgio è stata la sua capacità di entrare immediatamente nel mood masokista, senza il
bisogno di troppe chiacchiere.
Per “Musica” avete invece collaborato con gli Amari. Cosa vi accomuna alla band di
“Grand Master Mogol”?
Molte cose. Prima di tutto il cantato in italiano e la ricerca melodica. In fondo gli Amari
hanno avuto un percorso abbastanza simile al nostro. A un certo punto se ne sono sbattuti
dello stile da cui provenivano e hanno messo le loro forze a disposizione delle canzoni in
un’ottica più libera, propria della musica pop. Se per gli Amari la matrice era l’ hip-pop per
noi è stata la new wave. Entrambe le formazioni hanno comunque un amore visibile per la
musica italiana. Quando nel 2002 è uscito il nostro demo “No Tanga” eravamo nel pieno
della nostra personale era new wave. Abbiamo sorriso quando un paio di anni dopo
qualcuno ci considerava figli dei Franz Ferdinand. Eravamo invischiati nel punk-funk da
molto prima che tornasse in voga come fenomeno di revival.
“C'è chi suona per partire, c'è chi suona per ritornare, c'è chi suona per viaggiare, c'è
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chi suona per digerire, c'è chi suona per degustare, c'è chi suona per la fame, c'è chi
suona per apparire, c'è chi suona per rimorchiare, c'è chi suona per autografare, c'è
chi suona e sa suonare, c'è chi suona e non sa suonare, c'è chi suona per suonare”.
In che categoria rientrano i Masoko?
I Masoko rientrano in ogni singola categoria citata. Crediamo sia un discorso valido per
molti di quelli che fanno musica.
Uscite per Snowdonia anche con questo secondo disco. Qual è il valore aggiunto
dell'etichetta di Cinzia La Fauci e Alberto Scotti?
Snowdonia è un etichetta di culto da sempre dedita a proposte stilisticamente lontane tra
loro. È un'etichetta che sa come avvicinare gli opposti. Ogni disco Snowdonia non è mai
come il precedente ma in ognuno aleggia un sinistro senso del pop e un divertimento
“malato” e contagioso. Basta osservare gli artwork dei loro dischi. La loro estetica è ormai un
marchio di fabbrica. Anche la grafica di "Bubù7te" rientrava in questa linea. 
In un
primo momento non sapevamo ancora per quale etichetta sarebbe uscito “Masokismo”.
Stavamo valutando diverse proposte, ma eravamo indecisi. Poi, per caso, abbiamo
conosciuto Michael Venuti, un artista italo-americano che ci ha mostrato i suoi bellissimi
lavori. I suoi collage avevano molte cose in comune con l’estetica snowdoniana. Abbiamo
creduto che quell’incontro fosse un segno del destino e abbiamo chiamato Cinzia che da
subito si è innamorata di quelle immagini. Da lì alla pubblicazione con Snowdonia il passo è
stato breve. L’anello mancante per chiudere il cerchio.
Contatti: www.myspace.com/masoko
Fabrizio Zampighi
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Stearica
A disco di (enorme) sostanza, segue intervista di sostanza. Abbiamo lodato come non mai
“Oltre” (Homeopathic), il lavoro degli Stearica, inevitabile quindi andare a sentirli. Lo scambio
è avvenuto via mail, e Francesco Carlucci ci ha risposto con cura e profondità. Argomenti
anche scomodi, prese di posizione forti, ma tutto portato avanti tutti con la forza dei fatti.
Mille miglia lontani dall’agitarsi parolaio di alcuni salotti indie.
A dodici anni dalla propria nascita come identità artistica, quanto è difficile andare
“Oltre”?
È difficile abbattere certi muri culturali e vivere liberamente il proprio far musica. Molti
pensano ad essere più o meno allineati al sistema, quello stesso che filtra quanto deve
arrivare al pubblico di vasta scala. Rapportato alla musica penso sia una maniera di
trasformare il piacere di suonare in una professione frustrante. “Oltre” è stato un disco
importante nelle nostre aspettative, volevamo produrre un album che fosse bello e unico
come la nostra esperienza maturata insieme negli scorsi dieci anni. Ad oggi abbiamo
raccolto quasi novanta date con questo lavoro e spiace pensare che appena quattro o
cinque siano state suonate in Italia. Provo a cambiare appena la tua domanda e girarla agli
italiani: siamo pronti ad andare oltre?
Quali sono state le principali innovazioni stilistiche e metodologia di lavoro per
questo ultimo album rispetto al passato?
Negli anni abbiamo sempre fatto e disfatto mille volte le nostre carte. Non è un caso che
questo sia il primo lavoro pubblicato dal gruppo, probabilmente poteva essere almeno il
terzo ma è nella nostra natura quella di arrivare ad un punto per poi sentire la necessità di
fuggirlo ed esplorarne di nuovi. Questo disco è nato da session di improvvisazione pura
registrate in circa otto mesi. C’era materiale per fare un sacco di album destrutturati. Noi
abbiamo scelto dei temi, delle figure ritmiche o comunque dei passaggi che ci emozionavano
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particolarmente e poi abbiamo deciso di divertirci nell’arrangiare questo materiale utilizzando
lo studio stesso come uno strumento di composizione.
Quale dev’essere il rapporto perfetto, secondo voi, tra musicisti e produttore
artistico?
La grossa fetta della produzione di “Oltre” l’ho curata personalmente perché per varie
ragioni in quel periodo vivevamo in paesi diversi e così gli altri mi hanno dato fiducia e mi
hanno incoraggiato nel lanciarmi nel mix e nella produzione in studio che poi è diventata
l’occasione per sperimentare questo mestiere e iniziare a produrre altre band. Solitamente i
gruppi cercano nel produttore una figura distaccata dal piano della composizione e più vicina
all’ascoltatore. Come dire che tu suonando non riesci sempre ad avere la totale obiettività su
quanto stai componendo ed hai bisogno di qualcuno che interpreti al meglio la tua musica e
la sappia presentare al pubblico. In questo senso noi tre siamo già piuttosto lucidi e la fase di
produzione si sposta totalmente sul suono ed i sui colori e sulle diverse direzioni che
decidiamo di dare ad un brano. Non è un caso se poi dal vivo lo stesso brano può assumere
una connotazione completamente diversa dal disco pur mantenendo la stessa armonia.
Nell’elenco dei gruppi e artisti con cui avete collaborato e/o diviso il palco, chi sono
quelli che più vi hanno influenzato e più vi hanno insegnato trucchi utili?
Negli anni abbiamo cercato di suonare sempre e solo con band che ci piacevano davvero
perciò posso dirti che assolutamente tutte ci hanno emozionato ed influenzato. Condividere il
palco è un piacere ed un momento importante di scambio, specie quando sei in tour per
molto tempo. Non so se abbiamo cercato trucchi, sicuramente siamo appassionati di
strumenti ed effetti perciò laddove sentivamo qualcosa che ci incuriosiva particolarmente, ci
siamo confrontati e ci siamo scambiati idee e consigli. Ricordo che il tour con i Tarentel ci
aveva particolarmente segnati perché loro ci avevano incoraggiato a presentare anche sul
palco le nostre capacità improvvisative che notavano durante i soundcheck. Così nel corso
dei loro set ci hanno invitati ad improvvisare insieme a loro e da quel momento devo dire che
ci abbiamo preso gusto!
Chi sono invece quelli umanamente più bizzarri?
Beh, in tour è difficile non andare fuori! Considera che noi non arriviamo ai trent’anni ma i
più giovani con i quali siamo andati in tour ne avranno avuti minimo trentotto e quando sei a
spasso per così tanto tempo, inevitabilmente inizi a dare di matto, provare per credere! In
ogni caso con gli Acid Mothers Temple abbiamo vissuto i momenti più divertenti, una
squadra italo-giapponese è già tutto un programma e facendo le quattro ogni mattino per più
di un mese di concerti, subisci quasi una mutazione genetica!
Banalmente: quanto sorprende (o infastidisce) essere ancora sottovalutati in Italia?
Sempre ammesso che vi sentiate tali...
In realtà questa domanda non è affatto banale, anzi. Non riesco a rispondere senza
pensare a tutta una serie di realtà (non solo musicali) che non hanno la possibilità di
emergere, semplicemente perché non allineate o non ammiccanti. Gli Stearica sono una
band che suona da dodici anni e ha suonato qualche centinaio di concerti in tutta Europa
perciò, seppur con immensi sforzi, siamo riusciti a godere e far godere della nostra musica al
di là del fatto che questa non ci sostenga stabilmente. E’ vero, nel nostro paese viviamo nel
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pressoché totale anonimato e sicuramente non è divertente. Abbiamo però raccolto dei
consensi, in particolare dal vivo, che ci hanno quasi commosso, e non esagero. Un esempio
su tutti lo scorso novembre quando abbiamo suonato all’Hokaben Festival al 93 Feet East
Club di Londra, il club dove i Radiohead avevano suonato un concerto annunciato a
sorpresa sul loro sito appena poche ore prima (intasando la città per l’occasione!). Uno dei
promoter più attivi nella capitale ha poi scritto un resoconto del festival ed in particolare si
era soffermato sul nostro live dicendo che era la cosa migliore vista in tutto il festival; se
consideri che gli headliner erano ragazzi del calibro di Don Caballero, Sun Ra Arkestra, Kid
606, Fucked Up e via così, immagina quanto potessimo esser felici. Certo, t’incazzi quando
media e direttori artistici vari sfruttano il loro “potere” (divertente parola se accostata alla
musica ma pur sempre veritiera) per esaltare arte brutta e meschina, nata per esser
velocemente consumata ma del resto è la stessa violenza che raccoglie chiunque non stia
nel giusto giro o decida di seguire un proprio percorso noncurante delle regole del mercato.
Forse basterebbe solo che chi decide avesse più coraggio e preparazione, un po’ come fate
voi in questo momento dando spazio anche a gruppi poco noti come noi. Del resto è sotto gli
occhi di tutti noi dov’è arrivato il business musicale e non; seguendo questi santoni si sono
intasati i cessi.
Quali sono i vostri ascolti musicali personali? Assomigliano per lo più alla musica
che create?
Siamo tre persone profondamente diverse e di conseguenza lo sono i nostri ascolti ed i
nostri gusti. Stearica rappresenta il nostro modo di comunicare insieme, abbiamo
imbracciato gli strumenti ed imparato ad esprimerci insieme ma abbiamo mantenuto le
nostre identità. In ogni caso la musica l’ascoltiamo davvero tutta e da ogni dove, al volo
potrei dire da Nino Rota a Quark passando per il gamelan di Giava e i Motorpsycho. Che
simpatica zuppa!
Nell’ultimo decennio, Torino è stata raccontata alla scena musicale (e non solo)
italiana soprattutto dai Subsonica. La “vostra” Torino è simile, o si differenzia? Qual è
il vostro rapporto con la città?
Torino è il posto in cui siamo cresciuti e abbiamo i nostri amici, è una bella città e
geograficamente è stato il posto che più naturalmente poteva proiettarci al di là delle Alpi. A
parte questo musicalmente non vedo un movimento coeso come forse emerge dall’esterno.
Non abbiamo suonato molto in città ed è abbastanza tipico in Italia dove la maggior parte dei
promoter locali ha sempre preferito gruppi che venivano dall’esterno magari dall’estero, così
ricordo ad esempio che in un certo periodo suonavamo più a Verona che a casa!
Personalmente sono nostalgico di un posto come El Paso di qualche anno fa, teatro libero
da certe sciccherie indie ed aperto a sonorità trasversali spesso molto distanti dall’hardcore
che forse è stato il genere che più ha reso nota Torino vista la storica scena che ospitava.
Domanda finale: qual è il posto nel mondo in cui ancora non avete suonato, e
vorreste invece fortissimamente suonarvi?
Vorremmo davvero suonare ovunque e credimi lo dico consapevolmente perché nonostante
andare in tour sia comunque duro sotto tanti punti di vista, ogni volta che siamo tornati
saremmo voluti ripartire dopo pochi giorni. Il prossimo anno probabilmente voleremo in
Giappone in vista dell’uscita del prossimo disco che abbiamo registrato insieme agli Acid
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Mothers Temple e che ho appena cominciato a mixare. Questo è il primo posto che
vorremmo visitare al di fuori dell’Europa e poi per un motivo o per un altro abbiamo
rinunciato ad esibirci in Russia un paio di volte ma contiamo di recuperare prestissimo
perché siamo davvero curiosi.
