Numero Dicembre `09 - Il Mucchio Selvaggio

Dicembre '09
a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini
Numero Dicembre '09
Numero Dicembre '09
EDITORIALE
Scriviamo questo editoriale il giorno dopo la chiusura del MEI, il Meeting delle Etichette
Indipendenti di Faenza (RA) rivelatosi, ancora una volta, una vetrina caleidoscopica di suoni
e realtà di ogni tipo. Confusionaria, forse, ma anche assai vivace, con qualche momento da
dimenticare – la vicenda politico-idelogica ancor prima che musicale dello stand preso
d’assalto – e altri che ricorderemo a lungo, dalla serata di apertura al Teatro Masini con tanti
bei nomi ad alternarsi sul palco (tra cui Samuel Katarro, vincitore del premio “Fuori dal
Mucchio”) all’appuntamento con “Indipendulo”, per molti versi l’apice dell’intera kermesse.
Una kermesse che, a detta di molti dei visitatori, quest’anno ha visto prevalere anche solo a
livello di impatto la presenza di quanto gira intorno alla musica (festival, società di servizi,
riviste, webzine, case editrici, negozi) rispetto a quella delle etichette vere e proprie, quando
invece ci piacerebbe vedere a Faenza tutte le principali – e non solo quelle – indie-label
italiane e tutti i distributori discografici.
Lasciando agli organizzatori il compito di trarre i bilanci ufficiali e pensare a correttivi e
migliorie, e ringraziando quanti in questi due giorni sono venuti a trovarci al nostro stand, vi
lasciamo con un numero di “Fuori dal Mucchio” ancora più ricco del solito di interviste, così
da farvi compagnia anche durante il periodo delle meritate vacanze natalizie.
Buona lettura, quindi, buoni ascolti e buone feste a tutti.
Aurelio Pasini
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Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
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Brown & The Leaves
Arriva da un paesino ai piedi delle alpi friulane Mattia del Moro. Un estremo Nord d'Italia che
fa il paio con quella Scandinavia folk marchiata Kings Of Convenience che qualche anno fa
si impossessò di critica e pubblico e ora ispira novelli folksters. E' quella la scuola di
pensiero a cui si rifà anche il progetto Brown & The Leaves, grazie a “Landscape” (Red
Birds/Audioglobe), disco d'esordio che convince, al di là degli evidenti richiami, per una
sensibilità musicale forse un po' ingenua ma di sicuro onesta. Ne abbiamo parlato col diretto
interessato.
Le atmosfere bucoliche del tuo disco sono sintetizzate alla perfezione da una
copertina che da sola dice già tutto, come del resto le influenze musicali palesate in
brani che parlano senza pudori dei tuoi ascolti abituali. Cosa rispondi a chi vorrebbe
rinchiuderti in un triangolo costituito da Kings Of Convenience, Nick Drake e in
generale un certo folk alto di scuola nord europea-sudamericana?
Non mi sono mai preoccupato di nascondere le influenze, perché ho sempre confidato nel
mio modo di interpretarle. Durante le realizzazione del disco c’era però il timore che il mio
personale contributo non venisse individuato, provocando una reazione da disco unicamente
derivativo. Fortunatamente non è andata così. L’idea generale era quella di fondere le
sonorità nordiche di cui parlavi tu con la nostra cultura mediterranea. Non so se ci siamo
riusciti, però credo che il risultato sia comunque unico e onesto.
Nel disco si rintracciano violoncelli, contrabbassi, trombe, pianoforti, Rhodes, per un
suono quanto mai ricco ma al tempo stesso minimale, almeno nella concezione
generale. Ti sei occupato tu di tutti gli arrangiamenti?
No. Gli archi sono il frutto di una collaborazione a distanza con Fabio Centurione
(violoncello) e Ilaria Scarico (contrabbasso, già bassista degli El-Ghor). Un lavoro corale che
per qualche mese ci ha visti impegnati in scambi di e-mail e provini. Pian piano, con mia
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grande emozione, ogni tassello è stato aggiunto al disegno che avevo in mente a grandi
linee. Gli altri strumenti sono stati registrati nelle tre settimane passate in studio, grazie alla
partecipazione di Vincenzo Zingaro e Lorenzo Gambacorta degli Unmade Bed. Ovviamente
sotto la supervisione di Paolo Messere, produttore artistico dell’album.
Sei originario di Tolmezzo, un piccolo paese delle Alpi. Quanta influenza credi abbia
avuto il luogo in cui sei cresciuto sul tipo di musica che suoni e in che cosa un
musicista nato in provincia come te si differenzia da uno che invece cresce in grande
centro urbano?
Il rapporto con la mia terra d’origine è stato soprattutto conflittuale poiché, come spesso
accade agli adolescenti di provincia, mi sentivo lontano dal fermento artistico e culturale che
caratterizzava i centri metropolitani e non accettavo di vivere “fuori dal mondo”. Crescendo
però, ho capito il valore aggiunto di un luogo fortemente legato alla natura, con i suoi tempi
dilatati e gli inverni lunghi, silenziosi ma al tempo stesso sereni. Questo è il mio mondo e so
di appartenergli. Qualcuno ha detto che uno scrittore deve scrivere di ciò che conosce.
Credo che questo valga anche per un musicista.
Esci per Red Birds Records, una sussidiaria della Seahorse di Paolo Messere. Un
esordio che è un doppio esordio, in quanto sei la prima produzione ufficiale
dell'etichetta. Come sei entrato in contatto con Paolo e perché hai scelto di credere
nella Red Birds?
Sono entrato in contatto con Paolo grazie a MySpace, come spesso accade. Lui si era
dimostrato interessato ai brani chitarra e voce che avevo timidamente messo in condivisione
e da lì è nato tutto. Essendo nuovo dell’ambiente musicale, non avevo molti parametri di
giudizio e così mi sono buttato, trovando un felice atterraggio. Alla base di un rapporto
artistico credo sia importante la stima reciproca e tra me e Paolo non si può dire che non ci
sia.
Che significato ha il nome che hai scelto per il tuo progetto musicale?
“Brown” deriva da un libera traduzione del mio cognome (Del Moro), oltre a essere un
colore che mi viene immediato associare alla musica che suono. “And The Leaves” è un
omaggio che ho voluto fare alla poesia di G. Ungaretti “Si sta come d’autunno sugli alberi le
foglie” che fin da ragazzino, a scuola, mi ha sempre colpito per intensità. La fragilità di
quell’immagine mi è molto cara e credo sia una buona parabola per la vita stessa, non
soltanto un riferimento alla tragica situazione di cui parlava l'autore.
Al di là delle similitudini inevitabili che si possono cogliere con altri artisti, il tuo
rimane un lavoro molto raffinato, in equilibrio tra folk, atmosfere jazz/bossanova e
melodie sussurrate. Eppure l'impressione è che per tirar fuori un disco equilibrato
come “Landscape” si lavori molto per “sottrazione”...
In studio abbiamo utilizzato diversi strumenti, ma la struttura dei brani è rimasta la stessa di
quando suonavo da solo in camera mia. In questo senso, credo che si possa parlare di
sottrazione. Ho lavorato per un anno intero solo con la voce e la chitarra. Devo dire che si
diventa terribilmente severi e pignoli quando si ha così poco a disposizione ma credo che nel
contempo tutto questo abbia semplificato il lavoro in studio.
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Il tuo esordio ha raccolto consensi unanimi e critiche positive pressoché ovunque.
Credi che il merito vada ascritto, oltre all'evidente qualità dei contenuti, a una naturale
propensione del pubblico indie ad apprezzare certe derive malinconiche o a una
formula che nonostante il trascorrere del tempo e dei ricorsi stilistici, continua ad
affascinare?
Credo che, dopo ogni periodo di sperimentazione e corsa all’innovazione, l’essere umano
senta il bisogno di un ritorno alla sua natura, al suono confortante e caldo di strumenti che
conosce bene e che gli appartengono. L’elettronica doveva uccidere definitivamente
l’approccio acustico e invece ha finito per mescolarsi con esso, dimostrandosi l’avanguardia
di un certo nu-folk che qualcuno chiama folktronica. Finché ci sarà l’uomo ci sarà anche una
chitarra acustica!
Contatti: www.myspace.com/brownandtheleaves
Fabrizio Zampighi
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Cheap Wine
Da ormai tredici anni i Cheap Wine portano in giro per l’Italia il loro rock fatto di grandi storie,
intense ballate e puro divertimento. Dopo tutto questo tempo è arrivato l’album più maturo e
difficile, ma allo stesso tempo forse il più importante della loro carriera. Abbiamo incontrato
Marco Diamantini per farci raccontare di “Spirits” (autoprodotto/Venus), delle sue atmosfere
un po’ diverse dal passato e di quello che significa oggi in Italia andare ancora in giro per
piazze e cantine a raccontare, a suonare e a far ballare la gente.
Marco, presentaci questo “Spirits”. Un disco che non abbandona il rock ma in cui io
ho trovato anche atmosfere molto intimiste, che ricordano addirittura certo jazz di
Waits.
È un disco molto diverso dai precedenti. Rispetto a “Freak Show”, le ritmiche hanno
rallentato e le chitarre elettriche hanno lasciato spazio a quelle acustiche. Le caratteristiche
tecniche del nuovo batterista Alan Giannini hanno favorito l’introduzione di queste nuove
atmosfere che sono dominate dalle linee ritmiche e melodiche del basso di Alessandro, che
in questo album ha un ruolo fondamentale. I fraseggi chitarristici molto raffinati di Michele,
uniti alla sua produzione molto attenta alla qualità del suono, hanno fatto il resto. E’ nato
tutto spontaneamente, probabilmente anche sulla scia dei concerti degli ultimi due anni: le
dimensioni di molti locali, uniti ai soliti problemi con il vicinato, hanno “suggerito”
arrangiamenti vicini all’unplugged. Da qui siamo partiti per una ricerca sonora che ci ha
condotto verso le radici del folk e del blues e verso atmosfere che tu giustamente definisci
più intimiste. “Spirits” è un disco che va ascoltato con calma e attenzione, non può essere
consumato velocemente: in un certo senso, ti costringe a fermarti, a rallentare. E’ un disco di
cui siamo molto orgogliosi.
Tutto il concetto del disco ruota attorno ai due personaggi di Silvio Corbari e
Suzanne Valadon. Ce li racconti?
Silvio Corbari era un ventenne faentino, con un talento per la recitazione e il travestimento:
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durante la Resistenza, formò una banda di partigiani che inferse duri colpi alle truppe
nazi-fasciste, non solo sul piano militare. L’episodio raccontato nel testo di “A Pig On A
Lead” è realmente accaduto e viene narrato nel libro “Ribelli” di Pino Cacucci. Nel 1943, il
paesino di Tredozio era occupato da un grosso contingente di milizie fasciste e Corbari non
disponeva di forze sufficienti per tentare un attacco. Ma avvertì sprezzantemente il
comandante della guarnigione che si sarebbe recato in paese un determinato giorno. I
fascisti si disposero per la difesa armati di tutto punto, ma nel giorno stabilito videro entrare a
Tredozio solo un vecchio contadino, lacero e malandato, con un maiale al guinzaglio. Lo
insultavano e lo deridevano mentre questi si avvicinava all’osteria del paese. Giunto
all’ingresso, chiese a due militari se potevano tenergli il maiale mentre lui andava a bere un
bicchiere di vino. Poi uscì, ringraziò e se ne andò. L’attacco dei partigiani non ci fu e il
comandante della guarnigione disse alla sua soldataglia che Corbari era solo uno spaccone
e non avrebbe mai avuto il coraggio di attaccare Tredozio. Il giorno seguente, giunse una
lettera proprio al comandante fascista: “Grazie per la gentilezza, potete giusto badare al mio
maiale”, firmato Silvio Corbari. Visto che di recente abbondano i tentativi di revisionismo e
considerando che nel giro di pochi anni gli ultimi partigiani scompariranno – e con loro gli
unici testimoni di quegli orrori – dobbiamo cercare di non dimenticare e di spiegare alle
nuove generazioni chi erano gli uomini che hanno combattuto per la nostra libertà. La scelta
di una vicenda in qualche modo “leggera” della vita di Corbari, serve a dare un piccolo
contributo, sfuggendo alla retorica che di solito circonda questi argomenti. “La Buveuse” di
Toulouse Lautrec ritrae Suzanne Valadon, ma in quell’opera il grande artista francese
rappresenta il destino tragico di tante donne di quella Belle Epoque che, dopo aver vissuto
poche stagioni di gloria come vedette acclamate dei locali notturni parigini, hanno annegato
nell’assenzio la frustrazione del loro declino ed hanno terminato la loro esistenza nella
povertà più assoluta, dimenticate da tutti. Il momento di riscatto, l’attimo di conforto è
rappresentato dalla magia del pittore che dipinge il suo capolavoro: l’arte rappresenta il
rifugio della nostra anima.
Ci sono due omaggi importanti, a Bob Dylan e a Townes Van Zandt. Perchè proprio
loro?
Bob Dylan, a mio giudizio, è il più grande musicista popolare del Novecento. Townes Van
Zandt un grandissimo songwriter. “Man In The Long Black Coat” e “Pancho & Lefty” si
integrano alla perfezione con le atmosfere e le tematiche dell’album. Alessandro ha spinto
molto per inserire la canzone di Dylan, io da lungo tempo cullavo l’idea di interpretare quella
di Van Zandt. Alan e Michele hanno appoggiato questa soluzione e siamo molto contenti del
risultato.
Quanto è difficile la vostra autoproduzione rock, oggi, in Italia?
Serve una dose smisurata di passione vera. Con quella si supera qualsiasi ostacolo. Ma è
necessario avere grandi motivazioni, perché la strada è tutta in salita e non è facile
conciliare il lavoro quotidiano con l’impegno artistico. Noi da tredici anni andiamo avanti
senza soste e sarà sempre così, perché la musica per noi è una questione di vita, una parte
fondamentale della nostra esistenza. Nel nostro cammino abbiamo incontrato molte insidie,
ma anche tanta gente che ci apprezza e ci segue con affetto, trasmettendoci una grande
carica. Le difficoltà non ci spaventano perché la musica è molto più importante e per noi è
una fonte inesauribile di felicità.
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Dicci dei prossimi impegni.
Vogliamo fare il maggior numero possibile di concerti, perché “Spirits” ci piace molto e
vogliamo suonarlo tantissimo di fronte al nostro pubblico. Nelle previsioni future c’è un disco
live, ma non a breve termine. Il tour è appena cominciato e almeno un anno lo dedicheremo
solo a “Spirits” e alle sue canzoni.
Contatti: www.cheapwine.net
Marco Quaroni
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Cosmetic
“Non siamo di qui” è la seconda prova per i riminesi Cosmetic, appena uscito per La
Tempesta. Un album cantato in italiano nel quale si respira aria di rinascita. Una nuova
pagina dopo aver rimarginato le ferite e ripensandoci. Le melodie sono giuste, noise quanto
basta, senza strafare e stravolgere. Un album asciutto che si fa apprezzare dopo un po’ però
poi si fa strada bene bene e rimane. Ne parliamo col cantante Bart.
Quando avete formato il gruppo, cosa pensate sia stato fondamentale, per la vostra
unione?
I Cosmetic sono una formazione nata da una grande amicizia e una forte passione per la
musica almeno dodici anni fa, però poi le cose sono cambiate perché un po’ alla volta, le
persone sono andate via passate e tornate, così alla fine oggi siamo una cosa molto diversa
da quella che era partita all’inizio, però fortunatamente la passione per la musica e i legami
amicali sono quelli che alla fine ti tengono assieme.
Ecco, ma pensando anche agli altri della band. Gli ultimi insomma. Che rapporto
avete con i vostri strumenti? Li prestereste volentieri, li sbattete contro le cose, o guai
a toccarveli?
Se uno che suona con noi rompe una corda corriamo a prestargliela subito e poi Simo il
chitarrista sbatte un po’ qua e là perché è un po’ scemo però alla fine va bene così lo stesso.
Tu invece che sei il cantante che rapporto hai con la tua voce, visto che la voce è il
tuo strumento?
Ah ah, la mia voce ho sempre fatto fatica a domarla, perché tipo non devi bere sennò stoni.
Le canzoni le scrivete assieme o partono da uno di voi? Come funziona?
Le canzoni, soprattutto per questo disco, sono nate da me. Quindi tutta la struttura iniziale,
dopo, chiaramente li mettiamo su insieme durante le prove. Alcune idee di canzoni non
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vengono bene come le avevo nella testa, quindi muoiono e spariscono, altre invece
prendono piede siccome ognuno inizia a metterci del proprio. In generale comunque io
faccio lo scheletro e gli altri arricchiscono, penso sia abbastanza normale e penso tutti
facciano più o meno così.
