B - GLI EVENTI DEL PRIMO NOVECENTO 3 – La prima guerra mondiale: l’inutile massacro della Grande guerra 4 - Tra le due guerre mondiali: gli scenari politici dal 1918 al 1940 3 – LA PRIMA GUERRA MONDIALE: L’INUTILE MASSACRO DELLA GRANDE GUERRA 1. Le cause del conflitto 2. Le prime fasi della guerra: dall’attentato di Sarajevo alla guerra di posizione (1914) 3. L'Italia di fronte alla guerra 4. Le fasi centrali del conflitto: la grande strage (1915-16) 5. La guerra nelle trincee 6. La mobilitazione totale 7. La Rivoluzione russa e il rifiuto della guerra 8. La svolta del 1917 9. La vittoria dell'Intesa (1918) 10. I trattati di pace LE CAUSE DEL CONFLITTO 1. Le cause del conflitto 1 – la questione ________________ I Balcani prima dei 1914 erano un'area giudicata politicamente a rischio (come oggi il Medio Oriente). In questa regione l'indipendentismo delle popolazioni locali si scontrava con gli interessi delle maggiori potenze europee del tempo (Germania, Francia, Austria-Ungheria, Russia, Inghilterra), che volevano controllare a proprio vantaggio gli equilibri politici dei Balcani e di tutto il Mediterraneo orientale. La situazione precipitò fra 1908 e 1909 con la disgregazione dell'Impero ottomano. I "giovani turchi", un gruppo progressista e modernizzatore, presero il potere in Turchia, incoraggiando indirettamente le spinte indipendentiste delle popolazioni slave e le mire espansionistiche dei potenti Stati europei. Si ebbe così una catena di reazioni: la proclamazione dell’indipendenza bulgara, l'annessione della Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria-Ungheria, quella di Creta da parte della Grecia; e, dopo Serbia, Romania e Bulgaria, anche il Montenegro arrivò all'indipendenza, mentre altre spinte nazionalistiche sorgevano in Albania. Due successive guerre (prima e seconda guerra balcanica) portarono prima alla spartizione della Macedonia, strappata all'impero turco in crisi, tra Bulgaria, Grecia e Serbia, e, dopo una guerra fra gli ex alleati contri i turchi, alla sua assegnazione alla Serbia. Vincitrice in entrambe le guerre, la Serbia accentuò il suo nazionalismo specialmente contro l'Impero austro-ungarico, cercando di trascinare con sé nello scontro il suo massimo alleato, l'Impero zarista, che nelle due guerre precedenti aveva evitato d'intervenire direttamente. Come si vede, dagli avvenimenti, il gioco delle alleanze e delle contrapposizioni reciproche (locali e globali) fra stati creavano occasioni d'intervento politico "dal basso" (le spinte indipendentiste) e "dall’alto" (le spinte egemoniche o espansioniste). Le questioni apparentemente locali dei Balcani potevano, in una particolare congiuntura, assumere rilievo generale e, nel caso della Serbia e dell'Austria-Ungheria nel 1914, portarono alla I Balcani dopo il crollo dell’impero turco Indipendentismo e interessi delle _____ _________________________ la disgregazione dell'Impero ________: la rivoluzione dei _________________ indipendenza di ___________________ _____________________________ annessioni di ____________________ _______________________________ Prime e seconda __________________: la spartizione della ________________ Il _________________ della Serbia da una _________________________ alla ____________________________ 50 Prima guerra mondiale. II 28 giugno 1914 a Sarajevo, nella Bosnia da poco annessa assieme all'Erzegovina all'Impero austro-ungarico, Gavrilo Princip, uno studente bosniaco membro di una società segreta nazionalista (la "Mano nera"), uccise in un attentato l'arciduca Francesco Ferdinando, il principe ereditario dell'Impero asburgico, e sua moglie Sofia. L'attentato rivelò la gravità delle tensioni nazionalistiche balcaniche. Il dissidio fra l'Impero austro-ungarico e la Serbia, che ambiva al ruolo di guida spirituale e politica delle popolazioni slave,esisteva già da un decennio; e l'arciduca ucciso era odiato dai serbi perché aperto a richieste di maggiore autonomia avanzate dai croati e dagli sloveni. L'episodio, in apparenza una "questione interna", scatenò invece un conflitto mondiale. Il governo austriaco progettò una rappresaglia ed ebbe l'immediato appoggio di quello tedesco, suo alleato. Già il 23 luglio un ultimatum austriaco imponeva alla Serbia di far cessare ogni propaganda orale o scritta contro l'Austria-Ungheria, sciogliere le associazioni ostili all'Austria, interdire dai pubblici uffici i funzionari compromessi in attività antiaustriache. Inoltre funzionari del governo austriaco avrebbero dovuto partecipare alle indagini sull'attentato. Queste pretese, che non rispettavano la sovranità dello Stato serbo, apparvero inaccettabili e furono respinte. L'Austria non aspettò molto e il 28 luglio 1914 dichiarò guerra alla Serbia. Perché l'attentato di Sarajevo non si limitò a provocare soltanto una "terza guerra balcanica" e produsse invece un conflitto mondiale? Innanzitutto perché in esso si ebbe il coinvolgimento diretto di una delle grandi potenze del tempo, l'Impero austro-ungarico, che fece scattare l'intervento russo contro l'Austria e quello tedesco in funzione antirussa (attaccando prima la Francia, alleata dei russi, e poi i russi stessi), secondo le procedure previste dalle preesistenti alleanze militari. Tali alleanze erano costituite dalla Triplice Intesa (1914-1920) e dalla Triplice alleanza (1882-1914). La prima, ovvero l'alleanza franco-russo-britannica stipulata allo scoppio della Prima guerra mondiale (settembre 1914) contro la Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia). Essa rappresentò lo sbocco naturale di due precedenti accordi: la Duplice alleanza fra Francia e Russia, risalente al 1894 e l’Intesa cordiale (1904) fra Francia e Inghilterra, un accordo diplomatico che regolava amichevolmente i reciproci interessi coloniali delle due nazioni (quelli inglesi in Egitto e quelli francesi in Marocco). La Triplice alleanza (18821914), invece, era il patto militare a carattere difensivo firmato il 20 maggio 1882 a Vienna da Austria-Ungheria, Germania e Italia. Prevedeva l'aiuto reciproco in caso di invasione esterna (con particolare riferimento alla Francia) di uno dei tre stati contraenti. L'alleanza fu rinnovata più volte, ma fu indebolita soprattutto dai contrasti fra austriaci e italiani per i territori (Trentino, Venezia Giulia), da questi ultimi considerati "irredenti", e dall'espansionismo asburgico nei Balcani (annessione della Bosnia-Erzegoviria nei 1908). Allo scoppio della Prima guerra mondiale, l'Italia decise in un primo momento di non intervenire, richiamandosi al carattere solo difensivo del trattato. Poi, stretto il Patto di Londra con l'Intesa, annullò il precedente trattato (3 maggio 1915). In ogni caso in quelle circostanze fu tutto il sistema internazionale a mostrare contrasti e spinte militariste: la Gran Bretagna, infatti, era da tempo impegnata a difendere il suo primato economico e marittimo, minacciato dalla politica di riarmo di Guglielmo II e in particolare dal rafforzamento della flotta militare tedesca. Entrambi i paesi s'impegnarono, dunque, in una crescente corsa agli armamenti navali. Inoltre la Francia, che aveva perso nello scontro con la Germania del 1870 l'Alsazia-Lorena, non si era rassegnata alla sconfitta ed era ossessionata dall'idea della revanche (la “rivincita”; da qui il termine revanscismo). A dividere le nazioni europee c'era poi — importantissima — la "questione coloniale". Germania e Italia erano giunte tardi a una politica imperiale e potevano cercare solo di erodere i territori che le maggiori potenze europee s'erano già accaparrati. In particolare la Germania, che stava diventando un 28 giugno 1914: L'attentato _________ _______________________ 23 luglio : ______________________ 28 luglio: _______________________ ______________________________ 2 - il sistema _____________________ La __________________ Intesa La ____________________ alleanza 3 - crescente corsa ________________ _____________________ 4 – il revanscismo ________________ questione della ___________________ 5 - la questione ___________________ 51 gigante economico, non sopportava di avere dei possedimenti coloniali irrisori (Togo, Camerun) e gli ambienti militari e di corte aspettavano da tempo una occasione per strappare alla Francia le colonie in Africa centrale e al Belgio quella congolese. Molti storici insistono sulle responsabilità dei dirigenti politici e militari della Germania, che puntarono a una politica imperialista e colsero l'occasione favorevole offerta dall'attentato di Sarajevo per completare il rafforzamento della flotta militare. Le maggiori potenze europee erano, dunque, da tempo impegnate in una lotta per spartirsi i mercati mondiali e affermare la propria supremazia politica, così che lo scontro armato risultò la soluzione più semplice. Particolarmente acuto in Europa era il confronto economico tra il capitalismo franco-britannico da una parte e quello tedesco dall'altra. Lo sfruttamento dei mercati esteri era ormai una condizione essenziale per lo sviluppo economico di questi stati; e lo prova il fatto che Gran Bretagna, Germania e Francia fornivano il 62% delle esportazioni mondiali di manufatti e l'83% degli investimenti di capitali all'estero, mentre gli Stati Uniti, pur essendo al primo posto tra i produttori di carbon fossile, ghisa e acciaio, erano ancora intenti a sviluppare il loro mercato interno. Il capitalismo tedesco, con la sua economia in crescita, aveva bisogno di quei mercati extraeuropei che francesi e inglesi controllavano strettamente. Le tendenze imperialistiche però approfittavano anche delle tensioni nazionalistiche, che si esprimevano in Europa con l'irredentismo italiano nei confronti dell'Austria-Ungheria, il pangermanesimo tedesco nei confronti in particolare dell'impero russo, e il panslavismo che mirava alla "russificazione" dei popoli slavi. La Germania, che temeva di restare accerchiata dall'alleanza francorussa, puntava a nuove annessioni in Europa (regioni fiamminghe, boeme, estoni) e i suoi circoli militaristi svilupparono già prima della guerra ideologie razziste per giustificare la sottomissione delle "stirpi inferiori" (gli slavi in particolare). Presto l'idea di una grande Mittel Europa, da costruire anche a scapito di Francia, Belgio e Lussemburgo, diventò programma ufficiale del governo tedesco. La guerra fu per tutti i paesi coinvolti un acceleratore dello sviluppo economico e un mezzo per incrementare la produzione industriale senza rischiare crisi di sovrapproduzione. Delle commesse belliche statali s'avvantaggiarono non solo le fabbriche d'armi, ma anche l'industria laniera e quella automobilistica. Non ci fu in pratica ramo dell'industria che non ottenne contratti vantaggiosissimi dagli stati, assillati dalle necessità imposte dalla guerra e convinti della sua breve durata. Due soli esempi: in Italia la maggiore industria di armamenti, l'Ansaldo, negli anni di guerra aumentò gli operai e gli impiegati da 4.000 a 56.000, mentre la Fiat portò la sua manodopera da 4.000 a 40.500 unità e monopolizzò la produzione italiana di automezzi, di motori d'aviazione e di mitragliatrici. Pesava poi nelle classi dominanti delle varie nazioni (Stati Uniti compresi) una crescente preoccupazione per i conflitti sociali interni, che si erano intensificati e avevano portato a una notevole avanzata delle forze politiche socialiste. In effetti, almeno all'inizio della guerra, nella maggioranza dei paesi belligeranti si verificò una nazionalizzazione delle masse cioè un loro coinvolgimento a favore del conflitto. In tutti i principali Stati europei, grazie all'incoraggiamento venuto dai ceti dirigenti, si produsse così un clima politico che ridimensionava i contrasti interni fra i gruppi e le classi sociali in nome dell'unità nazionale, spingeva a diffidare dei partiti, accusati di dividere la patria, e faceva prevalere scelte plebiscitarie a scapito della democrazia parlamentare liberale. uno __________________tra diverse economie nazionali 6 - Ambizioni ____________________ in Europa ____________________ italiano _________________________ tedesco __________________________ russo 7 - la guerra spinta ________________ 8 - un modo di controllare __________ ______________________________ 52 2. Le prime fasi della guerra: dall’attentato di Sarajevo alla guerra di posizione (1914) Grazie al sistema di alleanze, dopo la dichiarazione di guerra indirizzata dall'Austria alla Serbia, l'Impero zarista, principale alleato della Serbia, mobilitò le proprie truppe al confine con l'Impero austro-ungarico e poi su tutto il proprio territorio, per prevenire un eventuale attacco della Germania, l'alleata principale dell'Austria. Il primo agosto il governo tedesco reagì: chiese a quello russo di annullare la mobilitazione e, nello stesso tempo, inviò alla Francia, alleata della Russia, un ultimatum per indurla a restare neutrale. I russi rifiutarono di smobilitare, i francesi esitarono a rispondere; a ventiquattr'ore di distanza l'ultimatum fu seguito dalla dichiarazione di guerra alla Russia e il 3 agosto 1914 la Germania dichiarò guerra alla Francia, attuando già il giorno dopo (4 agosto) un piano d'intervento militare predisposto fin dagli inizi del Novecento da un suo feldmaresciallo, il conte Alfred von Schlieffen. Il piano prevedeva che l'esercito tedesco colpisse in modo fulmineo la Francia e, subito dopo, impegnasse tutte le proprie forze contro l'Impero zarista. Esso contava anche sulla lentezza di mobilitazione dei russi e, data la vastità del territorio russo, calcolava che lo scontro sul fronte orientale sarebbe durato più a lungo. Per infliggere più velocemente il colpo decisivo alla Francia, il piano Schlieffen aveva programmato anche l'invasione del Belgio, la cui neutralità era fissata fin dalla sua nascita, nel 1830, da precisi trattati internazionali. La Germania non esitò a violarli (il suo cancelliere dichiarò che i trattati internazionali erano «dei pezzi di carta»). Immediatamente, sempre il 4 agosto 1914, la Gran Bretagna, alleata di Francia e Russia, dichiarò guerra alla Germania. La Germania sapeva di provocare con tale atteggiamento l'intervento in guerra dell'Inghilterra, ma calcolava che gli inglesi, essendo privi di un esercito a coscrizione obbligatoria, avrebbero impiegato circa sei settimane per organizzarlo, giungendo in ritardo sul campo di battaglia, quando le sorti della guerra sarebbero già state decise. In pochi mesi il conflitto dilagò in varie aree del mondo: il 23 agosto 1914 il Giappone, per impossessarsi di zone della Cina sotto influenza tedesca, dichiarò guerra alla Germania; in novembre l'Impero ottomano, legato alla Germania, la affiancò nella guerra. Negli anni successivi fu la volta dell'Italia, che si schierò a fianco dell'Intesa (Francia, Gran Bretagna, Impero zarista), della Bulgaria, alleata con gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria); e poi della Romania, degli Stati Uniti e della Grecia, che sostennero l'Intesa. La guerra si svolse principalmente in Europa, ma i legami militari, politici ed economici con le altre aree del globo la tramutarono inevitabilmente in guerra mondiale. I tedeschi travolsero in due settimane la resistenza belga e si diressero su Parigi, cogliendo di sorpresa l'esercito francese. Il suo stato maggiore aveva concentrato il grosso delle truppe in Lorena per penetrare con un'offensiva ritenuta risolutiva, in Germania. Di fronte all'invasione della parte settentrionale del proprio territorio, la Francia fu costretta precipitosamente a passare da una strategia offensiva a una strategia difensiva, mentre il suo governo si rifugiava a Bordeaux e la Germania si apprestava a dettare le sue condizioni di pace: annessione di territori francesi e sottomissione del Belgio. Tra il 6 e il 12 settembre 1914 invece, l'esercito francese, con l'aiuto di un corpo di spedizione inglese inviato rapidamente in suo sostegno, arrestò l'avanzata dei tedeschi sul fiume Marna e li respinse oltre il fiume Aisne, influendo così su tutto l'andamento della guerra. I piani tedeschi, che prevedevano una guerra rapida e basata su grandi manovre offensive, dovettero infatti essere abbandonati, per affrontare gli imprevisti problemi di una guerra di posizione. La "guerra di posizione" nacque in seguito al fallimento delle strategie di guerra basate sulla velocità e il movimento ed ebbe come caratteristica l'immobilità e LE PRIME FASI DELLA GUERRA (1914) 28 luglio: _______________________ ______________________________ II sistema delle alleanze militari e ___ _______________________________ La dichiarazione di guerra della _____ _______ alla ________________ (2/ __________ ) e alla _____________ (_____/ __________ ) L’iniziativa _____________________ e il piano _____________________ L'attacco tedesco al ____________ l’intervento della _________________ (______/ __________ ) Il conflitto diventa ________________ L'attacco tedesco e ________________ _______________________________ L’arresto dell’offensiva ____________ 53 l'equilibrio tra le forze militari contrapposte. Essa fu la dimostrazione che la guerra era cambiata rispetto al passato: era ormai industriale (contava la capacità di mobilitare al servizio dell'esercito l'apparato produttivo di una nazione), tecnologica (le innovazioni tecniche valevano più delle vecchie strategie), moderna e di massa (le società erano più ampie e uniformi e le perdite in guerra raggiungevano la dimensione del massacro). L'esito dello scontro favorevole alla Francia fu dovuto sia errori tattici dei tedeschi, che avanzando a grande velocità avevano creato il caos nei collegamenti fra i reparti del loro esercito, sia a una improvvisa e imprevista offensiva russa contro la Prussia e la Galizia austriaca. Sul fronte orientale, infatti, la Russia nell'agosto 1914 aveva mobilitato più velocemente del previsto il suo esercito e cominciava a invadere la stessa Prussia. Per difenderla, i tedeschi dovettero spostare alcune loro divisioni dal fronte occidentale. L'esercito tedesco fermò quello russo nelle due battaglie di Tannenberg (26-30 agosto 1914) e dei laghi Masuri 10 settembre 1914) nell'attuale Polonia. Nonostante queste vittorie il progetto di raggiungere rapidamente Parigi era ormai fallito. Le sorti della guerra si giocarono contemporaneamente su più fronti, e l'andamento delle battaglie su un fronte influiva sulle sorti degli altri. In particolare, si costituirono un fronte occidentale e fronte orientale. Quello occidentale si allungava per 800 chilometri: dall'Yser (sulla costa del Belgio) fino alla regione dei Vosgi (alla frontiera con la Svizzera); qui combattevano, attestati nelle trincee e stremati, francesi e tedeschi. Sul fronte orientale si contrapponevano l’esercito austro-tedesco e quello russo. 3. L'Italia di fronte alla guerra Nei primi giorni del conflitto, il 2 agosto 1914, l'Italia aveva proclamato la propria neutralità. Contro la guerra era schierata la maggioranza del parlamento e del paese. Contrari infatti, pur con varie motivazioni, erano i liberali di Giolitti, i socialisti e i cattolici. Del resto la Triplice Alleanza, che legava l'Italia a Germania e Austria-Ungheria, aveva un carattere esclusivamente difensivo e l'Austria, paese aggressore della Serbia, non aveva neppure avvertito la propria alleata, sebbene il trattato lo prevedesse. In Italia i favorevoli alla guerra erano nel parlamento una minoranza. Si trattava però di una minoranza aggressiva e capace di raccogliere consenso anche negli altri schieramenti politici. Erano, infatti, per l'intervento gli "irredentisti" trentini (tra cui Cesare Battisti) e singole personalità socialiste come Gaetano Salvemini e Leonida Bissolati, che vedevano nella guerra iniziata nel 1914 un'occasione offerta all'Italia per completare il ciclo risorgimentale con una «quarta guerra d'indipendenza» o ritenevano necessario schierarsi con le democrazie (Francia e Inghilterra) contro il dispotismo militarista degli Imperi centrali. Interventista, con una svolta clamorosa, diventò anche un altro esponente della sinistra socialista, l'allora direttore del giornale «Avanti!», Benito Mussolini. I più attivi interventisti furono però i nazionalisti, capeggiati da Enrico Corradini e sostenuti dal prestigio culturale di Gabriele D'Annunzio. Per loro, partecipando alla guerra in gara con altre nazioni, l'Italia avrebbe dimostrato di essere matura per una "politica di potenza", acquisendo così un maggior prestigio internazionale. Fedeli all'inizio della guerra alla Triplice Alleanza (Germania e Austria-Ungheria) e orientati a una politica di espansione coloniale in Africa, i nazionalisti passarono poi dalla parte dell'Intesa in nome della difesa degli interessi "naturali" dell'Italia e puntarono alla conquista dei territori di Trento, di Trieste e della Dalmazia. Infine, allo schieramento interventista si associarono i liberali di destra, Sidney Sonnino e Antonio Salandra, che nel marzo del 1914 sostituì Giovanni Giolitti La guerra di ____________________ I1 fronte _______________________ La battaglia dei laghi ___________ e la fermata dei ____________________ Fronte ____________________ e fronte ______________________ L'ITALIA DI FRONTE ALLA GUERRA I ___________________________ Liberali, ______________________ e _________________________ Gli ___________________________ - __________________________: completare _____________________ - singoli _____________________: _______________________________ - ______________________________: politica di _______________________ - Liberali di ___________________: _______________________________ _____________________________ 54 alla guida del governo. Appoggiati dal re, da settori dell'industria pesante e dal più autorevole giornale italiano del tempo, il «Corriere della Sera», giudicavano la guerra un ottimo strumento sia per espandere l'economia che per disinnescare le tensioni sociali interne. Il 26 aprile 1915, giorno di chiusura del parlamento, il ministro degli Esteri Sonnino e il presidente del consiglio Salandra scavalcarono la maggioranza neutralista dei deputati e stipularono con l'Intesa un trattato segreto, il Patto di Londra: l'Italia sarebbe entrata in guerra nel giro di un mese e, in caso di vittoria, avrebbe annesso i territori di Trento, di Trieste e della Dalmazia. Contemporaneamente i nazionalisti, incoraggiati dallo stesso governo e dalla corte, promossero le cosiddette «radiose giornate», clamorose manifestazioni di piazza dirette contro i neutralisti, contro il parlamento e a favore dell'immediato ingresso in guerra dell'Italia. Il 13 maggio, d'accordo con il re, Salandra si dimetteva. Il re respingeva le dimissioni. Il liberale Giolitti, minacciato di morte dagli interventisti abbandonava la sua battaglia neutralista non volendosi mettere contro il re, che aveva firmato il Patto di Londra. La camera poi, con 407 voti favorevoli e 74 contrari, approvò i pieni poteri al governo in caso di guerra; tra i voti contrari, quello dei socialisti, di alcuni giolittiani e di alcuni popolari. Il 24 maggio 1915 l'Italia dichiarò, dunque, guerra all'Austria. 