Contatti: www.myspace.com/stearica
Damir Ivic
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Torpedo
Contaminazione tra generi, collaborazioni di prestigio, forme alternative di promozione.
Questo è, in poche parole, “TerraStation” (Way Out/Edel), il nuovo disco dei romani
Torpedo, un lavoro energico e ricco di nuovi spunti, che arriva dopo una lunga e accurata
ricerca stilistica. Ha risposto alle nostre domande Federico Camici, bassista storico del
gruppo.
I Torpedo ritornano sulle scene con molti legami con il passato e numerosissimi
cambiamenti, primo fra tutti l’entrata del cantante Kohra, già vocalist di
Kohra'n'Papacalura. Questa novità ha portato a qualche rivoluzione nel vostro stile
musicale?
Dopo un paio di anni di stop la voglia di ricominciare era molta. Io, David e Giancarlo ci
stavamo dedicando ad altri due progetti uno dedito all’hip hop suonato (Junglabeat Acid
Orchestra) e uno che tendeva verso la drum’n’bass strumentale (Dojobreakers), ma
avevamo da un po’ voglia di tornare alle canzoni, che per noi voleva dire Torpedo. Andrea
era in viaggio in Sud America e noi abbiamo iniziato a provare con un po’ di persone un
nuovo assetto possibile. Ma la cosa stava risultando noiosa. Trovare una nuova voce si
stava rivelando molto più difficile del previsto. Un giorno conoscemmo Kohra ed in fin dei
conti era quanto di più lontano cercassimo, ma ci piacque subito. Nel frattempo era tornato
anche Andrea. Ci fu modo di incontrarci e decidere di ricominciare assieme e questo è
quanto. Il nuovo assetto dei Torpedo era fatto. In quelle prime session non ci siamo posti
delle direttive stilistiche. Abbiamo semplicemente deciso di seguire l’istinto. Siamo persone
molto diverse e abbiamo pensato che, quando saremmo stati tutti soddisfatti, sarebbe stato il
segno che avevamo trovato la strada giusta. E così è stato. Un cambiamento c’è stato, ma in
fin dei conti era inevitabile per i quattro anni trascorsi da “L’ingranaggio”, le esperienze
maturate e il nuovo assetto.
“TerraStation” arriva dopo quattro anni da “L’ingranaggio” e si allontana nettamente
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dal lavoro precedente, sia nella forma che nei contenuti. Come nasce, quali obiettivi vi
siete posti e quali pensate di aver già ottenuto?
Guarda. Io personalmente non lo trovo così diverso... anche se devo dire che rispetto al
passato, volevamo fare un album di rottura e questo è fuor da ogni dubbio. I gruppi che
menzionavamo durante le registrazioni erano Beastie Boys, Rage Against The Machine e
Clash. Il periodo storico ci sembrava troppo patinato per non dare un segnale forte. Abbiamo
deciso di fare un disco più colorito, un po’ meno sofisticato e magari anche più speziato,
purché suonasse come un allarme. Siamo stufi di sentire Berlusconi che parla della
magistratura come di “estremisti di sinistra” e nessuno dice niente. Perché? Perché
l’abitudine rende tutto normale. La normalità uccide... e noi volevamo fare un qualcosa di
anormale. Ma prima di tutto volevamo fare qualcosa. Il nostro obiettivo era tornare con un
disco e, in fin dei conti, è quello che abbiamo fatto.
Parliamo un po’ del vostro stile compositivo. Come nascono musiche e testi? Quanto
contano e come vengono sviluppate le tematiche politico-sociali all’interno di questo
nuovo lavoro?
Non c’è un iter compositivo vero e proprio. Ogni brano ha una storia a sé, anche se c’è da
dire che “Terra Station” è album nato in sala prove. Si è iniziato con delle tessiture sonore e
di volta in volta Kohra tirava fuori melodie, iniziando a farfugliare qualche parola che prova
dopo prova iniziava a prendere senso. Poi sui brani facevamo anche lavoro di pre e post
produzione, ma mai come per quest’album i brani si trovavano ad essere già fortemente
connotati. Era come se la loro anima sentisse il bisogno di uscire da sé. Non siamo andati
troppo a cercare le tematiche politico-sociali, sono quasi loro che sono venute a bussare alla
nostra porta e noi le abbiamo semplicemente assecondate.
“TerraStation” è un album molto più sintetico rispetto ai lavori precedenti: sonorità
tradizionali, come quelle appartenenti al raggae, si fondono con l’utilizzo di strumenti
e tecniche molto sperimentali. Come siete riusciti a coniugare questi due aspetti?
Da sempre il nostro percorso è fatto di mescolanze, di crossover. E non poteva essere da
meno “TerraStation”. L’incentivo al reggae rispetto al passato viene naturalmente da Kohra,
mentre le esperienze di dub, drum’n’bass e hip hop che abbiamo fatto in questi ultimi tre
anni sono stati il motore che ci ha spinti ancor di più verso l’elettronica. È stato tutto molto
naturale.
Il testo de “La musica nel sangue” è stato scritto da Stefano Benni. Che significato ha
per voi l’aver collaborato con uno dei più grandi geni della narrativa contemporanea?
C’è qualche vicenda particolare, bizzarra o divertente associata a questo incontro?
Stefano Benni è per noi una figura importante. Siamo cresciuti con i suoi libri e quando, un
anno fa circa ci è stato proposto di sonorizzarlo in alcune letture sul tema delle morti
bianche, per noi è stata un’emozione davvero forte. E ancora più bello è stato quando
abbiamo scoperto che tipo di persona fosse. E’ davvero favoloso, semplice e aperto. Mentre
lavoravamo all’album ci ha spedito quattro testi e uno di questi lo abbiamo inserito nel disco.
Ogni tanto abbiamo anche occasione di fare dei veri e propri live con lui... Ed è sempre un
grande momento.
Nel disco sono numerose le collaborazioni e i featuring. Lee Perry, Banda Bassotti e
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molti altri: in che modo avete selezionato questi personaggi? E qual è la cosa che vi è
rimasta più impressa di questi momenti?
Con Lee Perry è successo tutto come nelle migliori leggende della storia del rock’n’roll. Lui
faceva un concerto a Roma e noi siamo riusciti ad infilarci nei camerini e a fargli sentire un
brano su cui stavamo lavorando. A lui è piaciuto e ci ha chiesto di passare la mattina
seguente al suo albergo. E così abbiamo fatto, registrando assieme a lui nella hall, per poi
andare a fare un giro per Roma, fare qualche foto blasfema al Vaticano e infine
accompagnarlo all’aeroporto. Tornando in macchina pensavo tra me e me che era assurdo:
avevamo appena collaborato con il primo produttore di Bob Marley, quello che “Rolling
Stone” ha messo tra le cento figure più influenti della storia della musica del novecento. Per
quel che riguarda Sandro e Sandokan della Banda Bassotti, loro li conosciamo da anni, così
come i Junglabeat, ed è stato naturale chiedere un loro supporto nella realizzazione
dell’album.
Per la promozione del disco i Torpedo stanno sperimentando l’utilizzo di varie forme
di viral marketing e guerrilla marketing, come i blips, l’utilizzo dei social network e i
dollari “United States of TerraStation”. Come nascono queste idee e quali risultati
state ottenendo?
Nascono dal gioco. Ci divertiamo a lanciare messaggi in ogni forma possibile, siamo troppo
curiosi e osservare le reazioni è divertente. A volte collaboriamo anche con amici per questo.
Nel caso dei blips, ad esempio, li abbiamo realizzati con l’attore Valerio Malorni e il
videomaker Diego Glikman. I dollari invece li ha realizzati il brillante Efisio Scanu, regista del
videoclip del secondo singolo “Come una cavia” e servivano il realtà come oggetto di scena,
ma ci siamo resi conto che il potere del denaro è la seconda calamita più potente dopo il
sesso e così abbiamo iniziato a giocare a lasciare in giro per la città banconote. Ma ne
abbiamo in serbo ancora delle belle...
I Torpedo hanno una grande capacità di padroneggiare il palco e di attirare sempre e
comunque l’attenzione del pubblico. Che valore attribuite alla dimensione live? Come
giudicate il feedback del pubblico, nel contesto romano e non?
I Torpedo nascono come live band. E’ la dimensione in cui senz’altro ci sentiamo più a
nostro agio e probabilmente anche quella in cui riusciamo ad esprimerci al meglio. Sarà
banale ma il contatto con la gente è una cosa troppo importante per una band come noi.
Contatti: www.myspace.com/torpedoweb
Federica Cardia
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33Ore
Quando vieni
Garrincha Dischi
Marcello Petruzzi ha percorso una lunga strada prima di approdare ai lidi della canzone in
italiano: componente di post-rocker anomali Caboto, ha dato vita al progetto 33Ore
raccogliendo lungo la via della propria educazione musicale spunti eretici e influenze ai
margini del rock – una certa indole canterburiana nel far flirtare pop surreale e soluzioni
complesse, un approccio giocoso alla sperimentazione che in Italia è stato fatto proprio da
poche e sparute individualità autoriali. Il risultato, nell'opera prima “Quando vieni” (anticipata
lo scorso anno da un EP), ci regala una vena ispirata e una scanzonata indole che sconfina
in dimensioni più intime e riflessive. Infiltrazioni etniche (L'oriente immaginato della title track,
una specie di Juri Camisasca assalito, oltre che da fantasmi interiori, dal furore espressivo
dei This Heat del secondo album, con fiati jazz innestati su una specie di raga acido e
postindustriale, davvero impressionante), momenti di maggiore allineamento alle ultime
propaggini cantautorali della penisola (“Diventi nuvola”, con un impianto più folk, il Benvegnù
più sommesso di “Cerco una ragione”), e in sostanza, nel complesso, una manciata di
esperimenti casalinghi che giocano a non fare troppo sul serio e che nella loro presunta
“incompiutezza” esprimono tutta la loro grazia. Una novità decisamente interessante, in un
panorama mediamente asfittico e autistico.
Contatti: www.33ore.it
Alessandro Besselva Averame
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Ah,Wildness!
Don’t Mess With The Apocalypse
Riotmaker/Warner
Suonerà strano dirlo, ma questo potrebbe essere il disco più importante per la Riotmaker;
suona strano dirlo, perché “Don’t Mess With The Apocalypse” non ci azzecca proprio niente
con gli Amari, gli Scuola Furano, i Fare Soldi, eccetera – qua signore e signori c’è prima di
tutta una quantità mostruosa di riff rock’n’roll, tra blues e stoner, ci sono i Kyuss, un gruppo
che la gente sul treno non la conosce, ma probabilmente ci sputa sopra e rutta in faccia.
Così, per dare un’idea. Il punto è che questo è un lavoro dannatamente buono. I riff, oltre a
essere tanti in quantità, sono molti pure in qualità, con una fragranza di suono sporco al
punto giusto (né troppo, né troppo poco). Non ci sono virtuosismi, c’è impatto, ed è
esattamente quello che ci deve essere, ma c’è anche la venatura blues a dare profondità
all’impatto suddetto. Quindi ecco: la Riotmaker si ritrova fra le mani un disco davvero ottimo,
vediamo ora cosa riuscirà a farne (fermo restando che non è che un’etichetta, da sola, possa
fare il successo del disco, ci vogliono mille fattori primo fra tutti il culo), se alla fine gli
Ah,Wildness! diventano una realtà consistente della scena musicale ne guadagnano loro, ne
guadagna la label che amplia in modo importante la credibilità e i ventagli stilistici, ne
guadagniamo noi tutti: più gruppi come questo e i Wah Companion, e l’Italia diventa un
posto migliore.