Ma quando state lì per definire la composizione, cosa cercate di evitare? A cosa non
deve assomigliare un vostro pezzo per essere una vostra canzone?
Beh, non deve essere né troppo cervellotico, né perdersi in inutili cose strumentali e poi non
deve finire subito. Un via di mezzo tra strofa ritornello, strofa ritornello e una divagazione
insensata. E poi se assomiglia a qualcos’altro non la facciamo.
E com’è fatta la vostra sala prove?
La nostra sala prove è a casa di Simo. Giù di sotto c’è una scala a chiocciola, poi un’altra
scala che va giù, poi entri in una cantina, dentro la cantina c’è una porticina e dentro trovi la
nostra sala prove due metri per due. Dobbiamo stare incastrati dentro tipo Tetris. All’ultima
riunione di condominio mi ha detto Simo che i condomini non si sono lamentati, anzi uno ha
fatto una recensione!
Alla luce di questi due album alle spalle per questi dodici anni, rispetto all’inizio cos’è
cambiato per voi come gruppo?
Sostanzialmente prima facevamo tutto quello che ci passava per la testa ed era
un’accozzaglia di robe, invece ultimamente ci auto-regoliamo in una sorta di direzione
artistica, se così si può dire.
Il primo disco è uscito per Tafuzzy e Cane Andaluso che hanno co-prodotto il lavoro.
Questo invece lo produce la Tempesta. Vorrei che ci raccontassi l’accordo per la
produzione con Tafuzzy e Cane Andaluso e poi invece adesso con La Tempesta.
Con Tafuzzy è andata abbastanza spontaneamente perché l’abbiamo co-fondata: noi
Cosmetic insieme a Mr Brace. Poi Cane Andaluso, ovvero Giacomo Spazio s’era innamorato
del progetto e diciamo siamo stati insieme per tre quattro uscite. Però chiaramente, quando
si è interessata La Tempesta, visto che anche la storia Cane Andaluso e Tafuzzy si era
andata a smussare, il fatto che si facesse sentire Enrico con qualche complimenti e un po’ di
avance, noi abbiamo ceduto quasi subito e quindi è nato questo rapporto che comunque è
un rapporto di amicizia. Non mi risulta che abbiamo firmato niente, contratti o cose. Sono dei
grandi.
Da quale canzone è iniziata la composizione di “Non siamo di qui”?
Le prima è stata “Ehi, Sinfonia”. Dopo l’album “Sursumcorda” c’è stato un momento di
silenzio e dopo si è ripartiti da quella canzone che è proprio un episodio molto cantautoriale
basato su strofa, ritornello e basta. C’è anche un salto di tono, alla Sanremo. In generale
questo pezzo è stato un passaggio da cui ripartire a fare del casino.
Qual è stata la canzone più facile da portare a termine, e quale quella più difficile?
La più facile “Bolgia celeste”, perché diciamo così com’è nata spontaneamente, vale a dire:
“riffaccio”, strofa, ritornello e variazione, così è stata definita, praticamente come l’avevo
abbozzata io all’inizio. Mentre la più difficile potrebbe non sembrare ma è “Né noi né
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Leandro” che è nata dalla musica di Simo, poi è passata nelle mie mani, ma abbiamo
vacillato, quindi abbiamo fatto fatica. Abbiamo cambiato arrangiamento due, tre volte. Non
riuscivamo a capire quale fosse il suo vestito però alla fine siamo molto contenti del risultato
finale.
C’è un disco che amate ascoltare tutti insieme, che vi mette d’accordo?
Se tutti insieme non tiene conto della parte femminile del gruppo sì, i Polvo.
Chi ha curato la grafica del CD e perché vi rappresenta?
Le ha fatte un nostra carissima amica che è un’illustratrice disegnatrice che stimiamo
tantissimo che è Elzevira (www.elzeviraillustrator.com) che ha uno stile molto personale,
molto femminile, acuto e ironico, pungente. Di solito fa cose più da commedia pungente
americana intelligente però per l’occasione, le abbiamo chiesto di spingersi fino all’horror
grottesco, e se guardi la nostra copertina noterai che ce l’ha fatta.
Complessivamente, “Sangue+ sole” sembra un po’ la chiave del disco perché
racconta di vecchie ferite, ma col sorriso come se le aveste superate. È così?
Per fortuna sì. Più succedere di tutto fino a vedere del sangue purtroppo però dopo per
fortuna si riparte.
Contatti: www.myspace.com/cosmeticmusic
Francesca Ognibene
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Did
Già al primo ascolto di questo esordio dei torinesi Did ho sentito una bella scossa. “Kumar
Solarium”, uscito su Foolica/Audioglobe, è il primo disco sulla lunga distanza dei ragazzi, ma
qualcuno se li ricorderà per un EP uscito per la net-label Kirsten’s Postcard o per i loro live
incendiari, molto serrati, vero vanto per la band e marchio ormai indelebile della loro
presentazione al mondo post punk con mille batterie in aggiunta per farci ballare. Bravi. Ne
parliamo con il cantante Guido Savini e con il bassista Giancarlo Maresca.
Quando avete deciso di mettere su il gruppo, qual era la vostra idea musicale e come
inizia questa storia?
Guido: Inizia tanto tempo fa al liceo, come succede quando si è giovani e si vuole formare
una band, senza neanche sapere suonare gli strumenti. Questo è stato però all’inizio, negli
ultimi due anni abbiamo preso un’altra strada un po’ più seria e professionale; prima era un
hobby.
Giancarlo: L’idea invece era che i Beatles erano Gesù Cristo, noi volevamo essere i
Beatles e quindi da ragazzini quali eravamo, ci siamo messi lì a studiarli, perché volevamo
essere meglio di loro, poi però siamo cresciuti e abbiamo capito la realtà.
Nel momento in cui componete le canzoni, quali sono le vostre dinamiche:
componete assieme, arriva il cantante in saletta con la bozza, o come?
Gi: Nasce tutto spontaneamente in saletta. È sempre stato un costruire assieme. Si studia
la soluzione migliore per tutti. Nessuno predomina l’altro. Guido alla voce, tastiere e
campionatore, io al basso, Andrea Tirone alle chitarre e Andrea Prato alla batteria. Poi, noi
abbiamo un set molto particolare. Visto che avevamo bisogno di ampliare la nostra parte
percussiva, abbiamo deciso di inserire un secondo set di batteria che suoniamo io e il
chitarrista durante i live.
Suonando insieme vi sarete fatti un’ idea. Una vostra canzone per soddisfarvi, che
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cosa deve avere per essere “definita”?
Gu: Una nostra canzone deve essere “completa” e quindi deve iniziare e deve finire, deve
riuscire ad aprire un cerchio e a richiudersi su se stessa, ed è una parte molto difficile perché
noi per fare la composizione partiamo da improvvisazioni molto lunghe e ipnotiche, quindi
magari una traccia che è anche abbastanza ballabile dura anche dieci minuti. Per questo
album però (poi non so cosa succederà in futuro) abbiamo cercato di fare delle tracce che
avessero una forma canzone con un inizio e una fine.
Quando voi “perfezionate” il pezzo la tendenza è smussarlo o ammorbidirlo?
Gi: Noi cerchiamo di renderlo il più ruvido possibile. Poi ci sono situazioni e pezzi in cui
siamo andati nell’esatta direzione opposta, però tendenzialmente questo disco credo che sia
un disco che vuole essere ruvido, d’impatto, di certo non delicato. Poi ci sono casi a parte
come “Sex Sometimes”o “Babe (Precious Thing)” che sono più morbide, ma sono un piccola
parte del disco.
Quanto l’elemento percussivo è importante per il quadro generale che rappresenta la
vostra musica?
Gu: L’elemento percussivo è assolutamente centrale, tanto è vero che nei live tutti quanti
usiamo le bacchette. Infatti ne facciamo un uso massiccio, ne usiamo un sacco e ne
rompiamo un sacco ed è la nostra spesa più grande. Noi volevamo essere molto densi, ma
senza scadere troppo nell’elettronica, quindi un modo era suonare una sacco di percussioni.
Le canzoni, prima di registrarle le avete rodate un po’ dal vivo? E come siete dal
vivo?
Gi: Le canzoni del disco sono frutto di un percorso che è stato per una parte in studio e per
una seconda parte frutto dell’esperienza dei live, penso che i live ci abbiano aiutato a capire
qual era la cosa giusta da fare in quel certo pezzo, la struttura giusta, che cosa cambiare o
che suoni usare. Il live è fondamentale.
Gu: Il live è un’esperienza davvero totale, dove suoniamo tutte le tracce dell’album non in
quel ordine, ma attaccate in maniera da tenere sempre l’attenzione del pubblico molto alta. Il
secondo set di batteria che viene suonato a turno dalla band, ci predispone per una cosa
abbastanza fisica e violenta. Se la gente si fa trasportare balla con noi un’ora, intensamente.
Finora qual è stato comunque per voi il vostro live perfetto, con il pubblico recettivo e
il suono ottimale?
Gu: Ne ricordo due con piacere. Uno a Messina, in un Lido, quindi pensavamo l’ultimo
posto dove poter esprimere al meglio il nostro suono, perchè la gente in vacanza non si
aspetta dei pazzi che fanno noise ballabile e invece s’è creata una situazione fantastica e
abbiamo fatto anche due bis, cosa mai accaduta prima. E poi l’altro - che è stata una mini
consacrazione per noi torinesi - al Traffic Festival, quindi davanti a non so quante migliaia di
persone, perché abbiamo aperto per gli Underworld. Torino è una città che ti giudica sempre
e questo da un certo punto di vista è un bene, perché così sappiamo che non dobbiamo mai
abbassare il tiro e stiamo sempre molto attenti, però quella sera abbiamo ricevuto davvero
un sacco di complimenti.
Il disco è stato registrato a Bologna. Com’era l’atmosfera da Bruno Germano?
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Gi: Ci siamo trovati subito bene, perché Bruno è una persona stupenda. Io lo ammiro e lo
stimo moltissimo. Abbiamo lavorato veramente bene con lui. L’atmosfera che aveva
impostato Bruno era perfetta: provavamo tutto quello che c’era da provare e tutte le nostre
idee. Poi ci ha dato un sacco di dritte. Ha risolto molti problemi di registrazione per un
particolare suono o altro che non sapevamo come affrontare trovando sempre la soluzione
giusta.
Come mai Foolica Records e non un’altra etichetta?
Gu: Perchè Foolica, senza voler offendere nessuno, credo sia una delle pochissime vere
etichette in Italia che lavorano nello specifico sulla promozione e investono soldi sull’artista.
Ogni giorno mi stupisco di quanta voglia e di quanto impegno ci sia da parte loro per curare
tutto il lavoro d’insieme che sta dietro ad ogni produzione musicale.
Chi altro è stato fondamentale per voi affinché il disco venisse fuori così bene?
Gu: Beh, chi ci ha registrato quindi prima Maurizio Borgna a Torino e poi Bruno Germano a
Bologna. E poi un sacco di persone, un sacco di amici che ci hanno aiutato, che ci hanno
visto suonare davanti a venti persone e poi ci hanno rivisto al Traffic, davanti a tutta quella
gente. Basti pensare che il nostro video “Time For Shopping” l’ha fatto un nostro amico che
veniva al liceo con noi e che in questo momento studia Medicina. Però ha accettato di farlo
ed è un videoclip assolutamente professionale e tutti ci stanno facendo i complimenti.
Contatti: www.myspace.com/didmusik
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Farmer Sea
“Low Fidelity In Relationships” (I Dischi dell’Amico Immaginario) dei torinesi Farmer Sea è
stata una delle migliori sorprese dell’ultimo anno in ambito indie-pop italiano. “Sorpresa” per
modo di dire, visto che il quartetto aveva già avuto modo di farsi notare (anche all’estero, per
giunta da osservatori autorevoli quale, nientemeno, l’NME) con i precedenti due EP,
“Helsinki Under The Great Snow” (2005) e “Where People Get Lost And Stars Collide”
(2007). L’album di esordio ne ha confermato le qualità, nonostante i tempi di gestazione
piuttosto lunghi. Un po’ come questa intervista, fatta quest’estate intorno a una birra in un
circolo Arci torinese, con in sottofondo una colonna sonora decisamente “noise” a base di
Supertramp e Cindy Lauper. A rispondere alle domande Andy (voce), Cito (chitarra), Cosimo
(basso) e Gia (batteria).
Raccontatemi la storia dell’NME, tanto per cominciare.
Un giorno Davide Combusti (The Niro) ci chiama facendoci i complimenti per la
segnalazione sull’NME, chiedendoci come ci sentivamo. La segnalazione su cosa?
Ovviamente non ne sapevamo nulla. Volevamo chiamare la redazione del giornale per farci
mandare il numero, poi abbiamo lasciato perdere. Ancora oggi non ne abbiamo una copia,
aspettiamo sempre che Davide ci passi la sua. Era una recensione del primo singolo di 4
pezzi; sul sito dell’NME c‘era una sezione dove potevi caricare il tuo profilo, ne saranno
venuti a conoscenza in quel modo.
Parliamo di “Low Fidelity In Relationship”. Dopo un tot di mesi da che lo avete
completato, riascoltandolo vi soddisfa pienamente o cambiereste qualcosa?
Un “tot di mesi” è riduttivo, in realtà lo abbiamo finito quasi un anno e mezzo fa. Qualcosa lo
avremmo già cambiato allora, ma questo è normale. Ognuno di noi ha le sue idee su come
avrebbe potuto essere reso migliore, in particolare per quel che riguarda il suono o la
produzione. Gli arrangiamenti sono OK, ne eravamo già convinti prima dell’entrata in studio.
Forse il disco è stato lasciato decantare un po’ troppo, a forza di ascoltarlo ci trovavamo
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difetti, oltretutto noi siamo anche pignoli. Il mastering alla fine ha rimesso a posto le cose,
ma nei mesi precedenti diverse etichette non si sono mostrate interessate proprio a causa di
un missaggio che secondo loro penalizzava le voci, tenute troppo basse. È vero, forse in un
paio di casi sono leggermente sovrastate dagli strumenti, ma in generale quella è stata una
nostra scelta. Noi ci siamo formati ascoltando un certo tipo di rock americano o inglese nel
quale le voci sono sempre un po’ impastate con il suono, mentre in Italia se la gente non
sente un cantato alla Ramazzotti non è contenta.
Come è avvenuto il contatto con I Dischi dell’Amico Immaginario”?
È stata la proposto sta più seria che abbiamo ricevuto. Nella scelta dell’etichetta abbiamo
avuto non poche difficoltà, le offerte che arrivavano non erano mai molto chiare. Con l’Amico
Immaginario abbiamo avuto carta bianca, libertà totale. Inoltre il fatto di poter lavorare con
un’etichetta torinese è stato importante per noi: molto meglio il contatto diretto che la mail o il
telefono. Il disco, nella fase pre-mastering, lo abbiamo mandato anche all’estero.
Paradossalmente ci rispondevano di più le etichetti indipendenti straniere che quelle italiane,
spesso era solo un “grazie, ma non ci interessa” che comunque è già molto di più della
mancanza di qualsiasi riscontro. Alla prima esperienza questa è una cosa che ti fiacca, dopo
un po’ ti prende male anche se poi capisci che è la norma. Quantomeno, all’estero sono più
gentili. Qualche piccola etichetta ha detto di essere interessata, ma di non potercela fare
economicamente. All’estero le realtà indie spesso sono ancora più piccole che qua,
maggiormente legate al territorio e alle realtà musicali locali. Per una minuscola label
svedese era un po’ difficile gestire una band di Torino.
La famigerata etichetta “indie” che vi viene fatalmente appiccicata dai recensori alla
fine pesa più positivo o in negativo?
Ci sta stretta, inutile negarlo. Da un certo punto di vista, quello diciamo così “estetico”, non
ci sentiamo affatto indie: non abbiamo la cassa in quattro, non portiamo i capelli con la
frangetta, non facciamo esattamente la cosa di tendenza. I nostri riferimenti musicali
vengono dagli anni 90, non proprio quel che va di moda nel giro indie italiano. Ce lo siamo
sempre posti, questo problema dell’estetica, che peraltro ci auguriamo sia una caratteristica
solo italiana. Nei primi due EP un po’ l’abbiamo sfiorata, consapevolmente, perché
speravamo che potesse darci una certa visibilità. C’è poco da fare, per farti notare devi
entrare in certi giri...
Sì, ma questi ambienti hanno davvero l’ importanza che tendono ad attribuirsi?