4. Le fasi centrali del conflitto: la grande strage (1915-16) Per tutto il 1915 gli schieramenti rimasero pressoché immobili nelle trincee: centinaia di migliaia di soldati furono sacrificati, in omaggio a una concezione ottocentesca delle battaglie, alla vana ricerca dell'attacco risolutivo. I comandi militari per questo nuovo e imprevisto tipo di guerra, la guerra di posizione, elaborarono dapprima la tattica dello "sfondamento", e, in seguito quella dell"'usura" e della "diversione". La tattica principale, quella dello "sfondamento", fu usata per tutto il 1915 e prevedeva un attacco frontale con l'uso in successione dell'artiglieria (che "preparava il terreno"), della fanteria (che assaltava le trincee) e della cavalleria (che irrompeva nel varco e interrompeva la comunicazione tra il fronte e i comandi). Le uniche novità furono dovute all’apertura del nuovo fronte alpino in cui si contrapponevano l’esercito italiano e quello austriaco. L'Italia schierò il suo esercito, comandato dal generale Luigi Cadorna, su un fronte larghissimo (oltre 600 chilometri) e molto vulnerabile. Per limitare i rischi, lo stato maggio decise di strappare rapidamente terreno agli austriaci. E fra il giugno e il dicembre del 1915alcune posizioni furono conquistate agli austriaci con quattro sanguinose battaglie sull’Isonzo e numerose offensive. Ma a Gorizia gli austriaci resistettero e, su questo nuovo fronte meridionale, per i soldati italiani e austriaci la guerra diventò di posizione, come avveniva contemporaneamente ai francesi e agli inglesi che si logoravano inutilmente sul fronte occidentale nelle sanguinose offensive di Artois e Champagne. In quell'anno gli unici successi di qualche rilievo furono ottenuti sul fronte orientale dagli austro-tedeschi: prima contro i russi, che durante l'estate furono costretti ad abbandonare buona parte della Polonia; poi contro la Serbia che, attaccata simultaneamente in novembre da Austria e Bulgaria, fu invasa e cancellata dal novero dei contendenti. Alla fine del 1915, quando sul fronte occidentale francesi e inglesi si erano già logorati nelle offensive di Artois e Champagne, tutti gli eserciti impegnati nella guerra erano costretti alla pesante guerra di posizione. Diventava sempre più Il ___________________________ (_______/___________________) Le __________________________ Le dimissioni di _________________ Il voto favorevole della _____________ La _______________________ alla ____________________ (_____/___________) LE FASI CENTRALI DEL CONFLITTO: LA GRANDE STRAGE (1915-16) La guerra di ____________________ La tattica dello ___________________ Il fronte ______________: primi scontri tra _____________e Austria le battaglie dell’__________________ il fronte _____________________: la ritirata dei russi dalla ____________ la sconfitta della _________________ il coinvolgimento ________________ _____________________________ 55 importante rifornirsi in modo continuo e massiccio di materiale bellico, di viveri e di uomini. L'industria e la popolazione di ciascun paese belligerante furono perciò messe al servizio della guerra: in Francia furono chiamati alle armi i riservisti, le classi anziane e, in anticipo, i giovani; ma anche l'Inghilterra sostituì il volontariato con la coscrizione obbligatoria. La guerra era a un punto morto. All'inizio del 1916, per uscirne, la Germania preparò una violenta offensiva sul fronte occidentale. Per tutto quell'anno fu sperimentata la tattica detta dell'usura: invece di cercare di "sfondare" il fronte avversario, si impegnava il nemico in un solo punto vitale per costringerlo a esaurire tutte le sue risorse. E così, dal 21 febbraio 1916, per cinque mesi, intorno alla fortezza di Verdun (l'«inferno di Verdun») esercito francese ed esercito tedesco si dissanguarono, usando tutti i mezzi bellici di cui disponevano, compresi i gas asfissianti. Nessuno dei due riuscì a prevalere. Ci furono 275.000 morti fra i francesi e 240.000 fra i tedeschi (mentre il generale Erich von Falkenhayn, "inventore" della nuova tattica, aveva previsto tre francesi morti per ogni soldato tedesco ucciso). Subito dopo, i francesi, impiegando ben 65 divisioni e con l'appoggio degli inglesi, sottoposero a loro volta l'esercito tedesco a una "battaglia d'usura", quella della Somme, dove per la prima volta le truppe franco-inglesi usarono i carri armati. L'Intesa, la cui superiorità di mezzi e di uomini diventava sempre più evidente, ottenne una sostanziale vittoria. Ma nel complesso lo scontro era costato un milione di morti. Sempre nel 1916, anche sul fronte meridionale gli austriaci lanciarono un'offensiva (la Strafexepedition, `spedizione punitiva') contro l'ex alleato italiano. Si concentrarono sulle linee tra il lago di Garda e il fiume Brenta e, dopo un massiccio bombardamento, penetrarono fino all'altopiano di Asiago per raggiungere Vicenza, tentando di accerchiare le armate impegnate sul fiume Isonzo. Le perdite italiane furono altissime. L'offensiva austriaca fallì, ma solo grazie alla contemporanea offensiva dei russi nei Carpazi, sollecitata dal re e dal governo italiani. L'evidente impreparazione dell'esercito italiano costrinse Salandra alle dimissioni. Il nuovo governo, presieduto da Paolo Boselli e appoggiato da tutti i partiti interventisti, fece riprendere l'offensiva sull'Isonzo. A costo sempre di perdite gravissime furono conquistate le posizioni dei monti del San Michele e del Sabotino e poi, il 9 agosto 1916, Gorizia. Il 27 agosto 1916 l'Italia dichiarò guerra anche alla Germania. All'inizio guerra, nel 1914, i francesi e gli inglesi avevano iniziato un blocco del commercio internazionale: le navi dirette verso i porti europei, anche se di paesi neutrali, venivano perquisite e certi prodotti (armi, carburante, prodotti chimici, ecc.), considerati «contrabbando di guerra», venivano sequestrati. Attorno al 1916 il blocco cominciò a far sentire i suoi effetti in Germania e in Austria. Venne danneggiata la produzione industriale e, essendo la massa dei contadini mobilitata al fronte, quella agricola praticamente s'arrestò. I governi imposero il razionamento dei generi alimentari; aumentarono di conseguenza malattie come tubercolosi, tifo e colera e le morti per denutrizione, specialmente nella prima infanzia. Gli Imperi centrali decisero di forzare il blocco sul mare, ma la controffensiva non ebbe successo: il 31 maggio 1916, nella battaglia dello stretto di Skagerrak, vicino alla penisola dello Jutland, la flotta tedesca non riuscì a lasciare i porti del mare del Nord. La Germania allora rispose al blocco con la guerra sottomarina, che prevedeva una morsa attorno all'Inghilterra e il siluramento di ogni nave inglese o alleata che si avvicinasse alla sua costa. Fu una scelta azzardata. Per un errore, infatti, già nel maggio 1915 era stata silurata una nave passeggeri inglese, la Lusitania, e fra i suoi 1.198 morti si contarono anche quasi 200 americani. Per rabbonire il presidente statunitense Wilson, che minacciò d'intervenire nel conflitto, la Germania dovette promettere che non avrebbe più colpito alcuna nave senza preavviso. Nel Medio Oriente, per indebolire la resistenza dell'Impero ottomano, entrato in guerra a fianco degli imperi centrali già nel 1914, la Gran Bretagna e la Francia Le "battaglie d'usura" del _________: Verdun e _________________ Il fronte ____________________: La ____________________________ La reazione italiana: ______________________________ e la ripresa dell’offensiva sull’_______ II blocco navale ________________ La reazione tedesca: _______________ __________________________ 56 promisero l'indipendenza ai popoli arabi a esso soggetti, stanziati in Siria, Iraq, Palestina e in Arabia promuovendo una vasta guerriglia antiturca. Queste promesse però non erano del tutto sincere. Gran Bretagna, Francia, Russia e Italia si accordarono infatti segretamente per spartirsi quei territori dopo la guerra: l'Iraq sarebbe andato alla Gran Bretagna, la Siria alla Francia, Costantinopoli e gli stretti alla Russia, Smirne all'Italia. Inoltre, con la dichiarazione Balfour del 1917, il governo inglese fece balenare agli ebrei sionisti la possibilità di avere una loro sede nazionale in Palestina, primo germe del futuro Stato d'Israele. Nelle retrovie del fronte orientale si ebbe uno dei risvolti più tragici della guerra. La crisi che l'Impero ottomano aveva vissuto tra l'Ottocento e il Novecento non era stata determinata solo dalle pressioni territoriali delle potenze imperialiste e dalle aspirazioni all'indipendenza delle diverse minoranze nazionali disseminate sul suo territorio. A essa contribuivano anche fattori politici e amministrativi, burocratici e giuridici, economici e sociali, di cui finì per fare le spese la minoranza armena. Al contrario del resto dell'impero, essa stava vivendo una fase di notevole sviluppo e premeva sul sultano per la concessione di riforme costituzionali o addirittura dell'autonomia. Già oggetto di una violenta repressione negli anni 1894-1896, la sua situazione peggiorò ancora con l'avvento al potere dei Giovani turchi. Il loro obiettivo, costruire uno Stato etnicamente omogeneo, non lasciava spazio alle minoranze nazionali — curdi, greci, assiro-caldei e armeni, tutti guardati con sospetto — che abitavano i territori del vecchio impero. Fu la Prima guerra mondiale a offrire ai Giovani turchi la possibilità di portare a compimento questo progetto, liquidando direttamente tali minoranze. Di questo genocidio, il primo del Novecento, gli armeni furono le vittime più numerose. Tra il 1915 e il 1916 circa un milione di armeni fu sterminato dalle truppe e dalle bande paramilitari turche, nel corso di una tremenda marcia di deportazione dalle città dell'Anatolia al deserto della Siria. 5.La guerra nelle trincee Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo creatasi nell'estate del '14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un'usura dovuta soprattutto alla combinazione micidiale fra la vecchia dottrina militare, che imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la conquista di una determinata posizione), e le nuove armi automatiche, capaci di trasformare ogni assalto in un'autentica carneficina per gli attaccanti. In realtà, dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea, ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive: un fossato scavato nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. Concepite all'inizio come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, le trincee divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di prima linea. In breve tutta la zona del fronte fu ricoperta da una fitta rete di fossati disposti su due o più linee (la linea più avanzata si trovava a volte a poche decine di metri da quella del nemico) e collegati fra loro per mezzo di camminamenti. Col passare del tempo le trincee furono allargate, dotate di ripari, protette da reticolati di filo spinato e da «nidi» di mitragliatrici, diventando sempre più difficilmente espugnabili. La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, senza potersi lavare né cambiare. Erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie, II fronte mediorientale promesse ________________ e guerriglia ______________________ I _______________________ e le minoranze etniche le aspirazioni d’________________ degli ___________________ e il loro_________________________ LA GUERRA NELLE TRINCEE La trincea La vita nelle trincee L'assalto 57 oltre che ai periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di pattuglia o, quando scattava un'offensiva, per lanciarsi all'attacco delle trincee nemiche. Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti da un intenso tiro di artiglieria («fuoco di preparazione») che in teoria avrebbe dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato principale quello di eliminare ogni effetto di sorpresa. I soldati che scattavano simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di sbarramento avversario finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi aperti dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori nemici. Se, nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che in genere li ricacciava sulle posizioni di partenza. Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l'entusiasmo patriottico con cui molti combattenti, soprattutto i giovani di estrazione borghese, avevano affrontato il conflitto. Ma, mentre gli ufficiali di complemento (cioè quelli non di carriera, che ricoprivano i gradi inferiori), per quanto provati e disillusi, restarono nel complesso fedeli alle motivazioni ideali originarie, diverso fu l'atteggiamento della truppa. Gran parte dei soldati semplici — il discorso vale soprattutto per quelli di origine contadina che costituivano quasi ovunque il nerbo dei reparti di fanteria (molti operai erano rimasti in fabbrica per le esigenze della produzione bellica) — non aveva idee precise sui motivi per cui si combatteva la guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da accettare con fatalistica sopportazione. La visione eroica e avventurosa della guerra restò prerogativa di alcune esigue minoranze di combattenti, per lo più organizzate in reparti speciali — come le «truppe d'assalto» (Sturmtruppen) tedesche o gli arditi italiani — impiegati solo in azioni particolarmente impegnative e rischiose. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti (gli ufficiali inferiori che rischiavano la vita assieme alla truppa), ma anche perché vi erano costretti dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di insubordinazione. Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione contro la guerra si traducessero talora in forme di autentico rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione (il caso più frequente era il mancato rientro dalle licenze), alla pratica dell'autolesionismo, consistente nell'infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal servizio al fronte. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva — «scioperi militari» o veri e propri ammutinamenti — che si verificarono un po' dappertutto (più spesso negli eserciti dell'Intesa) e che crebbero in numero ed intensità col prolungarsi del conflitto, raggiungendo l'apice nel corso del 1917. 6. La mobilitazione totale Ufficiali e soldati Renitenza e insubordinazione LA MOBILITAZIONE TOTALE Il carattere "totale" assunto dalla guerra moderna aveva significato la "mobilitazione totale" dell'intera società: tutte le strutture —economiche, sociali, politiche,culturali — furono sottoposte a sollecitazioni senza precedenti. Prima guerra mondiale e ____________ Da questo punto di vista la guerra fu l'espressione più autentica delle trasformazioni maturate nelle società industrializzate a partire dalla Grande __________________ (accelerazione) depressione e insieme rappresentò un momento di accelerazione di quel processo di massificazione della società tipica del Novecento. 58 La guerra fu la più grande esperienza di massa mai vissuta fin allora nella storia dell'umanità e agì per ciò stesso come un potentissimo acceleratore dei fenomeni sociali, come una incubatrice di trasformazioni e rivolgimenti in tutti i campi della vita associata. Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro occupazioni abituali e coinvolti in un'esperienza collettiva senza precedenti. Si trovarono, spesso per la prima volta, inseriti in una comunità organizzata e articolata gerarchicamente e così si abituarono a vivere in gruppo, a obbedire o a comandare. Si erano assuefatti all'uso delle armi, alla svalutazione della vita umana, al dramma quotidiano della morte violenta. . Lo sviluppo economico e industriale più recente aveva messo a disposizione degli eserciti mezzi di distruzione mai conosciuti nella storia dell'umanità. Il loro massiccio impiego impresse un'ulteriore spinta all'innovazione tecnologica, consentendo così alla scienza e alla tecnica, come all'organizzazione politica ed economica, di fare "salti di qualità" irreversibili. Per la prima volta la fitta rete ferroviaria e stradale, i mezzi di trasporto più rapidi (dalla locomotiva alle recentissime applicazioni del motore a scoppio) e gli strumenti di comunicazione più moderni, come il telegrafo e il telefono, furono utilizzati a scopo bellico. La guerra ebbe infatti il proprio epicentro proprio nelle zone più densamente industrializzate e "modernizzate". Le conseguenze sullo svolgimento del conflitto furono tali da sconcertare gli stessi governi e comandi militari. Si pensi che in pochi giorni la Germania fu in grado di ammassare 2 500 000 uomini in prima linea, facendo attraversare loro mezza Europa, e l'Austria poté radunarne quasi 1 milione e mezzo; il regime zarista riuscì a far affluire in poche settimane dalle più lontane regioni oltre 3 000 000 di soldati e la Francia, in 17 giorni, ne mobilitò 2 000 000. Alla fine del conflitto si raggiunse la cifra di 65 milioni di uomini chiamati alle armi e spostati ai quattro angoli del continente. Un altro tratto che, al pari della morte di massa, contraddistinse la Prima guerra mondiale mostrandone lo stretto legame con la modernità, fu la straordinaria efficienza tecnologica delle armi. In particolare il più alto potenziale distruttivo fu quello dell'artiglieria (è stato calcolato che il 70% delle ferite nei combattimenti fu provocato dai cannoni e dalle bombarde). Molto efficienti si rivelarono anche le mitragliatrici (arrivarono a sparare dai 400 ai 500 colpi al minuto, con una portata utile di 500 metri). Gli straordinari progressi della chimica permisero l'invenzione di nuove terrificanti armi: gli esplosivi ad alto potenziale e, tragicamente, i gas tossici. Il 22 aprile 1915, sul fronte occidentale, i tedeschi usarono un gas, il solfuro di dicloroetile, che provocò effetti così devastanti da diventare noto come yprite, perché identificato con il nome della località, Ypres, in cui colpì per la prima volta. I gas asfissianti provocavano una morte orribile, spesso lenta, dopo giorni di agonia, oppure gravi mutilazioni come la cecità. Sul fronte italiano, furono gli austriaci a impiegarli per primi, nella battaglia sul monte San Michele, il 29 giugno 1915: 8000 soldati italiani furono intossicati e 5000 morirono. Fu in quella guerra, infine, che si sperimentarono nuovi strumenti di offesa come l'aereo e il carro armato, che sarebbero poi stati decisivi nel corso di tutte le guerre novecentesche, in particolare nella Seconda guerra mondiale. Anche la guerra navale fece enormi passi avanti, grazie ai micidiali sommergibili, impiegati soprattutto dai tedeschi nell'Atlantico. Proprio lo sviluppo di armi così distruttive lasciò emergere un'altra caratteristica di quella guerra: a vincerla, più che gli uomini, sarebbero stati i materiali, la capacità dei vari Stati belligeranti di attivare fino in fondo il proprio potenziale economico-industriale. In questo senso, ad esempio, la Prima guerra mondiale servì all'Italia per dotarsi di una industria meccanica di dimensioni adeguate. Nel 1915-1918 i profitti medi dichiarati dalle imprese passarono dal 4,26% della vigilia del conflitto al 7,75%, con punte particolarmente elevate per la siderurgia (dal 6,30% al 16,55%), l'industria automobilistica (dall'8,20% al 30,51%), la chimica (dall'8,02% al 15,39%), la gomma (dall'8,57% al 14,95%), cioè i settori La guerra come esperienza di ________ 1 – il legame _________________ e ______________________ e _______ _______________ La modernità della guerra - il coinvolgimento dei paesi più ________________________ - l’efficienza delle _________________ le __________________________ i ________________________ ______________________________ _____________________________ La crescita del potenziale __________ _____________________ 59 più direttamente stimolati dagli alti prezzi garantiti dalle forniture belliche. Con i profitti aumentarono anche l'occupazione (che nell'industria meccanica superò il mezzo milione di unità) e la produzione, sia quella militare (alla fine del conflitto la nostra dotazione di armamenti poteva efficacemente competere con quella degli altri Paesi belligeranti più progrediti industrialmente), sia quella civile (le automobili prodotte passarono da 9200 nel 1914 a 20 000 nel 1918, mentre fu introdotta la costruzione su larga scala di autocarri e trattori), con il decollo di un'industria aeronautica che nel 1917 era già competitiva sui mercati internazionali. L'intervento dello Stato nell'economia, tra i11915 e il 1918, conobbe un espansione senza precedenti in tutti i paesi coinvolti nel conflitto. Una guerra lunga, impegnativa e costosa come quella che si stava combattendo, infatti, poteva esse sostenuta solo dall'intervento pubblico, l'unico in grado di attivare, coordinare e gestire tutte le energie disponibili. Per sostenere il rafforzamento degli apparati industriali, lo Stato ne divenne il principale committente, controllandone anche gli indirizzi produttivi. Per alimentare una spesa pubblica enormemente dilatata si imposero nuove tasse, furono lanciati prestiti nazionali, fu stampata una valanga di carta moneta che provocò una brusca impennata dell'inflazione: nel 1918 prezzi erano aumentati di tre volte in Inghilterra e in Italia, di quattro in Germania e di cinque in Francia. Accollandosi tutte le spese belliche, lo Stato accentuò quel cambiamento già segnalato alla fine dell'Ottocento, regolando non solo la produzione ma anche il mercato del lavoro, il credito, i prezzi, il commercio. Affiorò un'economia diversa da quella tradizionale, in questa economia organizzata di guerra le singole imprese persero la libertà di movimento — fino ad allora un dogma del capitalismo — dovendo subordinare le loro decisioni a quelle stabilite da un vertice costituito dallo stato maggiore e dal governo. Requisizione pubblica delle materie prime, militarizzazione dei lavoratori, cui fu generalmente vietata ogni forma di rivendicazione sindacale, furono gli aspetti più evidenti della nuova strategia produttiva. L'idea di un "capitalismo organizzato", nata come risposta alla Grande depressione, trovò nella guerra occasione di sistematica applicazione. In Germania, nel 1914, si era costituito un Ufficio delle materie prime di guerra, primo passo di una vera e propria "militarizzazione" dell'economia. In Inghilterra il Munition of War Act del 1915 pose tutta l'industria di guerra sotto il controllo dello Stato, limitò i suoi profitti, organizzò i prestiti, vietò gli scioperi, prescrisse agli operai di non cambiare lavoro senza speciale autorizzazione. In Francia lo Stato finanziò direttamente la nascita di nuove industrie e la trasformazione delle vecchie, assumendosene il controllo. In Italia nacquero i comitati di mobilitazione industriale con il compito di coordinare la produzione bellica e, soprattutto, di garantire il controllo della forzalavoro, di fatto militarizzata (lo sciopero era punito con l'invio al fronte, in pratica con la morte). Nacque così la moderna economia, programmata; centralizzata, "organizzata" dallo Stato, che rappresentò un colpo mortale al modello liberale e liberista. Poi, via via che la guerra andò trasformandosi in una sfida mortale per la sopravvivenza dei diversi stati in conflitto, anche i residui "diritti" dei singoli nei confronti dello Stato, compreso il diritto di proprietà, cedettero di fronte allo "stato di necessità". Nella liberalissima Inghilterra, a partire dal 1916, venne requisita la flotta mercantile. Le misure prese per rendere effettivo il blocco navale presupposero, oltre alla paralisi del commercio internazionale, una forte intrusione dello Stato nella società civile, e nel contempo, una tale organizzazione tecnica da provocare innovazioni irreversibili nella macchina burocratica e amministrativa. Basti pensare che il blocco delle comunicazioni tra la Germania e il resto del mondo fu realizzato non solo con il taglio di tutte le linee telegrafiche in uscita dalla Germania e dal’Austria, ma anche con un capillare sistema di intercettazione e controllo della posta per "disperdere" gli ordini di acquisto 2 – L’intervento __________________ ___________________________ lo stato da _______________________ a ________________________della __________________, del mercato del __________________, del _________ __________e del _________________ la perdita di______________________ delle _________________________ Le applicazioni del ________________ _____________________________ dal __________________________ all’economia _____________________ blocco ______________________ macchina ________________ statale per il controllo della ______________ 3 –L’intervento dello stato nella _____ 60 eventualmente inviati dal nemico a ditte di paesi neutrali. Ogni comportamento privato cadde da allora in poi sotto la "legge della guerra", né esistette più ambito alcuno della società che poté sottrarvisi. Lo Stato prese a regolamentare settori e aspetti della vita civile che fino ad allora non erano mai stati interessati da provvedimenti legislativi, quali ad esempio l’orario di apertura dei negozi o l’introduzione dell’ora legale. Il controllo sempre più rigido imposto sulla società riguardò anche la stampa che, come le comunicazioni tra i soldati al fronte e le famiglie nelle retrovie, fu sottoposta ovunque a un'attenta censura, finalizzata a diffondere un'immagine eroica ed edificante della guerra, tacendo gli aspetti più cruenti e quelli che avrebbero potuto diffondere allarmismo. Nella nuova configurazione assunta dalla guerra totale, infatti, fu subito chiaro che la partita non si giocava solo sui fronti dove infuriavano i combattimenti, ma anche nelle retrovie, là dove i civili erano direttamente coinvolti nell'esperienza bellica. In altre parole, accanto al fronte vero e proprio, esisteva anche un fronte interno. Per tutti gli Stati in guerra era cruciale fare in modo che esso rimanesse compatto, evitando che si aprissero crepe di malcontento e scoraggiamento, e provvedere a suscitare un consenso il può possibile diffuso alle motivazioni del conflitto. Per questa ragione, al controllo della stampa si intrecciò un'oculata azione di propaganda che, attraverso giornali, manifesti murali, cartoline, richiamava la popolazione civile a fare disciplinatamente la propria parte per sostenere lo sforzo bellico, nel lavoro, nelle sottoscrizioni per raccogliere fondi, nella sopportazione dei lutti e dei sacrifici. Al dirigismo statale in ambito economico si affiancò una brusca contrazione degli spazi di democrazia. Lo stato di guerra provocò in tutti i paesi una diminuzione del potere dei parlamenti e l'aumento di quello dei governi e dei militari. In Gran Bretagna, alla fine del 1916, diventò primo ministro Lloyd George (18631945), sostenuto da una coalizione di conservatori, di liberali e di laburisti, che costituì in seno al governo un gabinetto di guerra, cioè una specie di supergoverno composto solo da alcuni ministri. In Francia, dopo vari contrasti tra il Parlamento e il governo, e tra questo e i comandi militari che chiedevano più poteri, solo nel 1917 si riuscì a stabilire un saldo controllo governativo sui vertici dell'esercito, quando il comando fu affidato ai generali Pétain (1856-1951) e Foch (1851-1929). Anche in Italia si varò un governo di unità nazionale, guidato da Paolo Boselli (1838-1932), in cui a fianco dei liberali entrarono anche socialisti riformisti, repubblicani e radicali (giugno 1916) attenuando la normale dialettica parlamentare tra maggioranza e opposizione. I paesi dove si ebbero le limitazioni più forti furono però quelli dove i poteri del Parlamento erano sempre stati deboli: la Germania e l'Austria-Ungheria. In entrambi, durante la guerra, nessun socialista fu ammesso a partecipare al governo. In Germania, in particolare, la posizione del governo tornò a essere quella dei tempi di Bismarck: fu sufficiente che avesse la fiducia del sovrano, non fu più necessario che ottenesse anche quella del Reichstag. Dal 1916 il potere si concentrò di fatto nelle mani dei generali Hindenburg (1847-1934) e Ludendorff (1865-1937). Quasi dovunque le industrie furono militarizzate (accanto ai proprietari, cioè, intervennero i militari nella gestione dell'organizzazione del lavoro), mentre l'esercito estendeva la sua disciplina anche alle istituzioni civili. La guerra comportò infine il coinvolgimento di ulteriori strati della popolazione nei processi di integrazione delle masse. Infatti anche le donne furono mobilitate a sostegno del conflitto e in esso pienamente coinvolte. Furono infermiere negli ospedali; si attivarono, riunite in associazioni o singolarmente per i propri parenti, nell'assistenza ai soldati, cucendo indumenti e preparando generi alimentari; furono "madrine di guerra" impegnate a portare conforto a soldati sconosciuti stabilendo con essi una corrispondenza epistolare, ma non solo. Sempre più spesso si trovarono a dover sostituire gli uomini, nelle campagne per attendere ai lavori agricoli e nelle città entrando a lavorare nelle fabbriche o intraprendendo mestieri ____________________ a - aspetti della ___________________ regolati dallo ____________________ (vedi ___________________________ b - la _________________________: - lettere dal ____________________ - la ______________________ Guerra __________________ e fronte __________________ La militarizzazione della ___________ Potere ai _________________ + ai ________________________ e ai ________________________ Italia: governo ____________________ _________________ Germania: ______________________ ______________________________ 4 - Nuovi soggetti sociali: _______ __________________ 61 (come il portalettere o il tranviere) prima tradizionalmente maschili. Uscite, per scelta o più spesso per necessità, dalle mura domestiche, acquistarono maggiori responsabilità e, con queste, un'inedita indipendenza. La guerra, in altre parole, stava trasformando la condizione delle donne, attribuendo loro una maggiore visibilità nella società. 