Contatti: www.ahwildness.com
Damir Ivic
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Bullfrog
Beggars & Losers
Andromeda Relix/Black Widow
C’è poco da fare: con buona pace di tutto quello che è venuto dopo, se si parla di hard rock
il decennio di riferimento sono gli anni 70 (e qualcosa di fine ’60); ed è proprio a quel periodo
che i Bullfrog si rifanno apertamente, riuscendo nella difficile impresa di suonare rétro ma
non vecchio, tali sono la grinta e il cuore che mettono nelle loro composizioni. Del resto non
è di un gruppo alle prime anni che stiamo parlando, ma di una band di veterani, o quasi: il
power-trio veronese nasce infatti nel 1993, inizialmente come cover band e
successivamente con un repertorio di brani autografi, quelli che nel corso degli anni sono
confluiti nel debutto “Flower On The Moon” (2001) e nel successivo “The Road To Santiago”
(2004), entrambi ottimamente accolti dalla stampa di settore. Una sorte alla quale anche
“Beggars & Losers” pare felicemente destinato, perché al suo interno non vi sono particolari
punti deboli: le canzoni mostrano infatti fondamenta solide, e mettono bene in evidenza le
doti musicali e interpretative dei tre, con menzione dovuta per la voce potente di Francesco
Dalla Riva e la chitarra di Silvano Zago. Whitesnake, Grand Funk Railroad e Free sono
alcuni dei nomi che vengono alla mente, ma ad arricchire ulteriormente il programma ci
pensano l’occasionale presenza di Hammond e percussioni, e qualche lieve tocco southern
e qualche pennellata acustica (o acusticheggiante). Risultato: un lavoro per forza di cose di
nicchia, o per lo meno indirizzato a un pubblico ben preciso, ma nel suo genere pressoché
impeccabile.
Contatti: www.bullfrogband.net
Aurelio Pasini
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Daniele Brusaschetto
Blasé
Bosco Rec.
Daniele Brusaschetto si ferma a riflettere su canzoni del passato e le rielabora
riconducendole a un’atmosfera che rispecchia le movenze di questi suoi ultimi lavori.
“Muoversi a ritmo di musica danzare” e “Mi sembra ieri” sono gli unici inediti che
rispettivamente aprono e chiudono il disco, non allontanandosi dalle altre canzoni per lo
spirito più calmo, più evanescente, come fosse un angelo che ti sussurra piano le
“parolacce” e ti fa notare che i sogni possono calpestarti e pretendere di poterti
ossessionare. “Trascino la mia barchetta con una grossa e pesante catena, a volte sono
l’ancora quaggiù coi relitti di mille generazioni” canta in “Trascino”. Questo disco potrebbe
essere ascoltato come una manciata di ricordi rielaborati. Canzoni nate tra il 1997 e il 2007
che andrebbero poi riascoltate anche nella versione pura o estrema. Qui le une attraversano
le altre e “Ciao bellissima”- già uscita in “Mezza luna piena” nel 2005 - ti strappa il cuore dal
petto, e senza essere sdolcinato Brusaschetto ci racconta in un’immagine nitida, un amore a
portata di orecchio. In “Chi ha la faccia scucita”- già presente dentro “Live At The Satyricon”
del 2006 - si può sentire anche la duttilità della sua voce ora grave ora sottile. In “Goffo” si
affronta un viaggio musicale tenendo per mano i Sigur Rós. Anche l’etichetta
statunitense Radon Studio si è accorta del suo talento e ha pubblicato due album del
musicista torinese: “Poesia totale dei muscoli” e “Bluviola”, dove sono contenute la prima
versione della già nominata “Goffo” e “Forse”, quest’ultima presente anche nel live.
Contatti: www.danielebrusaschetto.com
Francesca Ognibene
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Numero Giugno '09
Ear&Now
Eclipse
Wallace/Amiranirecords/Rermegacorp
L'esordio sulla lunga distanza - un Ep era già uscito per la Mail Series di Wallace nel 2003 degli Ear&Now, ovvero Xabier Iriondo, Paolo Cantù e Alberto Morelli, reca sul retro un
marchio che non passa inosservato, quello di Recommended Records. Senza nulla togliere
agli altri due marchi, Wallace e Amiranirecords, due oasi coraggiosissime nel panorama
italiano dedite contro ogni logica e buonsenso alla pubblicazione di avanguardie di qualità, la
presenza della storica etichetta fondata da Chris Cutler è sintomo della credibilità
internazionale che ha ormai raggiunto una certa scena nostrana. E questo album dimostra
che la fiducia è ottimamente riposta: un contenitore a più sponde dove si rimpallano forme
libere, nenie folk ultraterrene che riportano a certe sinfonie postindustriali presenti sul primo
disco dei This Heat, quadretti incoerentemente bucolici innestati – con tempismo perfetto tra rovine di civiltà scomparse, il jazz inclassificabile portato in dono dagli ospiti Gianni
Mimmo e Federico Cumar, l'etnomusicologia applicata di “Ai moi moi” e “Totenlob”, che
utilizzano la voce campionata di Rosa Corn, ultima esponente del canto tradizionale della
Valle dei Mocheni in provincia di Trento registrata nel 1969, una presenza inquietante e
rassicurante al tempo stesso, e una “Third Ear Dance” inequivocabilmente debitrice della
Third Ear Band e del suo rituale folk ancestrale, capace di riportarne impeccabilmente in vita
splendidamente lo spirito e l'anima. Un album importante, da accostare con cautela ma con
la consapevolezza che al suo interno si trova materiale pulsante e vitale.
Contatti: www.wallacerecords.com
Alessandro Besselva Averame
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Numero Giugno '09
Edo Notarloberti
Preludio
Yellow Moon Factory
Lo scorso 3 aprile, a Roma, ho visto Edo salire sul palco della Stazione Birra intorno alle
20:30 e scendervi quattro ore più tardi, dopo aver suonato con altrettanti gruppi, quasi senza
soluzione di continuità, nel contesto dell'"Ethereal Folk Festival".
Quando lo conobbi, diversi anni fa, rimasi colpito dalla passione, dalla semplicità e
dall'umanità di questo straordinario, infaticabile violinista che - tra un ricevimento di
matrimonio e l'altro - faceva vibrare il suo strumento nei concerti e nei dischi degli Argine.
Poi sono venute le collaborazioni con gli Ashram, con le Corde Oblique di Riccardo Prencipe
e infine - lo scorso anno - il suo debutto da solista, "Silent Prayers", pubblicato dalla Ark
Records in poche centinaia di copie. Non sono passati neppure dodici mesi ed ecco uscire
"Preludio", gioiellino strumentale in cui sono raccolti alcuni inediti ed altri episodi del
precedente CD, riarrangiati con la complicità del chitarrista Fabio Gagliardo, il bassista
Fabio Spadaro, il batterista Antonio Esposito e la pianista Martina Mollo. Pur muovendo da
un classicismo-contemporaneo à la Wim Mertens, l'artista partenopeo non può prescindere
dalla tradizione mediterranea in cui da sempre è immerso; pertanto spazia tra arie
malinconiche ("Rose And Air"), irresistibili danze ("My Gogol") e oscure atmosfere cariche di
tensione ("Dark Tango"). Un connubio perfetto tra genuino sentimento e accademica
integrità.
Contatti: www.edonotarloberti.it
Fabio Massimo Arati
Pagina 30
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Numero Giugno '09
Gina
Segreto
Il Popolo del Blues/Materiali Sonori
Reduce da una trionfale affermazione al Premio Ciampi 2008, Gina Fabiani approda, già
con il suo esordio, a una dimensione di asciuttezza definitiva alla quale molti artisti affermati
ambiscono a lungo. Una cifra di nettezza e sintesi, frutto di controllo compositivo, nonché
esecutivo. Tre-strumenti-tre: la voce di Gina, il contrabbasso di Lorenzo Feliciati e la chitarra
di Daniele Bazzani (coautore delle musiche). Niente trucco, tutto è consegnato agli
ascoltatori nella sua veste nativa. Canzoni acqua e sapone: acqua di fonte e sapone fatto in
casa con la cenere. Non cercate in Gina le obliquità di una Carmen Consoli o la raffinatezza
di una Cristina Donà. Il nitore di “Segreto” è dato dall’immediatezza. Appassionata o ironica,
sensuale o dolente, Gina coi i suoi due angeli custodi imbastisce una romantica rete di
undici tracce unplugged: “Le onde” è l’apripista (il rimando è a Nada, specie quella del Nada
Trio, e non sarà l’unica occasione); “Guardarti ridere” è un glabro jazz in stile Tenco (e non
sarà l’unica occasione); “Rapiti” è un inseguimento in settima tra voce, contrabbasso e
chitarra; “Segreto” tambureggia tra Capossela e Buscaglione. Struggente, “Le mie parole” si
muove tra (ancora) Tenco e Ciampi, mentre “Isola” volteggia come un tango. Altrove è
inevitabile ripensare all’esperienza del duo Petra Magoni & Ferruccio Spinetti. Gina “ubriaca
di rimpianti” canta alla luna, e anche se – dice lei – “le parole sono invecchiate”, le canzoni
sono invece di quelle che difficilmente vanno fuori produzione. È blues, è musica leggera
(magari da camera), è chanson, è “piccola canzone d’amore”, è folk d’autore. Quello che
colpisce di Gina & Friends è la capacità di produrre molto con (apparentemente) poco,
restituendo significato pieno alle parole e alle note.
Contatti: www.myspace.com/ginaesegreto
Gianluca Veltri
Pagina 31
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Numero Giugno '09
H.U.G.O.
Equilibrium
Fridge/Goodfellas
Ecco un perfetto esempio di quando un gruppo è perfetto e quindi dovrebbe cambiare
(quasi) tutto e ricominciare da capo. Sono bravi, gli H.U.G.O.; lavorano molto bene, suonano
a puntino, producono con tecnica inappuntabile, addirittura se vai a percorrere il web per la
varie info scopri che hanno fatto un sito davvero originale e ben construito, dove per giunta
nelle note personali scopri con infinito piacere riferimenti musicali non banali (Bugge
Wesseltoft in primis, che chi scrive queste righe ama non poco). Tutto perfetto, appunto.
Anche “Equilibrium” lo è: lo ascolti, e ascoltando hai a prima vista la nitida sensazione che
non ci sia nulla fuori posto, sia nella scrittura che negli arrangiamenti. Ma allora? Quindi?
Quindi, non basta. La trappola in cui i quattro H.U.G.O. sono caduti è la stessa in cui sono
finiti molti gruppi ispirati dalle vie bristoliane, tutti i figli – diretti o spurii – del trip hop: tutto
perfetto, ma in qualche modo poco incisivo proprio a causa di questa apparente perfezione.
Succede quando si scambia la levigatezza e la precisione per profondità. Due i consigli:
diventare più taglienti ed irregolari (lo sono i migliori Lamb, un riferimento tra l’altro evidente
per il gruppo), piazzando degli scarti ritmici e armonici improvvisi nei pezzi; rifinire meglio
l’alchimia tra la parte vocale e quella strumentale, giocando anche lì più sui contrasti. Certo
però che a scrivere queste cose siamo anche imbarazzati, perché non ci sentiamo a nostro
agio nel dare queste lezioni ex cathedra a musicisti che comunque dimostrano di essere
assai preparati e che nel produrre questo “Equilibrium” hanno messo la massima cura.
Contatti: www.h-u-g-o.net
Damir Ivic
Pagina 32
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Numero Giugno '09
LEF
Mostri
Toast/CNI
Non ce ne vogliano i diretti interessati, ma non siamo riusciti ad appassionarci a questo
“Mostri”. E non tanto per supposte carenze tecnico-interpretative di chi suona – i LEF
possono vantare oltre dodici anni di carriera alle spalle – quanto per una difficoltà evidente
nel trovare una chiave di lettura efficacie per il disco. Qualcosa che vada oltre il considerarlo
soltanto un campionario di new wave mista a psichedelia con tanto di chitarre elettriche
compresse e toni monocordi a fungere da biglietto da visita. A nulla valgono i testi in italiano
e il cantato à la Giorgio Ciccarelli periodo Sux! che completano il quadro, se non a
confermare l'impressione che ci si trovi davanti a un disco poco incline a mostrare una
personalità forte. Tanto che pare quasi esclusivamente il mestiere e non la creatività a
guidare i passi della formazione salentina, che si parli degli spigoli di “Graal” o dei toni
evocativi di “Calice”, dei crescendo di “Camera oscura” o delle inquietudini vagamente à la
Marlene Kuntz di “Centro rosso”. Insomma, capacità di contestualizzare, buone conoscenze
musicali, suoni curati, ma scarsa originalità. E in un genere come la new wave l'originalità è
(quasi) tutto.