Se guardi i palinsesti dei festival sembrerebbe di sì. È anche vero che se abbiamo suonato
in certi contesti è grazie a contatti di quel tipo. Parlando più nello specifico di musica, ci ha
un po’ stufato leggere nelle recensioni certi vocaboli che si ripetono: e la “cameretta”, e le
“chitarrine plin plin”, e la “canzoncina pop”... A volte pare che l’etichetta “indie” deve essere
messa di mezzo per forza, per nobilitare termini più semplici come pop o rock. La realtà è
che siamo un gruppo pop, e basta.
Ma per voi essere indipendenti, per restare al significato originario, è un valore o un
semplice dato di fatto?
Indipendenza significa libertà di scelte. Questo è ciò a cui teniamo di più. Siamo andati in
studio convinti di quelle canzoni e non ci siamo spostati di una virgola.
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Come lavorate, quando componete i pezzi?
Siamo la band più democratica del pianeta. Lo spunto arriva da un giro di chitarra o
qualcos’altro, raramente dalle parole. Poi un blocco dopo l’altro si costruisce il pezzo. Se una
cosa non convince anche solo uno di noi, la si lascia perdere. È anche per questo che ci
mettiamo una vita a scrivere i pezzi. Tipo tre mesi a canzone. Però questo significa anche
che i pezzi alla fine escono quasi rifiniti in tutte le parti. Poi c’è la fase delle prove dal vivo, in
cui testiamo i pezzi in base alla reazione della gente.
Da quando avete lavorato al disco a oggi è cambiato il vostro approccio musicale?
E’ ancora presto per dire verso dove ci muoveremo, l’importante è non fossilizzarsi sui suoni
dell’album. Uno degli aspetti che vorremmo modificare è il modo di cantare, ci piacerebbe
impostarlo su tonalità leggermente più soul. Ci stiamo avvicinando maggiormente alla
classica forma canzone pop, anche nella durata: tre minuti e stop. Una delle cose di cui
siamo abbastanza sicuri è che vorremmo produrci da soli, in futuro.
Non avete un produttore dei vostri sogni?
In saletta ne parliamo spesso. Il nome che viene fuori di più è quello di Dave Fridmann. Ci
piace quel modo di produrre arioso, gli inserti di elettronica all’interno di strutture molto
melodiche, spesso acustiche. Nessuno di noi è un esperto di elettronica, però ci mettiamo lì
tutti assieme e ne esce qualcosa, magari naif ma secondo noi interessante.
Fondamentalmente quello che vogliamo fare sono sempre canzoni, però ci siamo trovati
bene a cazzeggiare con campionatori grezzissimi tipo uno Yamaha degli anni 70. Quelli che
nelle recensioni, tanto per tornare sull’argomento, vengono definiti “tastierine giocattolo”. Il
Casio SK1 non è affatto una “tastierina giocattolo”. Invece, il Juno 106 che usiamo in pezzi
come “Neil Young Is Watching Me” è un chiaro omaggio ai Grandaddy.
Cosa fate nella vita, a parte suonare?
Lavoriamo tutti, ma la testa è sempre lì, alla band. Per ora non ci pensiamo neanche, a
campare di musica. Le vendite sono quelle che sono, per ora è più un feticcio personale:
avere un tuo disco fuori, magari passare alla Fnac e vederlo vicino a Franz Ferdinand
piuttosto che a Fabri Fibra. La cosa fondamentale, comunque, rimane suonare dal vivo.
Cos’è che ti fa svoltare in Italia?
Avere la frangia (risate, Ndr). Beh, insomma, ci vuole un po’ di paraculismo. Lo diciamo da
ascoltatori prima ancora che da musicisti. C’è tutta una rete, un sottobosco di blogger che
fanno gli opinion leader, che serve proprio a questo. A volte comunque è anche un pregio,
avere una mentalità imprenditoriale.
A proposito di “giri”, com’è Il vostro rapporto con Torino?
Non siamo legati più di tanto alla scena torinese attuale. Che poi in realtà non esiste. A volte
sono invenzioni estemporanee dei giornalisti, tipo la fantomatica scena del cantautorato di
San Salvario, che in ogni caso si è beccata le sue belle pagine su “Rumore”, il che una certa
notorietà te la porta. Come sempre, c’è chi si imbuca nelle situazioni e chi non conosce un
cazzo di nessuno, tipo noi. Torino è una città difficile, ma da altre parti stanno ancora peggio.
Certo, riuscire a trovare concerti per una band locale è complicato.
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Chiudiamo con i vostri dischi della vita.
Andy: “Mellon Collie...” degli Smashing Pumpkins e “Yankee Hotel Foxtrot” dei Wilco.
Cosimo: “Hai paura del buio?” degli Afterhours
Cito: “Spiderland “degli Slint, non c’entra niente con quello che suoniamo ma per me è stato
importante, e poi “You’re Living All Over Me” dei Dinosaur Jr.
Gia: La sezione ritmica è più kitsch, del resto io sono un ex metallaro. Comunque ti dico
“OK Computer”: sarà banale ma mi ha cambiato la vita, facendomi passare dal metallo al
pop. Anche se “Roots” dei Sepultura rimane sempre un grande amore.
Contatti: www.myspace.com/farmersea
Carlo Bordone
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Fine Before You Came
Con “Sfortuna” - il loro ultimo album pubblicato in CD per La Tempesta, in vinile per Triste, in
musicassetta per Ammagar e messo fin da subito in free download sul proprio sito - i Fine
Before You Came attuano una svolta decisiva nel loro percorso artistico lungo quasi dieci
anni, decidendo di cantare in italiano. Di questo, di Internet, di promozione e di sfiga
abbiamo parlato con i cinque ragazzi di stanza a Milano.
Cominciamo dal vostro ultimo album “Sfortuna”, a mio avviso uno dei dischi italiani
più riusciti e più importanti del 2009. Com’è nato? E soprattutto come mai la scelta,
riuscita aggiungerei, di cantare in italiano?

Cavolo grazie mille. “Sfortuna” è nato molto semplicemente dalla sfida di provare a fare un
disco in italiano e non in inglese come i precedenti, per non ripetersi, per perdere qualsiasi
tipo di derivazione musicale e per cimentarsi con la propria lingua. Abbiamo semplicemente
pensato “per dio, possiamo farcela anche noi”. E adesso tu ci dici che è andata. Quindi,
bene così. Evviva.
Non pensate che l’italiano abbia contribuito a fornirvi un’identità più forte, magari
facendovi sdoganare da quella morsa derivativa, prima con l’emocore poi con il
post-rock, del passato?
Sicuramente l’italiano ha aiutato a uscire dai cliché. Anche se molto serenamente
ammettiamo che ci sentivamo al di fuori di gran parte dei canoni di certo rock già da un po’.
Non pensiamo di tornare all’inglese. L’italiano ci piace anche se è notevolmente più difficile.
Però a questo punto dobbiamo quanto meno capire se “Sfortuna” ci è venuto per caso o no.
Stiamo già lavorando a dei pezzi nuovi. Per ora pare andare tutto bene ma potremmo anche
aver finito le scorte. In quel caso ci inventeremo qualcos’altro.
Oltre alla vostra ottima tecnica strumentale, “Sfortuna” evidenzia bene anche un
profondo e sentito lavoro sui testi. Nell’insieme, il tutto rende l’idea di un affiatamento
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di gruppo molto funzionale e di una maggiore maturità raggiunta. Su cosa si basa il
vostro processo creativo e come è cambiato negli anni?

Beh, siamo sempre stati molto affiatati. Pensa che ogni pezzo fatto da dieci anni a questa
parte è frutto del lavoro di cinque teste. Mai nessuno arriva in sala con un riff o qualcosa di
già pronto. Nasce tutto quando siamo tutti e cinque. Se da una parte rende il processo
compositivo lunghissimo questo metodo fa si che ognuno dica la sua in ugual misura. È il
motivo per cui non possiamo pensare alla banda senza uno solo di noi. Sarebbe un altro
gruppo. Anche i testi prima di essere approvati devono passare il vaglio di tutti noi. Nei
prossimi per esempio siamo tutti d’accordo di parlare degli animali della fattoria.
A distanza di alcuni mesi dalla pubblicazione di “Sfortuna”, vi sarete fatti un’idea
della reazione del pubblico, sia vecchio che nuovo. Com’è stata? Pensate che la
scelta dell’italiano abbia contribuito all’ampliamento del vostro pubblico?

Ha contribuito tantissimo. Ci sono un sacco di facce nuove ai nostri concerti e un sacco di
ragazzi giovani. Il fatto che la fruizione della musica sia diventata così semplice grazie a
Internet ha molto influito sui testi delle canzoni. Mi spiego meglio. Un tempo compravamo
uno/due dischi e li ascoltavamo coi testi alla mano. Oggi ne scarichiamo sette/otto e li
ascoltiamo nell’iPod e solo a quelli che ci sembrano più interessanti diamo, forse, in un
secondo momento una letta ai testi. Scrivendo in italiano invece salti un passaggio, le parole
sono semplici, comprensibili ed estremamente urlabili. La cosa bella di “Sfortuna” è che devi
solo urlarlo a squarciagola e il concerto non lo facciamo più solo noi ma chiunque abbia
voglia di gridare. È liberatorio e dà una gioia infinita. Guardiamo gli amici che abbiamo
davanti e li sentiamo completamente parte della banda. Detta così sembra il delirio di un
santone invasato ma ti assicuro che è così.
Nonostante l’album sia uscito in cd per La Tempesta, la promozione non ha però
seguito un iter tradizionale, convenzionale. Come mai? 

Enrico de La Tempesta aveva un sacco di dischi da fare uscire in quel periodo. Ci ha detto
chiaramente che non era il momento e che non poteva dedicarsi a “Sfortuna” prima di un tot
di mesi. Dato che non avevamo voglia di aspettare gli abbiamo detto di farlo uscire
comunque e che alla fine della promozione e dell’iter tradizionale non ci interessava granché
visto e considerato che il disco sarebbe stato scaricabile gratuitamente fin da subito. Dopo
solo una settimana lo avevano scaricato mille persone poi la voce è girata sempre di più. La
promozione migliore che si possa desiderare è quella di chi scopre qualcosa che gli piace e
lo consiglia agli amici.
Quindi con Internet avete un rapporto felice?

In realtà non siamo mai stati bravi con Internet. Non abbiamo avuto un sito aggiornato fino a
“Sfortuna”. E anche adesso, onestamente, il nostro sito è tutt’altro che all’avanguardia. Però
ci piace molto l’idea che la musica sia gratuita, che chiunque possa usufruirne e che non
venga imposta in alcun modo. Scarichiamo musica regolarmente. Questo non vuol dire che
non acquistiamo dischi. Anche a noi piacciono i feticci. Internet dà una possibilità a tutti
senza pretendere nulla. A Internet non gliene frega nulla se fai metal o elettropop, se sai
suonare o fai paura all’uomo della strada. Internet dà le stesse possibilità a tutti quanti. Se
La Tempesta non fa uscire il tuo disco di rap celtico pubblicatelo da solo.
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Ma, per finire, “Sfortuna” è davvero un album che porta sfiga?
Visti i risultati, penso proprio di no... anzi. 
La sfortuna è di tutti, tanto quanto
Internet. Puoi dare la colpa alla sfortuna tutte le volte che vuoi. E lei è serena. Si prende le
colpe e non te la fa pesare. “Sfortuna” non parla di sfortuna ma di quanto spesso non siamo
in grado di prenderci la responsabilità delle nostre azioni. Sul sito scherziamo molto. In
generale scherziamo molto. “Sfortuna” porta sfortuna se hai bisogno che porti sfortuna.
Contatti: www.finebeforeyoucame.com


Andrea Provinciali
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Hollowblue
Terzo capitolo per i livornesi Hollowblue, secondo sulla lunga distanza e primo
discograficamente autarchico, “Wild Nights, Quiet Dreams” (aCupintheGarden/Audioglobe)
mantiene fino in fondo le promesse dei lavori precedenti aggiungendo alle canzoni qualche
dose di elettricità. Ne abbiamo parlato con il fondatore Gianluca Maria Sorace e il chitarrista
Marco Calderisi.
Pur mantenendo la vostra cifra stilistica abituale, sempre legata a certi colori d'autore
e noir, questo secondo album è più compatto e più rock, a tratti più chitarristico e
aggressivo (ad esempio in “You Cannot Stop” o “I've Got The Key To Change The
World”). C'è un motivo che vi ha spinto a muovervi in questa direzione?
Gianluca Maria Sorace: La direzione che abbiamo recentemente intrapreso ha avuto uno
sviluppo naturale. Se nei precedenti album – l'EP “What You Left Behind” e “Stars Are
Crashing (In My Backyard)” – il mio lavoro è stato predominante e per certi versi
ingombrante, dall'anno scorso il coinvolgimento da parte di tutto il gruppo è diventato totale,
con inoltre un gran lavoro di improvvisazione in sala prove. Questo ha fatto sì che le nuove
canzoni risentissero ancor più delle singole personalità dei musicisti e non di una singola
visione. Tutto è diventato più spontaneo e diretto. Inoltre la nostra violoncellista, nel periodo
in cui stavamo scrivendo gran parte del nuovo album, aveva deciso di prendere altre strade.
Ci siamo così ritrovati a riempire, con le chitarre elettriche, gli spazi normalmente occupati
da lei. In seguito abbiamo fatto il solito lavoro di rifinitura e orchestrazione delle parti a cui
teniamo molto, ma diverse strutture di base sono composte da un paio di accordi e un
approccio energico, quasi punk.
Marco Calderisi: Voglia di cambiare, stress, paura, odio, ansia, dolore, la necessità di
avere un posto sicuro dove rifugiarsi di tanto in tanto, dove non serva fare compromessi o
indossare una maschera per essere accettati ... sentimenti che conosciamo bene ma che nel
vecchio lavoro non avevano trovato spazio.
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Nel bel mezzo di “Sigma” ti sentiamo per la prima volta cantare in italiano. Sei tentato
dall'idea di muoverti in quella direzione?
G: In ognuno degli album che abbiamo pubblicato c'è uno spazio dedicato al materiale un
po' più datato. Gli archivi degli Hollowblue, ma anche miei personali, straripano di canzoni.
“Sigma” era una di queste, nata per un progetto durato 8 anni che si chiamava
Tangomarziano in cui mi “costringevano” a scrivere e cantare in italiano. Esiste quindi una
versione completamente italiana di quella canzone. Il bassista Giancarlo Russo, che con me
aveva condiviso anche quel progetto, ha avuto l'idea di utilizzare una parte di quel testo nel
finale. E' probabile che dal vivo proveremo ad eseguirla, ogni tanto, completamente in
italiano. Non ho pregiudizi verso la nostra lingua madre, semplicemente mi diverto molto di
più a cantare in inglese. Si crea un senso di distacco tra me e quello che scrivo che per
assurdo mi aiuta a meglio interpretare quello che canto. Parlando con altri musicisti
notavamo come si stia diffondendo una certa diffidenza verso i gruppi che scelgono l'inglese.
Ho sentito lo stesso Pierpaolo Capovilla del Teatro degli Orrori, che pure stimo e apprezzo,
dichiarare che il suo cantare in inglese nei One Dimensional Man era in qualche modo una
forzatura. Mi spiace che l'Italia non provi a fare quel salto mentale, che porterebbe a cercare
di esportare la musica italiana all'estero. Questo succede nei paesi nordici ad esempio,
senza nessun pregiudizio. I gruppi cantano in inglese e la cosa viene accettata. Qui non è
altrettanto semplice. Non prevediamo un cambio di lingua a meno che questo non sia
divertente e naturale. Ci piace sperimentare e probabilmente qualcosa faremo ma come
potremmo farlo un giorno con qualsiasi altra lingua che in quel momento ci sembri
appropriata e interessante da utilizzare.
La musica degli Hollowblue è fortemente legata alla tua scrittura, essendo l'autore dei
brani e dei testi. Nel corso degli ultimi tempi, anche dal momento in cui è stato
registrato il disco ad oggi, ci sono stati dei cambi di line up. Posto che,
evidentemente, negli Hollowblue finiscono per gravitare musicisti con una sensibilità
affine alla tua, mi chiedo quali siano le dinamiche compositive all'interno del gruppo...