7. La Rivoluzione russa e il rifiuto della guerra Nel febbraio del 1917 si verificò un evento straordinario, che portò indirettamente a uno squilibrio delle forze in campo e alla fine della guerra: una rivoluzione sociale all'interno dell'Impero russo travolse il regime zarista e il 15 marzo Nicola II dovette abdicare. A far cadere il regime zarista, che era già logorato dalla crisi politica e morale e dall'andamento negativo della guerra, fu proprio la rivolta dell'esercito: i soldati inviati a sedare le manifestazioni popolari di protesta a Pietrogrado (l'antica San Pietroburgo) si unirono a quanti manifestavano per la carenza di cibo; mentre fra le truppe al fronte, imitando il modello dei soviet operai, si organizzavano autonomamente anche i soviet dei soldati. Anche dopo l'abdicazione dello zar, il governo provvisorio volle continuare la guerra e lanciare un'offensiva in Galizia, che fallì, spingendo i soldati russi a fraternizzare con gli austriaci e i tedeschi o a disertare in massa. In seguito a questo cedimento della Russia, gli eserciti degli Imperi centrali poterono concentrare i propri sforzi sul fronte occidentale. Ma ormai la stanchezza dei combattenti e le insubordinazioni della truppa verso gli ufficiali si diffondevano in tutti gli eserciti. Neppure la guerra totale sui mari ottenne il collasso dell'Inghilterra, e anzi l'Intesa, appoggiata dagli americani, rese ancora più impenetrabile il blocco commerciale. Le importazioni tedesche crollarono e la situazione interna di Germania e Austria diventò tragica: molta gente era ridotta a vestire stracci, il pane razionato era disgustoso e al fronte pattuglie spontanee di soldati rischiavano la vita per procurarsi viveri con incursioni nelle linee nemiche. Nell'aprile del 1917 gli operai delle fabbriche militarizzate di Berlino proclamarono un grande sciopero appoggiato dai socialisti pacifisti di Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, che già nel 1914 si erano opposti alla guerra. Il 29 maggio due reggimenti di fanteria francesi si ammutinarono, marciarono su Parigi e coinvolsero nella rivolta contro i capi politici e militari (considerati "nemici interni") altri reggimenti e battaglioni per un complesso di 40.000 uomini. Lo stato maggiore francese fermò a stento la rivolta. Anche in Italia, a Torino, nell'agosto dello stesso anno la città insorse: le donne manifestarono contro la mancanza di pane e gli operai resistettero per quattro giorni su improvvisate barricate. Per rispondere alla sfida lanciata da Lenin e per scongiurare la minaccia di un'ulteriore diffusione del «disfattismo rivoluzionario», gli Stati dell'Intesa dovettero a loro volta accentuare il carattere ideologico della guerra, presentandola sempre più come una crociata della democrazia contro l'autoritarismo, come una difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici dell'imperialismo tedesco. LA RIVOLUZIONE RUSSA E IL RIFIUTO DELLA GUERRA La rivoluzione __________________ L’esercito in _______________ Imperi centrali si concentrano _______ _________________________ ________________________________ contro la guerra L’ideologizzazione ________ _____________ (vedi ____________ _______________________) 62 8. La svolta del 1917 Un’autentica svolta nelle vicende della guerra avvenne solo nel 1917 con l’entrata in guerra degli Stati Uniti e l’uscita della Russia. Dopo il fallimento delle offensive di terra del 1916, dal gennaio 1917 la Germania, per uscire dalla stretta, passò alla guerra sottomarina totale, sfidando apertamente gli stessi Stati Uniti che, d’altra parte, era sicuramente il maggior fornitore dei sui nemici. E così i comandi militari tedeschi ordinarono l'affondamento di tutte le navi sia mercantili che passeggeri, non importa se di paesi belligeranti o di paesi neutrali, puntando a far crollare l'Inghilterra nel giro di sei mesi, in modo da rendere vana l'entrata in guerra degli Stati Uniti (che invece avvenne assai più rapidamente del previsto, il 6 aprile del 1917, neppure tre mesi dopo). L’entrata in guerra degli USA contribuì all’ideologizzazione della guerra in quanto il presidente americano Woodrow Wilson fu interprete più autorevole del programma democratico. Già nell'aprile del '17, nel momento dell'entrata in guerra, Wilson aveva dichiarato solennemente che gli Stati Uniti non avrebbero combattuto in vista di particolari rivendicazioni territoriali, ma col solo obiettivo di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi, di difendere i diritti delle nazioni, di instaurare infine un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e su11'«accordo fra i popoli liberi». Nel gennaio 1918, quasi in risposta all'armistizio russo-tedesco, Wilson precisò le linee ispiratrici della sua politica in un organico programma di pace in quattordici punti. Oltre a invocare l'abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della libertà di navigazione, l'abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli armamenti, il presidente americano formulava alcune proposte concrete circa il nuovo assetto europeo che avrebbe dovuto uscire dalla guerra: piena reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei territori russi occupati dai tedeschi, restituzione alla Francia dell'Alsazia-Lorena, possibilità di «sviluppo autonomo» per i popoli soggetti all'Impero austroungarico e a quello turco, rettifica dei confini italiani secondo le linee indicate dalla nazionalità. Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo organismo internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto delle norme di convivenza fra i popoli. Il programma esposto nei «quattordici punti» non mancava di aspetti astratti e utopistici, ma rappresentava un'autentica rivoluzione rispetto ai princìpi cardine della diplomazia prebellica. Per questo fu accolto da una parte consistente dell'opinione pubblica come una sorta di «nuovo vangelo», capace di assicurare, se attuato, una lunga èra di pace e di benessere. Per la verità i governanti dell'Intesa non condividevano affatto il programma wilsoniano, o lo condividevano solo in parte, vincolati com'erano al raggiungimento dei rispettivi obiettivi di guerra. Dovettero ugualmente far mostra di accettarlo, sia perché avevano troppo bisogno dell'aiuto americano, sia perché speravano che il wilsonismo costituisse un valido antidoto contro la diffusione dell'altro vangelo rivoluzionario che veniva dalla Russia bolscevica. Le conseguenze del crollo del regime zarista e l'insofferenza maturata nei confronti della guerra si fecero sentire soprattutto sul fronte italiano. Tra il 23 e il 24 ottobre 1917 l'offensiva congiunta degli austriaci e di sette divisioni tedesche sfondò sull'Isonzo, a Caporetto. Le truppe austriache e tedesche avanzarono per 150 chilometri e i comandi italiani riuscirono a fatica a riorganizzare una linea di resistenza sul fiume Piave e sul monte Grappa. Le perdite furono gravissime e mezzi estremi (come la decimazione dei reparti sbandati) furono usati per mantenere la disciplina fra i soldati italiani. Questi si trovarono fra due fuochi: quello dei nemici da una parte e quello dei reparti scelti di loro connazionali alle spalle. Scoppiarono le polemiche e si tornò ad accusare socialisti e cattolici di LA SVOLTA DEL 1917 a- ____________________________ b - _____________________________ la ripresa _______________________ ______________ dichiarazione di guerra degli _______________ L’ideologizzazione _____________ _____________ I quattordici ____________________ : abolizione _______________________ liberalizzazione ___________________ riduzione ________________________ sviluppo _______________________ dei ________________________ istituzione della ___________________ ______________________________ L’uso ideologico ____________ Le conseguenze del _______________ ____________________ ottobre 1917: _____________________ 63 "disfattismo". Anche il governo Boselli si dimise. Il successivo "ministero di unione nazionale" presieduto da Vittorio Emanuele Orlando sostituì al comando supremo il generale Cadorna con il generale Armando Diaz e furono chiamati alle armi persino i giovani di diciassette-diciotto anni nati nel 1899. Nel frattempo i bolscevichi di Lenin, che nell'ottobre del 1917 avevano preso il potere nella Russia rivoluzionaria, decisero l'immediata cessazione delle ostilità. Firmarono perciò, facendo concessioni territoriali molto pesanti, prima l'armistizio di Brest-Litovsk, nel dicembre del 1917, e poi, nel marzo del 1918, un vero trattato di pace. La nuova Russia sovietica usciva così definitivamente dalla guerra. Il governo ____________________ da __________________ a _________ dicembre 1917: la resa della __________________ 9. La vittoria dell'Intesa (1918) LA VITTORIA DELL'INTESA (1918) Nei primi mesi 1918 furono ancora i tedeschi a tentare una serie di offensive, stavolta basate sulla tattica della" sorpresa", con intensi bombardamenti seguiti da rapide ondate di assalti di fanteria. I soldati venivano trasportati con gli autobus da un capo all'altro del fronte per sostenere l'assalto nei punti ritenuti più sguarniti. Con questa nuova tattica il 21 marzo la Germania sfondò il fronte alleato franco-inglese in Piccardia e nello Champagne e fece penetrare ben settanta divisioni in una breccia di 55 chilometri; ma francesi e inglesi, arretrando fino Marna, riuscirono a ridurre le perdite e a resistere fino all'arrivo degli americani. Il 18 luglio, proprio grazie all'apporto dell'esercito statunitense, l'Intesa, usando aerei e carri armati, poté contrattaccare le truppe tedesche ormai esauste (seconda battaglia della Marna). La superiorità del potenziale economico e industriale messo a disposizione dell'esercito e il blocco navale contro gli Imperi centrali decisero le sorti la guerra. Ad Amiens, tra 1'8 e 1'11 agosto, il fronte tedesco fu sfondato. Il 14 agosto il kaiser Guglielmo II, sperando di potere ancora riorganizzare l'esercito, chiese un armistizio. L'Intesa glielo rifiutò e pretese la resa totale. In settembre l’armata anglo-franco-italiana sfondava il fronte bulgarotedesco e dilagava nei Balcani. Il 24 ottobre anche gli italiani sbaragliarono gli austriaci a Vittorio Veneto, mentre l'Impero austro-ungarico si disfaceva in tante repubbliche indipendenti, e il 28 ottobre, a Kiel, si ammutinava la flotta tedesca. Il kaiser infine abdicò e la guerra si concluse con la firma dell'armistizio da parte dell'Austria (3 novembre 1918) e della Germania (11 novembre). I disastri causati dalla Prima guerra mondiale in Europa sono incalcolabili: se i morti provocati direttamente dai combattimenti sono nove milioni (di cui 650.000 italiani) e dodici milioni i feriti, le cattive condizioni igieniche e la denutrizione scatenano epidemie che fanno salire il numero delle vittime del conflitto ad oltre i 25 milioni. Anche la situazione economica è disastrosa, sia per le potenze sconfitte, che avevano il loro apparato industriale come gli impianti minerari gravemente danneggiati e si erano indebitate fino alla bancarotta, sia per le nazioni vincitrici dell'Intesa, anch'esse dissanguate dagli sforzi bellici sostenuti e indebitate pesantemente nei confronti degli Stati Uniti. 10. I trattati di pace Già all'inizio del 1918, il presidente americano Wilson, presentandosi come il "garante" dell'ordine internazionale ed europeo, aveva proposto «Quattordici punti» per affrontare i problemi irrisolti secondo i criteri democratici del- La tattica della ___________________ Luglio ___________ seconda battaglia _________________ Agosto _________: sfondamento del _________________ ___________________ 24 __________________: vittoria di _______________________ I ___________________ della guerra ______________________ di morti la distruzione dell’_______________ _____________________________ TRATTATI DI PACE Dai _________________________ a limitare ____________________ e 64 l'autodeterminazione dei popoli e del rispetto delle minoranze. Più che rispettare tali principi i trattati di pace ebbero lo scopo di stabilire un ordine mondiale che rendesse impossibile un'altra guerra, arginasse il pericolo del socialismo sovietico e limitasse lo strapotere della Germania in Europa. Il 18 gennaio 1919, a Parigi, iniziò la conferenza di pace dei paesi vincitori. I lavori erano diretti dal presidente francese Clemenceau ed erano presenti il primo ministro inglese Lloyd George, il presidente americano Wilson e, con un ruolo minore, il capo del governo italiano, Vittorio Emanuele Orlando. Nessuno dei rappresentati dei paesi sconfitti poté però partecipare alla discussione. Vennero approvati cinque trattati, che presero i nomi dalle città in cui furono siglati. Il più importante fu firmato a Versailles il 28 giugno 1919 e decise, con pesanti conseguenze per la successiva storia europea, le sorti della Germania. I vincitori della Prima guerra mondiale vollero che la Germania riducesse in modo permanente il suo esercito a 100.000 uomini, smilitarizzasse un'ampia fascia sul suo confine sud-occidentale e riparasse integralmente i danni di guerra mediante il versamento ai paesi vincitori di una somma ingente. La Francia, in particolare, decisa ad umiliare la sua tradizionale avversaria, ottenne sia la restituzione dell'Alsazia-Lorena sia il diritto a sfruttare per quindici anni il ricco bacino carbonifero della Saar. La Germania, inoltre, dovette cedere anche altri territori alla Danimarca e alla Polonia. Quest'ultima ebbe uno sbocco al mar Baltico attraverso un "corridoio" che separò la Prussia orientale dal resto della Germania, mentre Danzica venne dichiarata "città libera". L'Austria non venne trattata meglio. Il trattato di Saint Germain (10 settembre 1919) le impose di sciogliere l'esercito e di scacciare la dinastia asburgica, oltre a vietarle ogni alleanza con la Germania. L'Italia ottenne il Trentino, l'Alto Adige, Trieste e l'Istria, ma non la Dalmazia (in rispetto del principio delle nazionalità), come invece promesso all'inizio del suo ingresso in guerra nel 1915. Il trattato del Trianon (4 giugno 1920) stabilì l'indipendenza dell'Ungheria, che però, ritenuta colpevole quanto l'Austria, perse la Transilvania (a vantaggio della Romania), mentre la Slovacchia andò ai cechi (creando così la Cecoslovacchia) mentre Croazia e Slovenia confluirono in un nuovo regno controllato dalla Serbia, alleata fin dagli inizi dell'Intesa. Esso prenderà in seguito il nome di Jugoslavia. Il trattato di Neuilly (27 novembre decise l'indipendenza della Bulgaria, che perse però la Macedonia (annessa alla Jugoslavia), la Tracia (andata alla Grecia) e la Dobrugia (annessa Romania). Infine il trattato di Sèvres (10 agosto decise le sorti dell'ex-Impero ottomano) la Turchia fu ridotta alla penisola anatolica e perse la sovranità sugli stretti dei Dardanelli e del Bosforo, di gran parte delle isole egee e dei territori arabi. Questi divennero "aree di influenza" della Francia e dell'Inghilterra. Un problema particolarmente delicato per gli Stati vincitori era infine quello dei rapporti con la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali, com'era naturale, imposero alla Germania l'annullamento del trattato di Brest-Litovsk. Ma non riconobbero la Repubblica socialista (che non partecipò alla conferenza della pace); anzi cercarono di abbatterla aiutando in ogni modo i gruppi controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche indipendenti che si erano formate con l'appoggio dei tedeschi nei territori baltici perduti dalla Russia: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. La nuova Russia si trovò così circondata da una cintura di Stati-cuscinetto (le quattro repubbliche baltiche, oltre alla Polonia e alla Romania) che le erano tutti fortemente ostili: un vero e proprio cordone sanitario, come allora fu definito, che aveva la funzione di bloccare ogni eventuale spinta espansiva della Repubblica socialista e, con essa, ogni possibile contagio rivoluzionario. La carta geopolitica dell'Europa era irriconoscibile rispetto al 1914. L'Impero russo, quello austro-ungarico e il Reich tedesco erano crollati: il primo era stato sostituito dalla Russia comunista dei soviet; il secondo era ormai uno staterello, ___________________ I trattati con _____________________ I trattati con _____________________ La creazione di nuovi ______________ I rapporti con la ________________ Gli stati ___________________ Il disfacimento degli ultimi _________ 65 mentre nei Balcani entrava in agitazione il mosaico delle nuove realtà nazionali (cechi, rumeni, serbi, ecc.); il terzo, infine, aveva un esercito allo sbando e le principali città scosse da moti insurrezionali. Tutti questi trattati apparvero subito fragili. Invece di placare le tensioni, le accentuarono e lasciarono dietro di sé una scia di rancori e d’insoddisfazione. Lo si vide appena dopo la firma, allorché Grecia e Turchia entrarono tra loro in conflitto, che si risolse con la vittoria dei turchi (sancita dal Trattato di Losanna, 1923). Il problema che a questo punto si poneva ai vincitori era quello di garantire la sopravvivenza del nuovo assetto territoriale, reso delicato dalla proliferazione degli Stati indipendenti e dalla scomparsa di alcuni fra i pilastri del vecchio equilibrio prebellico. Nelle intenzioni di Wilson — e nelle speranze di tutti i pacifisti — ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni, la cui istituzione, già proposta nei «quattordici punti», fu ufficialmente accettata, sotto la pressione degli Stati Uniti, da tutti i partecipanti alla conferenza di Versailles. Il nuovo organismo sovranazionale, che prevedeva nel suo statuto la rinuncia da parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, il ricorso all'arbitrato, l'adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati aggressori, non aveva precedenti nella storia delle relazioni internazionali. Ma nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, più grave di tutte l'esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia: un'esclusione che, limitando la rappresentatività dell'organizzazione, ne comprometteva anche la capacità operativa, già problematica per l'assenza di un'efficiente struttura decisionale e di un reale potere di dissuasione. Il colpo più grave e inatteso la Società delle nazioni lo ricevette proprio dagli Stati Uniti, cioè dal paese che avrebbe dovuto costituirne il principale pilastro. Interpretando gli orientamenti dell'opinione pubblica americana — che non vedeva di buon occhio un eccessivo coinvolgimento del paese nelle vicende europee - il Senato degli Stati Uniti respinse nel marzo 1920 l'adesione alla Società delle nazioni e fece cadere anche l'impegno assunto da Wilson circa la garanzia dei nuovi confini franco-tedeschi. Wilson, gravemente ammalato, non si ripresentò alle elezioni presidenziali del novembre 1920, che videro la netta vittoria dei repubblicani. Cominciava per gli Stati Uniti una stagione di isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una sfera di interessi continentale. Quanto alla Società delle nazioni, essa finì con l'essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire nessuna delle crisi internazionali che costellarono gli anni fra le due guerre mondiali. La __________________________ _________________________ Lo _________________________: no ___________________ + _______________________________ Le contraddizioni della ____________ ___________________________ esclusione _______________________ e della_______________________ il rifiuto dell’adesione _____________ egemonizzata da __________________ e ___________________ 66 CRONOLOGIA PRIMA GUERRA MONDIALE 1914 28 giugno 23 luglio 28 luglio 2 agosto 3 agosto 4 agosto 23 agosto Agosto 6-12 settembre 31 ottobre 1915 Gennaio-dicembre Attentato di Sarajevo Ultimatum austriaco alla Serbia L’Austria dichiara guerra alla Serbia La Germania dichiara guerra alla Russia L'Italia proclama la propria neutralità La Germania dichiara guerra alla Francia I tedeschi penetrano in Belgio L'Inghilterra dichiara guerra alla Germania II Giappone entra in guerra a fianco dell'Intesa I russi contrattaccano in Galizia e battono ripetutamente gli austriaci. A Tannenberg e ai laghi Masuri sono però sconfitti dai tedeschi guidati da Hindenburg Sulla Marna i francesi fermano l'avanzata tedesca La Turchia entra in guerra a fianco degli Imperi centrali 26 aprile 20 maggio 24 maggio 7 maggio Maggio-agosto Fronte occidentale: guerra di posizione senza cambiamenti significativi Blocco navale inglese contro gli Imperi centrali. La Germania risponde con la guerra sottomarina II governo italiano stipula il Patto di Londra Il Parlamento italiano vota i pieni poteri al governo in caso di guerra L'Italia dichiara guerra all'Austria Sottomarino tedesco affonda il transatlantico inglese Lusitania Offensiva congiunta di tedeschi e austro-ungarici; i russi costretti ad abbandonare la Galizia e la Polonia 1916 21 febbraio-luglio 15 maggio luglio-ottobre 9 agosto Offensiva tedesca a Verdun Spedizione punitiva austriaca (Strafekspedition) Offensiva anglo-francese sulla Somme Offensiva italiana sull'Isonzo e conquista di Gorizia 1917 Gennaio Febbraio 6 aprile Aprile-novembre Agosto 24 ottobre I tedeschi scatenano la guerra sottomarina indiscriminata Rivoluzione in Russia. Progressivo collasso dell'esercito russo: diserzioni di massa. Guerra civile russa (1918-21) Intervento degli Stati Uniti a fianco dell'Intesa Inutili offensive anglo- francesi. Ammutinamenti tra le truppe tedesche e francesi Rivolta a Torino contro la guerra Disfatta di Caporetto. Diaz sostituisce Cadorna Rivoluzione d'ottobre in Russia 1918 8 gennaio 3 marzo 21 marzo 18 luglio 24 ottobre 3 novembre 8-/ 9 novembre 11 novembre Wilson espone i suoi 14 punti Pace di Brest-Litovsk: la Russia esce dalla guerra Violenta offensiva tedesca sul fronte occidentale Controffensiva francese Attacco italiano verso Vittorio Veneto L'Austria firma l'armistizio I socialisti tedeschi proclamano la Repubblica a Berlino e Monaco La Germania firma l'armistizio 1919 18 gennaio 28 giugno 10 settembre Inizio Conferenza di pace a Parigi Firma del trattato di pace con la Germania (Trattato di Versailles) Firma del trattato di pace con l’Austria 67 4 - TRA LE DUE GUERRE MONDIALI: GLI SCENARI POLITICI DAL 1918 AL 1940 1. Tra le due guerre mondiali in Europa e nel mondo (1918-1940) Gli scenari degli anni venti e trenta: dal “biennio rosso” ai regimi totalitari 2. Dalla rivoluzione bolscevica allo stalinismo Dalla Rivoluzione di febbraio alla Rivoluzione d’ottobre La Rivoluzione d'ottobre le sue conseguenze Dall'ascesa di Stalin ai "piani quinquennali" 3. Il ventennio fascista in Italia La crisi italiana dopo la Prima guerra mondiale L'agonia dello Stato liberale e la salita al potere del fascismo Il fascismo degli anni Venti: la «fascistizzazione» dello stato Il fascismo degli anni Venti in economia Fascismo e chiesa cattolica: Patti lateranensi e plebiscito del 1929 Il fascismo degli anni Trenta e lo “stato-imprenditore” La politica estera del fascismo 4. Il regime nazista in Germania La repubblica di Weimar e la crisi della società tedesca dopo la Prima guerra mondiale La crisi del 1929 in Germania e la fine della repubblica di Weimar Hitler al potere 5. Verso la Seconda guerra mondiale La crisi del ’29 e l’instabilità politica degli anni trenta Alla vigilia della Seconda guerra mondiale 6. La formazione dei movimenti indipendentisti e della questione mediorientale Cronologia 1918- 1940 68 1. TRA LE DUE GUERRE MONDIALI IN EUROPA E NEL MONDO (19181945) Gli scenari degli anni venti e trenta: dal “biennio rosso” ai regimi totalitari Tra la fine del 1918 e l'estate del 1920 il movimento operaio europeo, uscito dalla forzata costrizione degli anni di guerra, fu protagonista di un'impetuosa avanzata politica che assunse a tratti l'aspetto di una grande ventata rivoluzionaria, il cosiddetto “biennio rosso”. I partiti socialisti registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori organizzati dai sindacati — ma spesso anche fuori dal loro controllo — diedero vita a un'imponente ondata di agitazioni che consentì agli operai dell'industria di difendere o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l'altro la riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un obiettivo che da trent'anni figurava al primo posto nei programmi del movimento socialista e che fu raggiunto quasi simultaneamente, subito dopo la fine della guerra, in tutti i principali Stati europei. Questa grande ondata di lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni sindacali. Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni più radicali, che investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e nello Stato. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull'esempio dei soviet russi, si proponevano come rappresentanze dirette del proletariato e come organi di governo della futura società socialista. L'ondata rossa del '19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità diverse, ma ciò che era stato possibile in Russia non fu possibile negli altri paesi europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati ma piuttosto trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una ormai lunga esperienza di azione pacifica all'interno delle istituzioni. Del resto la rivoluzione d'ottobre in Russia, se da un lato aveva galvanizzato le avanguardie rivoluzionarie di tutta Europa, dall'altro aveva accentuato la frattura, già manifestatasi durante la guerra, fra queste avanguardie e il resto del movimento operaio legato ai partiti socialdemocratici e ai sindacati. Il contrasto fu sancito ufficialmente, già nel '19, con la costituzione della III Internazionale comunista e, in seguito, con la fondazione in tutta Europa di nuovi partiti ispirati al modello bolscevico. La scissione del movimento operaio, preparata e consumata nella prospettiva di un'imminente rivoluzione, avrebbe invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice. La Repubblica di Weimar, la repubblica tedesca nata nel novembre 1918 e guidata dai socialdemocratici di Ebert, si trovò a fronteggiare l'opposizione dell'estrema sinistra degli Spartachisti, la cui insurrezione, capeggiata da Liebknecht e Luxemburg, fu soffocata nel sangue. La Costituzione di Weimar (1919), estremamente progredita, fu avversata invece dai nazionalisti, che innescarono una spirale di violenze. Intanto la situazione economica, a causa dei debiti di guerra e dell'occupazione del bacino minerario della Ruhr da parte di Francia e Belgio, si aggravò e l'inflazione divenne inarrestabile, inasprendo le tensioni sociali e politiche: nel 1923 il nuovo Partito nazionalsocialista di Hitler mise in atto un (fallito) colpo di stato a Monaco, in Baviera. Solo un nuovo governo di coalizione e il piano Dawes, con cui gli Stati Uniti concessero prestiti a lunga scadenza alla Germania, risollevarono l'economia tedesca. Intanto con gli accordi di Locarno (1925), la Germania accettò la perdita di Alsazia e Lorena, inaugurando un clima di distensione con la Francia. Nonostante i successi dei socialdemocratici, nel 1925 venne eletto a presidente il conservatore Hindenburg, appartenente alla vecchia casta militare. Il “biennio rosso”: rivendicazioni sindacali e consigli operai Anni venti: la stabilizzazione La Repubblica di Weimar 69 Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu il caso dell'Italia), le classi dirigenti riuscirono a contenere senza eccessive difficoltà la pressione del movimento operaio e infatti le istituzioni liberaldemocratiche ressero alle difficoltà del dopoguerra. In Francia si alternarono governi di stampo moderato di destra (Poincaré) e di sinistra (Briand). In Gran Bretagna, dopo la parentesi liberale di Ramsey MacDonald, il sistema politico si orientò sulla strada di un bipolarismo tra conservatori e laburisti, in cui la classe operaia fu indirizzata verso un moderatismo sociale lontano dalle posizioni comuniste. I governi inglesi dovettero affrontare le questioni dell'Irlanda, che fu trasformata in dominion, e della fine del primato commerciale internazionale, alla quale si rispose con la creazione del Commonwealth. L'avvento del nazismo in Germania, all’inizio degli anni trenta, fu l'episodio centrale e decisivo della crisi della democrazia nell'Europa fra le due guerre, e, insieme al contemporaneo accelerarsi della trasformazione dello stato sovietico nel regime staliniano, segna l’affermazione del modello totalitario. Questa crisi era iniziata già negli anni '20, all'indomani di quella guerra mondiale che pure era sembrata concludersi col trionfo degli ideali democratici. In Italia, infatti, il prevalere delle forze conservatrice aveva già portato precocemente allo sviluppo di un regime di tipo totalitario, ma i successi del fascismo in Italia non furono infatti un caso isolato. Il virus autoritario si diffuse dapprima nei paesi dell'Europa centro-orientale (Bulgaria e Polonia), dove le istituzioni parlamentari avevano radici molto deboli e dove — con l'unica eccezione della Cecoslovacchia — molto forte era invece il peso delle forze conservatrici, della grande proprietà terriera e delle chiese. Tutti questi regimi (con l’eccezione dell’Italia, vedi dispensa “I totalitarismi del Novecento”) non potevano definirsi autenticamente fascisti, anche se avevano col fascismo non pochi elementi di affinità. Erano piuttosto regimi autoritari di tipo tradizionale, sostenuti dall'esercito e dai gruppi conservatori e privi di una propria base di massa, molto simili a quelli che nello stesso periodo si affermarono in un'altra area geografica, anch'essa afflitta da grave arretratezza economica e da profonde disuguaglianze sociali: la penisola iberica. In Spagna, paese dalla democrazia parlamentare sempre precaria, un colpo di Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l'appoggio del sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di governo semi-dittatoriale, Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a una massiccia ondata di proteste popolari. Nelle elezioni del 1931 i partiti democratici e repubblicani ottennero un larghissimo successo, che indusse il re a lasciare il paese. Si formò così una Repubblica, destinata anch'essa a vita breve e travagliata. Anche in Austria, dove la democrazia sembrava aver radici più solide, cristianosociali e conservatori, al potere dal 1920, dopo aver sconfitto la breve esperienza del governo socialdemocratico di Adler e Bauer, cercarono di modificare le istituzioni in senso autoritario, scontrandosi con l'opposizione di una socialdemocrazia ancora molto forte a livello organizzativo ed elettorale. Nel febbraio 1934, dopo aver represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata a Vienna, il cancelliere cristiano-sociale Engelbert Dollfuss mise fuori legge il Partito socialdemocratico e varò una nuova costituzione di ispirazione clericale e corporativa, molto vicina al modello fascista. La svolta bellicista si profilò, in coincidenza non casuale con i pesanti effetti della crisi economica del 1929. Nel febbraio 1932, infatti, il Giappone aggredì la Manciuria cinese e impose nella regione un suo governo fantoccio, tre anni dopo fu l’Italia a invadere l’Etiopia e l’anno dopo ebbe inizio la guerra civile in Spagna, i venti di guerra si stavano diffondendo. I regimi liberaldemocratici in Francia e Gran Bretagna Anni trenta: l’avvento del totalitarismo I precedenti: l’Italia e i paesi del’Europa centro-orientale La dittatura di Primo de Rivera in Spagna Il regime clericale-autoritario in Austria La svolta bellicista degli anni trenta 70 2. DALLA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA ALLO STALINISMO Dalla Rivoluzione di febbraio alla Rivoluzione d’ottobre La Rivoluzione d'ottobre le sue conseguenze Dall'ascesa di Stalin ai "piani quinquennali" Dalla Rivoluzione di febbraio alla Rivoluzione d’ottobre Agli inizi del Novecento l'Impero russo era ancora un gigante. Si estendeva per un sesto del territorio mondiale. Comprendeva nei suoi confini circa cento diverse nazionalità ed etnie e aveva solo poche e fragili strutture di tipo moderno. C'erano alcuni grandi centri industriali che, sorti con capitale belga e francese, raccoglievano nel 1914 circa tre milioni di lavoratori. Tutto il resto era dominato da un'agricoltura di tipo assai arretrato: metà delle terre coltivate apparteneva a meno di trentamila grandi proprietari fondiari e l'altra metà spettava a dieci milioni e mezzo di famiglie contadine. Il regime autocratico dello si dibatteva in una crisi irreversibile. Di fronte alla nascita di numerosi partiti politici, lo zar Nicola II oscillava indeciso fra caute aperture alle forze liberali e violente misure repressive. Lo stesso intensificarsi di una moderna produzione industriale portava con sé nuove tensioni sociali. Ma fu il coinvolgimento dell'Impero russo nel Primo conflitto mondiale a far precipitare definitivamente la sua crisi. Il peggioramento delle condizioni di vita causato dalla guerra, infatti, spinse gli operai a nuove rivendicazioni economiche che si unirono alle rivendicazioni politiche pacifiste dei socialisti, mentre i contadini, insoddisfatti della riforma agraria avviata nel 1861, rivendicavano una vera riorganizzazione della produzione agricola. Negli ultimi giorni di febbraio del 1917 (i primi di marzo secondo il nostro calendario), dopo due anni e mezzo di guerra, il malcontento popolare esplose a Pietrogrado. Si ebbero una serie di scioperi promossi dagli operai delle officine Putilov a cui parteciparono circa 200.000 operai. Le truppe dell'esercito inviate contro di essi fraternizzarono con gli scioperanti, e lo zar, ormai impotente, il 27 febbraio (il 12 marzo per noi) 1917, quando già la città era in mano agli insorti, abdicò a favore del fratello, il granduca Michele. Questi a sua volta, impaurito dal precipitare degli eventi, rinunciò a succedergli. Arrestato lo zar Nicola II fu giustiziato con tutta la famiglia. Il passaggio alla repubblica fu improvviso. Le forze politiche conservatrici e moderate e la stessa destra del movimento socialista (in quella fase, maggioritaria) apparvero spiazzate e miopi. Seppero, infatti, soltanto dichiarare di voler continuare la guerra, finendo per contrapporsi apertamente alla volontà di gran parte dei lavoratori e dei soldati, che chiedevano invece di avviare subito trattative di pace. Il primo governo repubblicano provvisorio fu subito riconosciuto dalle potenze dell'Intesa. Era formato da conservatori e da liberali (destra e centro), ma vi partecipavano anche alcuni esponenti della destra social rivoluzionaria, tra cui Aleksandr Kerenskij; e aveva l'appoggio di socialrivoluzionari e menscevichi (all'inizio anche dei bolscevichi). Tuttavia era un governo fragile a causa delle diverse e contrapposte aspettative dei suoi stessi sostenitori. I conservatori e i liberali, infatti, volevano continuare la guerra accanto all'Intesa e temevano ogni tipo di riforma agraria che potesse intaccare gli interessi economici dei nobili e dei borghesi, da essi rappresentati. I socialisti rivoluzionari, invece, avevano da sempre rivendicato proprio una radicale riforma agraria e, assieme ai menscevichi, sostenevano l'obiettivo di una pace senza annessioni, senza vinti né La Russia alla vigilia della rivoluzione La Rivoluzione di febbraio Il primo governo repubblicano provvisorio 71 vincitori (come deciso nel 1915 alla Conferenza internazionale di Zimmerwald, in Svizzera). I bolscevichi, dal canto loro, proclamavano apertamente l'esigenza di trasformare la guerra imperialista in guerra civile contrapponendosi frontalmente a conservatori e liberali. In quel 1917, all'esterno di queste forze politiche organizzate e riconosciute, ricomparvero nelle fabbriche i soviet, cioè gli organismi di democrazia diretta nati per la prima volta tra gli operai durante la rivoluzione del 19051. Stavolta si diffusero rapidamente anche fra le truppe al fronte, in stragrande maggioranza composte da contadini vicini alle posizioni dei socialrivoluzionari. Dopo soli tre mesi dalla caduta della monarchia, i soviet attivi nel paese erano 400; due mesi più tardi salirono a 500; e nell'ottobre a 900. La maggioranza dei delegati dei soviet, che aderivano ai partiti socialisti, appoggiava il governo provvisorio in modi sempre più tiepidi, tanto che si realizzò una paradossale situazione di "doppio potere": gli ordini del governo venivano eseguiti solo con il permesso dei soviet degli operai e dei soldati, che controllavano, per esempio, le ferrovie e il servizio postale e telegrafico. Il "doppio potere" non durò a lungo. Nell'aprile del 1917 conservatori e liberali, per rendere stabile la situazione politica, offrirono alle forze più moderate dei menscevichi e dei socialisti rivoluzionari l'ingresso in un nuovo governo. Il socialista rivoluzionario Kerenskij vi assunse la carica di ministro della Guerra, dichiarando subito la sua volontà di far morire i soviet di «morte naturale» per continuare la guerra. In quello stesso mese d'aprile del 1917, Lenin, tornato a capo del Partito bolscevico dall'esilio in Svizzera, ottenne l'approvazione delle sue Tesi di aprile. Con esse il Partito bolscevico ribaltata l'appoggio critico concesso fino a quel momento al governo provvisorio, rifiutava la repubblica parlamentare e si poneva l'obiettivo di sostituirla con una repubblica dei soviet degli operai e dei contadini. Il nuovo programma fu riassunto in uno slogan chiaro e semplice: «Tutto il potere ai soviet, pace subito, terra ai contadini!». II Partito bolscevico era composto allora di circa 24.000 membri ed era una forza politica relativamente secondaria rispetto a socialrivoluzionari e menscevichi, nettamente maggioritari nei soviet e nel paese. Tuttavia il Partito bolscevico era ben organizzato e aveva l'appoggio di vari e importanti soviet. Inoltre, la sua intransigenza sulla necessita di arrivare alla pace, varare una radicale riforma agraria e convocare un'assemblea costituente gli attirava numerose simpatie anche tra i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che mal sopportavano l'appoggio dato dai loro partiti a un governo che voleva continuare la guerra ed era poco sensibile a riforme sostanziali. Durante l'estate del 1917 la situazione mutò a favore del partito di Lenin. La crisi economica si aggravava e portava con sé nuova disoccupazione. A Pietrogrado ci furono sommosse spontanee di operai e di soldati. I bolscevichi le appoggiarono, subendo l'immediata e dura repressione da parte del governo Kerenskij, che li mise fuori legge. Nei mesi successivi i settori più reazionari dell'esercito, guidati dal generale Kornilov, prepararono un colpo di stato, arrivando ad assediare la città di Pietrogrado e minacciando lo stesso governo provvisorio di Kerenskij, che pur si era mostrato compiacente verso Kornilov. Il governo provvisorio si salvò solo accettando l'appoggio del partito di Lenin. I bolscevichi perciò furono riammessi alla legalità e, grazie al prestigio guadagnato in quest'occasione, videro aumentare notevolmente il numero dei loro delegati nei soviet di Pietrogrado e delle principali città della Russia. Il "dualismo di potere" fra governo provvisorio e soviet stava per finire. Al posto dei socialrivoluzionari e dei menscevichi entrava prepotentemente in scena proprio il Partito bolscevico, pronto a conquistare il potere. I soviet Il governo Kerenskij Il Partito bolscevico di Lenin Il tentativo di colpo di stato del generale Kornilov 1 La rivoluzione del 1905 aveva portato lo zar a concedere alcune libertà e a istituire la Duna, un parlamento elettivo. I soviet avevano fatto la loro apparizione già in questa prima rivoluzione come riunione dei delegati delle fabbriche in sciopero. 72 La Rivoluzione d'ottobre le sue conseguenze Per il 7 novembre (25 ottobre del calendario ortodosso: da qui il nome «rivoluzione d'ottobre») era previsto il Secondo congresso dei soviet. Ma la notte precedente i bolscevichi, che avevano un proprio "comitato militare" e contavano su un consenso politico crescente alle loro azioni, decisero di non aspettare oltre e di far cadere immediatamente il governo provvisorio di Kerenskij. Circa 25.000 militanti del partito armati presero d'assalto il palazzo d'Inverno, sede del governo. La vittoria fu facile e relativamente poco cruenta (quindici morti e una sessantina di feriti) e fu seguita dalla fuga di Kerenskij. Il giorno dopo, al congresso dei soviet, la maggioranza dei delegati approvò senza esitazioni l'azione dei bolscevichi, respingendo l'invito loro rivolto dai menscevichi e da una parte dei social- rivoluzionari ad abbandonare l'aula in segno di protesta contro quello che essi consideravano un colpo di stato. Il congresso dei soviet approvò subito dopo anche tre fondamentali decreti: un appello per una pace senza annessioni, la confisca e la ridistribuzione ai contadini delle terre dei grandi proprietari e dello zar, la costituzione di un soviet dei commissari del popolo con il compito di preparare l'Assemblea costituente (che avrebbe cioè dovuto stendere la nuova Costituzione dello stato). Le elezioni del 25 novembre per l'Assemblea costituente confermarono il declino dei menscevichi, ridotti a una minoranza trascurabile, e dei partiti del centro e della destra, ma in maniera inattesa diedero il 63% dei voti ai socialrivoluzionari e solo il 25% ai bolscevichi. Il governo rivoluzionario dei soviet a maggioranza bolscevica sciolse allora immediatamente l'assemblea appena eletta, a esso sfavorevole, senza particolari reazioni nell'opinione pubblica, e nel gennaio 1918 fu proclamata la Repubblica federale socialista russa, espressione del nuovo potere. Nel frattempo la guerra proseguiva e l'esercito tedesco penetrava in profondità nel territorio russo. La pace di Brest-Litovsk (marzo 1918) firmata con la Germania permise al paese di uscire dalla guerra mondiale, ma in cambio la nascente Unione Sovietica dovette rinunciare a estesi territori dell'ex-Impero russo: alla Polonia, alla Lituania, alle province baltiche e a una parte della Bielorussi. Quella pace, giudicata «vergognosa» dallo stesso Lenin che dovette sottoscriverla, sottraeva al nuovo governo rivoluzionario più del 50% della produzione agricola e quasi il 70% di quella carbonifera. I socialrivoluzionari di sinistra, alleati dei bolscevichi, uscirono dal governo, passando all'opposizione, mentre la destra socialrivoluzionaria tentava un'insurrezione e ricorreva al terrorismo: fu ucciso l'ambasciatore tedesco e fallì un attentato contro Lenin. Contemporaneamente le potenze dell'Intesa, svanita la possibilità di costringere la Russia a riprendere la guerra, si mossero contro la neo- nata repubblica socialista, considerata un pericoloso esempio e una minaccia per l'ordine interno dei vari paesi capitalistici. Truppe inglesi sbarcarono nel nord del paese, mentre contingenti americani e giapponesi invadevano i territori russi in Estremo Oriente. Sul territorio della nuova repubblica, nella regione del Don, le truppe fedeli al governo provvisorio di Kerenskij o al precedente regime zarista, sotto il comando dei generali Kolciak (i "bianchi") occuparono alcuni distretti. Anche gli anarchici in Ucraina e le truppe del socialrivoluzionario Savinkov nella zona del Don diedero vita a una resistenza armata contro il potere sovietico. A partire dal marzo 1918, i bolscevichi decisero di contrastare queste offensive sia con il rafforzamento della polizia politica, la Ceka, creata nel dicembre del 1917, sia con la messa fuori legge dei socialrivoluzionari di destra e dei menscevichi. Fu anche restaurata la pena di morte, abolita al momento della presa del potere. Così il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari, lasciando da parte le utopie antimilitariste e i progetti di autogoverno popolare. Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale, col La presa del palazzo d’inverno L’Assemblea costituente La pace di Brest-Litovsk La guerra civile e la dittatura rivoluzionaria 73 compito di processare chiunque disubbidisse al «governo operaio e contadino»: una formulazione molto ampia, che permetteva di perseguire anche quegli oppositori, ai quali non poteva imputarsi nessuna forma di contestazione violenta. Nel giugno 1918 tutti i partiti d'opposizione vennero messi fuori legge; arresti arbitrari ed esecuzioni sommarie di «nemici di classe» entrarono sin da allora nella realtà quotidiana del nuovo regime. Contro gli eserciti controrivoluzionari, il governo dei soviet riorganizzò completamente il suo apparato militare. Il nuovo esercito, chiamato Armata rossa, fu posto sotto il comando di Lev Trotzkij e in esso vennero inquadrati anche molti ufficiali ex zaristi. Per due anni, fino alla primavera del 1920, ci fu una feroce e sanguinosa guerra civile fra l'Armata rossa e gli eserciti "bianchi", composti da ufficiali e soldati russi sostenuti militarmente e finanziariamente dall'Intesa. Ebbe la meglio l'Armata rossa, sia perché più disciplinata e motivata, sia per l'appoggio ricevuto dalla popolazione contadina, avvantaggiata dalla radicale riforma agraria decisa dal governo dei soviet e timorosa di un ritorno del vecchio regime zarista. Nell'aprile del 1920 l'Armata rossa scacciò anche l'esercito polacco del maresciallo Pilsudski, penetrato in Ucraina per annettere quella regione alla Polonia. E subito dopo, in nome dell'internazionalismo, portò l'offensiva sullo stesso territorio polacco, raggiungendo Varsavia. Incontrò però non solo la reazione dell'esercito polacco ma anche della maggior parte della popolazione e fu costretta a indietreggiare e a concludere un armistizio. Alla fine del 1920, in nome del principio dell'autodeterminazione dei popoli, il nuovo Stato sovietico riconosceva le repubbliche indipendenti della Polonia, della Finlandia e gli Stati "baltici" (Estonia, Lettonia, Lituania). La Repubblica federale socialista russa, la cui Costituzione era stata promulgata nel luglio 1918, diventò nel 1922 Unione delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss). Sul piano internazionale si ebbero trattative e accordi commerciali con l'Inghilterra e con la Germania e nell'aprile del 1922 l'Unione Sovietica partecipò per la prima volta a una conferenza internazionale a Genova. Tra il 1918 e il 1922, nel paese uscito dalla guerra mondiale e da quella civile la situazione economica e sociale era tragica. La già cronica carenza di grano e di altri generi alimentari si era aggravata per il prolungato richiamo alle armi della popolazione maschile, e anche perché moltissimi contadini divenuti ora padroni delle terre (e non solo i kulaki, piccoli proprietari, inaspettatamente favoriti rispetto ai contadini poveri dalla ridistribuzione delle terre) preferivano consumare direttamente o conservare il grano prodotto per venderlo in un secondo tempo a prezzi più vantaggiosi. Il governo sovietico affrontò questa enorme difficoltà con una serie di drastiche misure (requisizioni, amassi), passate alla storia con il nome di «comunismo di guerra»; ma gli effetti pratici furono scarsi, e si determinò fra i contadini una diffusa insofferenza antibolscevica. Il comunismo di guerra fu applicato anche nell'industria con l'obiettivo di ampliare la produzione, ma i duri provvedimenti adottati fecero emergere grosse difficoltà nei rapporti fra i bolscevichi e la classe operaia. Nel febbraio 1921 molte fabbriche di Pietrogrado scioperarono. E nel marzo del 1921 si ribellarono anche i reparti della base navale di Kronstadt, uno dei tradizionali punti di forza del potere bolscevico. Anche la democratizzazione dell'esercito aveva subito, con le difficoltà della guerra civile, una battuta d'arresto. Questi fatti indussero nel mese di marzo del 1921 il X congresso del Partito unico a decidere una radicale svolta politica, una sorta di "ritirata strategica", battezzata come la Nep, cioè "Nuova politica economica". Lenin riconosceva così sia lo scollamento fra la politica economica bolscevica e la volontà dei contadi e della popolazione, sia il dissolversi, almeno momento, delle speranze di una rivoluzione in qualche paese dell'Europa che venisse in aiuto all'Urss. La Nep liberalizzò il commercio finora vietato e ai contadini venne concesso di vendere le loro eccedenze sul mercato. Le nuove misure economiche della Nep Il fallito tentativo di esportare la rivoluzione con la guerra Il comunismo di guerra La Nep 74 riavvicinarono i contadini al potere sovietico, ma alimentarono il malcontento di alcuni settori del partito bolscevico, che le ritennero un puro e semplice ritorno al capitalismo. Nel pieno di queste polemiche, nel maggio del 1922, Lenin fu colpito da una grave malattia che gli impedì di continuare a dirigere il partito e lo portò alla morte nel 1924. La sua eredità sarebbe stata raccolta, certamente nel modo peggiore, dal leader che gli successe alla guida del partito e del paese: Stalin. Dall'ascesa di Stalin ai "piani quinquennali" Nel 1922 i dirigenti sovietici presero atto dell'isolamento dell'Urss; e già l'accettazione della pace di Brest-Litovsk (1918) esprime forse la consapevolezza che la Rivoluzione russa non poteva estendersi all'Europa. Pochi investitori stranieri avevano risposto alle larghe concessioni offerte da Lenin perché contribuissero allo sviluppo economico del paese. La Russia sovietica sarebbe rimasta isolata, circondata da un mondo capitalista ostile che la considerava un regime «fuori legge» (gli Usa, per esempio, riconobbero il regime sovietico soltanto nel 1933). Quale doveva va essere allora la politica estera dell'Urss e della Terza Internazionale, che proprio sulle speranze di una rivoluzione internazionale era stata fondata il 2 marzo 1919? Il Partito bolscevico si divise fra la posizione di Trotzkij, e quella di Stalin. Il primo sostenne la necessità di una «rivoluzione permanente» e propose di forzare l'isolamento collegandosi ad altri paesi (ad esempio quelli semicoloniali in Asia). Il secondo fu favorevole alla «costruzione del socialismo in un solo paese», cioè al rafforzamento politico, economico e militare del nuovo «stato operaio», che i partiti fratelli della Terza Internazionale2 avrebbero dovuto sostenere. Questa profonda divergenza politica venne alla luce già nel maggio 1922, quando Lenin fu colpito dalla malattia che l'avrebbe condotto alla morte due anni dopo (1924) e il problema della sua successione si complicò: chi dei due dirigenti così nettamente in contrasto fra loro avrebbe avuto il controllo decisivo del partito bolscevico che, composto negli anni precedenti la presa del potere da poche migliaia di militanti, doveva ora essere ampliato e ristrutturato per assumere nuovi e inediti compiti? Favorito dalla prestigiosa alleanza di Bucharin, Stalin ebbe la meglio: Trotzkij restò subito in minoranza nel L'isolamento internazionale dell'Urss Il contrasto tra e le posizioni di Trotzkij e di Stalin 2 La riunione costitutiva dell'Internazionale comunista (o, con dizione abbreviata, Comintern), o Terza Internazionale, come venne subito chiamata, ebbe luogo a Mosca ai primi di marzo del 1919. La struttura e i compiti dell'Internazionale comunista furono fissati soltanto nel I congresso, che si tenne, sempre a Mosca, nel luglio del 1920, proprio in coincidenza con la vittoria sui bianchi e la travolgente avanzata dell'Armata rossa in Polonia. I partecipanti rappresentavano 64 partiti operai di ogni parte del mondo. Il problema centrale del congresso fu rappresentato dalle condizioni cui i singoli partiti avrebbero dovuto sottostare per essere ammessi a far parte dell'Internazionale. Fu lo stesso Lenin a fissare le condizioni in un documento in ventun punti. Vi si affermava fra l'altro che i partiti aderenti al Comintern avrebbero dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, difendere in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i principali esponenti. In tutta l'Europa occidentale i partiti comunisti — legati alla centrale russa da uno stretto rapporto di dipendenza politico-organizzativa e vincolati alla strategia rivoluzionaria tracciata nell'estate del 1920 dal secondo congresso del Comintern — rimasero minoritari rispetto ai socialisti. Il legame col Partito bolscevico e con la Repubblica dei soviet divenne un fattore di debolezza, o quanto meno un limite alle possibilità di espansione, man mano che l'ondata rivoluzionaria rifluiva in tutta Europa e la Russia comunista cominciava a preoccuparsi soprattutto dei suoi problemi interni e della sua posizione di Stato fra gli altri Stati. 75 sostenere la necessità di un'industrializzazione rapida; mentre la prospettiva agricola di Stalin, che intendeva potenziare il compromesso liberista della Nep, ebbe l'appoggio del partito (ma dopo pochi anni, Stalin stesso cambiò rotta). Stalin ristrutturò profondamente il partito, che già nel 1926, sconfitto Trotzkij, era nelle sue mani, e ne controllò il reclutamento, assicurandosi dei nuovi iscritti. Molti nello stesso Partito bolscevico temettero un'involuzione burocratica e alcuni alti dirigenti prima alleati di Stalin, tra cui Zinov'ev, Kamenev si riavvicinarono a Trotzkij, che avevano ostacolato fino ad allora. Ma la nuova tendenza fu emarginata: Stalin riuscì già nel 1927 a far espellere i tre massimi dirigenti che l'avversavano e poi a esiliarli. Subito dopo, in seguito al crollo delle riserve di grano, egli, leader ormai incontrastato, interruppe l'esperimento della Nep e cambiò completamente politica. La Nep, avviata nella primavera del 1921, aveva alleviato la penuria di generi alimentari, portato un certo beneficio ai contadini, che poterono disporre liberamente di una parte delle eccedenze di grano, e procurato vantaggi anche a un ristretto ceto di commercianti (i nepmen). Essa aveva anche rimediato provvisoriamente lo strappo creatosi fra il governo sovietico e i contadini per le requisizioni imposte nel periodo del «comunismo di guerra». Ma il problema economico e politico del rapporto agricoltura-industrializzazione non era risolto e ridiventò critico: lo «sciopero del grano» da parte dei contadini si ripeteva e anche nelle città saliva l'ostilità verso il regime. In questa situazione di crescente tensione, Stalin decise il primo "piano quinquennale" (1929-1933). Esso prevedeva per le campagne la collettivizzazione dei fondi privati creati dopo la rivoluzione, da riunire in kolchozy (fattorie collettive con organismi elettivi) e sovchozy (fattorie gestite dallo stato). Immediatamente, tra la fine del 1928 e la fine del 1932, la Russia diventò un paese di vagabondi e le città sovietiche furono sommerse da un'alluvione di contadini, stimata in circa 12 milioni di individui che fuggivano la collettivizzazione; così che, per contenere gli spostamenti verso le città, il 27 dicembre 1932 fu introdotta una misura severissima: un passaporto interno, in mancanza del quale si era allontanati dalle città. Nelle campagne la collettivizzazione delle terre incontrò subito l'ostilità di tutti. I contadini reagirono sia con la resistenza passiva sia con il sabotaggio (vendita dei macchinari, macellazione del bestiame, ecc.). L'intervento dell'esercito e degli attivisti del partito scatenò sempre più spesso anche una resistenza armata. Stalin stroncò con deportazioni di massa (circa 10 milioni di famiglie contadine furono trasferite di forza nelle aziende collettive) la ribellione diffusa in tutti gli strati contadini, attribuendone la colpa ai soli kulaki, un 4% dei contadini sovietici, cioè un ristretto gruppo, in realtà solo relativamente benestante. Il fallimento della collettivizzazione fu totale sia sul piano politico che su quello economico. Nel 1934 il 75% delle terre risultava collettivizzato, ma fra il 1928 e il 1932 l'agricoltura sovietica aveva subito un tracollo da cui non si riprese più. La collettivizzazione delle terre fu un disastro innanzitutto per gli enormi costi umani che comportò: si calcola che furono deportati nei campi di concentramento oltre 2 milioni di contadini, di cui 1 milione e 800.000 solo nel 1930-1931, e che centinaia di migliaia di persone perirono nelle inospitali zone di deportazione, come nelle isole dell'Artico; mentre in generale circa 6 milioni di cittadini sovietici morirono di fame per la terribile carestia degli anni 1932-1933. Nelle città l'industrializzazione prevista dal primo piano quinquennale creò invece per qualche tempo vero entusiasmo e partecipazione. Mentre a livello internazionale le economie capitalistiche vivevano una crisi gravissima (il crollo di Wall Street è del 1929), l'Urss di Stalin riusciva partendo quasi dal nulla a diventare uno dei paesi più industrializzati del mondo. Tra il 1928 ed il 1932, infatti, la produzione sovietica aumentò in modo sorprendente del 40% soprattutto nell'industria pesante (siderurgia, macchinari, ecc.). L'eccezionale risultato fu ottenuto con una spasmodica accelerazione della produzione, guidata con logica militare e sostenuta da una martellante propaganda ideologica tesa a Il Partito bolscevico sotto la guida di Stalin Il fallimento della collettivizzazione delle terre Industrializzazione forzata e "piani quinquennali" 76 esaltare la "battaglia della produzione" e i "soldati del lavoro" in modi non dissimili da quelli del fascismo italiano. L'Urss divenne una grande potenza industriale e militare e il «partito dei costruttori» di un socialismo sempre più produttivistico (poco distinguibile dalla logica capitalista se non per la proprietà statale dei mezzi produttivi) ricevette anche un reale consenso da una parte degli operai. L'innegabile successo di Stalin in campo industriale non compensava però il tracollo della produzione agricola e i contraccolpi negativi della militarizzazione della vita economica (spreco, burocrazia, passività dei lavoratori, ecc.) pesarono a lungo contribuendo a quella debolezza strutturale dell'Urss che è stata poi determinante per il suo definitivo crollo. L'economia sovietica rimase per sempre rigida, poco varia nei prodotti, scarsamente innovativa e incapace di soddisfare la cronica penuria di beni di consumo. Con il successo dell'industrializzazione dall'alto, il sistema staliniano si rafforzò e tentò di imporre quel controllo totale su tutti gli aspetti della vita e del pensiero dei cittadini tipico dei regimi totalitari (e per esempio del fascismo e del nazismo). La figura di Stalin si caricò di un significato quasi religioso, che non fu soltanto il risultato di un'abile manipolazione delle coscienze da parte sua e dei suoi collaboratori, ma anche una costruzione psicologica spontanea di masse popolari sottoposte al rapido e inquietante «balzo dalla stregoneria all'alta matematica». E fu questa "religione del capo" a dare a Stalin sempre più mano libera nella repressione degli oppositori presunti o reali. Le epurazioni ("purghe", cioè condanne all'esilio, al lavoro forzato o a morte), furono avviate soprattutto a partire dal 1934, in seguito al misterioso attentato di cui fu vittima a Leningrado Kirov (pseudonimo di Sergej Krostrikov), alto dirigente del partito, esponente delle sue nuove leve e collaboratore assai vicino a Stalin. Proseguirono nel 1936- 38 e travolsero molti dirigenti di rilievo (compreso lo stesso Bucharin), amministratori di industrie e di kolchoz, l'intellighenzia (storici, letterati, scienziati, giornalisti, ecc.), membri del clero ortodosso sopravvissuti a precedenti persecuzioni, ma soprattutto gente comune e «onesti cittadini sovietici». Stalinismo e repressione 77 3. IL VENTENNIO FASCISTA IN ITALIA La crisi italiana dopo la Prima guerra mondiale L'agonia dello Stato liberale e la salita al potere del fascismo Il fascismo degli anni Venti: la «fascistizzazione» dello stato Il fascismo degli anni Venti in economia Fascismo e chiesa cattolica: Patti lateranensi e plebiscito del 1929 Il fascismo degli anni Trenta e lo “stato-imprenditore” La politica estera del fascismo La crisi italiana dopo la Prima guerra mondiale Dopo la Prima guerra mondiale la vecchia classe dirigente liberale si dimostrò incapace di gestire la crescente crisi politico-istituzionale, nonché di governare le spinte al cambiamento provenienti sia dalle masse proletarie influenzate dal socialismo che dai ceti medi orientati dal nazionalismo. Il tentativo dei nazionalisti, nel 1919, di annettere Fiume all'Italia per protestare contro la «vittoria mutilata», imposta a loro avviso all'Italia dalla Conferenza di pace di Parigi, e la radicalizzazione degli operai e dei contadini che si manifestò con forza soprattutto nel settembre 1920, quando gli operai iniziarono a Torino l'occupazione delle fabbriche sono due episodi emblematici di quella crisi. Le formule politiche che avevano segnato l'età giolittiana erano tramontate definitivamente nei tre anni di guerra. Così, tra il 1919 e il 1922 non ci fu più una coalizione di partiti in grado di dare stabilità all'esecutivo, di gestire con lucidità la difficile transizione verso la pace. Il governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), che pure godeva del prestigio derivante dalla vittoria sugli austriaci, cadde per motivi di politica estera, a causa delle difficoltà incontrate dalla delegazione italiana alla Conferenza di Parigi. Il 23 giugno 1919 fu così Francesco Saverio Nitti (1868-1953) a varare un nuovo governo. Dopo l'approvazione di una legge elettorale che introduceva il sistema proporzionale, le Camere furono sciolte e si tennero le elezioni (16 novembre 1919): il vecchio blocco liberaldemocratico risultò ancora la forza politica più votata (con il 38,9% dei voti), conquistando 179 deputati, quando in precedenza ne aveva 310. Si trattava quindi di una perdita secca, che sanciva l'impossibilità di costituire una maggioranza di governo restando all'interno del quadro politico che aveva guidato il Paese dal Risorgimento in poi. Fino al 1922, i governi si susseguirono vertiginosamente, con diversi premier (ancora Nitti: maggio 1920; poi Giolitti: giugno 1920; Ivanoe Bonomi: luglio 1921; Luigi Facta: febbraio/ottobre 1922), ma con la stessa fragilità di fondo. La guerra, di fatto, aveva stabilito un nesso strettissimo tra la violenza e i comportamenti collettivi. Sembrava che tutti i nodi politici fossero da sciogliere affidandosi soltanto alle armi e all'uso della forza; si guardava così con insofferenza alle formule della democrazia, al tentativo giolittiano di "controllare" il conflitto politico, sradicandolo dalle piazze per riportarlo fisiologicamente nelle aule parlamentari. La stessa sfiducia circondava la possibilità che si potessero ristabilire normali relazioni diplomatiche tra Stati. Si cominciò a parlare di "vittoria mutilata", proprio in relazione all'insoddisfazione per come l'Italia veniva trattata alla Conferenza di pace. La nostra delegazione si era impegnata nel tentativo di aggiungere alle conquiste territoriali già "promesse" dagli Alleati con il Trattato di Londra anche la città di Fiume, in Dalmazia, abitata in prevalenza da italiani. La ferma opposizione delle altre potenze vincitrici indusse i nostri rappresentanti diplomatici addirittura a disertare per un breve periodo il tavolo dei colloqui. La crisi sociale La crisi istituzionale La sfiducia nella democrazia e nella pace La vittoria mutilata 78 Per forzare la mano agli Alleati mettendoli di fronte a un fatto compiuto, il 12 settembre 1919 circa duemila fra "legionari" e volontari dell'esercito, guidati da Gabriele D'Annunzio (1863-1938), occuparono Fiume. Lo stesso D'Annunzio assunse il comando della città, proclamandone l'annessione all'Italia. L'avventura fiumana durò quindici mesi, provocò la caduta del governo Nitti, e si concluse soltanto con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 firmato dal nuovo governo guidato ancora da Giolitti, che assegnò alla città lo status di "città libera" (diventerà pienamente italiana nel 1924). D'Annunzio rifiutò di accettare quella soluzione; per costringerlo ad abbandonare la città fu necessario far intervenire l'esercito. Fiume fu bombardata il 24 dicembre 1920 e D'Annunzio alla fine si arrese (18 gennaio 1921) . Molto più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica interna. Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione del prezzo del pane (tenuto artificialmente basso, a spese dell'erario, fin dagli anni della guerra) e avviò così il risanamento del bilancio statale; ma non riuscì a rendere operanti i progetti di tassazione dei titoli azionari e dei profitti di guerra, progetti che sarebbero poi stati affossati dai successivi governi. Ma a fallire fu soprattutto il disegno politico complessivo dello statista piemontese: disegno che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforma, nel ripetere insomma l'esperimento già tentato con qualche successo ai primi del secolo. In realtà, quell'esperienza non era ripetibile: i liberali non avevano più la solida maggioranza dell'anteguerra; i socialisti erano su posizioni molto diverse da quelle di vent'anni prima; i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo subalterno cui Giolitti avrebbe voluto costringerli; il centro della lotta politica, si era ormai spostato dal Parlamento alle segreterie dei partiti, alle centrali sindacali o addirittura alle piazze; i conflitti sociali, infine, conobbero, nell'estate-autunno del '20, il loro episodio più drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici culminata nell'occupazione delle fabbriche. La vertenza vedeva contrapposti i nuclei di punta del mondo imprenditoriale e del movimento operaio italiano. Da un lato gli industriali del settore metalmeccanico, ingranditosi con la produzione bellica, minacciato dai primi segni di una crisi produttiva e anche per questo deciso a cercare la prova di forza. Dall'altro una categoria operaia compatta e combattiva, che era organizzata dal più forte dei sindacati aderenti alla Cgl (la Fiom, Federazione italiana operai metallurgici), ma aveva visto anche svilupparsi, al di fuori dei canali sindacali ufficiali, l'esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica: organismi eletti direttamente dai lavoratori e ispirati dal gruppo torinese dell'«Ordine Nuovo» che vedeva in essi un nuovo strumento di «democrazia operaia», una sorta di corrispettivo italiano dei soviet. Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di agosto, in risposta alla serrata (cioè alla chiusura degli stabilimenti) attuata da un'azienda milanese, la Fiom ordinò ai suoi aderenti di occupare le fabbriche. Nei primi giorni di settembre, quasi tutti gli stabilimenti metallurgici e meccanici (e anche di altri settori) furono occupati da circa 400.000 operai, che issarono le bandiere rosse sui tetti delle officine, organizzarono servizi armati di vigilanza e cercarono, ove possibile, di proseguire da soli il lavoro. L'occupazione delle fabbriche raggiunse una dimensione prerivoluzionaria, acuendo ancor più la crisi del dopoguerra, e rappresentò la fase culminante del cosiddetto «biennio rosso». La maggior parte dei lavoratori in lotta visse questa esperienza come l'inizio di un moto rivoluzionario destinato ad allargarsi ben oltre le officine occupate. In realtà il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche, di collegarsi ad altre lotte sociali in corso (per esempio a quelle delle campagne padane), di porsi in modo concreto il problema del potere. Nemmeno i gruppi più coerentemente rivoluzionari, come i torinesi dell'«Ordine Nuovo», avevano idee precise sul La politica interna tra politica giolittiana e aspirazioni rivoluzionarie 1 – La perdita di potere da parte dello Stato L'occupazione delle fabbriche 79 modo in cui spostare il movimento dal terreno della vertenza sindacale a quello dell'attacco allo Stato. Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che intendevano impostare lo scontro sul piano economico e proponevano come obiettivo il controllo sindacale sulle aziende. Tale esito fu favorito dall'iniziativa mediatrice di Giolitti, che si era attenuto a una linea di rigorosa neutralità, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica contro le fabbriche occupate. Il 19 settembre, il capo del governo riuscì a far accettare ai riluttanti industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom e affidava a una commissione paritetica l'incarico di elaborare un progetto per il controllo sindacale (che peraltro non avrebbe trovato attuazione pratica). Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma sul piano politico la sensazione dominante era di delusione rispetto alle attese maturate nei giorni «eroici» dell'occupazione. D'altro canto, gli industriali non nascondevano la loro irritazione per aver dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia tutta, passata la «grande paura» della rivoluzione, cominciava a serrare i suoi ranghi, apprestandosi a sfruttare ogni occasione di rivincita. L'esito dell'occupazione delle fabbriche lasciò nelle file del movimento operaio La nascita del partito comunista del uno strascico di recriminazioni e polemiche. I dirigenti riformisti della Cgl erano accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale. Ma anche la direzione massimalista del Psi era attaccata dai gruppi di estrema sinistra per il suo comportamento incerto. Queste polemiche si intrecciarono con le fratture provocate dal II Congresso del Comintern: dove, come si ricorderà, erano state fissate le condizioni per l'ammissione dei partiti operai all'Internazionale comunista. Due furono i punti più controversi: quello in cui si ingiungeva ai partiti aderenti di assumere la denominazione di «Partito comunista» e quello in cui si imponeva l'espulsione degli elementi «riformisti e centristi». Serrati e i massimalisti rifiutarono di sottostare a queste condizioni: sia perché le ritenevano lesive dell'autonomia del partito, sia perché sapevano che, espellendo i riformisti, il Psi avrebbe perso buona parte dei suoi quadri sindacali, dei suoi deputati, dei suoi amministratori locali. Al congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio 1921, i riformisti non furono espulsi e fu invece la minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi per fondare il Partito comunista d'Italia. Il nuovo partito nasceva così con una base piuttosto ristretta e con un programma rigorosamente leninista, proprio nel momento in cui la prospettiva rivoluzionaria si andava dileguando in Italia e in tutta Europa. D'altra parte la scissione comunista non servì nemmeno a determinare una svolta nel Psi: in questo partito la minoranza riformista rimase in mano alla maggioranza massimalista sempre ferma nel rifiutare ogni ipotesi di collaborazione con le forze borghesi e sempre più impotente a contrastare l'ondata antisocialista che intanto andava montando nel paese. L’abilità di Giolitti nel risolvere queste crisi non arrestò però il declino dello stato Il declino dello stato liberale liberale. Fino all'ottobre 1922, quando il fascismo andrà al potere, infatti, il sistema politico italiano restò paralizzato. I liberali, numericamente indeboliti in parlamento, non riuscivano più a ottenere l'appoggio per loro indispensabile né dal Partito socialista né dal Partito popolare (cattolico). Lo stesso Giolitti perdeva consensi presso industriali e finanzieri, ostili o preoccupati per le concessioni da lui fatte ai sindacati; mentre i riformisti del Partito socialista, incalzati dalle critiche interne dei massimalisti, diventavano più incerti nel sottoscrivere certe misure antipopolari del governo, come quella che aboliva il prezzo politico del pane. Dalle elezioni del maggio 1921 uscì un nuovo parlamento, frammentato in ben undici raggruppamenti politici, ciascuno in contrasto con gli altri. Si era creato un vuoto di potere, una situazione ingovernabile. Il mese dopo Giolitti si dimise e ben tre governi si susseguirono nel vano tentativo di trovare una soluzione. 