Contatti: www.myspace.com/thelef3
Fabrizio Zampighi
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Numero Giugno '09
Mamamicarburo
Barcelona
4T Records
Dopo un terzo album che strizzava l’occhio a sonorità più moderne realizzato con il vocalist
Luca Ferro, per i Mamamicarburo – tre lustri di storia spesi a suonar rock di pancia e di
ironia – è stato praticamente inevitabile ricongiungersi con l’istrionico Matteo Morgotti, l’ugola
storica del gruppo (oltre che cantante formidabile), personaggio troppo folle e carismatico
perché i fan non ne chiedessero l’immediato reintegro nei ranghi. La band di Correggio –
anche in questo quarto capitolo sempre sostenuta dal produttore artistico Fabio Ferraboschi,
autentico quinto componente aggiunto – sciorina una tecnica strumentale di valore, e il
chitarrista Jonhatan Gasparini recupera tutto l’ardore di un tempo per comporre pezzi istintivi
e cantabili, ma fortificandoli di un tocco di maturità che prende le forme di una strana
malinconia. Strana perché i Mamamicarburo sono da sempre divertimento, cazzeggio,
bevute in compagnia e musica a tutto volume, ma prendiamo felicemente atto che in questo
album accanto a brani dal taglio classico il gruppo è capace di sorprenderci con “L’estate è
sempre inutile”, un lento sostenuto da una linea di basso in minore in cui appare un velo di
rassegnazione, confermata dalla title track, sorta di meta per provare i ricominciare.
Naturalmente non mancano i rock ad alto voltaggio, pieni di sarcasmo e sballo, basti
ascoltare “Mama Uber Alles”, “Schmerzmittel”, dove Teo gioca ad imitare gli urlatori heavy
metal, o l’irruenta “Plaster Caster”. Ma è confortante scoprire che i Mamamicarburo, pur
mantenendo inalterata la componente da sballo, abbiano cercato di offrire un volto più
adulto, cosa che non intacca minimamente il loro valore. Vale la pena confermare che dal
vivo i quattro emiliani sono una delle cose più coinvolgenti che il rock italiano abbia mai
offerto. Dispiace solo che non abbiano mai ricevuto attenzione che meritano. Che sia la volta
buona?
Contatti: www.myspace.com/mamamicarburo
Gianni Della Cioppa
Pagina 34
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Numero Giugno '09
Massimiliano Larocca
La breve estate
Pomodori Music/Venus
Finalmente un giovane rocker che non guarda solo pedissequamente oltreoceano e che
mostra tracce della classe dei nostri maestri. Massimiliano Larocca è un trentenne di Firenze
che con l’album “La breve estate” si impone come cantautore di livello, sul solco della
tradizione italiana ma strizzando l’occhio al sound folk e rock della certamente amata
America (nell’album non mancano apparizioni importanti, fra gli altri il fisarmonicista Joel
Guzman o il chitarrista Andrew Hardin). Si parte subito bene con “Un’altra città”, ballata
chitarra, batteria e piano che precede “Terra di abbondanza” e “L’uomo qualunque”, testi
contadino e confidenziale, entrambe narrative e intense, in cui viene esaltata la voce
profonda e pulita di Larocca. “I ragazzi del vicolo” è un bellissimo folk basato sull’organetto,
mentre “La breve estate” si avvicina alle enfatiche atmosfere del rock americano più
classico, con un bel sax finale. Struggente la storia della nonna di “Maria delle montagne”,
mentre “Anima mundi” è un’analisi particolare sulle teorie di Giordano Bruno. “La petite
promenade du poète”, divertente jazz-swing, è un testo di Dino Campana che testimonia il
legame fra Larocca e Massimo Bubola, colui che insieme ai Gang più recenti, sembra
essere una sorta di punto d’arrivo per il fiorentino. “Un uomo in rivolta” è vicenda di ribellione
basata sulle chitarre acustiche, “Tristessa” omaggia Kerouac, il suo Messico e i suoi amori
maledetti. “Svegliati Nino” è una triste storia di emarginazione e povertà. L’allegria torna con
il country di “Dimmi tu fiore”, che precede il ricordo doloroso di “Le ceneri di Pasolini” e la
conclusiva, corale, springsteeniana “Il nome delle cose”, costruita su un Hammond perfetto.
Nel complesso un album di spessore, certamente non di rapida presa e forse un po’ lungo,
ma che ci consegna un artista decisamente interessante. Uno di quelli di cui la musica
d’autore ha bisogno. Ed è in arrivo un disco che parla di fuorilegge, in cui Larocca collabora
con Bubola, Russel e Allen. Sarà una sorpresa.
Contatti: www.massimilianolarocca.com
Marco Quaroni
Pagina 35
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Numero Giugno '09
Maya Mountains
Hash And Pornography
Rocky Rocketz/Go Down/Audioglobe
A dispetto di un noto proverbio, a volte l’abito fa il monaco; o, per dirla all’inglese, vi sono
casi in cui è possibile giudicare un libro – un disco, in questo caso – dalla copertina sicuri di
essere nel giusto. Succede allora che, guardando al disegno sulla cover del debutto dei
veneti Maya Mountains, venga subito in mente una parola: stoner. E l’ascolto lo conferma: la
musica del trio è tellurica, magmatica, pesante come un riff dei Black Sabbath e furiosa
come il punk, incandescente come la sabbia di un deserto sotto il sole e psichedelica nel suo
incedere mesmerico. Niente di nuovo, verrebbe da dire, ma fatto davvero bene, con brani
che si insinuano nel cervello e lo sciolgono sommergendolo sotto colate di suoni bollenti.
Complice la presenza in cabina di regia di due personaggi come Giulio “Ragno” Favero e
Manuele Fusaroli (responsabili rispettivamente delle registrazioni e del mixaggio), poi, “Hash
And Pornography” suona alla grande, pur conservando quella patina di viscerale sporcizia
indispensabile per rendere un lavoro del genere credibile. Insomma: da qualsiasi punto di
vista lo si guardi, il disco non ha particolari punti deboli, ed è destinato a conquistarsi un
posto nei cuori di quanti – nostalgici, indubbiamente, ma meno passatisti di tanti altri –
piangono ancora per lo scioglimento dei Kyuss.
Contatti: www.myspace.com/mayamountains
Aurelio Pasini
Pagina 36
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Numero Giugno '09
Mercury Drops
Love Is The End
Smoking Kills
La tentazione di iniziare questa recensione con uno degli incipit più famosi nella storia delle
barzellette è forte. Dunque: c’è uno svizzero, un messicano, un serbo e un italiano...
Il finale invece va preso un po’ più sul serio poiché è proprio da una tale mescola geografica
che nascono i giovani e promettenti Mercury Drops. Di residenza a Milano – perché da
qualche parte bisogna pur piantare le tende – la band esce ora con l’album di debutto, “Love
Is The End”, un lavoro compiuto ed omogeneo sia a livello compositivo che stilistico,
caratteristica assai rara e che nel loro caso emerge fin dal primo ascolto. L’apertura affidata
ad un brano convincente come “Boys”, infatti, segna quello che sarà il livello generalmente
alto del disco, grazie ad un indie-rock confezionato a dovere. Purtroppo è proprio in questa
perfezione che si registrano i punti più sensibili, quelli facilmente attaccabili. Ammettiamolo:
ogni giorno si ascoltano misteriosi cloni di gruppi misteriosamente famosi, siano essi
americani, inglesi o macedoni. Di questi siamo pronti ad indossarne la spilla prima ancora
che scrivano un brano; quando a provarci con medesimi risultati sono i nostri vicini di casa è
come se avessero firmato da soli la propria condanna a morte. Peccato. Peccato perché
“Mechanical Man”, un po’ electro, un po’ Duran Duran, (un po’ Killers, insomma) è uno di
quei brani che potresti ballare tutta notte. Peccato perché quando i Mercury Drops decidono
di incidere una cover la scelta non è affatto banale (“Eisbär” dei Grauzone di “quel”
Stephan Eicher). E ancora peccato perché la conclusiva title track è una di quelle ballad
uptempo che non dicendo nulla di nuovo riesce comunque ad emozionare.
Contatti: www.myspace.com/mercurydrops
Giovanni Linke
Pagina 37
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Numero Giugno '09
Metúo
Toy Shop
Black Candy/Audioglobe
Incomincio a pensare che di certa giocattolosità indie, con tutti i suoi pupazzetti di pezza e
le sue carinerie fragili non sia più possibile sbarazzarsi. Ma questo è solo il primo impatto,
magari troppo pregiudiziale, di fronte all'ennesimo progetto che si propone, almeno
esteticamente, su queste direttive: nato una manciata di anni fa dagli sforzi congiunti di
Giorgia Angiuli e Tommaso Bianchi, nucleo musicale di Metúo, e dal contributo della
parigina Amélie Labarthe, designer tessile specializzata nella creazione di bambole per
l'occasione prestata al ruolo di cantante, “Toy Shop” è un lavoro che nella sua parte
strettamente sonora riprende un filone abbastanza affollato, quella dell'indietronica,
assemblando una specie di terza via tra Client e Isan che convince più nei suoni,
nell'integrarsi di tastierame bucolico e orologerie ritmiche che nella scrittura delle melodie
vocali, a tratti un poco banali o quantomeno già sentite in migliaia di dischi. Tra i momenti
migliori, gli anni Ottanta sminuzzati in frattali IDM della title track, una rievocazione non
troppo nostalgica guidata però da bassi digitali dall'inconfondibile sapore. In sostanza, una
via di mezzo interessante, non particolarmente innovativa ma assai più solida di quanto la
suggestione “di pezza” ci facesse temere. “Toy Shop” è un buon disco. Non irresistibile, ma
piacevole quello sì.
Contatti: www.myspace.com/metuo
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Numero Giugno '09
Microlux
Weiße
Videodrome
Sound design, ambient-song, musica da film. Sono alcune delle categorie a cui si può
pensare ascoltando il primo album dei Microlux, band di pop elettronico di stanza in
Campania. La cantante e compositrice Linda Edelhoff vinse un vecchio “Arezzo Wave” e fu
finalista a un Recanati; il bassista Fabio Colasanti proviene dall’arte visuale, mentre il
chitarrista Peppe Biondi si è dedicato alla musicoterapia. Il trio italo-tedesco è espressione di
un minimalismo electro di stampo nordeuropeo, grondante glitch, un po’ trasognante, che
giunge al suo debutto discografico dopo anni di attività. Mi esprimo in minimale”, dice in un
brano la Edelhoff, che canta in italiano, tedesco e inglese. “Weiße” (in tedesco significa
bianco, pronuncia “vàisse”) è un disco dai toni chiari, che a tratti confina con una new-age
dai toni aperti, costruito su cellule iterative, su micro-fraseggi chitarristici e sul canto
multilingue della Edelhoff. Colasanti è anche il responsabile della programmazione dei suoni,
che è infine la cifra più cospicua dell’album. Biondi ha un passato wave, e dalla somma di
queste specificità si coglie anche il motivo di un possibile accostamento ai Cocteau Twins,
specie quelli della fase finale di carriera. Menzione speciale per “Die Rosen sind
gesprossen” (‘le rose sono germogliate’) e “B. Yoshimoto”, che indica uno dei possibili punti
cardinali nell’estetica del gruppo, mentre “Sono cattiva”, dalla melodia accattivante e
circolare, è graziosamente addobbata dai suoni del glockenspiel.