G: Come dicevo, in “Wild Nights, Quiet Dreams” il coinvolgimento dei membri base
(Giancarlo Russo, Federico Moi e Marco Calderisi) è stato totale. Hollowblue è nato come
mio progetto solista nel '90. Abbandonato per diversi anni, è diventato un vero gruppo nel
2003. All'inizio veniva inteso, in qualche modo, come il gruppo che mi permetteva di
esprimere la mia personale visione della musica, ma nel tempo le cose sono fortunatamente
cambiate. E dico fortunatamente perché credo moltissimo nello scambio, in particolare
quando le persone con cui si collabora sono sensibili e affini. Ho avuto la fortuna di trovare
negli Hollowblue persone di questo genere. Per vari motivi alcuni membri sono nel tempo
cambiati, il nucleo base che citavo prima è rimasto però immutato e recentemente si sono
aggiunti Enrico Filippi al piano e synth e Sarah Mayer al violino e voce, anche con loro c'è
una grande intesa musicale e umana. Se prima i musicisti erano quasi degli esecutori,
adesso le cose sono cambiate e, a parte la scrittura dei testi, c'è un rapporto assolutamente
paritario. Capita molto spesso di entrare in sala prove, accendere gli amplificatori e ritrovarci
dopo mezz'ora con una canzone nuova.
M: Io parlerei anche di comunione di intenti e di voglia di stare insieme. Io e Gianluca, ad
esempio non siamo così affini musicalmente, riusciamo a scambiarci davvero pochi dischi!
Con questo disco l'azione compositiva è stata molto più articolata e distribuita all'interno del
gruppo di quanto sia mai stato in precedenza.
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In “Honeymoon” entrano in gioco quelle atmosfere "di frontiera" che abbiamo
incontrato nei vostri lavori già in precedenza: il mexican border, la California di
Fante... Pur nella evoluzione musicale, quello resta un punto fermo nella poetica degli
Hollowblue, sei d'accordo?
G: Si, sono d'accordo. Un disco che ci ha aperto la strada verso quelle atmosfere è stato
“The Black Light” dei Calexico, che personalmente mi ha fatto transitare da ascolti new wave
ad un modo più intimo e forse meno artificiale di esprimersi musicalmente. Per quanto non
sia particolarmente amante della musica americana, gli Stati Uniti di frontiera mi affascinano
perché sono un crocevia di razze e mescolanze culturali, di diseredati e grande creatività.
Non abbiamo mai programmato in realtà di esprimere certe atmosfere, ma queste emergono
sempre con forza e ogni disco ha la propria canzone di frontiera, nel primo EP la canzone
“What You Left Behind”, nel primo album “Stars Are Crashing In Mexico” e in quello nuovo
“Honeymoon”.
M: Nella nostra poetica rientrano però anche altri aspetti: c'è il deserto, assolato e
polveroso, ma ci sono anche i meandri bui delle metropoli, e non sempre ci si sente del tutto
soli.
Il vostro primo album ha ricevuto ottime critiche all'estero, credi che sia una via
praticabile, che produca risultati? L'impressione è che l'unico modo per raggiungere
determinati obbiettivi sia inevitabilmente affidato all'iniziativa individuale. Insomma:
riusciremmo mai ad esportare la nostra scena all'estero? E soprattutto, come hai
vissuto questo affacciarti su una realtà diversa?
G: Il nostro precedente album ha avuto in effetti ottime recensioni e apprezzamenti all'estero
nonostante non sia stato veramente distribuito fuori dall'Italia, se non in forma digitale.
Questo ci ha fatto ovviamente molto piacere ma al tempo stesso ci ha creato anche un certo
senso di frustrazione. Si è manifestato in modo abbastanza evidente il contrasto tra la
potenzialità di questo progetto e la obiettiva difficoltà di esportarlo, non per ragioni artistiche
ma per la poca lungimiranza delle strutture discografiche: pochi mezzi, poca voglia ed
effettiva possibilità di rischiare. Il mercato italiano, come dicevo, mi sembra si stia chiudendo
un po' su se stesso. Ci sono delle fortunate eccezioni ma si continua a guardare, musicisti
compresi, all'Italia e non all'Europa. E anche per questo che abbiamo deciso di aprire una
nostra label – aCupintheGarden – e seguire ancora più da vicino tutti gli aspetti che
riguardano la pubblicazione e la vita di un album. Sinceramente, invece di pensare di
cambiare la lingua con cui canto per poter “piacere” all'Italia, vorrei continuare a sentirmi
libero di scegliere e di fare piccoli passi verso l'estero dove la musica indipendente, al
contrario di quanto sta succedendo qui, non è un hobby, un gioco fra amici, una specie di
circolo culturale chiuso. La musica italiana all'estero semplicemente non esiste, così come si
sta eclissando, per chi ci osserva dall'esterno, la nostra dignità culturale.
Contatti: www.hollowblue.com
Alessandro Besselva Averame
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Methodica
In dodici anni di attività i veronesi Methodica, con gli inevitabili cambi di formazione, momenti
di euforia e sconforto, sono passati da semplice cover band dei loro idoli Dream Theater ad
essere considerati uno dei nomi di spicco della scena prog metal internazionale. Un genere
per anni prolifico, ma da tempo incapace di rigenerarsi e quindi piegato su sé stesso, vittima
dell’eccessivo tecnicismo dei musicisti. Ma con i Methodica questo pericolo è scongiurato,
come dimostrano le melodie ariose di “Searching For Reflections”, l’album di debutto –
pubblicato dai veterani dell’Underground Symphony – che sta ricevendo consensi unanimi
dalla critica internazionale. In un mondo musicale che brucia tutto in pochi mesi, è
confortante scoprire che una band arriva all’esordio in età matura e si gode tutto con la
giusta dose di entusiasmo. Li abbiamo intervistati anche per capire come si vive un
momento come questo e quali sono i nuovi obiettivi.
In un mercato discografico caotico e confuso, dove tutti divulgano dischi senza
ritegno, vorrei capire come è possibile che una band come la vostra, abbia dovuto
aspettare dodici anni per pubblicare l’album di esordio.
I Methodica nascono in effetti nel 1996, ma con una formazione quasi completamente
diversa rispetto a quella attuale. C’erano altre persone alla voce, tastiere e chitarra; per
quest’ultima, poi, si sono avvicendati diversi musicisti. Tutto ciò ha causato notevoli problemi
e rallentamenti alla nostra band, ma nonostante tutto siamo riusciti ad avere dei brani pronti
già nel 2005. Finalmente l’arrivo del chitarrista giusto nel 2006, Marco Ciscato, ci ha
permesso di iniziare a concretizzare i nostri progetti e di dare forma definitiva ai vari pezzi, e
grazie allo spirito di gruppo che ci unisce, abbiamo deciso di fare il grande passo: registrare
le canzoni e cercare un’etichetta discografica disposta a puntare su di noi. In realtà, quindi, i
Methodica come li vediamo oggi sono un combo più recente, è bastato trovare il giusto mix
di persone per dare vita a “Searching For Reflections”, il nostro album.
I brani che addobbano “Searching For Reflections” sono il frutto di tutti questi anni di
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lavoro o rappresentano solo i Methodica degli ultimi anni? E il vecchio materiale non
utilizzato perché è stato scartato?
I brani rappresentano sia i Methodica più recenti sia quelli di qualche anno fa, dopo
l’ingresso alle tastiere di Marco Baschera, il primo delle new entry. I vari cambi di line up
hanno contribuito, poco o tanto, a modificare e personalizzare lo stile dei brani, ci sono state
idee che sono rimaste come segno indelebile del passaggio di questi musicisti. Possiamo
dire che il nostro album è un riassunto dei dodici anni di vita della band, e di tutto quello che
è avvenuto all’interno. Un riassunto implica quindi di dover tenere delle cose e di toglierne
altre. Il vecchio materiale non utilizzato in realtà non è stato scartato, c’è ancora: se
l’abbiamo messo da parte è soltanto perché l’abbiamo ritenuto non in linea con lo stile di
“Searching For Reflections”; ci sono anche altri brani che sono stati composti per il prossimo
futuro, sono gli “ingredienti” per il nuovo album.
Voi avete iniziato come cover band, omaggiando i vostri idoli, i Dream Theater in
particolare. Oggi suonare cover sembra essere l’unica via possibile o quasi per
ottenere degli ingaggi nei locali. Cosa pensate di questa situazione e secondo voi
perché il pubblico di massa preferisce ascoltare le solite canzoni, indipendentemente
dalla qualità, piuttosto che dedicare attenzione a delle nuove proposte?
Punto dolente, quello dei locali che vogliono principalmente cover band, ma purtroppo vero.
Se guardiamo la faccenda dal punto di vista dei gestori dei locali, è chiaro che loro
preferiscono le cover bands perché assicurano un’affluenza di clientela maggiore rispetto ad
una band che propone le proprie canzoni, meno (o per niente) conosciute. A molti gestori
non interessa la band in sé, interessa principalmente riempire il locale; a volte il gruppo che
suona funziona da sottofondo musicale più che da attrazione della serata. Chiaramente non
è sempre così, ci sono titolari di locali sinceramente appassionati di musica, che propongono
serate di musica originale con band anche sconosciute, ma sono una minoranza, purtroppo.
Per quanto riguarda il pubblico di massa, probabilmente andare alla ricerca di qualcosa di
nuovo, ascoltare canzoni mai sentite prima, comporta uno sforzo non indifferente, troppo
faticoso. Meglio stare su quello che si conosce già. Per fortuna c’è anche un pubblico che si
accosta con curiosità alla musica originale, e speriamo che questo tipo di pubblico ci sia
sempre e sempre più numeroso, altrimenti si rimane fermi, non c’è crescita musicale e
mentale, né varietà di proposte.
Dietro la storia dei Methodica c’è anche un episodio drammatico, ma allo stesso
tempo di grande forza emotiva. Il vostro batterista a causa di un incidente in moto nel
2004 ha subito l’amputazione di un piede, ma grazie alla nuova chirurgia e alla sua
forza di volontà è
t ornato non solo a camminare, ma anche dietro le pelli delle
sua batteria. Come avete vissuto umanamente quel momento e come è stato
condividere con lui la speranza di poterlo riavere con voi nel gruppo?
Il giorno in cui è successo l’incidente ci saremmo dovuti trovare come al solito in sala prove
per suonare, invece ci siamo ritrovati tutti insieme in ospedale aspettando notizie dai medici,
assieme ai familiari di Marco. In quel momento l’unica cosa positiva a cui aggrapparsi era il
fatto che Marco era ancora vivo, per il resto erano nubi nere, molto nere, non tanto per il
futuro della band, anche se non era mai stato così in forse come in quel momento, quanto
per la salute e il futuro di Marco. Ci chiedevamo cosa sarebbe successo, non riuscivamo a
trovare una risposta. La risposta ce l’ha data Marco, che ha avuto tempi di recupero fisici e
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soprattutto psicologici che hanno stupito tutti quanti. Pur consapevoli delle difficoltà che ci
sarebbero state per lui per tornare come prima, la sua forza di volontà ha dato un’iniezione
di ottimismo a tutti noi. Solamente un mese dopo l’incidente è tornato in sala prove, dietro ai
tamburi a suonare. È stato un esempio di vita e di coraggio per tutti. Molto toccante è stato il
concerto del febbraio 2005 al Moulin Rouge di Verona, prima uscita live dopo l’incidente:
Marco, ancora senza protesi, ha suonato con un piede solo. Più che un concerto è stata una
festa di bentornato e di un nuovo inizio.
Considerando che la vostra non è musica istintiva, ma che invece richiede impegno e
condivisione, come lavorate in fase compositiva? Anche per voi vale il motto che
vuole la creatività al meglio solo quando in sala prove ci sono litigi e discussioni?
Beh, la creatività per fortuna non passa inevitabilmente dai litigi, almeno per quanto ci
riguarda. Più che altro, nel nostro caso parliamo e discutiamo di quello che può star bene o
meno in un determinato pezzo, lo proviamo per vedere se suona bene, se non si adatta
cerchiamo e studiamo qualcos’altro. Tutti sono coinvolti e tutti possono dire la loro, l’idea
buona può arrivare da chiunque. Per quanto riguarda la struttura dei brani e le idee iniziali, di
solito è il nostro tastierista Marco Baschera che propone i primi riff, se li registra per conto
suo in sala prove con midi, tastiera e chitarra in stile heavy metal, poi ce le fa ascoltare.
Spesso io e lui ci troviamo per studiare la struttura definitiva del brano, io aggiungo le
melodie vocali, e il brano comincia a prendere forma. Gli arrangiamenti e le successive
elaborazioni vengono studiate da tutta la band insieme, fino ad arrivare al risultato finale, che
per noi deve essere piacevole da ascoltare pur nella sua complessità, e deve mantenere
una certa spontaneità.
La critica ha speso elogi di ogni tipo per il vostro album. Vi aspettavate
un’accoglienza di questo genere e secondo voi perché i Methodica non vengono
definiti la solita prog metal band tecnica, ma al contrario a vincere non è la tecnica,
ma le canzoni?
Siamo rimasti molto sorpresi dai complimenti che ci hanno riservato , sono andati oltre le
nostre aspettative. La critica ci definisce diversi dalle solite prog metal band probabilmente
per il fatto che comunque le nostre canzoni, come dicevo prima, sono orecchiabili e hanno
delle melodie spesso facili da ricordare pur essendo elaborate e ricercate. Spesso i brani
presentano un sound Seventies mescolato a suoni più moderni: questo miscuglio nasce
dalle nostre molteplici influenze musicali, che passano dal progressive anni 70 al rock e al
metal degli 80. A noi interessa fondamentalmente una doppia ricerca, nella composizione
dei brani: uno stile ricercato e ricco, ma al tempo stesso melodico, il che non significa
comunque poco studiato o poco ragionato. Il risultato che vogliamo ottenere è una musica
apprezzabile sia dagli intenditori del progressive sia da chi ascolta altri generi musicali. Noi
puntiamo sia sul feeling, sul lato emozionale della musica, sia sulla tecnica, perché secondo
noi il giusto equilibrio tra questi due elementi riesce a creare brani che sanno arrivare al
cuore dell’ascoltatore
Dopo tanti anni di gavetta, finalmente sono arrivate un po’ di soddisfazioni, ma cosa
vi aspettate da adesso in poi?
Innanzitutto ci godiamo questo momento di soddisfazioni, sperando che duri ancora un bel
po’; nel frattempo stiamo organizzando dei concerti per promuovere il nostro disco, sperando
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di avere un buon riscontro anche di pubblico. Abbiamo appena girato il videoclip di “Neon”,
brano di apertura del disco, per la regia di Cristian Biondani, uno dei registi di videoclip più
quotati a livello nazionale, che ha lavorato, tra gli altri, con Vasco Rossi, Laura Pausini e
Tiziano Ferro. E poi, soprattutto, stiamo già pensando al secondo disco. Le sorprese da
parte dei Metodica non sono ancora finite.
Contatti: www.myspace.com/methodicaband
Gianni Della Cioppa
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Misero Spettacolo
Raccontare i Misero Spettacolo non è di certo impresa semplice: la loro musica è un po’
tantrica e un po’ teatrale, impossibile da definire in termini di genere. Per ora possiamo dirvi
che vengono da Bologna, che hanno collaborato con i Manetti Bros e che sono apparsi su
Rai Due con il brano "La druda e il soldato", colonna sonora de "L'ispettore Coliandro". In
occasione dell’uscita del loro secondo lavoro – “L’inconcepibile” (Zeta Factory/Venus) – li
abbiamo intervistati per approfondire tematiche, influenze e progetti futuri.
Cominciamo. Se dovessi descrivere i Misero Spettacolo con quattro parole quali
useresti? E perché?
Cantautorato, teatro, filosofia e tantra. Cantautorato perché è il termine più semplice per
descrivere la nostra musica. Dice tutto ma non dice nulla. Raccontiamo le nostre storie, le
nostre emozioni e le nostre idee tra musica e parole, cercando di sfuggire ad ogni
descrizione che potrebbe racchiudere la nostra musica in un genere particolare e preciso.
Cerchiamo di percepire e fare musica a 360 gradi, senza alcun filtro o legge di mercato. A
volte qualcosa viene fuori è assomiglia ad un rock, altre volte al folk, altre ancora al blues o
al jazz e chi più ne ha più ne metta. Quello che conta è che vengano fuori canzoni! Teatro
perché ci riteniamo, in particolar modo dal vivo, abbastanza teatrali, viviamo una vita diversa
per ogni canzone che eseguiamo, la recitiamo, entriamo nei personaggi e ogni giorno sul
palco percepiamo diverse emozioni che ci permettono di vivere sempre in modo diverso le
nostre canzoni. Ed è forse grazie a questa visione che i nostri spettacoli sono sempre diversi
tra loro! Filosofia perché presuntuosamente, ma del resto anche naturalmente, facciamo un
po’ di filosofia con la nostra musica, scavando sempre più a fondo, nelle nostre viscere. Ogni
canzone parte da una tesi e si sviluppa sviscerando cause e conseguenze di un dato fatto,
seguendo un processo matematico e logico tipico della filosofia. Infine tantra perché viviamo
la nostra musica come un’estasi spirituale e corporea che parte dalla realtà e trascende la
stessa realtà in un movimento che segue una linea circolare, proprio come la linea
spazio-temporale descritta dalla teoria della relatività. Ci sentiamo un po’ come ipotetici
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astronomi che con un paradossale cannocchiale cercano di vedere il fondo dell’universo e si
accorgono di star spiando se stessi, di spalle, la propria nuca, parte anteriore di un volto
dinanzi ad un cannocchiale che cerca di intravedere il fondo dell’universo... Un movimento
circolare tantrico, appunto!