80 Si chiudeva così la prima della tre fasi che hanno portato dallo stato Dallo stato liberaldemocratico al liberaldemocratico all’instaurazione del regime fascista. Tale fase, che regime fascista corrisponde agli ultimi mesi di vita del governo Giolitti (entrato in carica nel giugno 1920), fu caratterizzata dalla progressiva perdita di autonomia della società politica, cioè dalla "perdita di potere" da parte delle forze politiche tradizionali e dall'incapacità delle istituzioni politiche di mediare i movimenti della società civile (ottobre 1920 - giugno 1921); la seconda fase, caratterizzata da una «situazione di stasi», in cui le forze sociali operarono in un vero e proprio "vuoto di potere" istituzionale (luglio 1921 - ottobre 1922); infine la fase della «presa del potere» da parte del movimento fascista. L'agonia dello Stato liberale e la salita al potere del fascismo Nel frattempo emergeva il movimento fascista, nato ufficialmente il 23 marzo 1919 a Milano, in piazza San Sepolcro, con il nome di «fasci di combattimento» a opera dell'ex socialista Benito Mussolini. I1 programma politico del nuovo movimento era eclettico e confuso: cercava di conciliare nazionalismo e riforme sociali. Ai suoi esordi, il fascismo raccolse solo scarse ed eterogenee adesioni (ex repubblicani, ex sindacalisti rivoluzionari, ex arditi di guerra e nelle elezioni del '19 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di voti e nessun deputato). Ma si fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento, insofferente di vincoli ideologici e tutto teso verso l'azione diretta. Non a caso i fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile dell'Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15 aprile '19 e conclusosi con l'incendio della sede dell'«Avanti!». Era il segno di un clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col passare dei mesi, in conseguenza sia dell'inasprimento delle tensioni sociali, sia delle polemiche provocate dall'andamento della conferenza della pace. Fino all'autunno del '20, il fascismo comunque aveva svolto un ruolo marginale nella vita politica e non era uscito dall'ambito dei gruppetti di matrice interventista a base urbana, intellettuale e piccolo-borghese. Tra la fine del '20 e l'inizio del '21, il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare l'originario programma radical-democratico, a fondarsi su strutture paramilitari (le squadre d'azione) e a puntare le sue carte su una lotta spietata contro il movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle Padana. I proprietari terrieri scoprirono nei fasci lo strumento capace di abbattere il potere delle leghe contadine socialiste e cominciarono a sovvenzionarli generosamente. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute: ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nella vita civile; figli della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a partecipare alla guerra e che trovavano l'occasione per combattere una loro battaglia contro i veri o presunti nemici della patria. Nel giro di pochi mesi, il fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi anche alle zone mezzadrili della Toscana e dell'Umbria e facendo qualche sporadica comparsa nelle grandi città del Centro-Nord. Pressoché immune dal contagio fascista rimase per il momento solo il Mezzogiorno, con l'eccezione della Puglia, dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste. È stato calcolato che tra l’autunno del 1920 e quello successivo almeno 1500 operai e contadini furono uccisi dai fascisti e dalla polizia. Il successo travolgente dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di ordine «militare»; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che pure furono molti e di non poco conto. In realtà il movimento operaio, nel 1921- La nascita del movimento fascista Il fascismo agrario e lo squadrismo 81 1922, si trovò a combattere una lotta impari contro un nemico che godeva di un notevole margine di impunità, potendo giovarsi della benevola neutralità, o addirittura dell'aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli apparati statali. Quasi mai la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i «rossi», si oppose con efficacia alle azioni squadristiche. La stessa magistratura adottò nei confronti dei fascisti criteri ben diversi da quelli usati contro i sovversivi di sinistra. Ma pesanti furono anche le responsabilità del governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo, guardò con malcelata compiacenza allo sviluppo del movimento fascista, pensando di servirsene per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e di poterlo in seguito «costituzionalizzare» assorbendolo nella maggioranza liberale. In questa strategia si inquadrava la decisione di convocare nuove elezioni per il maggio 1921 e di favorire l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi «costituzionali» (conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova affermazione dei partiti .di massa. I fascisti ottenevano così una legittimazione da parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali. Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e violenze contro gli avversari. Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una flessione piuttosto lieve (dal 32 al 25%), tenuto conto delle condizioni anomale in cui si era votato in molti collegi e dell'incidenza della scissione comunista (il Pci ottenne quasi il 5% dei voti). I popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici uniti nei blocchi nazionali migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo controllo del Parlamento. In definitiva, la maggior novità fu costituita dall'ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale. L'esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all'ultimo esperimento governativo di Giolitti, che si dimise all'inizio di luglio. Il suo successore, l'ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di far uscire il paese dalla guerra civile favorendo una tregua d'armi fra le due parti in lotta. Una tregua teorica fu in effetti conclusa nell'agosto 1921, con la firma di un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Il patto consisteva in un generico impegno per la rinuncia alla violenza da ambo le parti. I socialisti, in particolare, accettavano di sconfessare le formazioni degli arditi del popolo, ossia quei gruppi di militanti di sinistra che si erano organizzati spontaneamente in alcune città per opporsi allo squadrismo. Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a inserirsi nel gioco politico «ufficiale» e temeva il diffondersi di una reazione popolare contro lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali, i cosiddetti ras (un nome ricalcato ironicamente su quello dei signori feudali etiopici). I «ras» (Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i più noti) sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in discussione la leadership di Mussolini. La ricomposizione delle fratture si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai primi di novembre. Mussolini si rese conto di non poter fare a meno della massa d'urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione (che del resto non aveva mai funzionato sul serio). I «ras» riconobbero la guida politica di Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in un vero e proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d'azione. Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf), che poteva contare su una base di oltre 200.000 iscritti. Le elezioni del maggio 1921 2 – La stasi istituzionale Il governo Bonomi e il patto di pacificazione 82 Mentre il fascismo acquistava forza e compattezza, si consumava la parabola del ministero Bonomi. Nel febbraio 1922, dopo un veto posto da Sturzo al ritorno al potere di Giolitti, la guida del governo fu affidata a Luigi Facta, un giolittiano dalla personalità alquanto sbiadita. Con la costituzione del ministero Facta, l'agonia dello Stato liberale entrò nella sua fase culminante. La scarsa autorità politica del nuovo governo finì col dare ulteriore spazio alla dilagante violenza squadrista. Condotto dalle sue stesse dimensioni, e dalla vastità degli interessi che ormai rappresentava, a superare l'ambito prevalentemente locale entro il quale si era mosso fin allora, il fascismo si rese protagonista, a partire dalla primavera del '22, di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie che coinvolgevano intere province, occupazione in armi di grandi centri, come Ferrara, Bologna e Cremona. All'offensiva del fascismo — che giocava contemporaneamente su due tavoli, quello della violenza armata e quello della manovra politica — i socialisti non seppero opporre risposte efficaci né sul piano della tattica parlamentare né su quello della mobilitazione di massa. Addirittura disastrosa nei suoi effetti si rivelò la decisione, presa dai dirigenti sindacali, di proclamare per il 1° agosto uno sciopero generale legalitario in difesa delle libertà costituzionali. I fascisti colsero il pretesto per atteggiarsi a custodi dell'ordine e per lanciare una nuova e più violenta offensiva contro il movimento operaio. Per un'intera settimana le camicie nere si scatenarono contro sezioni, circoli, sedi di organizzazioni e giornali socialisti, attaccando le ultime roccheforti «proletarie», come Milano, Genova, Ancona, Livorno e Parma (fu questa l'unica città. in cui la popolazione resistette validamente all'attacco squadrista). Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il fascismo era costretto a porsi il problema della conquista dello Stato. Solo insediandosi al potere il partito avrebbe potuto andare incontro alle aspettative delle masse ormai ingenti che si raccoglievano nelle sue file ed evitare il pericolo di una reazione di rigetto da parte di quelle forze moderate che, avendo appoggiato lo squadrismo in funzione antisocialista, avrebbero potuto ritenerne ormai esaurito il ruolo. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore degli industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata. Dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla presa del potere mediante un colpo di Stato. Cominciò così a prender corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del potere centrale. L'inizio della mobilitazione fu fissato al 27 ottobre. Un piano del genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto numerose, le squadre fasciste erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l'esercito regolare. Lo stesso Mussolini credeva poco nella possibilità di un successo «militare» e pensava piuttosto di servirsi della mobilitazione come di un mezzo di pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla benevola neutralità della corona e delle forze armate. In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali (il ministero Facta si dimise proprio il 27 ottobre), fu l'atteggiamento del re a risultare decisivo. Vuoi perché non sicuro della lealtà dei vertici militari, vuoi perché deciso a evitare a ogni costo una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre, di firmare il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio (cioè per il passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal governo già dimissionario. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada di Roma Il governo Facta La strategia fascista: violenza armata e manovra politica Lo sciopero generale legalitario La marcia su Roma e la conquista dello Stato 83 e al loro capo la via del potere. Forte della resa ottenuta senza colpo ferire, Mussolini non si accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il governo. La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di squadristi cominciavano a entrare nella capitale senza incontrare alcuna resistenza, Mussolini fu ricevuto dal re. La sera stessa il nuovo gabinetto era già pronto. Ne facevano parte, oltre a cinque fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari. Il fascismo degli anni Venti: la «fascistizzazione» dello stato 3 – La conquista del potere Dal 1922 al 1925, mentre continuarono le violenze degli squadristi (ne fecero le spese anche esponenti liberali, come Giovanni Amendola, e cattolici, come don Giovanni Minzoni), Mussolini utilizzò il suo potere «costituzionale» di presidente del consiglio per trasformare le strutture del vecchio stato liberale. Il disegno governativo di Mussolini fu subito chiaro: si trattava di favorire un'opera di normalizzazione dei quadri minori del fascismo, con l'allontanamento delle correnti più intransigenti e rivoluzionarie, e di allargare i propri consensi in direzione delle altre forze politiche di centro e di destra. Il 26 febbraio 1923 fu sancita la fusione con i nazionalisti; poi fu la volta del Partito popolare, sottoposto alla duplice pressione della diplomazia vaticana e della violenza squadrista. Le dimissioni di don Luigi Sturzo dalla segreteria (10 luglio 1923) diedero via libera alle tendenze collaborazioniste già manifestatesi nel partito. Nel 1923 le squadre vennero inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza nazionale. Era una soluzione che consentiva a Mussolini di controllare le spinte centrifughe del suo movimento e, contemporaneamente, di mantenere in vita un'organizzazione armata di partito, che poteva sostituirsi all'esercito, nel caso (improbabile) che si fosse aperto un conflitto con la monarchia. Il raccordo tra gli uomini e le organizzazioni che avevano portato il fascismo al potere e le istituzioni dello Stato liberale fu consolidato con la creazione del Gran Consiglio del fascismo (11 dicembre 1922), di cui furono chiamati a far parte, tra gli altri, i membri della direzione del PNF, alti esponenti del movimento e tutti i ministri fascisti. Al nuovo organo dello Stato, direttamente controllato dal partito fascista e da Mussolini, furono attribuite molte funzioni che prima spettavano al Parlamento svuotandolo quindi di potere. Il 21 luglio 1923 fu approvata una nuova legge elettorale, la legge Acerbo, che prevedeva un "premio di maggioranza" (pari ai due terzi dei seggi parlamentari) per la lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti: era una legge punitiva e discriminatoria per le minoranze, ma fu comunque approvata grazie al voto favorevole dei popolari e del blocco liberale. Mussolini intendeva così sbarazzarsi di un Parlamento eletto in un'altra stagione politica, con una rappresentanza ancora troppo vistosa di socialisti e comunisti. Alle elezioni, fissate per il 6 aprile 1924, fu presentata una lista governativa — il cosiddetto "listone" — nella quale, insieme ai fascisti, figuravano molti esponenti della classe dirigente liberale (Salandra, Orlando, De Nicola, il presidente della Confindustria, Gino Olivetti ecc.). La campagna elettorale fece registrare violenze e pestaggi, ma, alla fine, la vittoria dei fascisti fu meno clamorosa di quanto ci si aspettasse: sulle loro liste confluirono 4 884 000 voti (il 64,9%), che fruttarono trecentosettantaquattro seggi (duecentosessanta ai fascisti, centoquattordici ai fiancheggiatori); gli avversari riuscirono comunque a ottenere 237.300 voti, distribuiti tra comunisti (diciannove seggi) , socialisti unitari (ventiquattro seggi), socialisti massimalisti (ventidue La costruzione dello Stato totalitario Il controllo dei partiti Milizia volontaria per la sicurezza nazionale Gran Consiglio del fascismo La nuova legge elettorale e le elezioni del 1924 84 seggi), popolari (trentanove seggi), democratico-sociali (dieci seggi) e altre liste minori. All'apertura della nuova legislatura, il 30 maggio 1924, il leader socialista Giacomo Matteotti (1885-1924) denunciò in Parlamento le violenze, i brogli e le irregolarità che avevano segnato la campagna elettorale. La reazione fascista fu terribile. 11 10 giugno Matteotti fu rapito e assassinato da una "squadra" fascista. L'indignazione del Paese fu enorme e il fascismo attraversò la più grave crisi mai affrontata fino ad allora. Il 27 giugno 1924 le opposizioni decisero di non partecipare ai lavori del nuovo Parlamento, ritirandosi, come i plebei nell'antica Roma, in un metaforico Aventino e rivolgendo un appello al re perché varasse un nuovo governo in grado di provvedere a un effettivo ripristino della legalità. Nello stesso partito fascista la crisi rilanciò la polemica tra le due anime, quella eversiva, che manifestò il suo plauso al delitto, e quella legalitaria che disapprovava quei metodi. Alla fine di dicembre fu pubblicato il memoriale dello squadrista Cesare Rossi, che provava le responsabilità di Mussolini nel delitto. Le opposizioni non riuscirono però a sfruttare l'occasione propizia, invischiate nell'attesa paralizzante di un gesto del re, che non arrivò. L'obiettivo di isolare moralmente il fascismo e di costringere il re a risolvere la crisi si rivelò impraticabile e, di fatto, furono lasciati a Mussolini tutti gli strumenti del potere, mentre il timore di una sanguinosa guerra civile e l'attitudine legalitaria impedivano ai suoi oppositori di chiamare il popolo alla rivolta. La prima mossa toccò ancora una volta a Mussolini. Mussolini aveva avuto tutto il tempo per capire che gli "aventiniani" non avevano la forza per rovesciarlo, che il re non sarebbe intervenuto, che lo sdegno popolare si sarebbe attenuato. Il 3 gennaio 1925, alla riapertura delle Camere, Mussolini ruppe ogni indugio dichiarando: «Se il fascismo è stata un'associazione a delinquere io sono stato il capo di quell'associazione a delinquere», assumendosi così la piena paternità del delitto e la relativa responsabilità «politica, morale e storica». Era l'inizio vero e proprio del regime dittatoriale. Tre giorni dopo, il ministro degli Interni riferiva che erano stati chiusi novantacinque circoli politici, sciolte venticinque organizzazioni sovversive, chiusi centocinquanta esercizi pubblici: c'erano state seicentocinquantacinque perquisizioni, con centoundici arrestati. Per i partiti politici dell'opposizione era finita: il 24 novembre 1925 fu varata la nuova legge sul controllo di tutte le associazioni politiche "segrete"; i partiti sarebbero scomparsi, dichiarati ufficialmente illegali, un anno dopo. Le istituzioni del nuovo Stato totalitario furono costruite intorno a due principi cardine: l'edificazione del potere personale di Mussolini e la cancellazione delle libertà di cui avrebbero potuto beneficiare le opposizioni. Il 24 dicembre 1925 fu approvata la legge sulle attribuzioni e le prerogative del capo del governo, riconosciuto «organo precipuo attraverso il quale si estrinseca la sovranità dello Stato»; potendo emanare norme giuridiche senza dover chiedere l'approvazione delle Camere, il capo del governo non era quindi più responsabile dinanzi al Parlamento e dipendeva, formalmente, solo dal re. A questo accentramento autoritario del potere, corrispondeva la smobilitazione di tutti i centri periferici dell'autogoverno e delle autonomie locali. Il 4 febbraio 1926 furono aboliti i consigli comunali e i sindaci elettivi, sostituiti da podestà di nomina regia, mentre veniva rafforzata l'autorità dei prefetti nelle province. L'8 ottobre 1926, un nuovo statuto del PNF aboliva tutte le cariche elettive, così che le gerarchie del partito venivano determinate unicamente con le nomine dall'alto. Il 9 dicembre 1928, fu definitivamente "costituzionalizzato" il Gran Consiglio, al quale furono affidati compiti molto delicati, come il diritto esclusivo di avanzare proposte di legge riguardanti la successione al trono, i poteri del re e le attribuzioni del capo del governo. La legge 2008, — Provvedimenti per la difesa dello Stato —, discussa dal Consiglio dei ministri il 5 novembre 1926 ed entrata in vigore il 25 novembre 1926, completò questa prima costruzione delle fondamenta dello Stato totalitario: Il delitto Matteotti e l'Aventino Il discorso del 3 gennaio 1925 Il ruolo istituzionale di Mussolini La smobilitazione dei centri di potere periferici La restrizione delle libertà e il partito unico 85 fu soppressa la libertà di stampa, furono sciolti i partiti e le associazioni, dichiarati decaduti i "deputati dell'Aventino", fu istituito il confino di polizia. Il regime diventava a partito unico, lasciando il monopolio della rappresentanza politica al solo PNF. Al vertice della piramide repressiva fu collocato il Tribunale L’apparato repressivo speciale per la difesa dello Stato. Introdotto insieme alla pena di morte, il Tribunale avrebbe svolto con solerte efficienza i propri compiti. La sua composizione — era formato esclusivamente da giudici scelti tra ufficiali provenienti dal regio esercito, dalla regia marina, dalla regia aeronautica e dalla Milizia volontaria per la sicurezza nazionale —, la sua competenza, limitata ai più gravi delitti contro la personalità dello Stato, la sua distribuzione territoriale — era unico per tutto il regno e risiedeva a Roma — ne facevano una straordinaria macchina repressiva. Dopo il partito unico e le leggi di polizia, fu la volta della soppressione delle La soppressione delle libertà libertà sindacali. Una legge del 3 aprile 1926 lasciava in vita solo due sindacali confederazioni sindacali, una di imprenditori e una di lavoratori, affidate entrambe a dirigenti fascisti; nei conflitti sindacali venivano vietati gli scioperi (l'astensione dal lavoro da parte dei lavoratori) e la serrata (la chiusura degli stabilimenti da parte de- gli imprenditori), e per la loro risoluzione ci si affidava all'arbitrato di una speciale Magistratura del lavoro. Queste disposizioni furono riprese e ampliate nella successiva Carta del lavoro (21 aprile 1927), che affidava alle corporazioni (definite "organizzazioni unitarie delle forze di produzione" e che erano in realtà associazioni di categoria che riunivano insieme lavoratori e datori di lavoro) il compito di disciplinare e coordinare tutti gli aspetti dell'attività produttiva: il documento fu voluto soprattutto dal giurista Alfredo Rocco e riprendeva le linee della legge del 1926, ponendo come obiettivo «il benessere dei produttori e lo sviluppo della potenza nazionale». Lo stesso Rocco completò la sua opera di riorganizzazione legislativa dello Stato fascista con la riforma del Codice di diritto penale che portava il suo nome. Il fascismo degli anni Venti in economia In politica economica il fascismo oscillò fra un primo periodo liberista e un secondo (maturato pienamente negli anni Trenta) di forte intervento statale. La Il periodo liberista prima fase fu gestita dal ministro liberale Alberto De Stefani. Egli, rimuovendo i vincoli della precedente «economia di guerra», agevolò le privatizzazioni (dei telefoni, delle assicurazioni sulla vita, ecc.), detassò i capitali esteri per incoraggiare gli investimenti e abolì le imposte sui capitali delle banche e delle industrie. Questi provvedimenti giovarono soprattutto alle imprese esportatrici, che s'inserirono nel mercato internazionale allora in favorevole congiuntura. Attorno al 1925, però, l'andamento positivo del mercato europeo venne meno. Sul piano internazionale la più dinamica economia americana imponeva la sua egemonia e presto anche l'Italia ne subì i contraccolpi: le esportazioni si ridussero