Contatti: www.myspace.com/microlux
Gianluca Veltri
Pagina 39
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Numero Giugno '09
Minnie’s
L’esercizio delle distanze
Sangue Disken
È un disco scomodo questo nuovo dei Minnie’s, perché ti sbatte in faccia le cose senza filtri,
così come stanno: il disagio, la tensione, la disillusione... Sentimenti e sensazioni che la
formazione milanese traduce in musica con rara efficacia, facendo incontrare la tradizione
punk con l’indie-spleen smithsiano, l’emo-tività dei Get Up Kids con il power-pop dei Tre
Allegri Ragazzi Morti. Batte forte il cuore tra queste tracce, non però per lo stupore – tanto
per citare Ruggeri – bensì per le emozioni forti che si susseguono al loro interno, tra chitarre
spigolose, ritmiche muscolose e un cantato intenso e al tempo stesso accattivante. E, anzi,
proprio la capacità di creare melodie (relativamente) orecchiabili senza scendere ad alcun
compromesso musicale pare essere una delle armi vincenti del quartetto lombardo, capace
di convincere tanto nei momenti più rabbiosi e potenti (“Per cosa si uccide”, un potenziale
inno) quanto in quelli più notturni e di atmosfera (la prima parte di “Mai più fiori scuri”). Non
dispiace la cover di “Death Or Glory” dei Clash, ribattezzata “Dentro o fuori” e posta in
chiusura della scaletta, anche se forse mal si inserisce nel clima dell’album. Poco male,
comunque, perché tutto sommato si tratta di una nota a margine di un lavoro maiuscolo, che
meriterebbe tutta la visibilità possibile.
Contatti: www.minnies.it
Aurelio Pasini
Pagina 40
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Numero Giugno '09
Nicker Hill Orchestra
All The Different Deaths... And Rebirths
In The Bottle
Inizia con un intreccio di arpeggi chitarristici che si compenetrano fino all'interpolazione.
Termina con un carillon e una sensazione di calma e fragilità disarmante. In mezzo, in
cinque tracce mai singolarmente inferiori ai sette minuti, esplosioni e implosioni ora
acustiche, ora distorte trascinano l'umore come l'amo infilzato nel labbro di un pesce di
dimensioni considerevoli, su e giù dal pelo dell'acqua a ogni strattone, il continuo rituale del
dare e togliere lenza all'animale. “All The Different Deaths... And Rebirths” dei Nicker Hill
Orchestra è un disco post-rock inteso nella sostanza attuale del termine, ovvero
Mogwai-Tortoise-Explosions In The Sky, ma che sovente infrange i limiti del genere grazie
all'esperienza di chi ha fatto gavetta in piccoli locali del Nord-Est, centri sociali dispersi nella
provincia, circoli ARCI dalla metratura irrisoria e privi di palcoscenico. Si arriva quasi a
sovvertire le regole del sistema nella quarta traccia, “Shit You!”, che parte deflagrando
distorta per poi acquietarsi verso il quinto minuto, e dove una voce cantilenante si tramuta
nel quinto strumento dell'orchestra (l'unica altra voce è nella seconda traccia, e produce più
o meno lo stesso effetto). Sale la voglia di provare i Nicker Hill Orchestra dal vivo. Farsi
catturare all'amo dalle prime note e lottare a ogni strattone, esplosione o implosione,
dondolando le testa insieme alle loro con gli occhi rigorosamente serrati, nel continuo rituale
post-rock del dare e togliere lenza all'ascoltatore.
Contatti: www.myspace.com/nickerhillorchestra
Marco Manicardi
Pagina 41
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Numero Giugno '09
Norman
La rivolta dei bambini blu
Fosbury/Audioglobe
Massimiliano Bredariol, già nei Virna, negli Artemoltobuffa e attualmente batterista dei
Valentina Dorme, ha creato un progetto nuovo, un gruppo con Redi Buonaventura, Matteo
Battirossi, Stefano Papandrea e Simone Zaffalon. Tutti musicisti “navigati” che si sono messi
assieme per questo primo capitolo che parte con un loro background nella composizione
delle canzoni in italiano, rappresentante già di per sé una buona base. Aggiungendo a
questa base la loro anima compositiva con dei testi ben scritti che definirei elettrizzanti e
degli ottimi arrangiamenti delle musiche: ecco allora che “La rivolta dei bambini blu è fatta”.
Bredariol ha il volto malinconico e attanagliato dalle emozioni che lo assalgono ogni minuto,
come succede a tanti di noi, con la differenza che le sue manine le sanno riportare in musica
tramite delle note buone e le sue parole devastanti che in modo candido ti parlano di morte,
di nodi in gola, della fine di una storia, delle disillusione. “Adorandoti per lo più all’aperto ora
ti senti a tuo agio e mi sento a mio agio, ma le cose sbagliate non cambiano, ma poi”, Max
canta nella stessa canzone “salirò”, quindi non tutto è perduto. Un cantante da tenere amato,
Max. La sua fragilità che riaffiora dalle parole ci parla e non mente. La musica è una folata
gigantesca di fiori che ci copre di colori e prende le parole e le nasconde nella loro crudezza
e le conclusioni delle canzoni danno l’idea di una grande festa di note e dopo una
spennellata di blu al momento buio, lo stesso diviene nuovo di pacca, giusto quello che ci
serviva per ricominciare daccapo.
Contatti: www.myspace.com/nnormann
Francesca Ognibene
Pagina 42
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Numero Giugno '09
Ofeliadorme
Sometimes It’s Better To Wait
autoprodotto
Sono un quartetto gli Ofeliadorme, ma nascono come duo acustico; non è quindi un caso
che, senza nulla togliere al contributo comunque interessante e non banale della sezione
ritmica, siano gli intrecci di plettri e corde, sovente con la spina staccata, a caratterizzare
maggiormente le canzoni contenute in questo EP d’esordio. Quelli, e la voce di Francesca
Bono, efficace nel tratteggiare paesaggi interiori chiaroscurali e ricchi di sfumature. Sei le
canzoni qui contenute, che convincono dal punto di vista sia compositivo che degli
arrangiamenti, all’insegna di una cura notevole per i dettagli e gli incastri senza però che
questa vada mai a discapito dell’onestà e dell’intensità del tutto. Dalla filo-radioheadiana “To
Wait” ai sussurri di “The Ballad Of The Bitter End”, passando per i progressivi riempimenti
della lunga “New Pieces Of Science” e il fascinoso intimismo di “6:17 PM”, il dischetto – la
cui scaletta è completata da “Bells” e “This World”, non da meno dei titoli citati poc’anzi –
mette in luce idee e soluzioni davvero notevoli, a dimostrazione di come l’ensemble
bolognese abbia potenzialmente un futuro roseo di fronte a sé. Sia che si ami l’indie-rock sia
che invece si preferisca il cantautorato – non necessariamente al femminile – più
introspettivo, il nostro consiglio è di segnarsi il nome degli Ofeliadorme, in virtù non soltanto
delle soddisfazioni che potrebbero riservare in futuro ma anche di quelle che già oggi sanno
regalare.
Contatti: www.ofeliadorme.it
Aurelio Pasini
Pagina 43
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Numero Giugno '09
Omparty
L’isola della pomice
Picanto
Nuova avventura per Leon Pantarei, alias Leo Vulpitta, immaginifico percussionista. Chiusa
l’esperienza dei Pantarei, alfieri d’una stagione indie-etno che svoltava verso un
neotribalismo elettronico, Leon è ora leader di un trio che annovera Roberto Cherillo alle
tastiere e Pasqualino Fulco alle chitarre (entrambi bravissimi). Lunghe suite, d’atmosfera,
che si nutrono della loro stessa dilatazione: espongono il tema, se ne allontanano, poi vi
fanno riapprodo, sfibrate. Lui, Leon, lo chiama “folklore immaginario”. Se Miles Davis e
Nusrat Fateh Ali Khan sono i dioscuri di questa traversata misterica, Toni Esposito e Robert
Fripp stanno appena dietro. Ma anche Henry Mancini (la sorniona title track “L’isola della
Pomice”) e Bernard Herrmann (“Sempre sei”) danno conto di una vocazione che da
sciamanica e mantrica sa farsi visionaria, cinematica. A cinque delle sette tracce prestano i
loro fiati d’autore il trombonista Joseph Bowie (fratello d’arte) e l’ottimo Luca Aquino, che
lascia, quest’ultimo, tracce di tromba sabbiosa, terrosa, quasi si muovesse circospetto in un
“quarto mondo” di Jon Hassell. Pantarei sa come alternarsi coloristicamente tra bendir e
darbuka, tamburi del Niger e djembe, cimbali e conga, regalando anche sprazzi di scat e
brevi versi in calabrese. Non è più tempo di cartoline dal Sud, di un meridionalismo patinato
di sudore e tramonti. Vulpitta e i suoi Omparty guidano una nuova release del folk, un
etno-jazz, se volete, “immaginario”.
Contatti: www.myspace.com/omparty
Gianluca Veltri
Pagina 44
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Numero Giugno '09
Paolo Cattaneo
Adorami e perdonami
Eclectic Circus/Venus
Trame jazz alla Marco Parente, intensità e timbro Paolo Benvegnù, morbidezze evocative
Radiohead seconda maniera. Paolo Cattaneo è questo e molto di più. Tra musica leggera,
inflessioni colte e canzone d'autore. Quest'ultima, verrebbe da dire, di scuola romana, anche
se il Nostro arriva da Brescia. Almeno a giudicare da alcune suggestioni sparse e dalla
presenza di Riccardo Sinigallia tra i crediti del disco. Uno che con certe cadenze notturne
traffica dai tempi dei Tiromancino e che qui si occupa di co-produrre assieme al fratello
Daniele e allo stesso Cattaneo. Ne nasce un'opera intrigante, crepuscolare, quasi onirica,
capace di sottendere un fascino sottile tra Rhodes e chitarre elettriche, elettronica di
contorno e vibrafoni, archi e ottoni. Uno scorrere sottopelle etereo e difficilmente
classificabile, tuttavia complementare alla poetica intimista e “volatile” dell'autore. Unico
difetto di questo terzo episodio a nome Paolo Cattaneo, l'involontario abusare di qualche
cliché formale e melodico proprio del contesto musicale che si citava in apertura. Particolari,
per intenderci, strettamente legati al lavoro e allo stile musicale di Sinigallia. Per un disco
che comunque mostra classe da vendere e ha il pregio di mantenersi interessante anche
dopo ascolti ripetuti.
Contatti: www.myspace.com/paolocattaneo
Fabrizio Zampighi
Pagina 45
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Numero Giugno '09
Paolo Spaccamonti
Undici pezzi facili
Bosco Rec.
Paolo Spaccamonti è al suo esordio discografico e già ci offre una prova molto lucida. Le
chitarre elettriche e acustiche sono le protagoniste di “Undici pezzi facili”, ma la guest star è
l’arte del rumore. Un progetto strumentale quale è questo dovrebbe aver bisogno di una
forza sovrannaturale per competere con la forma canzone, con le parole che attizzano o
irrompono, poetizzano e puntualizzano, con discorsi amorosi o disordini emotivi. Ebbene, il
disco in questione ha tutto questo e anche di più. Intanto con un cognome così non potrà
non avere un futuro radioso ma il talento c’è e lo respiriamo quando arriva con un
crescendo che s’innalza a nuove prospettive - quelle che magari ci dimentichiamo di vedere
– in “Fine della fiera pt. II”. Alla fine della canzone il passo tranquillo sembra trovare la via
più tortuosa e si autofrantuma come spesso avviene per le belle notizie che diventano
illusioni. E dietro i paraventi battuti dal basso robusto di “Drones” mi sembra di immaginare
un uomo sopraffatto dai suoi piccoli sbagli che, unendosi, diventano un grande errore e
portano allo sfacelo. Queste comunque sono le mie emozioni e per voi che lo ascolterete
saranno di certo diverse; possiamo comunque dire che è un disco di chiari e scuri, di
speranza e fine dei giochi. Un disco che si adatta alla lettura emotiva di chi l’ascolta, come in
“Tex” con il violoncello dell’ospite Beatrice Zanin che sembra girare velocemente l’album dei
ricordi e il contrabbasso dell’altro ospite Marco Piccirillo che segna il sospiro malinconico
ripensando a vecchie ferite. Un disco che vi leggerà dentro.
Contatti: www.myspace.com/paolospaccamonti
Francesca Ognibene
Pagina 46
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Numero Giugno '09
Posi
I Like Posi!