Come nasce il progetto Misero Spettacolo e con quali obiettivi? C’è un episodio
particolare (ma puoi sceglierne anche uno banale) che segna la genesi del gruppo?
La data di nascita del progetto coincide con la data di nascita di ogni componente che ha
deciso di farne parte. E’ come se per noi fosse sempre esistito. Nasce per dar voce ai suoi
componenti che un bel giorno si accorgono di poter capire e comunicare emozioni e idee
solo tramite la musica e scelgono il nome “Misero Spettacolo” in onore di quel Misero
Spettacolo offerto dalla vita e da una società ipocrita che tanto cercano di combattere, per
poi accorgersi di farne parte a tutti gli effetti. Ed è per questa ragione che decidono di
chiamarsi così.
Ricollegandoci alla risposta alla prima domanda... Leggendo un po’ di articoli e
recensioni su di voi, sono rimasta sorpresa dalla quantità di generi musicali che vi
vengono attribuiti: dal folk al rock, passando per il cantautorato, il jazz e l’indie.
Allora, ditemi, è possibile o no definire in termini di genere la musica dei Misero
Spettacolo?
Francamente spero non sia possibile racchiudere la nostra musica in un genere musicale
canonico. Ci piacerebbe non essere incanalati in nessuna corrente perché non sentiamo di
appartenere a nessuna corrente in termini di genere. Del resto, come sosteniamo nel nostro
primo album, “Tutto è un’opinione”, anche i generi musicali per noi non sono altro che
un’opinione. Facciamo musica e per noi è l’unica cosa che conta!
Come avete concepito, realizzato e costruito il vostro nuovo album,
“L’Inconcepibile”? Si tratta davvero di un concept?
Durante la promozione del nostro primo disco “Tutto è un’opinione”, una serie di eventi
personali ci ha portato a comporre più di trenta canzoni. Quando il nostro produttore
Gabriele “Rusty” Rustichelli, a distanza di un anno dal primo disco ci ha proposto di iniziare a
lavorare alla nostra seconda pubblicazione, abbiamo avuto due settimane per scegliere e
decidere le canzoni che avrebbero dovuto farne parte. In quelle due settimane ci siamo
accorti che le ultime canzoni composte avevano un unico tema conduttore e da qui l’idea di
realizzare un concept album che girasse intorno al secondo principio della termodinamica e
la sua filosofia naturale. E così naturalmente nasce “L’inconcepibile”, secondo capitolo della
nostra storia che guarda caso segue un primo concept album, “Tutto è un’opinione”,
costruito invece intorno alla teoria della relatività. Due leggi fisiche che dominano e regolano
la vita di tutti i giorni. Successivamente, per quindici giorni, siamo entrati in studio e, sotto la
supervisione artistica di Gabriele Rustichelli, abbiamo pre-prodotto sedici canzoni
selezionate tra le tante. 24 ore su 24, abbiamo arrangiato i brani in due settimane e abbiamo
lasciato fuori una sola canzone dal titolo “L’inconcepibile” che è poi diventato il titolo
dell’album.
Qual è il vero punto di forza del vostro nuovo disco? E, con un po’ di autocritica,
sapreste evidenziare un punto di debolezza?
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Eh! Bella domanda, che rischia di farci cadere nel vortice della falsa modestia!
Sinceramente credo che il punto di forza del nostro nuovo disco sia dato da una varietà di
stili e composizioni sempre differenti tra loro, che caratterizzano ogni singola canzone, che si
intrecciano e regalano al lavoro una varietà di suoni e liriche spero mai scontati. Il tutto
ottimizzato da una produzione artistica che ha saputo capire e impreziosire le nostre idee al
meglio. Il punto di debolezza?... Perché, c’è davvero un punto di debolezza?... Scherzo!
Credo francamente con il senno di poi che il disco sia piuttosto lungo. Del resto avevamo
materiale per fare un doppio album e così abbiamo deciso di racchiudere al prezzo di un
solo lavoro quello che avremmo potuto racchiudere in un album e un EP. Tant’è vero che il
disco si divide in due parti: un album vero e proprio seguito da una “Trilogia” e una bonus
track che concludono il discorso del concept album “legato all’intimo disordine dell’ordine
individuale”, come qualcuno lo ha definito in una recensione. Un disco lungo può non essere
così incisivo ma avevamo troppe cose da dire e abbiamo preferito rischiare!
Nei vostri testi parlate del male della società e del male di vivere, affrontando il
discorso da varie prospettive e punti di vista. Pensate che la musica possa cambiare,
o magari migliorare, il mondo in cui viviamo?
Premetto: credo che la musica, come ogni altra forma d’arte, abbia un ruolo fondamentale
nella crescita della sensibilità collettiva e individuale. Credo che la crescita sensibile sia un
valido concime per accrescere la fertilità della curiosità. A sua volta credo che la curiosità sia
la madre della fantasia e quest’ultima la porta della rivoluzione. Se “la storia siamo noi”,
intesi come uomini, dipende tutto da noi. Soffriamo, ci lamentiamo, odiamo e sbagliamo, ma
siamo sempre e solo noi che possiamo cambiare il corso della nostra vita, perché siamo
parte del mondo in cui viviamo. Con la musica, noi personalmente, cerchiamo di render
pubblico il nostro contributo e il nostro sforzo per cambiare intanto noi stessi. Partiamo dal
nostro microcosmo perché è parte del macrocosmo!
Come dicevate all’inizio, c’è qualcosa di teatrale nella vostra musica, come anche
qualcosa di filosofico, di ironico, di poetico... A quali modelli vi ispirate, se ci sono?
Rispondo con una frase già fatta ma che racchiude il nostro pensiero: “In natura nulla si
crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”... le nostre influenze sono nascoste in ogni angolo
del mondo, in ogni forma d'arte, in ogni essere vivente, in ogni oggetto, dovunque e in
nessun posto... Me la sono giocata bene questa, eh?
Ho visto il video del singolo "La maculata di Laura", scritto, diretto e prodotto dai
Manetti Bros. Come è nata l’idea e qual è stato il percorso di questa collaborazione?
Grazie all’universo delle colonne sonore, al quale ho iniziato a lavorare anni fa, sono entrato
nel mondo del cinema e ho avuto la possibilità di conoscere questi favolosi personaggi che
sono i Manetti Bros. Con loro è nata nel corso degli ultimi due anni un’amicizia sincera. Una
sera, durante un aperitivo, davanti ad un buon bicchiere di vino, con i Manetti e una nostra
amica in comune, di nome Laura appunto, è nata l’idea di realizzare un videoclip che avesse
come protagonista la stessa Laura e la sua caratteristica bicicletta maculata (quella del
video) per le strade di Bologna. L’idea c’era ma mancava la canzone. Due giorni dopo ho
scritto una prima versione che poi si è trasformata ed è diventata “La maculata di Laura”
come la si conosce oggi grazie a diversi avvenimenti che mi hanno portato ad entrare nel
personaggio e a diventare io stesso la Laura della canzone. Tra mail, telefonate e aperitivi,
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abbiamo discusso a lungo del videoclip fino alla sua realizzazione avvenuta lo scorso
febbraio. Durante tutto ciò sono nate altre collaborazioni tra le quali la nostra apparizione nel
ruolo della band “I banditi” in una puntata della loro fiction “L’ispettore Coliandro”, andata in
onda lo scorso Settembre su Rai Due, e per la quale abbiamo scritto e realizzato parte della
colonna sonora. La bonus track “La druda e il soldato” che chiude il nostro disco, per
esempio, è stata scritta appositamente per la puntata intitolata “Il sospetto”.
Passiamo al capitolo Zeta Factory. Questo connubio ha in qualche modo cambiato il
vostro modo di rapportarvi alla musica? Che cosa ha aggiunto al vostro lavoro di
artisti?
Lo Zeta Factory è una meravigliosa realtà nata a Bologna diversi anni fa, capitanata dalla
direzione artistica di Gabriele Rustichelli, con l’intento di creare un circuito di artisti che
crescono insieme facendo musica e aprendo uno spiraglio nuovo sull’indipendente italiano. Il
mondo dei Misero Spettacolo ha iniziato a gravitare attorno allo Zeta Factory circa tre anni
fa, dopo una lunga gavetta fatta da oltre trecento concerti e registrazioni casalinghe. Il
confronto con la realtà Zeta Factory e tutto ciò che vi gravitava attorno è stato fondamentale
per una presa di coscienza di quello che è il mondo musicale oggi in Italia e per una crescita
artistica basata su scambi di idee, nottate passate a suonare, a chiacchierare e
filosofeggiare dando vita ad una famiglia che ha creduto in noi e continua a sostenerci. Oggi
lo Zeta Factory si è spostato a Carpi in una struttura fantastica e con l’intento di allargare
sempre di più i propri orizzonti artistici. Certo, se oggi abbiamo due pubblicazioni all’attivo,
oltre 250 concerti per il nostro primo disco e tanta voglia e forza per continuare a scrivere e
suonare, lo dobbiamo in gran parte allo Zeta Factory e a Gabriele Rustichelli che ormai
consideriamo il quinto componente della band, per non essersi mai arreso, per la sua
pazienza, per le sue preziosissime idee e per l’amicizia e stima intramontabile che ci lega.
Cosa ha in serbo il futuro per i Misero Spettacolo? Come pensate di muovervi, a
partire da domani, nell’ambiente musicale? Tanti live, immagino, e poi?
Il futuro è sempre un’incognita X come dimostra il discusso “secondo principio della
termodinamica”, e perciò stiamo lavorando intanto al presente. Ben detto per i live! In ogni
sua forma s’intende. Abbiamo in serbo spettacoli di vario tipo, dall’elettrico all’acustico che ci
ha sempre caratterizzato. Mentre è già iniziata una collaborazione con il poeta milanese
Mario Moroni per il quale abbiamo musicato una poesia che tratta dal suo ultimo libro “Il
primo passo”. La canzone s’intitola “Primo settembre di noie” e presto la pubblicheremo.
Abbiamo in programma diverse esibizioni per le sue presentazioni che musichiamo
intervallandole a nostri brani e a jam session con un’altra band milanese, i Santajegorah.
Presto sarà possibile acquistare on-line anche “L’inconcepibile” mentre “Tutto è un’opinione”
è già disponibile su iTunes e molti altri portali. Entrambi sono nei negozi di dischi o
perlomeno ordinabili e, naturalmente, sempre disponibili ai nostri concerti o richiedendoli sul
nostro sito. Abbiamo in cantiere un nuovissimo spettacolo acustico nella forma
teatro-canzone che stiamo ancora scrivendo ed infine un nuovo videoclip per il nostro
prossimo singolo che vedrà una preziosa collaborazione con un’interessantissima realtà
bolognese. In realtà ci sarebbero ancora un sacco di idee, progetti e collaborazioni che sono
in cantiere e che prima o poi si svilupperanno. Teneteci d’occhio. Forse vi stupiremo! Evviva
la modestia!
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Grazie mille!
Grazie di cuore a te e a tutta la redazione del Mucchio. Un saluto a tutti i lettori e occhio alle
leggi fisiche moderne, che anche se regolano l’andamento dell’universo, si contrappongono
ad un verso storico: “... ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua
filosofia...” (“Amleto” - W.Shakespeare)
Contatti: www.miserospettacolo.it
Federica Cardia
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Numero Dicembre '09
(am)
Soundtrack
autoprodotto
Lo hanno capito anche i parrucconi delle major. Per incuriosire il pubblico, alla musica
bisogna almeno provare ad offrire un involucro attraente: basta scatolette di plastica
anonime, ma digipack, tirature limitate, copertine simil-vinile, cartonati apribili a due e tre
ante ed esagerando dei box con gadget e molto altro. Hanno seguito questo percorso gli
(am), un duo che dopo aver registrato dodici canzoni che percorrono rigagnoli di elettronica,
elettroacustica e – come dicono loro stessi – anche musica sperimentale, hanno racchiuso il
tutto in una splendida cornice. Infatti il CD è confezionato in un astuccio rettangolare di
cartone rigido, ricoperto di stoffa e il libretto interno è una piccola opera d’arte di disegni,
immagini e foto. E tuttavia, nonostante ciò, la custodia è un omaggio alla sobrietà estetica,
esattamente come la musica di Michele ed Alessandro, che amano inoltrarsi nei corridoi
compositivi di Lali Puna, ultimi Radiohead e, come da tributo della doppia parentesi dove
custodiscono il nome, Sigur Rós. In un’altalena di note ricamate da tastiere di ogni
tipo e melodie che vagano, fuggono e ritornano, perfette per essere la “colonna sonora” di
questo autunno gelido e piovoso che sembra non finire mai, gli (am) ricamano un album
delicato e allo stesso tempo corposo. Citare dei titoli sarebbe veramente riduttivo: quello che
colpisce tra questi solchi, nonostante qualche ritmo danzante, è quel senso di pacatezza e
comunque decisione che traspare dalle melodie, spinte da una reale ispirazione, che si
coglie ad ogni ascolto. Se avete letto abbastanza per essere curiosi correte sul MySpace di
questo duo, sarà possibile scaricare gratuitamente l’album. Anche se avere la versione fisica
è davvero tutta un’altra soddisfazione.
Contatti: www.myspace.com/infoam
Gianni Della Cioppa
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Alcova
Muscolo cuore
Stigmata
Gli Alcova sono un quartetto lombardo, al debutto su Stigmata Records con questo
“Muscolo cuore” (sottotitolo: “Respirare a tempo di musica allevia i sintomi dello scompenso
cardiaco”). Un disco attraversato da temi emotivamente alti e senza dubbio sentiti, che
tuttavia non riesce a veicolarli con grande convinzione. Peggio, carica le canzoni fino
all'inverosimile di una teatralità che pochi riescono a maneggiare senza scottarsi e senza
finire nel trash e nell'autoparodia. È evidente che i quattro ci giochino, e non si prendano sul
serio, ma il punto è che se, sulla carta, l'universo creato dal gruppo potrebbe essere quello
dei primi Litfiba o del primissimo Faust'O, nei fatti poi queste canzoni evocano bizzarri ma
non necessariamente riusciti inni emo rock (non nel senso originario però, ma in quello che
va oggi per la maggiore) in salsa Frankie Goes To Hollywood. Al di là della presenza vocale
di Francesco Ghezzi, costantemente sopra le righe ma dotata di indubbie capacità
istrioniche, sono gli arrangiamenti ad essere di una ovvietà disarmante, una miscela di
chitarre ordinariamente distorte, cassa dritta, basso new wave e tastiere parasinfoniche.
Speriamo che la nostra severità non venga scambiata per snobismo ma, al di là delle
evidentemente ottime intenzioni, per chi scrive il risultato stenta a decollare. L'estetica
dell'eccesso è, ahimé, una scienza quasi matematica. Basta poco per creare una amalgama
che non funziona. Ma basta anche poco, a volte, se si persevera, per trovare la giusta
formula.
Contatti: www.alcova.it
Alessandro Besselva Averame
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Numero Dicembre '09
Amari
Poweri
Riotmaker/Warner
Sarà uno strano destino, quello di “Poweri”: essere il miglior disco degli Amari così come
quello meno considerato. Al di là delle stroncature di “Rockit”, dove ormai con una certa
regolarità cadono nell’errore titanista del “io ti faccio, io ti distruggo” esagerando prima nei
complimenti per poi far cadere mannaie, questo LP è perfettamente sensato, degno e
ragionevole se considerato nel contesto della discografia della band. Non è sicuramente un
capolavoro, ma ad ascoltarlo bene segna degli aggiustamenti su alcuni aspetti piuttosto
importanti e su cui il gruppo friulano ogni tanto non riusciva ancora a trovare il piglio giusto.
Scorre molto di più, musicalmente: si vengono a perdere definitivamente le tendenze a
inanellare passaggi un po’ involuti e inutilmente complicati, caratteristica che affliggeva i
primi lavori soprattutto, ma in parte presente anche in quelli della consacrazione indie. È
molto più maturo, testualmente: gli Amari abbandonano ogni vibrazione
esistenzial-malinconico-emo-furba e tirano fuori le migliori liriche della loro carriera. Nitide,
talora ironiche, mai autocompiaciute, mai fintamente intimidite. Certo, rimangono ancora
margini di miglioramento, talora lo scheletro sonoro resta troppo esile rispetto a quello che
potrebbe (dovrebbe) essere, ci sono caduteè sono risultati di solidità artistica a cui gli Amari
mai erano arrivati prima, e a cui di sicuro non erano arrivati quando la scena indie faceva a
gara adè diversa. Triste una scena dove si è così è – ma questo non è (più) un problema
degli Amari.
Contatti: www.myspace.com/gliamari
Damir Ivic
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Annie Hall
Carousel

Pippola/Audioglobe
La situazione è curiosa: da una parte di Brescia i Le Man Avec Les Lunettes con il loro
sound alla Lennon e un'attitudine brit fino al midollo; dall'altra i concittadini Annie Hall,
affezionati a una concezione di pop che presenta più di un punto di contatto con la tradizione
americana (pur citando, nel contempo, quella inglese). Entrambi impegnati a far maturare
una musica che disco dopo disco si rivela sempre più indipendente e capace di camminare
con le proprie gambe. 
Come accade anche in “Carousel”, secondo disco degli Annie
Hall – l'esordio “Cloud Cuckoo Land” risale al 2007 - e passo in avanti deciso nella
definizione dell'immaginario del gruppo. Quest'ultimo sempre più vicino alle raffinatezze degli
ultimi Wilco - come rivelano brani come “Jelly's Dream” - e in generale teso a una musicalità
componibile capace di lavorare sul dettaglio, attratta dalle armonie vocali, persino ricercata
nel suo conciliare malinconie su chitarra acustica e voce (“Rainy Day”) a brani più strutturati.
Tra gli undici episodi del disco si coglie un Elliott Smith di sghimbescio (“Moening News”),
certi Beatles da cabaret cesellati da un country in prestito (“Violet”), rimembranze Mojave 3
(“Here Is Love”), per un'opera che conquista fin dal primo ascolto. Da un lato per l'estrema
cura con cui è realizzata, dall'altro per il soppesare ragionato di una scrittura che riesce ad
essere equilibrata e creativa al tempo stesso.
Contatti: www.myspace.com/unclepig
Fabrizio Zampighi
Pagina 37
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Numero Dicembre '09
Appaloosa
Savana
Urtovox/Audioglobe
Sono addirittura quattro gli anni che separano l'eccellente “Non posso stare senza di te” dei
livornesi Appaloosa dal successore “Savana”. Ma non c'era pericolo che ci dimenticassimo
di loro: gli strumentali di quel disco, riuscitissimi esperimenti a cavallo tra funk mutante,
noise, post-rock angolare ed elettronica umana, non erano affatto passati inosservati. Anche
questa volta l'energia sprigionata è notevole nonostante risulti, a prima vista, un po' più
astratta: non parliamo di pulizia formale però, quanto di una sana attitudine all'utilizzo
spregiudicato dello studio di registrazione. I quattro osano infatti di più, lasciandoci spiazzati
– ma ben felici di esserlo – con una aliena “Mons Royal Rumble”, una specie di funk
piombato lì dagli anni 70, sinuoso e lascivo, immerso in tastiere ambient e lontani echi di
fiati, attraversato da chitarre con il groove nel DNA e da una voce perfettamente calatasi
nella parte. Altrove la band sembra voler raccogliere l'eredità post-rock dei Trans Am (quelli
più creativi degli anni 90), oppure scherza a suo modo con l'etnomusicologia (“Chinatown
Panda”). La prova definitiva del coraggio di questo disco, se proprio ne occorresse una, è
però “Giù”: il miracolo non è costituito da quattro livornesi che ospitano la voce e la chitarra
di un pisano, Appino degli Zen Circus, ma dal fatto che riescano ad imbastardire questi ultimi
con gli Zu, trascinando il tutto un vortice di luciferina follia.
Contatti: www.myspace.com/appaloosarock
Alessandro Besselva Averame
Pagina 38
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Beaucoup Fish
Lascio tutto
Melunera/Venus
A tre anni e qualche mese di distanza dall'esordio “Come l'acqua”, i cremonesi Beaucoup
Fish tornano con un secondo disco che, senza allontanarsi troppo dal precedente, ne
delimita altrettanto bene la proposta e mette ancora una volta in luce doti compositive di tutto
rispetto. L'ambito è come sempre quello di un rock-pop (perché è su quest'ultimo
macrogenere che va posto l'accento) raffinato e avvolgente, in cui languore e romanticismo
abbondano ma non passano mai la misura, allo stesso modo in cui le asperità vengono
addolcite e addomesticate senza però che si scada mai nel plasticoso o nell'artificioso. Solo
all'apparenza pianeggiante, il terreno su cui si muove la band è invece dei più ricchi di
asperità, ché non è affatto semplice coniugare assoluta accessibilità e – sacrosante, in
questo caso – velleità commerciali-radiofoniche con uno spessore artistico degno di tal
nome. Destreggiandosi con maestria tra dolcezza e malinconia, sussulti ritmici sottopelle e
orchestrazioni anche massicce (a cura di Davide Rossi), vibrazioni elettroacustiche e fiati, i
cinque danno vita a undici brani che magari diranno poco a chi nella musica cerca sangue,
sudore e distorsioni, ma sapranno emozionare chi al mero impatto sonoro preferisce
raffinatezza ed eleganza non ostentata. A partire dall'iniziale “Imperfetto”, che evoca con
stile i Coldplay senza ricordarli troppo apertamente.
Contatti: www.myspace.com/beaucoupfishbeaucoupfish
Aurelio Pasini
Pagina 39
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Comaneci
You A Lie
Madcap Collective/Fooltribe/Here I Stay
Della formazione che aveva registrato “Volcano”, nel 2007, è rimasta la sola Francesca
Amati, voce e chitarra, accompagnata ora dal chitarrista Glauco Salvo: la musica dei
Comaneci non ha però perso la sua qualità più evidente, una leggerezza che solo l'orecchio
distratto può percepire come impalpabile o poco persistente. La scelta di muoversi in punta
di piedi, dicendo il minimo indispensabile, continua ad essere vincente, all'interno di un
suono che in qualche misura si è fatto più solido e classico, più cantautorale insomma.
Undici brani brevi registrati da Mattia Coletti e prodotti artisticamente da Bruno Dorella che
tributano omaggio a una certa scuola statunitense (Cat Power, ma anche i Low, e mille altri
luoghi frequentati da un'America che riscopre radici ancestrali) trasformando gli spunti, come
abbiamo detto, in una personalissima ricerca dell'emozione sul filo del silenzio, con un banjo
che appare improvvisamente, qualche nota di violoncello, le chitarre acide che portano
altrove, viaggiando della mente più che nello spazio in “On My Path”, una canzone
disperata, lacerante. Sono canzoni di ambientazione rurale, intrise di umori introspettivi e
desolazioni paesaggistiche, dotate di una intensità che va ben oltre la semplicità della ricetta
base. La maturazione ulteriore di una idea che, se in origine aveva azzeccato il mood al
primo colpo, ora ha i mezzi per amplificare il proprio suono e renderlo più udibile.
Contatti: www.maledetto.it
Alessandro Besselva Averame
Pagina 40
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Numero Dicembre '09
Gerardo Attanasio
Vivere lento
autoprodotto
Napoletano, classe 1983, Gerardo Attanasio arriva con “Vivere lento” all'esordio
discografico ufficiale, e lo fa con una raccolta di canzoni all'insegna di un cantautorato che
sa essere al contempo classico e moderno. Da una parte, infatti, viene in mente più di una
volta il nome di Fabrizio De André, nella costruzione e nella metrica delle frasi e nella scelta
delle parole; dall'altra, invece, è innegabile come, pur nella loro innegabile classicità, le
sonorità e le soluzioni produttive non hanno davvero niente di vecchio o passatista. Raffinato
cesellatore di suoni e di frasi, Attanasio – che oltre a cantare suona chitarra e tastiere – si
mantiene in equilibrio tra avvolgenti ballate acustico-pianistico-orchestrali e impulsi rock,
dosando di volta in volta le componenti senza che una abbia mai la prevalenza assoluta
sulle altra. Vi sono tracce di folk a stelle e strisce, ma anche di canzone d'autore tricolore,
schegge di poesia e occasionali esplosioni di rabbia elettrica. E se, al momento di citare
qualche titolo, è impossibile non nominare la multiforme “A colei che è troppo gaia”, “Billy
The Kid” e “Irene”, anche il resto del programma regala buone soddisfazioni, mettendo in
mostra doti di scrittura e di arrangiamento di tutto rispetto (eccezion fatta per una “In video
veritas” che vorrebbe esser muscolosa ma si rivela subito spuntata). Davvero un buon inizio,
che ci auguriamo sia solo la prima tappa di un cammino pieno di soddisfazioni.
Contatti: www.myspace.com/gerardoattanasio
Aurelio Pasini
Pagina 41
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Numero Dicembre '09
Giuseppe Cucè
La mela e il serpente
TRP Music
Reduce dal recital-tributo a Luigi Tenco “Oltre le nuvole”, nel quale si è misurato con una
quindicina di brani del grande cantautore piemontese, Giuseppe Cucè perviene al debutto
discografico. Si tratta di un buon debutto, suonato con sobrietà acustica e bravura, valido
quale prima tappa per cominciare un percorso d’autore. Un percorso nel quale – va da sé – il
cantautore di Catania dovrà però trovare e mettere a punto il proprio tono, una voce
(d’autore) più personale che si erga su tanghi e bosse. In questo senso “La sposa” (qualche
debito verso la concittadina Carmen Consoli) e “Ghiaccio sul fuoco” sono buoni esempi di
canzone d’autore che potremmo definire “del ripensamento”, con il bel violoncello di
Alessandro Longo sugli scudi. Dove convince meno Cucè è nei brani più tambureggianti,
come “Offese” e la title track “La mela e il serpente”, che possono risultare un po’
stereotipate: in esse quella “voce” si avverte meno.
È davvero rimarchevole la “pillola tenchiana” offerta in coda all’album, tratta dal progetto
“Oltre le nuvole”: “Vedrai vedrai” rifatta così è una delle più belle cover di Tenco mai sentite.
Tradisce l’originale quanto basta, con le chitarre elettriche sghembe e i violoncelli
sovrapposti, prendendosi le sue licenze armoniche, per poi restituirci, forse, la maniera in cui
Tenco la rifarebbe. È questa la strada che Cucè deve seguire, a nostro avviso. Quasi tutti i
brani sono composti a quattro mani con la cantautrice e chitarrista classica Gabriella Grasso
che risulta infine un vero e proprio alter-ego del titolare. Al cantautore siciliano potrà soltanto
giovare in futuro un pizzico di malizia compositiva in più.
Contatti: www.giuseppecuce.it
Gianluca Veltri
Pagina 42
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Numero Dicembre '09
Helena Verter
Questione di ore
Sana/Venus
L'aggressività musicale, la forza delle parole (nulla di sconvolgente, ma enunciato con
convinzione), e anche una certa ingenuità riconducibile, nella mente del recensore, a certe
pagine degli Üstmamò degli inizi, o ancora agli Scisma di “Negligenza” nella
introduttiva “Squali avvoltoi buffoni voyeur” (ingenuità nel senso di immediatezza e assenza
di costruzioni cervellotiche, di movimenti calcolati), non mancano affatto agli Helena Verter.
Quello che li penalizza, a dispetto della potente ed espressiva voce della cantante Caterina
Trucchia, che se a volte è un po' sopra le righe riesce comunque sempre a farsi ascoltare,
sono arrangiamenti e produzione, quest'ultima affidata ad Andrea Mei, collaboratore di Gang
e Nomadi. Canzoni anche interessanti e melodicamente avvolgenti come “Brividi” sprecano
per strada un bel po' di potenzialità a causa della scarsa fantasia in fase di assemblaggio,
foggiando certi suoni da rock radiofonico italiano che ci auguravamo fossero da tempo
superati, salvati in corner, qua e là, da qualche abbellimento elettronico che però risulta
puramente decorativo. A volte ci sono spiragli di originalità, in “2:00 PM” ad esempio, il ritmo
saltellante dalle lontane ascendenze rockabilly puntellato da un piano elettrico jazzato, in
generale però la proposta ci sembra riuscita a metà. Senza cadute clamorose, ma anche
senza punte di eccellenza.
Contatti: www.helenaverter.splinder.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 43
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Numero Dicembre '09
La Sindrome
L’arena del peccato
autoprodotto
Ma che bella sorpresa. Finalmente un album di rock in italiano che gioca bene le sue carte,
niente che non sia belle canzoni tessute su melodie avvincenti, con un cantante che non fa
niente se non cantare bene. Cosa apparentemente logica, ma in questi tempi di originalità a
tutti i costi e di confini da spostare per abbagliare, anche ascoltare del rock cantato
decentemente è diventata una conquista. Il trio milanese è in giro dal 2007 con il nome di
The Sin Drome, ma dopo un tour abbandona l’inglese per abbracciare l’italiano: scelta
vincente, perché la voce del chitarrista Luca Salmaso pare costruita per arrampicarsi sulle
strofe in lingua madre. Lo dimostrano i ritornelli delle prime due tracce, “Risvegliami” e
“Indietro no”, che suonano attuali e vibranti. Ma l’intero CD poggia su un suono potente e
coinvolgente, merito anche del lavoro in studio di Vincenzo Canini e Marco Barusso (uno
che ha revisionato gente come Lacuna Coil ed Elio e le Storie Tese) e, ripeto, delle canzoni,
vera carta vincente del gruppo, che si completa con il batterista Fabio Vicidomi e il bassista
Simone Pellizzari. Spunta, vagamente ma spunta, qualche richiamo ai Negramaro, penso a
“La mia vita senza me” e “Portami via”, ma si tratta di lievi ombre, peraltro non negative,
mentre “La mia terra” è dedicata all’Abruzzo. In questi giorni musicalmente – e non solo –
confusi, i La Sindrome giocano di chiarezza e attitudine, elargiscono riff, ritornelli, energia e
melodie, cose che il rock sembra aver perso. Tutto funziona tra questi solchi, manca solo un
pubblico attento, perché se canzoni come “L’arena del peccato” e la bellissima “Vertigine”,
riuscissero a scovare uno spazio radiofonico, ve lo garantisco, proietterebbero i La Sindrome
nel cerchio della notorietà. Per le invenzioni proseguire oltre, ma per un rock moderno,
sudato e appassionato, questa è la fermata giusta.
Contatti: www.lasindrome.it
Gianni Della Cioppa
Pagina 44
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Numero Dicembre '09
Leg Leg
Manta
Wallace
Nuovo progetto dell'instancabile Mattia Coletti, autore alcuni mesi fa dell'ottimo
“Pantagruele”, un ispirato disco acustico che riuniva sotto lo stesso tetto anima folk e
fingerpicking irrequieto e sperimentale, Leg Leg è, come già erano stati i Sedia, altro
progetto del musicista marchigiano, una creatura a tre teste. Brani strumentali in cui la
chitarra di Coletti è accompagnata dalla batteria di Riccardo Ceccacci e dal basso di Andrea
Giommi, composizioni che si costruiscono per sovrapposizioni di spigoli, ritmiche dispari e
figure ripetute come nella migliore tradizione math rock, con momenti che possono far
pensare ai Battles (“Ibis”, la title track) ma, soprattutto, un lato ombroso, umano, organico,
che alimenta la creazione di stati d'animo ben poco matematici. Una caratteristica che salta
fuori tra gli interstizi delle architetture millimetriche, tra un break e un’improvvisa quanto
effimera melodica; ad esempio nel ronzio che si sedimenta sul fondo della iniziale “A Roof In
Spring”. È un'anima riflessiva che, nella bizzarramente intitolata “Telephone Rings From The
Hand Of Summer” – a fine partita – lievita in una architettura parossistica arrivando a
dissolversi in mille frammenti. Non sappiamo quanto questo disco potrà aggiungere alla
tradizione che lo precede (più o meno rispettata e più o meno tradita, come deve essere), di
sicuro questi ventitré minuti privi di qualsivoglia momento di risacca, lucidi, tesi e ben
costruiti, sono davvero un gran ben sentire.