Electronoplectro/Self
Buon disco per Posi – una delle persone che negli anni più si è data da fare per emergere
nello scenario del rap italiano, senza trascurare strade che esulano dal circuito autentico e
tradizionale (e talora troppo autoreferenziale) delle faccende italiche di hip hop; scelta talora
rischiosa, che alla fine fa comparire sul tuo comunicato stampa cose tipo “È diventata l’icona
per eccellenza della comunità gay lesbo italiana” o anche “Chiambretti stravede per lei”, frasi
che potrebbero da un lato essere ottime scorciatoie promozionali dall’altro degli autogol mica
da ridere, in fatto di credibilità. Ma Posi comunque la statura artistica (ed anche umana) ce
l’ha, e riesce quindi a venire fuori dalle secche dell’esser più fenomeno di costume che altro.
Anzi: le consigliamo di insistere nel produrre più pezzi come “Esaurimento” che quelli come
“I Like Paris”, anche se col secondo guadagni più attenzione mediatica nel breve periodo.
Può diventare una voce davvero importante nel panorama musicale italiano, ora che ha
affinato il suo rap, calibrando bene le sillabe e sfrondando i verbosismi, e che ha trovato
degli ottimi partner musicali – il lavoro di Mace (aiutato talora dall’ex Casa Del Fico Zizzetto)
è infatti molto valido, sintonizzato sulla contemporaneità (tra Diplo e i Crookers, per dare una
descrizione molto a spanne) e con suoni ben rifiniti. Basi su cui Posi si adagia alla
perfezione, come accenti e piglio. Lavoro molto solido, insomma, e piuttosto interessante.
Contatti: www.myspace.com/poskee
Damir Ivic
Pagina 47
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Numero Giugno '09
Roots Connection
Animystic
Bagana/Edel
Sul connubio tra voci blues ed elettronica uno come Moby ci ha costruito un impero
economico. I Roots Connection – giunti con “Anymistic” al secondo capitolo della loro
avventura discografica, a sei anni dall’esordio omonimo – fanno all'incirca la stessa cosa,
con uno spirito più artigianale, rustico e vicino, come indica inequivocabilmente la ragione
sociale del progetto, alle radici afroamericane. E, se perdonate l'ardire, più interessante, forti
anche della presenza del navigato bluesman Enrico Micheletti. Rispetto ai lavori precedenti il
trio emiliano – oltre a Micheletti, Ezio Ferraboschi e una vecchia conoscenza del rock
italiano, l'ex Acid Folk Alleanza Fabrizio Tavernelli – osa di più e rende la ricetta ancora più
meticcia, inglobando bassi dub (“Hard Time Killing Floor” di Skip James), innestando una
voce femminile – quella dell'ospite Lucia Tari – su ritmi vagamente sudamericani (“I'm Going
To Live The Life I Sing About In My Song” di Tommy Dorsey), mescolando dub e oriente in
una “Dream Baby Dream” dei Suicide resa quasi irriconoscibile. Chiude la scaletta un altra
vecchia conoscenza, Alberto Morselli ex Modena City Ramblers, la cui profonda voce si
presta ad una rilettura solenne e convincente di “Ring Them Bells” di Bob Dylan.
Un’ibridazione convincente, a cui manca probabilmente ancora qualcosa, ma dotata
dell’umiltà necessaria per ispirare innumerevoli ascolti.
Contatti: www.myspace.com/rootsconnectionblues
Alessandro Besselva Averame
Pagina 48
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Numero Giugno '09
Sinclair
Electronic Black Sheep
Disco Dada/Venus
Questioni di beat, di tocchi, di rintocchi. L’orologio che segna il tempo nel panorama
musicale non conosce regole che non siano le proprie. Un gruppo può suonare la stessa
sequenza di accordi di quaranta anni fa e apparire tremendamente attuale, così come un
altro può arrivare sulla scena cavalcando l’onda e sembrare irrimediabilmente fuori tempo
massimo. Nel mezzo, ci sono gruppi come i Sinclair di Silver Verdicchi e Marco Rossi,
coacervo di electropop ed electroclash, di nuovo e di vecchio misto insieme. Intendiamoci, i
dieci brani in scaletta del loro “Electronic Black Sheep” non sono affatto disprezzabili, ma
ubriachi di un certo citazionismo (voluto, mai gratuito o scontato) rischiano seriamente di
sembrare (non volutamente) anacronistici. È il caso di “Instability” o di “Thermodynamic
Ego”, che per certi versi sembrano produzioni minori di Metro Area e Faithless o ancora
“Fake”, che ci presenta un gustosissimo “What If...?”: “Cosa sarebbe successo se Jo Squillo
avesse lasciato le Kandeggina Gang per unirsi ai Kosheen?”. Il materiale dunque - e spero
non ci siano dubbi a tal proposito - è di qualità elevata, ma al collettivo di cui fanno parte
anche Federico Ingoli e Daniela Castellucci, va rimproverata la mancanza di coraggio, il non
volere fare una scelta stilistica realmente originale, preferendo rimanere in un pericoloso
limbo creativo, tanto vasto quanto appiattente. I Sinclair hanno in mano ottime carte (“The
Routine Song” ed “Ethanol” sono brani grandiosi e con un ottimo tiro) ma è evidente che non
le stanno giocando molto bene. O forse la posta in gioco non sembra essere così eccitante.
Contatti: www.myspace.com/thesinclair
Giovanni Linke
Pagina 49
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Numero Giugno '09
Spasulati Band
Kilometrando
MK Records
È ormai ben più di un decennio che la Spasulati Band macina chilometri. Nata
dall’esperienza peculiare dell’emittente indipendente Radio Epiro, la formazione calabra si è
sempre caratterizzata per essere l’espressione linguistica e culturale - quasi il
prolungamento musicale - di un’enclave, quella arbereshe. Nell’antico albanese parlato dalle
comunità della diaspora, la Spasulati rilascia il suo terzo album, registrato tra le montagne
amiche e poi missato a Torino dall’amico Madaski. Si muove sempre (prevalentemente) a
ritmi in levare la poetica della band di Santa Sofia d’Epiro, anche se nel frattempo qualcosa
è cambiato. L’ensemble, sempre guidata dal Zalles alias Fabio Guido, fa a meno dell’intera
sezione fiati, ch’era stata in passato uno dei segni distintivi del suono. E, sia detto per inciso,
la rinuncia non è indolore. La patchanka spasulata si situa su frequenze ska-rock e
mondialiste che passano da Manu Chao e Tonino Carotone. Se col primo è rimasto nella
mitologia del gruppo un concerto milanese davanti a un enorme pubblico pogante, del
secondo va segnalata la partecipazione proprio nel pezzo che dà il titolo al nuovo album, la
rilassata “Kilometrando”. Non solo reggae, comunque, ma anche l’elettricità rock di
“Ndëse nge di” e “Rencontre”, poi riproposta nella lentezza riverberante del dub nella
“Madaski version”; il western tarantellato di “Thiken e Bárkun”, e un’incursione
maghrebina in “Oj ná”, che si avvale della partecipazione al canto e al flauto di
Hocine Hadjali.
Contatti: www.spasulatiband.it
Gianluca Veltri
Pagina 50
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Numero Giugno '09
Straulino Fedele Vescovo
Straulino Fedele Vescovo
Suns/Nota
Ovvero, come ti declino il Friuli in West Coast. Del resto, che Lino Straulino fosse il più
californiano dei nostri songwriter non è certo una grossa notizia. Se tante volte lo abbiamo
definito il Crosby di Carnia, è assai consono accostare questa uscita a ditta triplice, insieme
a Stefano Fedele e Loris Vescovo, al mondo di Crosby Stills & Nash. I tre friulani mettono
insieme undici pezzi, ognun d‘essi ne firma tre; un altro è “Blowin’ In The Wind” a pianoforte
e tre voci in versione “sanctified”; infine, il traditional “La biele stele”, che è un po’ il “Find the
Cost Of Freedom” del disco. Voci, chitarre e pochissimo altro, tutto registrato in presa diretta.
Conta lo spessore emotivo, quel che batte nel petto; il resto è armonia allo stato puro, di
intrecci canori (in friulano, inglese, italiano) e di corde risuonanti. “Il cîl” (di Vescovo) è
una perla rarefatta, una canzone come si facevano quarant’anni fa nelle baie del Pacifico,
piena di sospensioni e ripensamenti; sulla medesima lunghezza d’onda “Why Don’t You
Need Me Anymore” (a firma Straulino), che potrebbe essere stato composta da Crosby
all’indomani dell’estate dell’amore. “Dentri” è resa più preziosa e suggestiva da una
crepuscolare e rossastra armonica. Più FM rock oriented e rilassate le composizioni di
Fedele, che dei tre, per restare al gioco dei rimandi west-coastiani, potrebbe essere Nash. È
atteso un capitolo secondo. Visto l’universo di riferimento del trio, poco importa che le
registrazioni risalgano a un paio di anni fa. Questa è musica senza carta d’identità.
Contatti: www.nota.it
Gianluca Veltri
Pagina 51
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Numero Giugno '09
The Fire
Electro Cabaret
Bagana
Negli anni abbiamo imparato a seguire sempre con una certa attenzione tutto quello, ed è
parecchio, che è uscito dalla mente del vulcanico Olly. Dopo un album d'esordio molto
interessante, e in attesa del nuovo previsto per la fine di quest'anno, i Fire spezzano la
routine disco-tour con un questo “Electro Cabaret” EP: sei brani che vengono resi disponibili
in maniera inconsueta. Non è infatti in vendita nei negozi ma solo ai concerti o presso il sito,
ed è gratis, o meglio chi vuole può scegliere se e quanto pagarlo, aggiungendo le eventuali
spese di spedizione. Soldi, pochi o tanti, comunque ben spesi, perché i Fire dimostrano di
esser tra i migliori in grado di coniugare il rock vero, quello che non si perde in pose e mode,
con la melodia. Una title track che lascia ben sperare per il lavoro prossimo venturo, ma
anche la divertente reinterpretazione dell'inconsueta “New York, New York” e la ripresa di
“Noir”, già nel repertorio degli Shandon e qui valorizzata se possibile ancor meglio, così
come una nutrita schiera di ospiti pronti ad aggiungere benzina al Fuoco.
Per sua
stessa concezione, l'extended play è un formato interlocutorio, capace di rivelare la direzione
che riserva il futuro molto più di tante dichiarazioni. E se le promesse che qui sono cantate
saranno mantenute ne sentiremo davvero delle belle
.
Contatti: www.thefiremusic.com
Giorgio Sala
Pagina 52
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Numero Giugno '09
The June
Magic Circles
Teen Sound
Dalla Londra del 1967-68 alla Parma del 2009 il salto è meno lungo di quello che
sembrerebbe. Non serve neanche una macchina del tempo: basta mettere su il disco dei
June, e improvvisamente vi ritroverete catapultati in un’epoca più felice e colorata di questa
che ci è toccata in sorte. Il vostro taxi di giornale è lì ad aspettarvi sotto un cielo marmellata,
da una cabina del telefono sbuca Doctor Who, in televisione Patrick McGoohan urla “non
sono un numero, sono un uomo libero!” mentre una bellissima ragazza con gli occhi
caleidoscopici esce da un negozio di dischi (vi ricordate cos’erano?) con sottobraccio un
disco dalla copertina disegnata con filamenti in bianco e nero. Forse è “Revolver”, o forse è
questo “Magic Circles” (che tra l’altro ha un pezzo che si chiama proprio così, Revolver). In
fondo che differenza fa? La capacità dei tre ragazzi parmigiani di ricreare lo spirito e il suono
di un’era così lontana, eppure così vicina, è strabiliante. Pari quasi a quella dei compagni di
etichetta A’dam Sykles, dei quali ci siamo da poco occupati. Anche in questo caso le spezie
d’epoca – chitarre al contrario, sitar, 12 corde, armonie vocali, trombette alla “Penny Lane” –
sono dosate con la sapienza dello chef navigato, e basta ascoltare un pezzo fenomenale
come Daisy per capire quanto i June sappiano maneggiare la materia. Che poi non si limita
al floreal-psichedelico ma sconfina nel freakbeat più duro stile Attack/Action/Open Mind
(“Rolling Desperate”) così come nel power pop di qualche anno dopo (“Better Than You”). La
qualità dei pezzi e il ventaglio di influenze hanno fatto venire in mente al sottoscritto i Bronco
Bullfrog, altro trio, in quel caso inglese, che ha scaldato i cuori degli appassionati di questo
genere di musica. Delizie che non passano mai di moda. E come dimostra la bellissima
cover di “Makes Me Feel Good” di Pete Ham, sfortunato leader dei Badfinger, quando ci
sono buon gusto e amore sincero per certi suoni l’“attualità” è l’ultimo dei problemi.