Contatti: www.wallacerecords.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 45
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Numero Dicembre '09
Lemmings
Lemmings
La Grande Onda/Self
Spiace essere cattivi e malmostosi, ma ogni tanto è bene esserlo. Quella che state per
leggere è una recensione non positiva; spiace doverla fare per un disco come questo, che in
realtà ha una sua dignità, è fatto con più passione e per molti versi con anche più idee ed
originalità rispetto alla media di quel che si produce in giro. Prima di scrivere abbiamo fatto
tuttavia una cosa che facciamo in modo abbastanza episodico: abbiamo dato un’occhiata in
rete per vedere le altre recensioni che erano già apparse. Ecco, è salito lo sconforto. Senza
fare la pagella dei buoni e dei cattivi, è oggettivo che in moltissimi casi si tratta di recensioni
cortesemente inutili in cui, non sapendo bene non cosa scrivere del disco, ma più
precisamente non sapendo giudicare la musica, si va avanti per discorsi di circostanza. Già:
il punto è che stilisticamente i Lemmings sono sfuggenti, amano mescolare faccende diverse
(rock, reggae, ska, folk) e lo rivendicano orgogliosamente. Troppo complicati, per alcuni, e
quindi te la cavi dall’impiccio scrivendo cose prudentemente descrittive e prudentemente
elogiative. Il sospetto è questo. Al momento di raccogliere la loro rassegna stampa, i
Lemmings avranno un buon gruzzolo di articoli, tutti moderatamente positivi, ma (quasi)
nessuno da cui trarre qualcosa di utile. Noi, scusateci, proviamo invece a fare quello che
dovrebbe essere il nostro lavoro, per quelli che sono i nostri gusti, le nostre competenze, le
nostre capacità. E diciamo quindi che in questo modo la band capitanata da Ra-B non
troverà mai una strada che faccia la differenza. Non ci sono colpi d’ala, non ci sono scarti
improvvisi, non ci sono soluzioni più gustose o corpose di arrangiamento, ci sono testi che
se hanno una buona intuizione poi infilano dieci banalità di fila; c’è una valida backing band
che scarrozza in giro per stili, stando attenta ad affrontarli tutti con innocua prudenza,
essenzialità e superficialità. Ogni anno escono migliaia di dischi peggiori di questo,
attenzione; ma se vedi che qualcuno le capacità le avrebbe, devi essere esigente. Sennò
siam qua a farci i complimenti a vicenda, senza sapere perché.
Contatti: www.myspace.com/thelemmings
Damir Ivic
Pagina 46
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Numero Dicembre '09
Luminance Ratio
Like Little Garrisons Besieged
Boring Machines
Far collassare la chitarra acustica in liquidità ambient, field recordings, profondità
sommesse e avvolgenti. Un tutt'uno ragionato e lontanissimo, in cui si mescolano suoni caldi
e ribollire sintetico, strumenti analogici e freddi patterns da laptop. La creatura di Andrea
Ferraris (UR, Ulna, Airchamber3, Sil Muir), Gianmaria Aprile (Ultraviolet Makes Me Sick) ed
Eugenio Maggi (Cria Cuervos) lavora con lentezza, si lascia trasportare da un'indolenza
aliena, svolge un tema sull'improvvisazione che vorrebbe arrivare al bilanciamento perfetto
tra le parti. In una cascata di sei corde, elettronica, microfoni a contatto, vibrafono,
glockenspiel, piatti, percussioni, synth, inquieta ma non inquietante, espansa ma non
dispersiva. 
Sei tracce – una è un remix del disco ad opera di Paul Bradley – per
cinquantacinque minuti di musica in bilico tra domeniche piovose (“Sunday Is Grey”) e fissità
ancestrali (“Sullespalledellepietre”), disturbi su reiterazioni ad libitum (la title track) e droni
(“Solid State Tuners”), risultato di una sensibilità estremamente variabile applicata a minimal
e dintorni. Tanto che i giudizi di merito sul disco non convergeranno facilmente, tra chi ci
leggerà un' autoreferenzialità spinta e chi invece – e noi siamo tra questi – riiconoscerà negli
spaccati in scaletta ambienti sonori affascinanti.
Contatti: www.myspace.com/luminanceratio
Fabrizio Zampighi
Pagina 47
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Numero Dicembre '09
Mo Machine
Prequel
Rock Over
Il prequel di solito viene dopo l'episodio principale per spiegare gli antefatti dell'intreccio. Mo
Machine è quindi ciò che viene idealmente prima de La Macchina Ossuta di Francesco
Bottai e Alessio Colosi, con l'aggiunta di Pino Gulli, già alle pelli di C.S.I e PGR. Il
backrgound quindi è stoner, classic e hard rock; il risultato è un impasto pulito di generi
radiofonici che sfociano nel nu-prog. La chitarra è la padrona di tutto, dai riff granitici agli
assolo ghignanti in primo piano, con batterie rigorose e cambi di tempo precisissimi. Ci sono
poi alcuni flash come ammiccamenti ai Police sul finale di “Masterpiece”, le atmosfere U2 nel
seguito di “Lazarus”, jazz e lounge in “Princess Bag”, ma soprattutto Pink Floyd
post-barrettiani che attraversano il disco intero e chitarre wah-wah come se piovesse. I testi
non disturbano, anche se la pronuncia inglese rimane dubbiosa, non tanto per l'imprecisione,
che non c'è, quanto per la poca teatralità con cui viene ammaestrata (un amico cantautore
mi dice sempre che per cantare in inglese si deve recitare). I Mo Machine sono musicisti di
prim'ordine, ma è emblematico come l'episodio migliore dell'album sia “Disaster Pt.1 – Once
Upon A Time”, l'unica traccia essenzialmente strumentale dove i fiorentini si lasciano andare
alle sperimentazioni e il sax ospite di Alessandro Bosco accompagna il viaggio svisando
rock e jazz a piacere. Forse è lì che si dovrebbero concentrare i Mo Machine. Perché tutto il
resto è suonato benissimo ma, come dire, la tecnica a volte appiattisce l'anima. Se questo è
il “Prequel”, speriamo in un sequel migliore.
Contatti: www.myspace.com/lamacchinaossuta
Marco Manicardi
Pagina 48
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Numero Dicembre '09
Pipers
No One But Us
Materia Principale
La cosa difficile, quando si vuol fare musica pop riferita ad un certo periodo particolare, è
risultare credibili. I Pipers fanno brit-pop. E lo fanno molto bene. Sarebbe facile elencare i
difetti di “No One But Us” proprio alla luce di questo. Ma la band non si vergogna, anzi. Il
punto di forza dell’esordio di questa four-piece band è proprio la mancanza – se così si può
dire – di ambizioni “alte” e di concentrarsi a fare il tipo di musica che vorrebbero ascoltare.
Farsi forti delle proprie influenze con onestà non è mai una cosa facile, nel circo di pazzi che
cerca l’originalità a tutti i costi. Ed essere sinceri e semplici è il metodo migliore per evitare di
coprirsi di ridicolo. Insomma, le canzoni dei Pipers hanno dei limiti e possono essere tutte
ricondotte ad un particolare album della “seconda ondata” del brit-pop (tipo “Golden Sound”
e “Eveline” potrebbero stare benissimo in un album degli Embrace, “Save The Tears” e
“Tonight Goodbye” sono invece figlie di un Verve minore) ma sono gradevoli, si ascoltano
bene, non infastidiscono e funzionano. Qual è quindi il problema? Nessuno. O meglio,
rispondere alla domanda: “A che o a chi serve un disco del genere?” non ha più molto senso
perché aprirebbe troppi discorsi che qui non abbiamo il tempo di affrontare. Mascheriamoci
da fatalisti e accontentiamoci delle belle canzoni. “No One But Us” è un sussidiario efficace,
un manifesto programmatico di una band che vuole, con onestà, rendere omaggio alle
proprie ispirazioni regalando quaranta minuti assolutamente gradevoli.
Contatti: www.myspace.com/pipersonline
Hamilton Santià
Pagina 49
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Numero Dicembre '09
Raven Sad
We Are Not Alone
Lizard/Eventyr/BTF/MP
Non sono trascorsi nemmeno dodici mesi e siamo di nuovo qui a raccontarvi di un altro
album dei Raven Sad, che con l’esordio di “Quot” avevano centrato il bersaglio con un prog
(rock) psichedelico capace di cullare con i suoi tappeti di tastiere e le sue altalene
melodiche. Per questo nuovo capitolo Samuele Santanna, di fatto l’unica figura titolare dietro
al timone del progetto Raven Sad, è riuscito a fare ancora meglio, tracciando nelle undici
canzoni dell’album un ideale percorso tra i Pink Floyd e quelli che per molto sono gli eredi
naturali, ovvero i Porcupine Tree. C’è un tocco di struggente drammaticità tra i solchi di
“More Life Forms” e “Meteor”, ma anche le impressioni magnetiche di “Fluttering Flags” e
“To Write Me A Song”, con un incidere acustico che è poesia, emanano radiazioni
suggestive che rapiscono ad ogni ascolto. Ascoltare questo album è un fluttuare di
sensazioni, collegate da un'unica sensibilità, riportare la musica ad uno stadio quasi
primitivo, dove le note avanzano tiepide per scavare solchi enormi dentro di noi. Ed è
intrigante il fatto che il brano forse più bello del dischetto sia “Are We Alone?” che ribalta in
termini interrogativi l’affermazione del titolo e del brano di chiusura, quasi a voler ribadire che
niente è così certo come sembra. Anche nei passaggi cantati la sensazione è che la volontà
sia quella di lasciare aperte più possibilità, infatti non ci sono ritornelli o vibrazioni definite,
ma suggestioni armoniche, racchiuse in passaggi delineati anche dall’organo e dal
mellotron, strumenti antichi che ben si amalgamano con più attuali tastiere e sintetizzatori. Il
booklet cita una bellissima frase di Carl Sagan “Se ci fossimo solo noi, sarebbe un grande
spreco di spazio”.
Contatti: www.myspace.com/ravensadband
Gianni Della Cioppa
Pagina 50
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Numero Dicembre '09
Roberto Ciambella
È così che si fa
Edizioni H
La storia di Roberto Ciambella meriterebbe un film di Pupi Avati. Una sequela di sbalorditivi
flop, insuccessi memorabili: un disco di cazzeggio disco-nipponico del 1983 dal titolo
“Yokopoko Mayoko” che sfondò... il bidone della spazzatura in cui finirono le copie
invendute. Musica in cantina a tutte le ore, gruppi a iosa nel circuito milanese – Cogito Ergo
Sum, Magazzino dei Ricordi, Irriducibili – e un’amicizia professionale nonché personale
antica con Rocco Tanica. Ma anche esibizioni memorabili, ovunque, che testimoniano un
amore non comune per la musica. Peter Pan non pentito, Ciambella è giunto alla bella età di
46 anni. Ha sognato per vent’anni che si presentasse il super-produttore folgorato che,
riconoscendo la sua maestria, gli dicesse: «cercavo proprio un grande artista come te,
dai facciamo un disco mitico». Non è andata esattamente così, ed è per questo che
Roberto ha impiegato decenni per uscire con un album suo, che lo rappresentasse. Il titolo –
“È così che si fa” – dice che in fondo non era tanto difficile. Quando talento e passione sono
così incoercibili, la musica è quasi una religione; vivere di musica è un obbligo, e rinunciarvi
un delitto. Sotto la produzione del bassista e tastierista Massimo Spinosa, Ciambella ha
messo insieme dieci composizioni chiuse nei cassetti, la cui datazione fluttua tra il 1982 –
“Puerto Escondido”, non memorabile per la verità, ma vestigia della partnership con Tanica –
e il 2005 (“Senza un motivo logico”, ottima). Lo stuolo dei collaboratori è a dir poco
eccellente: oltre al citato Spinosa, Lucio Bardi alle chitarre, Rocco Tanica al piano, Saverio
Porciello alla chitarra solista, Lola Feghali splendida corista e una magnifica sezione fiati che
fa molto rhythm and blues. Il disco scorre tra goliardia e tenerezza, groove e bravura, Storie
tese milanesi e Steely Dan newyorkesi. Inizia così la seconda parte della carriera del
musicista. Non ci saranno da aspettare altri 46 anni, vero? Play it again, Rob!
Contatti: www.myspace.com/robertociambella
Gianluca Veltri
Pagina 51
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Numero Dicembre '09
Rodolfo Montuoro
Lola – Mythologies 3
Believe
È già da alcuni anni che Rodolfo Montuoro si sta costruendo un’aura personalissima nel
panorama del nuovo cantautorato italiano. I suoi lavori sono sempre a tema, contenuti
dentro cornici narrative e ambientazioni unitarie, e seguono tracciati fascinosi. Il nuovo
cimento di Montuoro si chiama “Nacht” – “notte” in tedesco, la lingua del romanticismo – ed
è una saga rock a puntate, finora edita solo online, dedicata alle mitologie della notte. Si
sviluppa in tre uscite, di cui “Lola” rappresenta il secondo atto (il primo EP, apparso qualche
mese fa, è “Orfeo”). Nel prossimo appuntamento, atteso per il 2010, tutto confluirà in un CD
che conterrà i primi due EP più le nuove composizioni.
Montuoro è un pifferaio magico, e infatti la parola-chiave di questo seconda puntata di
“Nacht” è “incantamento”; la seconda traccia “Per incantamento” è la trasposizione della
dantesca “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io”. L’estrema libertà creativa conduce il musicista
dal ritratto enigmatico che apre il lavoro, “Lola”, una donna persa in una notte enorme e
quindi degna eroina di “Nacht”, al tuffo minaccioso in un futuro sospeso in mezzo alla storia
di “Mondi e popoli”, fino alla rilettura del mito del Minotauro con un’Arianna dai capelli
abbaglianti (“Labyrinth”). Una tensione scura e visionaria pervade le tracce, suonate e
arrangiate comme d’habitude da Gennaro e Giuseppe Scarpato, responsabili della maggior
parte dei suoni insieme alla violoncellista Naomi Berrill e al bassista Carlo Romagnoli.
Montuoro è capace di creare, in un mini-CD di quattro tracce, la medesima intensità e
densità, la stessa somma di stimoli e sollecitazioni di un album full-length. Forse perché non
ha mai paura di osare, nelle formule, nei versi, nelle scelte. Anche qui, in “Mythologies 3”,
troviamo un nuovo lotto di parole e immagini da conservare: segreti che raggelano il cuore,
zebre che scolorano nel nulla, ricerca di cieli e di oceani, un cuore spacciato che s’interroga
e occhi che non brillano più.
Contatti: www.myspace.com/rodolfomontuoro
Gianluca Veltri
Pagina 52
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Numero Dicembre '09
Shout
Manuale per non suicidarsi
42/Halidon
Un disco di rock'n'roll cantato in italiano, per un’etichetta che fino a ora ha pubblicato dischi
indie rock in inglese (o al limite le partiture strumentali di Gatto Ciliegia Contro Il Grande
Freddo), è, se non un azzardo (stiamo pur sempre parlando di un mercato piccolissimo,
ahimé), quantomeno una bella scommessa. Sembrerà banale dirlo, ma quelli di 42 ci hanno
visto giusto anche questa volta, perché il debutto degli Shout, quartetto di Frosinone, è uno
di quei dischi che, al di là della qualità del repertorio (comunque buona, in questo caso, con
appena qualche – comunque divertente - riempitivo), funziona soprattutto grazie all'attitudine
e alla capacità di comunicare attraverso la fisicità del suono. Rock'n'roll abbiamo detto, con
uno spirito garage che attraversa l'intera scaletta: l'attacco alla Radio Birdman della
bukowskiana “L'amore è un cane che viene dall'inferno” basterebbe da sola a spiegare
quanto teorizzato qualche riga fa, ma tra le maglie di un suono compatto e crudo come pochi
(perlomeno in questo momento, in questo luogo) c'è anche spazio per una ballata come “Oh
My Darlin'”, o per i coretti beat de “Il mio amore nel frullatore”, una divertente storiella di
amore cannibale, o ancora, per la travolgente schiacciasassi iniziale, “Cloro nel naso”
monotona e tribale come i Monks che suonano Celentano. Se apprezzate i Tre Allegri
Ragazzi Morti degli esordi o gli Altro, questo potrebbe essere il disco incosciente (ma niente
affatto sprovveduto) che fa per voi.
Contatti: shout.bandcamp.com
Alessandro Besselva Averame
Pagina 53
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Numero Dicembre '09
The Bastard Sons Of Dioniso
In stasi perpetua
RCA/Sony
La storia è nota: dopo un paio di autoproduzioni e con una discreta attività live alle spalle,
specie a livello locale, i Bastard Sons Of Dioniso approdano alla corte di “X Factor”, dove
con la benedizione di Mara Maionchi ottengono un notevole successo, tale da sfociare in un
contratto con una multinazionale e in un Ep, “L'amor carnale”, composto in prevalenza da
cover. Abbastanza da far sentir puzza di bruciato anche agli ascoltatori meno prevenuti.
Tante, quindi, le domande a cui “In stasi perpetua” deve fornire risposte; prima fra tutte: il trio
trentino è da considerarsi un gruppo vero o un fenomeno artefatto? La prima delle due, per
quel che ci riguarda, e non è comunque poco date le premesse. Ciò detto, però, è il caso di
precisare alcune cose: il disco naturalmente suona alla grande, potente al punto giusto e
curatissimo nei dettagli (a partire dalle voci e dai cori), a metà strada tra il punk di area major
meno offensivo (quello dei Green Day pre “American Idiot”, per capirci) e il pop chitarristico
più muscoloso; all'altezza, insomma, delle migliori produzioni d'Oltreoceano con un piede (e
mezzo) nel mainstream e l'altro nell'alternative, non facendosi neppure mancare qualche
intermezzo acusticheggiante. Tutto molto ben fatto, insomma, ma pure eccessivamente
pulito, senza la benché minima macchiolina di fango – vorremmo dire di sangue, ma non ci
sembra il caso di esagerare – a intaccare la lucentezza di una carrozzeria fin troppo perfetta.
Abbastanza per conquistare un pubblico giovanissimo, superficiale e facilmente
impressionabile; gli altri, invece, giustamente pretenderanno di più, e sono inevitabilmente
destinati a rimanere delusi. Meglio di tante altre schifezze che i media di massa propinano,
certo, ma per potersi definire davvero “rock” i tre dovrebbero avere il coraggio – sempre
ammesso che i discografici glielo lascino fare – di sporcarsi davvero le mani, ché qui di
“bastardo” o di “dionisiaco” non c'è davvero niente: fin troppo spesso, dietro le chitarrone e
gli assalti ritmici non si nasconde altro che un facile pop da consumo. Anche se, lo
confessiamo, “Io non compro più speranza” non ci dispiace del tutto.
Contatti: www.tbsod.com
Aurelio Pasini
Pagina 54
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Numero Dicembre '09
The Philomankind
All Things Philos
autoprodotto
Fossero usciti a metà anni novanta quando in giro c'era tutto il revival brit-pop, i
Philomankind avrebbero certo ricevuto maggiori attenzioni. Ascoltati ora, invece, suonano
un po' datati, come potrebbe esserlo un gruppo che si rifà palesemente a chi si rifaceva
palesemente a Beatles e dintorni, Kula Shaker in testa (“Yogi Dananta”). C'è da dire però
che nonostante l'impianto derivativo dei suoni, la formazione pisana non se la cava affatto
male in questa mirabile operazione di taglia e cuci, mettendo in mostra una scrittura che se
da un lato non nasconde le influenze, dall'altro riesce a suonare in qualche modo fresca e di
sicuro appeal. 
Nei quaranta minuti del disco si mescolano beat e soul sotto forma di
refrain uncinanti (“Womanizer” e “I Can't Believe”), si citano gli Who in versione rock-opera
(“Benjamin”), si migra oltreoceano dai Beach Boys di “Pet Sounds” (“Goodbye Everybody”),
si azzarda una psichedelia quasi hard (“Short Of Money”), si richiamano i quattro baronetti di
Liverpool (“I'm Gonna Wait For The Time”), riuscendo tuttavia a mantenere un profilo basso
e un approccio per nulla supponente. Il tutto gratificato da buone armonie vocali, una certa
perizia strumentale e in generale una sensazione di déjà vu che riporta si alla Londra dei
Sessanta, ma per strade sufficientemente traverse. 
Alle spalle un esordio del 2005
sulla falsariga di questo “All Things Philos” ma meno a fuoco (“Ask”), per una band che non
sarà il massimo dell'originalità ma rappresenta di sicuro un comodo palliativo per tutti quelli
che di “swinging”, nell’attualità musicale, non trovano più nulla.
Contatti: www.myspace.com/philomankindband
Fabrizio Zampighi
Pagina 55
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Numero Dicembre '09
The Strange Flowers
Vagina Mother
Go Down/Audioglobe
Ridendo e scherzando sono ormai vent’anni che, alla guida degli Strange Flowers, Michele
Marinò declina alla propria maniera il verbo psichedelico. Un percorso che lo ha visto
guardare ai classici degli anni 60, certo, ma anche ai loro epigoni degli anni 80 e, allargando
ulteriormente gli orizzonti, all’indie-rock degli ultimi decenni. Tale processo di organica
evoluzione raggiunge il pieno compimento con “Vagina Mother”: prodotto da Federico
Guglielmi, il disco è un distillato di un rock chitarristico acidulo e variegato, in cui la
componente psichedelica è sempre presente, e a tratti fondamentale, ma non si propone
mai con prepotenza, limitandosi – si fa per dire – al ruolo di trait d’union discreto ma
indiscutibile tra una traccia e l’altra. Vi sono accenni al garage, avvolgenti ballate acide, brani
dal piglio più urticante e altri in cui è la melodia a prevalere, e persino una cover di
“Hollywood” di Madonna. Il tutto all’insegna di un livello qualitativo costante e decisamente
soddisfacente, tanto da fa sì che non vi sia un brano che spicchi in maniera decisiva sugli
altri. Volendone citare qualcuno, optiamo allora per quelli meno “allineati”, dall’iniziale “Intro
(A Welcoming Mandala)”, originale pizzica lisergica, a “Polvere”, unico brano in italiano del
lotto (presente anche in versione inglese, “Powder Tears”). Anche se, ripensandoci, almeno
il crescendo esplosivo di “The Insect And The Fish” deve assolutamente essere menzionato.
Un buon lavoro, quindi, solido e ben riuscito nella veste come nei contenuti.
Contatti: www.strangeflowers.net
Aurelio Pasini
Pagina 56
Fuori Dal Mucchio è a cura di Federico Guglielmi e Aurelio Pasini - online at http://www.ilmucchio.it
Numero Dicembre '09
The Styles
Newrante
RCA/Sony
Secondo capitolo per la creatura di Guido Style, che pur essendo ora affiancato da due
nuovi collaboratori continua a fare tutto da solo – o quasi – in studio. e a muoversi fra generi
e stili con fare sbarazzino. Se un paio d’anni fa “You Love The Styles” era collocabile più o
meno dalle parti del rock chitarristico, ora “Newrante” calca maggiormente la mano sulle
contaminazioni elettroniche, e al contempo vede il passaggio nei testi dall’inglese alla lingua
italiana. Formalmente ineccepibile e curatissimo, il disco non risulta del tutto credibile nel
suo tentativo di strizzare l’occhio alle radio commerciali sbandierando però il proprio essere
“alternativi”. E se la title track è l’esempio lampante di questa dicotomia (“Non ho il ciuffo da
fighetto, non ho il papi importante / Non mi vesto da coglione perché siete già in tanti / Io non
devo niente a MySpace, non esco coi DJ”, su una base che tutto è tranne che ostica nel suo
saltabeccare gommoso e ad alto volume), anche altrove l’impressione è che Guido senta di
avere qualcosa da dimostrare, distaccandosi a ogni occasione da un mondo plastificato e
modaiolo che tuttavia le musiche richiamano abbastanza apertamente. O, per lo meno, lo
fanno quando è la componente sintetica a dominare, perché quando invece sono le
sei-corde e le distorsioni ad avere la meglio (è il caso di una “Rock band” quasi metallara), le
cose si fanno più dure e rocciose. Un disco caratterizzato da dicotomie profonde, quindi, da
un punto di vista sia concettuale che musicale; non stupisce, allora, che è nei momenti in cui
ci si allontana dagli estremi che si trovano i momenti migliori, come nel caso di una
“Amsterdam” attraversata da una sottilissima vena psichedelico-orchestrale. Divertente l’idea
di “Credits”, in cui le note di copertina dell’album diventano canzone, ma difficilmente la si
ascolterà più di una volta. Riassumendo: nella forma, un disco pop ben fatto; nella sostanza,
un lavoro con momenti interessanti, ma che nel complesso non riesce a convincere.
Contatti: www.thestyles.net
Aurelio Pasini
Pagina 57
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Numero Dicembre '09
Uncode Duello
Tre
Wallace
Il terzo disco del duello musicale che ormai ci siamo abituati ad accogliere a braccia aperte
nella persona dell’illustre Paolo Cantù e del celeberrimo Xabier Iriondo è sempre una
rivelazione. Quando ci si approccia a dei suoni che sembrano difficili all’ascolto, spesso ci si
interroga se valga la pena contenerli su di un disco o se debbano rimanere nell’ottica live,
accostati ed equiparati alla musica improvvisata. Quando però hai la musica che ti pulsa da
qualsiasi interstizio del corpo, come questi due signori, puoi anche registrare i dischi, tanti
dischi, e suoneranno bene quanto i live. Ascoltare gli Uncode Duello anche questa volta è
un’esperienza sonora, perché ci si fa trasportare dal loro viaggio, dalla loro comunicazione
che arriva chiara ed efficace. Dopo la parentesi con gli ospiti - per il secondo album - che si
sono aggiunti al loro linguaggio, per “Tre”, la formazione è tornata alla storia iniziata con “Ex
Aequo”, un rapporto quasi simbiotico, quasi studiato: in effetti i due musicisti sembrano fatti
degli stessi ingredienti, o meglio sembrano cercare lo stesso suono. “Le stesse cose che ho
fatto” con cui titolano il brano iniziale sembra dedicata al loro percorso. Le note di copertina,
ritagliate e storte, raccontano la loro versione della storia che non va bene con i tasselli al
posto e il due dopo l’uno: bisogna guardare/ascoltare bene e anche leggere le note e
ascoltare la natura piena di umana sarà più facile. Un disco che merita almeno tre ascolti di
seguito.
Contatti: www.myspace.com/uncodeduello
Francesca Ognibene
Pagina 58
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Numero Dicembre '09
Verner
Il mio vestito
La Pupilla
Questo ragazzo “ragiona”, e i suoi pensieri li ha scelti bene per mettere insieme le sue
complicazioni, le sue ossessioni, i rimproveri della vita e della coscienza, le donne che ti
vogliono cambiare e che arrivate a farlo tutto fanno finire. È questo il suo “vestito”, che si
cambia di canzone in canzone, mai uguale dall’una all’altra, mai piatto. L’ascolto è sempre
un movimento sinuoso che si fa strada tra le pieghe dell’anima. A cominciare da
“Indifferente”, brano che apre il disco: si entra in un vortice emozionale che ti cattura subito.
Lui che viene lasciato, cerca di rialzarsi, di riacquistare la sua libertà cambiando tutto da un
momento all’altro ma lei ne è indifferente e quando il ragazzo se ne accorge ritrova i suoi
limiti, le sue ferite e il dolore. “Lei”, un minuto e poco più tutti cantati con il fiato corto e
asciutto, tutto voce e chitarra acustica in una cantilena romantica che ti si stringe il cuore.
Verner, il cui vero nome è Gianandrea Esposito, ha origini napoletane ed è bolognese
d’adozione; questo è il suo debutto dopo anni di studi del canto, della chitarra classica e poi
elettrica e un’importante esperienza da busker per l’Europa. Forse proprio quest’ultima gli ha
procurato le stimolanti espressività di una voce che racconta vite che si toccano con mano e
con le parole e le musiche. Canzoni che hanno un controllo quasi rassicurante. Il senso di
liberazione che porta la sua scrittura compositiva è commovente e rende felici perché i suoi come li chiama lui - "punti deboli" no riconoscibili, condivisibili e anche un po’ nostri. Grazie
Verner.
Contatti: www.verner.it
Francesca Ognibene
Pagina 59
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Numero Dicembre '09
Walter Marocchi Mala Hierba
Impollinazioni
Ultrasound
“Impollinazioni” amabili: esattamente come i processi riproduttivi dei fiori non cambiano da
quando il mondo esiste, quelli sono e quelli resteranno, non sarà la “hierba” di Walter
Marocchi a segnare e segnalare rivoluzioni stilistiche e sorprendenti novità d’approccio, però
almeno garantirà un’ora di gradevole fragranza. Con l’aiuto di Fabrizio Mocata, Carlo Ferrara
e Stefano Lazzari, il chitarrista disegna una decina di gradevoli acquarelli etno-jazz che
risentono tanto, tantissimo di quello che si suonava negli anni 70 in Italia, una fusion
immersa nel jazz ma vogliosa di seguire paste sonore vicine (anche) al pop. Approccio a cui
ricondurre cose meravigliosamente selvagge, gli Area ad esempio, ma anche il miglior Pino
Daniele, quello degli esordi. Certo, Walter Marocchi arriva giusto con un ventennio di ritardo,
ma non sempre arrivare per primi o fra i primi è una necessità. C’è una bella proprietà di
linguaggio in questo album, lo standard compositivo dei temi e dei cambi è più che discreto
(vedere per esempio “Ciriò”), e questo ci fa perdonare invece la poca, pochissima cura nel
trovare arrangiamenti particolari (non basta mettere qualche richiamo etno-socio-latino
all’interno di una “mezcla” jazz per essere originali; anzi, da anni e anni è spesso un modo
perfetto per non esserlo). Manca l’impeto e la gioiosa irruenza di certo Daniele Sepe, manca
il coraggio di andare davvero fuori dagli schemi ed avventurarsi in territori musicalmente
poco esplorati, ma se ci si vuole dare un ascolto tranquillo, moderato e morigerato e magari
si vuole un primo approccio alle modalità compositive del jazz, “Impollinazioni” fa il suo
dovere.
Contatti: www.cinemarocchi.it
Damir Ivic
Pagina 60
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Numero Dicembre '09
Laura Mars
Un bel piano elettrico introduce le tre tracce del nuovo mini-cd della reggiana Laura Mars,
“Nel mio scrigno” (Nest Records), a tre anni da “Nido dove riposano parole”. Specifichiamo
che si tratta di un lavoro della durata ridotta soltanto per limiti produttivi. Tradotto: non che
mancassero le risorse dell’ingegno e dell’ispirazione, anzi. Ma l’investimento che si poteva
mettere in gioco non andava più in là di un Ep. Ed è un peccato che, dopo il terzo brano
(“Nel mio scrigno”), un avvolgente pezzo di rock acustico ricamato dallo scivolare di una
steel guitar, cali il sipario.
L’elegante Laura Rebuttini, alias Laura Mars (i cui celebri “occhi” erano interpretati da una
splendida Faye Dunaway in un film del 1978 su soggetto di John Carpenter), si è fatta
aiutare dagli ex Üstmamò Luca Rossi e Simone Filippi. Ne è venuto fuori il soul
mascherato di “Promesse”, la morbidezza tardo-Cocteau Twins di “Mio caro diario”, la title
track di cui s’è detto.
Ottimo antipasto. Per il resto non bisognerà aspettare troppo, ma sarà qualcosa di un po’
diverso: un progetto di musica chill out-jazz-house, che uscirà per la Molto Recordings agli
inizi del prossimo anno.
Contatti: www.lauramars.it
Gianluca Veltri
Trivo
Trivo è un fenomeno abbastanza strano e potenzialmente in crescita. Quando suona sembra
uscito dalle B-side di “Yoshimi Battles The Pink Robots” dei Flaming Lips passate nel
tritacarne (se possibile); quando canta in italiano fa un po' il verso a un Beck mugolante
senza riverbero e sotto la doccia. Ma i quaranta minuti scarsi delle 17 tracce di “Emoterapia”,
primo disco casalingo del cantautore foggiano, possono riassumersi nel quarto brano “Ho
bisogno di qualcosa di cui non ho bisogno”. Il primo problema di Trivo è la voce, poco
incisiva rispetto alle parti stralunate, dove frasi registrate e rumori montati a regola d'arte si
sposano alla grande con il suono spaziale. Il secondo problema di Trivo sono le strofe troppo
ricercate e zeppe di termini desueti per competere con ritornelli perfetti, come nella fulciana
“Ho un gatto nel cervello”. Trascurabili i siparietti glitch-pop e lo-fi come “Nero”, encomiabili
gli stravolgimenti trasognati e le esaltazioni rabbiose, meglio se strumentali. Le mani nervose
di Trivo sono piene di potenziale, sono mani alle prese con chitarre, pianole, synth,
percussioni, batterie elettroniche e mille aggeggi assortiti lanciati all'unisono. Solitamente
recensioni del genere si chiudono con: ci sono enormi margini di crescita.
Contatti: www.myspace.com/elephantsuicide
Marco Manicardi
Pagina 61
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