Contatti: www.myspace.com/thejuneband
Carlo Bordone
Pagina 53
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Numero Giugno '09
The Lure
The Lure
EMI
Sin dalla presentazione biografica e dal supporto promozionale si intuisce che questi Lure
non sono l’ennesima band italiana che si getta in pasto a un mercato discografico impazzito
solo per incrementare il fattore numerico e poco altro. E l’ascolto dell’esordio che porta il loro
nome dimostra che tanti sforzi non sono stati fatti inutilmente, infatti l’album suona bene e si
ascoltano ottime canzoni, che poi è l’obiettivo di ogni rock band che si rispetti, ovvero
comporre melodie che piacciano. Sarebbe interessante capire che cosa resta a livello
stilistico di quelli che erano i primi passi della band emiliana dopo il trattamento subito a Los
Angeles durante le registrazioni negli studi Big Brothers e di Matt Malley, sotto la guida la
produttore Thomas Lang. Un’esperienza americana che si è riflessa anche nelle
composizioni, visto che i pezzi vedono le collaborazioni di Thomas ed Elizabeth Lang e di
Dan Monti, già ingegnere del suono per Metallica e Guns N’Roses e tra i coristi troviamo
persino il batterista Nick D’Virgilio (Genesis tra gli altri). La band si presenta come un
sestetto, sezione ritmica, doppia chitarra e doppia voce, maschile e femminile. Ma non
aspettatevi una replica in tono minore dei Lacuna Coil: i Lure suonano più immediati e
comunque meno aggressivi e le parti cantante si intrecciano raramente, preferendo dividersi
gli spazi. Un rock energico e vagamente dark, per tredici canzoni, con qualche pausa di
troppo, ma di cui almeno cinque, su tutte “Let Your Eyes Talk” e “The Crow” due potenziali
singoli se ben veicolati, che dimostrano una personalità ben definita. Il tour di supporto al CD
con date anche all’estero, dovrebbe dare maggior sicurezza ai Lure e svelare le loro reali
ambizioni.
Contatti: www.myspace.com/thelurethomaslang
Gianni Della Cioppa
Pagina 54
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Numero Giugno '09
The Snipplers
Nipple
Hypotron/Irma
Quanto è (può essere) faticoso divertirsi... Ci viene questo pensiero ogni volta ormai che
sentiamo ciò che ora va per la maggiore nei dancefloor, ovvero l’artiglieria di sintetizzatori
contundenti propagandati da tutti gli epigoni dei Crookers (che a loro volta discendono un po’
dai Justice, i quali sono la figliazione dei Daft Punk): bello, sì, ma che fatica. Dopo un po’,
questi fiotti di adrenalina in servizio permanente effettivo stancano, a dirla tutta. Ci spaventa
quindi un po’ la prospettiva che nei prossimi due, tre anni ci sarà una crescente ondata di
prodotti come “Nipple” degli Snipplers; se però fossero tutti ben lavorati come l’album in
questione, la faccenda potrebbe essere più sostenibile. Nulla da dire infatti sulla resa sonora
di questo LP: potente, efficace, curata. Ciò che non ci convince sono gli interventi vocali,
dove, suvvia, un po’ di cura in più come testi ed interpretazione ce la si poteva mettere, pur
partendo dal presupposto che è la classica voce effettata che è più un orpello del brano che
una linea-guida; e poi, in un mondo migliore (meno faticoso, appunto) ci piacerebbe che gli
Snipplers esplorassero più divagazioni stilistiche (le infiltrazioni dub di “Green Lead” sono
davvero promettenti) senza accodarsi eternamente al carro dell’head banger. Il mondo però,
si sa, non è un bel posto. Quindi per ora va bene così.
Contatti: www.myspace.com/thesnipplers
Damir Ivic
Pagina 55
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Numero Giugno '09
Ultimo attuale corpo sonoro
Memorie e violenze di Sant'Isabella
Manzanilla/Audioglobe
Quando si ha coraggio artistico ci si butta senza troppo pensare a dove si andrà a finire.
Partendo naturalmente da una idea forte, e dalla convinzione di ciò che si fa ha una
profonda valenza per se stessi ancor prima che per gli altri. In questo senso, l'esordio degli
Ultimo attuale corpo sonoro è un disco coraggioso, assolutamente incosciente nel voler
affrontare quel connubio tra reading e rock che hanno frequentato pochi temerari, dai CCCP
agli Offlaga Disco Pax passando per i Massimo Volume. E infatti chi è arrivato primo a
cimentarsi con la formula emerge in queste canzoni, ci sono echi ferrettiani nei brani ma la
vera differenza sta nella figura dell'autore degli scritti musicati dal gruppo, Gianmarco
Mercati, il quale è di volta in volte voce narrante e cantante dalle doti notevoli, che emergono
già in una “Ultima lettera al 1975” che nasce dagli ultimi fuochi della morte di Pasolini
evocata al principio dell'album (le ossessive e disperate parole di “Empirismo eretico”, che
ricuce il rapporto con l'atto d'accusa ultimo dell'intellettuale friulano), in uno strano abbraccio
originato da un cantilenare ferrettiano, sconfinante in seguito nella solenne poesia acustica
di Andrea Chimenti e sfociante infine in un canto che lambisce il timbro di Francesco Di
Giacomo del Banco, riprendendo dal gruppo romano certe coloriture progressive. La bravura
del vocalist è tale che le giunture non si vedono, neanche nei brani successivi, caratterizzati
da competenti riletture letteraria. C'è ancora qualcosa da sistemare, un minimo di rodaggio
per far fluire ulteriormente il tutto, ma la qualità letteraria e civile della parola scritta e
cantata, un impianto strumentale eclettico e personale e il coraggio della proposta hanno già
percorso una buona - se non decisiva - parte di strada.
Contatti: www.manzanilla.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 56
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Numero Giugno '09
Unòrsominòre
Unòrsominòre
I Dischi del Minollo
Kappa non ha modificato il suo nome d’arte nemmeno per questo suo esordio solista,
mantenendo quell’alone di mistero che aveva contraddistinto la sua avventura nei veronesi
Lecrevisse, alfieri dell’indie nostrano nei primi anni duemila e autori di due ottimi album che
avevano fatto innamorare la critica. Terminata quell’avventura, Kappa non ha mai smesso di
seguire aspirazioni musicali, con questo progetto, ma anche con una tribute band dei
Beatles, con cui ha allestito un magnifico omaggio a “Sgt. Peppers” in occasione del suo
quarantesimo anniversario. Questo esordio, che come scena indie insegna è accompagnato
da una copertina indegna, è zeppo di buone canzoni. Una cosa che può sembrare scontata,
ma spesso nel rock odierno a latitare sono proprio le canzoni; magari funziona tutto il resto
fatto di suoni, produzione, tecnica e compagnia bella, ma manca l’elemento base, i pezzi.
Invece Kappa e il suo Unòrsominòre (una band a tutti gli effetti) edificano un ricettacolo di
quell’indie rock oggi tanto in voga, tuttavia riescono a varcare i confini del già sentito con una
scrittura agile, che guarda con intelligenza e variegato gusto tanto al rock tricolore quanto a
quei cantautori di frontiera, attenti alle parole e ai suoni: diciamo gli Afterhours che
inseguono il sogno di apparire Ivano Fossati, con echi di Dinosaur Jr. e Wilco. Se in “La
coscienza di meno”, “Gagarin” e “Non sono tranquillo” a farla da padrone sono snelli ritornelli
pieni di melodie svelte, in “Di passaggio (gli scheletri)” e “Rochet # 1”, poste alla fine, c’è
voglia di lasciarsi andare a chitarre dilatate, che sul palco assumono forme ogni volta nuove,
ma la vetta è l’ipnotica versione di “Discanto”, di cui sarebbe fiero anche l’autore Ivano
Fossati. In generale piacciono la cura del particolare, alcune intuizioni compositive, i testi
mai banali e il senso di sicurezza che traspare da ogni brano, lenti compresi; inoltre la voce
di Kappa ha qualcosa di magico, che tutti dovrebbero ascoltare. Una delle migliori realtà
della scena italiana.
Contatti: www.myspace.com/unorsominore
Gianni Della Cioppa
Pagina 57
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Numero Giugno '09
X-Mary
Tutto Bano
Wallace/Audioglobe
Quarto disco “vero e proprio” per gli X-Mary, che hanno una storia ultradecennale di idiozia
controllata ma non ponderata alle spalle. Solo in vinile, stavolta. Vinile corredato da CD (da
ascoltare in macchina, la tendenza moderna è questa) suddiviso in “Lato A” e “Lato B” in
modo da rendere impossibile lo skip delle tracce da parte dell'utente. San Colombano in
copertina saluta l'ascoltatore prima dell'incipit techno (sarà anche outro) di “Explosion”. Il
resto è il caleidoscopio di sempre, dove si scimmiotta con rigore o sregolatezza pungente
certa attitudine melodica italiana (“Voglio Gatto Panceri”) e spaghetti-funky (“Gin Tonic”,
“Stasera (La luna)”, “La playa” e “Black Power”), tra acustiche stralunate stile Ex-Otago
(“Magù”, “Tu non canti più con noi”, “Stai scherzando con la droga”), distorsioni punkeggianti
(“Antiagonistmo”, “Piccolo molle”, “Joshua”) ed elettronica schizofrenica (“Robot Dance”),
senza mai superare il consueto minutaggio irrisorio per ogni singolo brano. Nel CD veniamo
infine sorpresi da una bonus track degna dei migliori Skiantos anni 70. Quindi folk, pop,
hardcore, punk e funky, e rispettive prese in giro di folk, pop, hardcore, punk e funky, in
assenza di punti di riferimento a parte un arco ritorto verso gli stessi X-Mary e la loro storia.
Peggio del secondo album (anti)capolavoro “A tavola con il principe” del 2006, meno
strabiliante di “Al circo” del 2008, “Tutto Bano” è un album... difficile. E nella sua difficoltà sta
lo splendore spicciolo di un gruppo di scriteriati.
Contatti: www.xmary.net
Marco Manicardi
Pagina 58
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Numero Giugno '09
Zenerswoon
Frames
Nowherez/Audioglobe
Mancavano da cinque anni i toscani Zenerswoon, e ora ritornano con un disco e un nuovo
batterista (Stefano Tamborrino prende il posto di Francesco Frilli), “Frames”, che ne
ribadisce l'irruenza genuina e ne incrementa la bravura compositiva. Il punto di partenza è,
come in passato, la musica prodotta da un power pop trio che ha le radici nell'indie rock
americano anni Novanta e nelle sue progeniture (certo hardcore melodico) ma che ha
saputo personalizzarne le necessità espressive. Quello che salta agli occhi maggiormente è
il suono della chitarra, sporco ed energico ma capace di raffinatezze non deteriori
(l'apertura di “Spiders” setta le direttive dei brani successivi con estrema efficacia), ma a fare
un gran lavoro sono anche le linee melodiche (“Freedom Now”, per dire, con sinuose scale
extra-occidentali che si mostrano timidamente all'ascolto) che si amalgamano perfettamente
con l'impianto strumentale, mentre le distorsioni macinano terreno con grazia e i ritornelli
girano a pieni giri. A tratti vengono in mente i Motorpsycho, altrove la matrice power pop
prende il sopravvento, in altri momenti vengono in mente i mai abbastanza considerati Nada
Surf. Che dire di questo “Frames”, in sostanza? Che si tratta di un disco che porta avanti una
tradizione consolidata, ma con una capacità non comune di far trapelare la propria scrittura.
Un lavoro di genere, dannatamente solido e godibile però.
Contatti: www.zenerswoon.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 59
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Numero Giugno '09
Handmade Festival #3
The Cleb, Guastalla (RE), 1 maggio 2009
Dodici ore, dalle 14 alle 2, in una cascina isolata nelle campagne di Guastalla, equidistante
da Reggio, Mantova e Parma con un miscuglio amalgamato di idiomi tra i quali, tuttavia,
spicca il bolognese. È la “scena” del capoluogo a farla da padrone, l'indie-pop esterofilo che
la contraddistingue è presentato da alcune delle migliori band italiane del genere, le quali si
susseguono sul tappeto della stanza interna del The Cleb che funge da palco. Capienza
ridotta per la marea di spettatori che dalle 14 in poi non fa che aumentare, due casse da
pochi watt per l'amplificazione, fumo di carne grigliata e vasto assortimento di spille sul
vestiario dei presenti. Questa, più o meno, la situazione ambientale.
Si parte con Captain Jack And His Tunas e la loro versione acustica di canzoni dalla
tradizione marinara anglosassone. Seguono i Super Going – J dei Disco Drive e M dei Drink
To Me – con due tastiere, balafon, xilofono e una voce dilatata da un delay abissale. Poi è la
volta dei Buzz Aldrin, piccola rivelazione, che stregano la folla con una carica danzereccia
odorante di Liars e Supersystem. Cambi di palco serrati, turni stretti per i musicisti e la fame
incombente all'ora di cena fanno sì che l'indie-pop edulcorato degli Arnoux e il brit-pop
melenso dei padroni di casa Seebha ci arrivino da lontano mentre siamo in cerca, o in
attesa, di cibo. Non ci lasciamo scappare, tuttavia, il set filosvedese dei The Calorifer Is Very
Hot!, i quali in poco più di mezzora riempiono il locale di teste traballanti.
Finale tiratissimo con lo show dei Blake/e/e/e in stato di grazia e Paolo Iocca con le vene
del collo a fior di pelle nella “Time Machine” conclusiva. Infine il trittico bolognese per
eccellenza: A Classic Education leggermente sotto tono, My Awesome Mixtape e il loro
(hip)pop giovane e sghembo in continua evoluzione, e il ritorno acclamato sulle scene degli
Yuppie Flu coi capelli imbiancati, prole al seguito e il pubblico intero che canta i primi singoli
come non capitava nemmeno dieci anni fa. Al termine, vuoi per la calura di un primo maggio
estivo, vuoi per la calca e l'affollamento di una stanza di dimensioni irrisorie, il sudore è una
patina che ricopre chiunque indistintamente, pubblico e musicisti, organizzatori e avventori.
Dopo le 2 rimangono nel Cleb soltanto alcuni cadaveri danzanti, cestini stracolmi di bicchieri
e qualche DJ, mentre le auto si infilano per la campagna reggiana in direzioni varie, con
prevalenza Bologna. Non c'è nemmeno bisogno di rievocare i consigli dei vecchi di famiglia
per capire che spesso le cose fatte meglio sono quelle “fatte a mano”.
Marco Manicardi
iFest
Parco Nuovo, Santarcangelo di Romagna (Rn), 1 maggio 2009
All'iFest di Santarcangelo c'erano un po' tutti. Famiglie coi figli al seguito in gita fuori porta,
vecchietti in libera uscita e giovani del paese capitati lì per caso. Pochi, tuttavia, gli
affezionati dell'indie-rock nostrano. Complici, forse, la gratuità dell'evento e la location,
comunque, pubblica, oltre alla scarsa promozione riservata a una manifestazione musicale
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alla sua primissima edizione.
Un peccato, direte voi. Forse. O forse no. Da un lato,
certo, il dispiacere per un tasso di “addetti ai lavori” e “persone competenti” piuttosto basso.
Soprattutto in orario serale, coi turisti occasionali già in viaggio di ritorno verso casa.
Dall'altro, tuttavia, l'occasione ghiotta di proporre a un alto numero di persone – quasi da
tutto esaurito lo splendido parco alle pendici delle vecchie mura cittadine che ha fatto da
scenario giornaliero al festival – una musica abituata a contesti fin troppo autoreferenziali.
Un rischio, insomma, e al tempo stesso un atto di coraggio. Bypassare le “scene” locali – il
contemporaneo Handmade Indie Festival di Guastalla non faceva altrettanto, chiamando a
raccolta gran parte di quella bolognese e, per rifrazione, il suo pubblico – per sfidare un
modello culturale uso a ben altre forme di intrattenimento. Un'impresa quasi impossibile, ne
conveniamo, ma la strada ci è parsa quella giusta. Del resto diffondere certa musica in
ambiti generalisti prevede un prezzo da pagare e gli organizzatori hanno dimostrato di
essere disposti a farsene carico sostenendo l'evento con un programma di assoluto valore.

E allora viene da citare il set dei Grimoon, saliti sul palco per ultimi ma convincenti
oltremisura con il loro folk-pop francofono; un Adriano Modica, puntuale e decisamente a
suo agio, pur nelle ristrettezze emozionali di un luogo che per caratteristiche morfologiche spazio aperto enorme, con conseguente dispersione del suono - si è rivelato poco adatto
alla sua musica; degli Uochi Toki stellari, capaci di catturare anche l'attenzione del pubblico
più ingessato con la profondità degli interventi in rima (nonostante la comparsata sul palco di
una band hip hop di ragazzini che, in pieno “gangsta style”, sfida il gruppo – per fortuna
senza successo - a una gara di freestyle); Il moro e il quasi biondo, analitici e impeccabili
con il loro sperimentalismo cifrato; i Bachi da pietra, al solito generosi e intensi. Unica nota
stonata, l'esibizione dei Morose, poco convincente e meno catartica del solito. Anche se la
scelta discutibile di posizionare i toni crepuscolari della band spezzina ancora in fase diurna
ha penalizzato non poco l'impatto finale del loro set. 
Nel complesso, comunque, un
bel festival. Coi bambini piccoli sul prato a correre, giocare a pallone, ridere e scherzare, e
quelli “con le rughe” sul palco a cantare. Di più, non si poteva proprio chiedere.
Fabrizio Zampighi
MArteLive
TPO, Bologna, 22 e 23 aprile 2009
MArteLive, la finale bolognese del concorso per gruppi emergenti giunto alla terza edizione,
ha decretato i vincitori regionali, ovvero i Tubax di Bologna il cui premio sarà l’accesso alla
finalissima nazionale che si svolgerà a Roma a fine giugno. Venerdì 22 e sabato 23 al nuovo
super accessoriato Teatro Polivalente Occupato di Bologna, in via Casarini, si è svolta la
due giorni dedicata non solo alla musica ma anche al teatro, alla fotografia, alla pittura, al
cinema e alla letteratura. Un calderone di eventi con artisti che mostravano il loro estro
creativo agli astanti.
Con un andirivieni di ragazzi tra dentro e fuori le numerose stanze del TPO si è svolta la
festa piena di energia. Bancarelle, fumi e profumi invitanti per le salsicce sul fuoco e le
patatine da girare. Infopoint, banchetti con CD e vinile, le solite facce dei concerti e altre mai
viste. Del resto i gruppi emergenti hanno un pubblico a seguito molto giovane, ad essi
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coetaneo. Il venerdì ad animare la serata ospiti speciali i Jolaurlo che hanno trasformato il
concerto in una doccia di sudore elettro rock molto liberatoria. I super ospiti del sabato i
Marta Sui Tubi chiaramente commossi di essere tornati nella loro città adottiva dove fanno
riempire i luoghi più grandi e la gente canta in coro e ama tutte le loro canzoni. Prima dei
Marta hanno suonato i Nobraino il cui cantante sembra la versione fredda di Benvegnù e per
giunta riccio: decisamente bravi e coinvolgenti anche se una scena tristissima in cui il
cantante umiliava il chitarrista per avergli dato la nota sbagliata mi ha fatto riflettere sulla
differenza tra l’avere sensibilità musicale e sensibilità umana.
I Tubax (che poi hanno vinto) si sono esibiti la prima sera. Sono insieme solo da un anno e
mezzo, eppure sono già molto in sintonia con una presa molto magmatica, coinvolgente, con
dei ritmi ossessivi si passavano lo scettro e riuscivano a destare alta l’attenzione. I Laradura,
anch’essi di Bologna, hanno schematizzato una struttura precisa e spedita delle loro linee di
chitarra e della melodia, ma forse hanno bisogno di un’impronta più chiara o di un po’ più di
tempo. Ricordiamo anche i Silvia’s Magic Hands orgogliosi delle loro due chitarre acustiche
e con due voci a caratterizzare le melodie delle canzoni cantate in inglese con delle
timbriche soul molto interessanti. Il sabato hanno suonato gli Etnia Super Santos, vincitori
del secondo premio di MarteLive ovvero il booking per un anno offerto da La Fabbrica.
Questi ragazzi molto corali dalle suggestioni etniche mediterranee, a quanto pare in
autostrada se in possesso di strumenti e in occasioni di lunghe code potreste vederli in
mezzo ad un slargo fuori dal furgone improvvisare un live. Coinvolgenti e “umani” attraggono
gli astanti con le loro sonorità festose come una banda in introspezione. E infine non posso
non parlare delle Tette Biscottate. Ragazze intrise di teatralità musicale (quello che manca
agli altri gruppi) ma non è tutto qui. Da qualche anno godono di un certo seguito, dopo che
nel 2007 durante una serata di cabaret all'Arteria, hanno mostrato la loro empatia e molti che
quella sera erano presenti, sono tornati a vederle per le semifinali e poi per le finali. Se il
pubblico avesse avuto più del venti percento di possibilità di incidere nelle votazioni
avrebbero vinto loro, ma la giuria ha votato la tecnica dei gruppi, ridendo lo stesso per
l’allegria che Le Tette apportavano. Speriamo migliorino anche solo un pochino la parte
musicale, poi non avranno rivali.
Francesca Ognibene
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Blue Silk
Interessante progetto a due con protagonisti l'arpa elettrica di Raoul Moretti e la chitarra di
Matteo Giudici, aumentato a trio in occasione di “Ea” (EP a tema autoprodotto e scaricabile
gratuitamente) dal violoncello e dalle percussioni di Mattia Scarpolini, i Blue Silk si muovono,
in questo breve saggio di quattro brani ispirati alla divinità sumera delle acque, tra territori
folk e ambient, innescando una serie di evocative proiezioni musicali a più direzioni. Pezzi
strumentali che riescono a non scivolare nel piattume new age conservando una sobrietà
cameristica, ricchi di soluzioni e idee, fluide ma ancorate a idee forti. In una parola, un
esordio eccellente che merita assolutamente di trovare vie più ufficiali per affermarsi.
Contatti: www.bluesilk.it
Alessandro Besselva Averame
Buzz Aldrin
Il trio bolognese dei Buzz Aldrin spunta quasi dal nulla all'inizio dell'anno in corso, e già dopo
cinque o sei mesi diventa un nome ricercato sulle locandine dei live tra l'Emilia e la
Romagna. Al termine di un concerto folgorante a Guastalla li vediamo smerciare a destra e a
manca il loro primo demo, di quelli casalinghi con tanto di numero di telefono e tracklist
segnata a penna all’interno. Chitarra tagliente, basso imbottito di groove, batteria come un
elicottero e una voce svogliata e sovente in loop sugli stessi lembi di testo ci portano con la
mente, in poco meno di diciotto minuti, a un connubio ben organizzato tra Wire (in tutte le
incarnazioni, dal ‘77 a oggi), Liars ed El Guapo. Cinque pietre preziose dai nomi animaleschi
e surreali (“Giant Rabbits Are Looking At The Sun”, “Small Badtalk With Koala Friends” e
“Cooking Dog Eggs” sembrano titoli usciti dalla testa di Lewis Carroll) che diverrebbero
altrettanti singoli di successo se fossimo all'epoca dei 45 giri. I tre bolognesi si affermano
prepotentemente come una delle sorprese più gradite del 2009: converrà mantenere, da qui
in avanti, un occhio di riguardo sui loro spostamenti. A dispetto del nome, i Buzz Aldrin in
quello che fanno potrebbero non essere secondi a nessuno.
Contatti: www.myspace.com/angelocasarrubia
Marco Manicardi
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