e la moneta si svalutò. Il liberismo fu abbandonato e venne inaugurata la nuova strategia «dirigista»: lo stato diventa protagonista e organizzatore dell'economia. Come prima misura dettata dal nuovo orientamento, Mussolini e il nuovo ministro delle Finanze, Giuseppe Volpi di Misurata, decisero di rivalutare la lira, che, La rivalutazione della lira, sottoposta ad attacchi speculativi, aveva un rapporto di cambio di 155 a 1 nei confronti della sterlina. Il nuovo cambio fu fissato unilateralmente a 90 lire per sterlina. Era la quotazione della lira del 1922, anno della «marcia su Roma», e la decisione fu propagandata con il termine militaresco «quota 90», che ricordava le battaglie in montagna della Grande guerra. La scelta provocò la crisi di vari settori industriali (per esempio il tessile e l'ortofrutticolo), diventati meno competitivi, ed espose il mercato italiano alla concorrenza straniera, attirata dalla rivalutazione della moneta. Questo provvedimento, oltre a difendere i ceti medi a reddito fisso, 86 tradizionale base sociale del fascismo, preparò una svolta strategica nell'economia Stato e gruppi industriali italiana. Iniziava, infatti, il «capitalismo di stato», che sarà l'aspetto saliente dell'economia italiana anche dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stato fascista privilegiava, in veste di acquirente e di finanziatore, gli interessi dei grandi gruppi industriali (auto, elettricità, chimica) e dell'industria pesante. A subire, invece, gli effetti negativi sia della crisi economica sia della svolta interventista dello stato fascista furono i lavoratori salariati: le perdite dei profitti all'estero, infatti, vennero recuperate con un aumento della produttività e una drastica riduzione dei salari operai e di quelli agricoli. La subordinazione del lavoro agli interessi del grande capitale fu un obiettivo del Il «corporativismo fascismo perseguito coerentemente anche sul piano legislativo: nel 1925, con il «Patto di palazzo Vidoni», la Confindustria decideva di riconoscere come controparte solo le «corporazioni nazionali» fasciste e di escludere da ogni trattativa le residue organizzazioni della Cgl e del sindacalismo cattolico; nel 1926 venne varata una legge che proibiva lo sciopero; e, nell'aprile 1927, fu promulgata la «Carta del Lavoro». In modi spesso maldestri e demagogici si tentò di affermare il «corporativismo» come terza via, un'alternativa fascista sia al capitalismo che al socialismo: abolendo ogni lotta di classe e rinunciando alle loro rappresentanze autonome (sindacati, Confindustria), gli imprenditori, i lavoratori e i tecnici, inquadrati in un unico organo statuale, la corporazione dei produttori, avrebbero dovuto subordinare i loro specifici interessi ai «superiori interessi della nazione». Di fatto, la politica economica fascista premiò costantemente gli interessi dei grandi gruppi industriali a spese di quelli dei lavoratori salariati. La scelta corporativa rimase però un'operazione di facciata ben poco efficace: solo dal 1934 le 22 corporazioni istituite ebbero compiti consultivi, alimentando per lo più burocrazie e clientele. Fascismo e chiesa cattolica: Patti lateranensi e plebiscito del 1929 L' 11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Gasparri, segretario dello Stato Vaticano, firmarono i Patti lateranensi. Si chiudeva così la «questione romana», apertasi nel 1870 con la conquista di Roma da parte del Regno d'Italia. I Patti lateranensi prevedevano un accordo diplomatico e un Concordato. Il primo concedeva piena sovranità al papato sulla città del Vaticano, in cambio del riconoscimento di Roma come capitale d'Italia, e un consistente risarcimento finanziario per la rinuncia allo Stato pontificio. Il secondo riconosceva il cattolicesimo come «religione di stato» e attribuiva alla chiesa cattolica rilevanti privilegi: piena libertà di culto, effetti civili del matrimonio religioso e insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole. Subito dopo la firma dei Patti lateranensi e anche grazie al rinnovato appoggio della chiesa cattolica, in occasione del plebiscito del 24 marzo 1929 (i cittadini dovevano dire «sì» o «no» a una lista unica), il fascismo ottenne i1 98% dei voti. La chiesa cattolica non era fascista, ma le due istituzioni, malgrado alcuni attriti, seppero utilizzarsi a vicenda; e, nel 1929, Patti lateranensi e appoggio al plebiscito a favore di Mussolini, confermarono un rapporto di convivenza fra fascismo e gerarchie della chiesa cattolica durato per tutto il ventennio, malgrado il disagio morale di molti cattolici. In ogni caso, la capacità di trovare una soluzione alla ormai vecchia questione della relazione con la chiesa permise al fascismo di aumentare il proprio prestigio, costituendo un tassello significativo della sua abile politica culturale nel rapporto con le masse. Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant'anni (il potere temporale), la Chiesa acquistò una posizione di indubbio privilegio nei rapporti I Patti lateranensi Il plebiscito del 24 marzo 1929 Il rapporto di convivenza fra fascismo e gerarchie della chiesa 87 con lo Stato — anche in materie importanti come l'istruzione e la legislazione matrimoniale — e rafforzò notevolmente la sua presenza nella società. Mantenendo intatta la rete di associazioni e circoli facente capo all'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica si assicurava un largo margine di autonomia operativa ed entrava in concorrenza col fascismo proprio nel settore che stava più a cuore al regime: quello delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa non si servi mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai suoi valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che di fatto si verificò nel secondo dopoguerra. Il fascismo degli anni Trenta e lo “stato-imprenditore” Gli anni Trenta sono il culmine dell'«età della catastrofe», secondo lo storico La crisi del ‘29 Hobsbawm, a causa della traumatica crisi economica internazionale del 1929, simboleggiata dal crollo della Borsa di Wall Street. Con un certo ritardo, la crisi arrivò anche nell'Italia fascista, ancora poco industrializzata e prevalentemente agricola. Colpite dalla crisi erano in particolare le grandi «banche miste» (Banca commerciale e Credito italiano) che, create alla fine dell'800 allo scopo di sostenere gli investimenti nell'industria, si erano trovate a controllare quote azionarie sempre più consistenti di importanti gruppi industriali. La caduta della borsa che si verificò anche in Italia in coincidenza con la grande crisi mise in grave difficoltà le banche, le quali, per sostenere il corso dei titoli, effettuarono nuovi massicci acquisti, aggravando così la loro esposizione. Il liberismo fu abbandonato e venne inaugurata la nuova strategia «dirigista»: lo La nuova strategia «dirigista» stato diventa protagonista e organizzatore dell'economia. Per far fronte alla crisi e salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne creando dapprima (1931) un istituto di credito pubblico (l'Imi, Istituto mobiliare italiano) col compito di sostituire le banche nel sostegno alle industrie in crisi e dando vita due anni dopo (1933) all'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri), dotato di competenze eccezionalmente ampie. Valendosi di fondi forniti in gran parte dallo Stato, l'Iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune fra le maggiori imprese italiane (fra le altre l'Ansaldo, l'Ilva e la Terni). Nei progetti originari, il compito dell'Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro «riprivatizzazione». Accadde invece che la riprivatizzazione risultò impraticabile (date le dimensioni delle imprese e i rischi connessi alla loro gestione) e l'Iri diventò, nel '37, un ente permanente. In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare, sia pur indirettamente, una Il capitalismo di stato in Italia quota dell'apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato (salvo naturalmente l'Urss): diventò cioè Stato-imprenditore oltre che Statobanchiere. Ciò non significa che l'Italia si avviasse verso un sistema di economia statalizzata, né che l'autonomia dell'insieme delle imprese capitalistiche fosse seriamente scalfita. Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l'intervento statale, che finiva con l'accollare alla collettività i costi della crisi industriale e bancaria. L'intervento statale portò a una progressiva subordinazione dell'agricoltura all'industria, ma avviò anche ambiziosi programmi di lavori pubblici che guadagnarono consensi al regime: la bonifica delle paludi pontine, la costruzione di nuove città (Littoria e Sabaudia), la ristrutturazione del centro di Roma, l'ampliamento della rete stradale, la costruzione dell'acquedotto pugliese. A partire dal '35, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese 88 militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò l'isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che per i settori interessati alle commesse belliche, quegli effetti positivi che il riarmo produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista. Cominciava per l'Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a prolungarsi senza soluzione di continuità fino al secondo conflitto mondiale. La politica estera del fascismo Fino ai primi anni '30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e spesso contraddittorie e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica estera, in una generica contestazione dell'assetto uscito dai trattati di Versailles: dunque appoggio alle velleità revisioniste dei paesi insoddisfatti (come Ungheria e Austria); polemica ricorrente contro le democrazie «plutocratiche», contrapposte, secondo una formula già cara ai nazionalisti, all'Italia «proletaria», ricca di popolazione ma povera di risorse; richiesta, mai precisata nei dettagli, di un nuovo equilibrio mediterraneo più favorevole all'Italia. Per tutti gli anni Venti, in politica estera il fascismo ebbe comunque un atteggiamento moderato. Scelse un comportamento amichevole verso Francia e Inghilterra. In cambio della restituzione di Fiume, riconobbe la Jugoslavia (gennaio 1924), e poi la stessa Unione Sovietica (7 febbraio 1924). Si mostrò ostile alla Germania, che intralciava le mire egemoniche di Mussolini sull'Austria. Nel 1932, la politica estera del regime cambiò. Mussolini costrinse il suo ministro degli Esteri, Grandi, un fascista moderato e filoinglese, a dimettersi dall'incarico, e assunse personalmente il ministero, iniziando una politica bellicista di espansione in Africa e nel Mediterraneo. La spinta alla guerra fu rafforzata dall'inasprimento dei conflitti economici internazionali in seguito alla crisi del 1929 e dalla vittoria in Germania di Hitler. Diventato il 30 gennaio 1933 cancelliere, il capo del nazismo, pur riconoscendo il proprio debito con il fascismo, dimostrò subito di essere un suo temibile concorrente. Infatti, nel luglio 1934 fece eliminare il cancelliere austriaco Dolfuss, alleato di Mussolini, che contava su di lui per esportare in Austria il suo modello di fascismo. Facendo leva sulle preoccupazioni di Francia e Inghilterra, la diplomazia fascista sottoscrisse con loro nella conferenza di Stresa (aprile 1935) una condanna del riarmo tedesco, chiedendo anche garanzie per l'indipendenza dell'Austria. L'accordo di Stresa fu la manifestazione più significativa di questa fase della politica estera fascista. Ma fu anche l'ultima. Mentre si accordava con le democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già preparando l'aggressione all'Impero etiopico, unico grosso Stato indipendente del continente africano. L'Etiopia dal 1923 era uno stato membro della Società delle Nazioni, legato da un patto di ventennale amicizia con l'Italia. Il governo fascista non esitò ad attuare nell'ottobre 1935 la sua invasione. A spingere Mussolini verso un'impresa di cui pochi in Italia sentivano la necessità, e che presentava costi economici e umani sproporzionati ai possibili vantaggi concreti, furono motivi di politica interna e internazionale. Con la guerra d'Etiopia Mussolini intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subìto dall'Italia nel 1896 con la sconfitta di Adua e mostrando che il suo regime poteva riuscire là dove la classe dirigente liberale aveva fallito. Ma voleva anche creare una nuova occasione di mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi economico-sociali del paese (in particolare la disoccupazione, che si manteneva su livelli piuttosto alti). Mussolini pensava inoltre di poter sfruttare la favorevole Anni venti: tra velleità revisionistiche e atteggiamento moderato Anni trenta: la politica bellicista L’aggressione all’Etiopia 89 congiuntura diplomatica creata dalla politica hitleriana, che rendeva l'amicizia dell'Italia più preziosa che in passato per le potenze occidentali. La guerra coloniale fu condotta dispiegando il massimo della potenza militare italiana per ottenere una facile e clamorosa vittoria. Contro 300.000 etiopi privi di armamenti moderni fu schierato, infatti, un esercito enorme (400.000 uomini, 10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 350 aerei). Fu autorizzato anche l'uso di gas asfissianti sia contro i combattenti che contro la popolazione civile. E il 9 maggio 1936 Mussolini ebbe quell'impero che secondo l'ideologia razzista del fascismo era un'estensione della nuova civiltà fascista a popoli inferiori. Vane furono le proteste in tutto il mondo contro l'invasione. L'Italia fu condannata dalla Società delle Nazioni come «stato aggressore» e sottoposta a «sanzioni» (blocco del commercio e della fornitura di materiali strategici). L'impresa coloniale in Etiopia portò all'isolamento internazionale dell’Italia e spinse il regime a lanciare con gran clamore la politica economica dell'«autarchia». Essa prevedeva misure protezionistiche e un enorme sforzo industriale per produrre in Italia le merci in precedenza importate. In realtà le sanzioni economiche non furono mai attuate per la mancata adesione di due potenze come la Germania, che era uscita dalla Società delle Nazioni, e gli Stati Uniti, che non vi erano entrati. Da un punto di vista economico, la conquista dell'Etiopia, paese povero di risorse naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l'Italia un peso non indifferente, aggravato dai problemi suscitati dalle sanzioni (poco efficaci militarmente, ma dannose per il commercio) e non compensato dai temporanei benefici arrecati all'industria dalla produzione bellica. Ma sul piano politico il successo fu clamoroso e indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni furono ritirate nell'estate del '36 e, successivamente, Gran Bretagna e Francia riconobbero l'Impero italiano in Africa orientale), Mussolini diede a molti la sensazione di aver conquistato per l'Italia uno status di grande potenza. L'irritazione di Mussolini contro Francia e Inghilterra e l'illusione di poter acquistare potere sullo scacchiere internazionale lo spinsero sempre più fra le braccia della Germania. L'Italia partecipò al suo fianco alla guerra di Spagna del 1936 in appoggio al golpista Franco, uscì dalla Società delle Nazioni nel 1937 e stabilì con il partner tedesco un rapporto privilegiato in campo economico e militare («asse Roma-Berlino») e politico (impegno nella lotta al «bolscevismo», cioè contro l'Urss). Si trattò di un'alleanza subordinata. Negli anni seguenti, infatti, Mussolini dovrà accettare l'annessione dell'Austria da parte della Germania (marzo 1938) e accodarsi all'antisemitismo hitleriano. Promulgò egli pure delle «leggi razziali» (autunno 1938). Il Patto d'acciaio (maggio 1939) tra Mussolini e Hitler ratificò definitivamente tale subordinazione. Esso non prevedeva neppure l'obbligo tra i due contraenti d'informarsi preventivamente e trascinò l'Italia militarmente impreparata nella tragedia della Seconda guerra mondiale. Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di conquiste e di confronti militari. Ciò implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei confronti della popolazione, in particolare della borghesia, intesa non tanto come classe sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita comoda, ricerca del profitto anteposta al perseguimento di ideali superiori) che doveva essere definitivamente estirpato dal costume nazionale. Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime sarebbe dovuto diventare più totalitario di quanto non fosse stato fin allora. Di qui scaturirono una serie di modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del ministero per la Cultura popolare all'accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana del littorio, dall'ampliamento delle funzioni del Pnf alla sostituzione, nel 1939, della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni dove, abolita ogni finzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cari- La politica economica dell'«autarchia» Le illusioni di Mussolini L’avvicinamento alla Germania: dall’asse Roma-Berlino al Patto d’acciaio La svolta totalitaria 90 che ricoperte negli organi di regime. A una medesima logica rispondevano alcune iniziative di carattere più che altro formale, e quasi folkloristico, che tuttavia possono dare un'idea del clima di quegli anni: la campagna contro l'uso del «lei» (considerato «servile» e poco italiano e da sostituirsi quindi col «voi») e contro tutti i termini stranieri; l'imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l'adozione del «passo romano» per conferire un aspetto più marziale alle sfilate militari. Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da La vergogna delle leggi raziali Mussolini fu l'introduzione, nell'autunno del 1938, di una serie di leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle grandi linee quelle naziste del '35, escludendo gli israeliti da qualsiasi ufficio pubblico, limitandone l'attività professionale e vietando i matrimoni misti. Preannunciata da un manifesto di sedicenti scienziati (che sosteneva l'esistenza di una «pura razza italiana» di origine ariana) e preparata da un'intensa campagna di stampa, la legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non aveva mai conosciuto — al contrario della Germania, della Russia e della stessa Francia — forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità ebraica era assai poco numerosa (circa 50.000 persone concentrate per lo più a Roma e nelle città del Centro-Nord) e complessivamente ben integrata nella società. Adottando queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale e di fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale. Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione (non vi furono in Italia episodi di violenza popolare contro gli ebrei), le leggi razziali suscitarono sconcerto o quanto meno perplessità nell'opinione pubblica e aprirono per giunta un serio contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle sue motivazioni biologico-razziali. In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni '30 per fare del regime fascista un totalitarismo «perfetto» e per trasformare gli italiani in un popolo guerriero ottenne risultati decisamente mediocri. 91 4. IL REGIME NAZISTA IN GERMANIA La repubblica di Weimar e la crisi della società tedesca dopo la Prima guerra mondiale La crisi del 1929 in Germania e la fine della repubblica di Weimar Hitler al potere La repubblica di Weimar e la crisi della società tedesca dopo la Prima guerra mondiale La Germania, appena uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, visse un Il dopoguerra e la repubblica di dopoguerra particolarmente difficile. Il 9 novembre 1918 il kaiser Guglielmo II Weimar aveva abdicato ed era fuggito. Nelle principali città il potere era nelle mani dei consigli degli operai e dei soldati legati ai socialisti. Le altre forze politiche, quelle della destra conservatrice ma anche quelle del Zentrum (Centro), composto la liberali e cattolici, apparivano deboli e disorientate. Per trovare una soluzione alla crisi politica, fu formato un governo provvisorio composto da sei commissari del popolo, tutti appartenenti all'ala moderata del Spd (Partito socialdemocratico tedesco). Subito fu scartata l'ipotesi di costruire una «repubblica socialista», come voleva la Lega di Spartaco, l’ala radicale dello stesso Spd 3. Nacque così la repubblica di Weimar (così fu chiamata dal nome della città dove fu convocata l'Assemblea costituente). Essa rimase in vigore fino al 1933, quando Hitler prese il potere, e Weimar divenne una capitale culturale di straordinaria vitalità (il grande architetto W. Gropius vi eresse, ad esempio, tra il 1919 e il 1925, il Bauhaus, uno dei fondamentali centri propulsori dell'architettura e dell'arte moderne). Fu una soluzione di compromesso, concordata fra Spd ed esercito: permise di avviare importanti risultati sul piano sociale (giornata lavorativa di otto ore, assistenza ai disoccupati, divieto dei licenziamenti arbitrari, suffragio universale maschile e femminile, ecc.), ma evitò qualsiasi ridimensionamento dei precedenti poteri (quello dell'esercito, guidato da generali conservatori, o quello degli industriali). La nuova repubblica si rivelò dunque fragile e incapace di convogliare il consenso dell'ala della sinistra più intransigente; mentre una destra 3 La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del movimento operaio tedesco: i rivoluzionari della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito comunista tedesco). Questi ultimi si opponevano infatti alla convocazione della Costituente e puntavano tutto sui consigli, visti come cellule costitutive di una nuova «democrazia socialista». Gli spartachisti erano però consapevoli di essere nettamente minoritari, anche all'interno dei consigli operai, e avrebbero evitato volentieri un'immediata prova di forza contro i socialdemocratici. Fu l'iniziativa spontanea delle masse della capitale a spingerli verso lo scontro. II 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la destituzione di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia della capitale. I dirigenti spartachisti e alcuni leader «indipendenti» decisero allora di approfittare di questa mobilitazione di massa e diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. Ma la risposta del proletariato berlinese fu inferiore alle aspettative. Durissima fu invece la reazione del governo socialdemocratico che affidò l'incarico di fronteggiare la rivolta al commissario alla Difesa Gustav Noske. Questi, non potendo contare su un esercito efficiente, si servì per la repressione di squadre volontarie (i cosiddetti Freikorps, ossia «corpi franchi») formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di orientamento nazionalista e conservatore. Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue l'insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi. 92 forte e radicale si opponeva alla sua politica riformista. Alle elezioni del 1920 l'opposizione di sinistra ottenne il 20% dei consensi; quella di destra il 28%: le basi sociali del riformismo weimariano apparivano assai incerte. La fragilità della repubblica di Weimar, oltre che dallo scontro civile fra socialdemocrazia e spartachisti, era aggravata anche dalle umilianti condizioni imposte alla Germania sconfitta secondo le quali il paese avrebbe dovuto privarsi, per quasi mezzo secolo, di un quarto del suo prodotto nazionale per pagare i debiti di guerra. I governi di coalizione che si succedettero fra il '21 e il '23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni; ma, per non rendersi ulteriormente impopolari agli occhi di un'opinione pubblica già esasperata, evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: quindi furono costretti ad aumentare la stampa di carta-moneta. Il risultato fu che in pochi mesi il valore del marco precipitò a livelli impensabili (5 milioni di marchi per un dollaro in luglio, 200 miliardi in settembre, 4000 miliardi in novembre) e il suo potere d'acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare 400 miliardi, un chilo di burro 5000. Le conseguenze di questa polverizzazione della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto (un milione, un miliardo, cento miliardi e così via). Dall’inflazione furono colpiti duramente i lavoratori salariati, ma anche l'intero ceto medio (dipendenti pubblici a reddito fiso, piccoli risparmiatori, pensionati, piccoli imprenditori, ecc.), trascinato improvvisamente nella miseria. Se ne avvantaggiarono invece i proprietari di immobili e i grandi gruppi industriali (l'inflazione azzerava i loro debiti presso banche o privati). La società tedesca si polarizzava: i ceti medi si declassavano, avvicinandosi alle temute condizioni di vita del proletariato, anch'esso tra l'altro sempre più disgregato - massificato, e la ricchezza si concentrava nelle mani dei grandi gruppi industriali, i cartelli chimici (IG Farben), elettromeccanici (Philips) o siderurgici (Krupp). Le sanzioni scaturite dalla pace di Versailles vennero denunciate da una virulenta campagna propagandistica delle forze di destra. Esse, tacevano le responsabilità tedesche sull’avvio della Prima guerra mondiale, accusavano i socialisti di essere i responsabili sia della sconfitta militare che dell'accettazione di una pace umiliante e, inoltre, attaccavano gli ebrei (gli «affaristi ebraici»), indicati quali colpevoli del disastro economico. Intanto molti ex ufficiali e sottufficiali, frustrati dalla smobilitazione imposta all'esercito tedesco, aderivano ai Freikorps (`corpi franchi', formazioni militari), che ormai operavano senza il controllo del governo, uccidendo più di 350 persone in attentati terroristici. È in quest'area operava anche la piccola formazione di estrema destra del Partito operaio tedesco, poi rinominata National Sozialistische Deutsche Arbeiter Partei (Nsdap, Partito operaio tedesco nazionalsocialista) di Adolf Hitler, che nel 1921 si dotava di un apparato militare, le Sa (Sturm Abteilungen, `sezioni d'assalto') o «camicie brune». Affascinato da Mussolini, nel 1923 Hitler tentava un putsch (rivolta) a Monaco in Baviera. La grande inflazione del '23 avevano comunque lasciato segni profondi nella società tedesca, infatti la classe dirigente tedesca si spostò su posizioni sempre più conservatrici e le grandi potenze capitalistiche occidentali si impegnarono per evitare che la crisi tedesca potesse provocare ripercussioni internazionali destabilizzanti. Una vera stabilizzazione infatti non sarebbe stata possibile senza un accordo con i vincitori sulle riparazioni. L'accordo fu trovato, all'inizio del 1924, sulla base di un piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G. Dawes. Il piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la sua macchina produttiva: prevedeva quindi che l'entità delle rate da pagare fosse graduata nel tempo e che la finanza internazionale, in particolare quella Le conseguenze delle sanzioni internazionali e il rafforzamento delle forze di destra La svolta conservatrice della repubblica 93 statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga scadenza. Due governi, quello del conservatore Stresemann e del cattolico Wilhelm Marx, si posero l'obiettivo della stabilità politica e monetaria della Germania di Weimar. Questi provvedimenti favorirono la ripresa economica, ma a prezzo di altre scelte antipopolari. Le forze conservatrici riprendevano il controllo del paese: nel 1925, dopo la morte di Friedrich Ebert, presidente dal 1919 al 1925, fu eletto presidente un tipico esponente del conservatorismo tedesco, il maresciallo Hindenburg. La sua elezione fu favorita anche dalla mancata alleanza fra moderati e comunisti (questi presentarono infatti un loro candidato). La Germania tornava a essere un paese fortemente industrializzato, con un proletariato esteso, un nuovo ceto medio più moderno e ristretto (impiegati d'alto livello, funzionari, manager) e una potente borghesia. La ristrutturazione industriale aveva ridotto il numero degli operai professionalizzati e sindacalizzati (base tradizionale della socialdemocrazia), facendo emergere un proletariato dequalificato e politicamente più instabile. La socialdemocrazia, che aveva nel 1919 sottoscritto il compromesso con esercito e industriali e aveva eliminato le spinte rivoluzionarie alla sua sinistra, si trovò sempre più in difficoltà, mentre le organizzazioni del movimento operaio continuavano a declinare. La crisi del 1929 in Germania e la fine della repubblica di Weimar di Weimar Su questa Germania socialmente e politicamente impoverita ma in ripresa economica, si abbatté la crisi mondiale del 1929; essa scatenò processi sociali incontrollabili, che portarono alla paralisi del sistema politico e all’ascesa travolgente del nazionalsocialismo, il quale fino ad allora era stato una forza del tutto minoritaria nella società tedesca. «Fu la Grande crisi a trasformare Hitler da personaggio ai margini della scena politica nel padrone potenziale, e infine effettivo, del paese» (Hobsbawm). L'avanzata dei nazisti e il complementare disfacimento della debole e impopolare democrazia di Weimar avvennero in tre fasi. Gli storici le hanno così indicate: 1) la «crisi di efficienza» del governo di Heinrich Brüning (1930-32); 2) la «crisi d’autorità» dei governi di Franz von Papen e Kurt von Schleicher (1932-33); 3) la «presa del potere» da parte di Hitler (1933). La «crisi di efficienza» del governo di H. Brüning (1930-32). La crisi del 1929 aumentò di colpo la disoccupazione in Germania. Il numero dei senza lavoro raggiunse i sei milioni, la produzione industriale crollò, diminuirono le entrate fiscali. Il governo di centro-sinistra del socialdemocratico Hermann Muller, in carica dal 1928, non riuscì a gestire una credibile politica sociale e nel 1930 si dimise. Allora il presidente Hindenburg nominò cancelliere Brüning, leader del Zentrum gradito alla destra conservatrice. In due giorni questi formò il nuovo governo, inaugurando una pratica di gestione extraparlamentare della crisi, divenuta poi consuetudine. Egli però non aveva la maggioranza in parlamento. Costretto a chiedere appoggi ora a destra ora alla Spd, governò aggirando il controllo del parlamento. Ma la politica economica di Brüning restò lo stesso contraddittoria e debole, aggravando l'indebitamento dello stato. Né seppe opporsi alla propaganda della destra e al rafforzamento delle Sa, che continuavano le loro aggressioni criminali contro gli avversari politici. Le elezioni del settembre 1930 segnarono il suo fallimento: invece di rafforzare il suo governo, come Brüning sperava, le elezioni indebolirono tutti i partiti del centro (Spd, Zentrum, liberaldemocratici e liberalnazionali) che non superarono il 47% dei seggi. La «crisi d'autorità» dei governi di Franz von Papen e Kurt von Schleicher (193233). Mentre Brüning e i suoi sostenitori (il «fronte di Brüning») s'indebolivano, la Germania era sempre meno governabile. La crisi economica radicalizzava le mas- La crisi del ’29 e la salita al potere di Hitler: le fasi 1 - La «crisi di efficienza» del governo di Heinrich Brüning (1930-32) 2 - La «crisi d'autorità» dei governi di Franz von Papen e Kurt von Schleicher (1932-33) 94 se degli elettori e le spingeva a votare i partiti estremi: nazionalsocialisti e comunisti. Ne trasse vantaggio soprattutto il partito nazionalsocialista di Hitler. Esso riuscì ad ampliare le sue alleanze, trascinando con sé gli altri partiti di destra, la «destra nobile» (alcuni principi, alti ufficiali) e i rappresentanti della grande finanza e dell'industria pesante, nel cosiddetto «fronte di Harzburg» (l'11 ottobre 1931, a Bad Harzburg, queste forze tennero una grande adunata dimostrativa). Si arrivò così alle presidenziali dell'aprile 1932: l'ultraottuagenario Hindenburg, votato persino dai suoi tradizionali avversari socialdemocratici, ottenne il 53% dei voti, Hitler circa il 37% e il candidato comunista appena il 10%. Poco dopo Hindenburg, senza per nulla rispettare il mandato del suo elettorato, costrinse Brüning dimettersi e lo sostituì con un proprio uomo di fiducia, il maggiore di cavalleria Franz von Papen cattolico e vicino alla destra agraria tedesca. Il governo von Papen durò sette mesi. Alle elezioni del luglio 1932, richieste esplicitamente da Hitler per decidere se appoggiare o meno il governo dall'esterno, il partito nazionalsocialista ottenne la maggioranza relativa con il 37,4% e 230 seggi in parlamento. Hitler allora respinse sdegnato la carica di vicecancelliere offertagli da von Papen e pretese tutto il potere. Dopo una temporanea sostituzione di von Papen con il generale Kurt von Schleicher, altro collaboratore di Hindenburg ed esponente della medesima ala conservatrice dell'esercito, il 30gennaio 1933 Hitler fu nominato cancelliere. Come nel caso di Mussolini nell'Italia del 1922, il governo di coalizione di Hitler, oltre a due ministri nazisti, comprendeva esponenti dei partiti conservatori e dell'esercito e molti s'illusero che le nuove responsabilità di governo avrebbero «normalizzato» il nazismo. Hitler al potere Hitler ristrutturò rapidamente lo stato secondo i criteri del nazismo. Sciolse il parlamento e indisse nuove elezioni per il 5 marzo del 1933. Creò anche un corpo di polizia ausiliaria di fedelissimi del partito. Epurò sistematicamente la pubblica amministrazione e fece chiudere più di 150 giornali d'opposizione. Inoltre le Sa ebbero mano libera contro gli oppositori di sinistra e di centro da Herman Goering, allora ministro dell'Interno della Prussia. Quando poi il 27 febbraio 1933, a pochi giorni dal voto, fu appiccato un incendio al Reichstag (sede del parlamento tedesco), Hitler ne attribuì la responsabilità ai comunisti (solo più tardi fu provata la responsabilità di un olandese isolato), e, denunciando un presunto tentativo di insurrezione, sospese i diritti fondamentali e fece arrestare oltre 4.000 militanti comunisti. Le elezioni del 5 marzo 1933, svoltesi in un clima d'intimidazione, diedero il 43,9% al Partito nazionalsocialista, che, insieme all'8% dei voti del Partito nazionale tedesco, aveva ormai la maggioranza assoluta. Messo fuori legge il partito comunista, contro Hitler votarono in parlamento solo i 94 deputati socialisti. Nessuno più tentò di ostacolarlo politicamente: fu una capitolazione senza lotta. Anche il potente sindacato socialdemocratico - che, sperando di salvare il suo apparato, aveva accettato di partecipare alla manifestazione governativa del 1° maggio - vide il giorno dopo tutte le sue sedi occupate e i suoi dirigenti arrestati. Il 14 luglio 1933 tutti i partiti erano posti fuori legge. Hitler poté così vantarsi di averli annientati ed estirpati dal popolo tedesco. La costruzione dello stato totalitario nazista passò anche attraverso l'eliminazione fisica di esponenti del Partito nazionalsocialista. Quelli fra loro che più avevano preso sul serio la componente «socialista» del partito e usato un linguaggio accesamente anticapitalista, ora che il potere era conquistato s'illusero di poter realizzare una «seconda rivoluzione» nazionalizzando interamente l'economia o 3 - La «presa del potere» da parte di Hitler (1933) La costruzione dello stato totalitario «La notte dei lunghi coltelli» 95 addirittura integrando l'esercito tedesco nelle Sa. Ma, nella notte del 30 giugno 1934 («la notte dei lunghi coltelli»), l'intero stato maggiore delle Sa di Ernst Röhm fu convocato con un espediente e massacrato da reparti di Ss, le formazioni militarizzate del Partito nazista. Questa drastica epurazione nello stesso partito di Hitler tranquillizzò definitivamente esercito e industria. E il 2 agosto 1934, morto Hindenburg, abolendo il titolo di Presidente della repubblica, Hitler poté autonominarsi Fiihrer e cancelliere (Reichkanzler). Era solo a lui che i soldati giuravano fedeltà e lui solo poteva legiferare. Lo stato come emanazione diretta della volontà del suo capo (secondo la formula nazionalsocialista «un unico popolo, un unico movimento, un unico Führer») diventava una realtà, mentre i ministeri più importanti passavano tutti in mano nazista. Contemporaneamente, fin dai primi giorni della presa del potere, era cominciata La persecuzione antisemita sistematica quella persecuzione antisemita tanto spesso annunciata dalla propaganda nazista, e che assumerà con il tempo e soprattutto durante la Seconda guerra mondiale le forme del genocidio razzista. La discriminazione fu ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga che tolsero agli ebrei la parità dei diritti conquistata nel '48 e proibirono i matrimoni fra ebrei e non ebrei (largamente diffusi nella Germania prenazista). Alla discriminazione «legale» si accompagnava una crescente emarginazione dalla vita sociale: il che spinse molti ebrei — circa 200.000 fra il '33 e il ’38 ad abbandonare la Germania. La persecuzione anti-semita subì un'ulteriore accelerazione a partire dal novembre 1938, quando, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la Germania. Quella fra 1'8 e il 9 novembre '38 fu chiamata «notte dei cristalli» per via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che furono infrante dalla furia dei dimostranti. Ma vi furono conseguenze ben più gravi: sinagoghe distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei uccisi e migliaia arrestati. Il regime di Hitler affrontò la crisi economica con misure militari e tecniche La politica economica, sociale e efficaci, che colpirono enormemente l'opinione pubblica. Fu attuato un imponente militare del Terzo Reich programma di lavori pubblici (soprattutto autostrade e canali). Fu imposto il lavoro coatto a decine di migliaia di disoccupati e fu rilanciata la produzione industriale di automobili. L'intervento dello stato nell'economia non divenne però mai predominante. S'intrecciò invece saldamente con il sistema privato, tanto che al vertice della burocrazia statale si ritrovavano spesso alti esponenti di imprese private. Anche il lavoro delle campagne fu riorganizzato secondo l'ideologia ruralista e razzista del partito: un terzo delle fattorie, per esempio, doveva appartenere a tedeschi «purosangue». Ma a determinare la ripresa economica tedesca fu soprattutto il massiccio sforzo che Hitler compì per riarmare la Germania, contravvenendo alle clausole del Trattato di Versailles. Così, in breve tempo, la Germania raggiunse la piena occupazione: i circa sei milioni di disoccupati del 1933 si ridussero a un milione nel 1936, e nel 1938 l'industria tedesca dichiarò un deficit occupazionale di circa un milione di lavoratori, mentre i salari (almeno della manodopera specializzata) aumentavano. Hitler non si preoccupò, come i precedenti governi, di pareggiare il bilancio né di procurare la copertura finanziaria per le enormi spese richieste da questa politica di riarmo: il bilancio dell'esercito, che era del 4% nel 1933, salì al 18% nel 1934, al 39% nel 1936 e toccò il 50% nel 1938. Sempre nel 1938 i debiti del Terzo Reich raggiunsero i 57 miliardi di marchi. I suoi creditori internazionali, dichiarando più o meno in buona fede che i «favori» da loro concessi alla Germania le avrebbero evitato avventure belliche, non posero mai vincoli alla concessione di prestiti. E Hitler, forte del consenso popolare e del sostegno dei grandi gruppi economici mondiali, poté rafforzare l'industria pesante e quella chimica in alcune zone chiave del territorio tedesco e collegare Berlino ai nuovi centri industriali con una gigantesca rete viaria, che gli servirà poi per il rapido spostamento delle truppe durante le guerre di conquista. 96 5. VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE La crisi del ’29 e l’instabilità politica degli anni trenta Alla vigilia della Seconda guerra mondiale La crisi del ’29 e l’instabilità politica degli anni trenta Le conseguenze della crisi del ’29 non investirono solo le strutture economiche (il Le conseguenze della crisi del mercato e la produzione) e istituzionali (lo Stato) del capitalismo. Ne risentirono ’29: l’instabilità politica tra anche gli equilibri politici e le formule governative dei vari Paesi. fascismo e Fronti popolari A parte la Germania, in cui la crisi fu determinante per la salita al potere di Hitler, anche negli altri paesi europei nelle lacerazioni aperte dalla crisi affiorarono pulsioni incontrollabili, che rilanciavano il fascino seduttivo della violenza ereditato dalla Prima guerra mondiale. Furono soprattutto i movimenti di estrema destra a sfruttare questo clima incandescente. In Francia, proprio a partire dal 1929, si delineò la virulenta presenza dell'Action Française, diretta da Charles Maurras, che opponeva ai simboli della tradizione rivoluzionaria (libertà, uguaglianza, fraternità) quelli del nuovo fascismo (ordine, autorità, nazione). La strategia politica dei partiti del movimento operaio venne invece determinata dalla svolta che si registrava in quegli anni nella politica estera dell’URSS. Fino al '33 la sua politica estera si era ispirata a una linea dura e spregiudicata: rifiuto dei trattati di Versailles, nessuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie borghesi. I successi di Hitler, che non aveva mai fatto mistero di quali fossero i suoi progetti nei confronti della Russia, indussero Stalin a modificare radicalmente le precedenti impostazioni. Nel settembre '34 l'Urss entrò nella Società delle nazioni e nel maggio '35 stipulò un'alleanza militare con la Francia. Questa brusca svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido capovolgimento della linea seguita dal Comintern e dai partiti comunisti europei. Fu improvvisamente accantonata la tattica della contrapposizione frontale nei confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora delle socialdemocrazie (già accusate di favorire «oggettivamente» il fascismo o addirittura di costituire «un'ala del fascismo», da cui l'espressione polemica socialfascismo): tattica che tanto aveva contribuito a isolare il movimento comunista e a spianare la strada al nazismo in Germania. La nuova parola d'ordine, lanciata ufficialmente nel VII congresso del Comintern (Mosca, agosto 1935) fu quella della lotta al fascismo, indicato ora come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il compito di riallacciare i rapporti non solo con gli altri partiti operai, ma anche con le forze democratico-borghesi, di favorire ovunque possibile la nascita di larghe coalizioni dette fronti popolari (dove l'aggettivo stava a indicare il passaggio in secondo piano degli obiettivi più propriamente socialisti), di appoggiare i governi democratici decisi a combattere il fascismo. L'avvicinamento fra l'Urss e le democrazie e il rilancio della politica di sicurezza collettiva non bastarono a fermare, nel '35, l'aggressione dell'Italia fascista all'Etiopia; né poterono impedire che, nella primavera del '36, Hitler violasse un'altra clausola di Versailles reintroducendo truppe tedesche nella Renania «smilitarizzata». Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta dopo la grande rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra l'opportunità di assumere il governo nelle democrazie occidentali. Nel febbraio 1936, una coalizione di fronte popolare comprendente anche i comunisti vinse le elezioni politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno, in Francia il netto successo 97 elettorale delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo composto da radicali e socialisti, sostenuto dall'esterno dai comunisti e presieduto dal socialista Léon Blum. In Francia gli effetti della crisi erano giunti più tardi e in parte attenuati, ma il Il Fronte popolare in Francia livello di stabilità istituzionale ne era stato comunque investito in pieno. Dopo il ritiro di Raymond Poincaré (1929), alla guida del governo erano andati esponenti conservatori poi, tra il 1932 e il 1938, si susseguirono coalizioni di partiti eterogenee e diverse; nel 1932, le elezioni fecero registrare la vittoria delle sinistre e due successivi governi in cui erano i radicali ad avere la maggioranza; a questi subentrarono due governi di "unione nazionale" (coalizione di tutti i parti ti tranne le sinistre) e, nel 1936, il Fronte popolare: l'alleanza di tutte le forze di sinistra (comunisti e socialisti compresi) formò il governo capeggiato da Léon Blum (1936-1937). Proprio in questo periodo, con gli accordi sindacali di Palais Matignon (7 giugno 1936), si vararono i provvedimenti più significativi per attenuare gli effetti sociali della crisi: riconoscimento dei contratti collettivi di lavoro e dei diritti sindacali; maggiorazione dei salari più bassi del 15%, dei più alti del 7%; istituzione dei delegati operai negli stabilimenti con più di dieci dipendenti; orario di lavoro fissato a quaranta ore settimanali, con due settimane di ferie all'anno. Quello del Fronte popolare fu però un intermezzo di breve durata. Ampi strati della popolazione, soprattutto tra i ceti medi urbani, manifestavano apertamente la propria insofferenza per la democrazia parlamentare, giudicata corrotta e inefficiente, lasciandosi sedurre dal miraggio di soluzioni autoritarie. Le forze di sinistra erano a loro volta divise: i comunisti premevano su Blum per rendere più incisiva la sua azione governativa, mentre molto più cauti sulla via delle riforme erano i radicali. Il Fronte popolare era così due volte debole: per i dissidi interni alla sua coalizione e per la pressione di uno schieramento di opposizione in cui si riconosceva tutto il blocco economico dominante. Lo "sciopero del capitale", come allora fu definita la scelta del grande padronato di esportare i capitali all'estero e bloccare gli investimenti, diede a Blum il colpo di grazia (si dimise nel giugno 1937). Nel 1938, il nuovo governo Daladier sconfessò gli accordi di Matignon. I partiti di sinistra erano allo sbando e il sindacato dei socialisti e dei comunisti, la CGT (Confederation Generale du Travail), si frantumò, perdendo oltre metà dei propri iscritti. Nella Spagna, dominata dal latifondo e da poche isole di sviluppo industriale, un La Guerra civile spagnola forte conflitto di classe, che aveva già portato nel 1931 all'esilio volontario del re (1936-39) e alla proclamazione della repubblica, arrivò al suo culmine, dopo la vittoria alle elezioni del 1936 del cosiddetto «Fronte popolare», composto dalle sinistre (repubblicani, socialisti, comunisti). Il suo programma di governo era abbastanza moderato; ma la destra spagnola (grandi proprietari e mondo cattolico conservatore) rifiutò il risultato elettorale, si unificò attorno alla Falange, un partito di tipo fascista fondato nel 1933 dal generale Primo de Rivera, e ricorse ad azioni terroristiche, minacciando il colpo di stato. Nei mesi successivi, mentre il governo delle sinistre si rivelava debole e diviso e in tutto il paese si svolgevano disordinatamente scioperi, occupazioni di terre e di fabbriche e azioni violente contro i rappresentanti più odiati del precedente regime, la chiesa e gli antichi proprietari terrieri, un gruppo di ufficiali a capo dell'esercito di stanza in Marocco, capeggiati dai generali conservatori Francisco Franco ed Emilio Mola, si sollevò contro la legittima repubblica, occupando l'Andalusia e iniziando la guerra civile. Le ripercussioni sul piano internazionale furono immediate: Franco ottenne aiuti sostanziosi da Hitler e da Mussolini. L'Urss sostenne le Brigate Internazionali di volontari filo repubblicani; reparti volontari composti in buona parte da comunisti ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi (fra questi non pochi intellettuali di prestigio, come l'americano Hemingway, il francese Malraux, l'inglese Orwell). Le potenze democratiche, invece, scelsero o l'equidistanza (gli 98 Usa, per esempio, posero l'embargo contro entrambi i belligeranti) o l'ipocrita politica del "non intervento" del primo ministro francese, Blum, il quale fece anche chiudere le frontiere del suo paese con la Spagna su pressione del governo inglese. La Repubblica spagnola, malgrado le simpatie suscitate a livello internazionale soprattutto fra intellettuali e artisti democratici, si ritrovò perciò isolata, mentre le forze antifranchiste furono dilaniate da scontri interni. Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo (duce, condottiero), si guadagnava l'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, dell'aristocrazia terriera e di buona parte della borghesia moderata e realizzava l'unità di tutte le destre in un partito unico chiamato Falange nazionalista (ma con i veri falangisti ridotti in posizione subalterna), il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora spaventati dagli eccessi di violenza cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici. Mentre i nazionalisti mettevano in piedi nei loro territori uno Stato dai chiari connotati autoritari, i repubblicani si scontravano fra loro sull'organizzazione presente e futura della società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente grave era il contrasto che divideva gli anarchici — insofferenti di qualsiasi disciplina militare e di ogni compromesso politico - dagli altri partiti della coalizione: a cominciare dai comunisti, favorevoli — in omaggio alla strategia dei fronti popolari — a una linea relativamente moderata, tale da non rompere l'unità con le forze democratico-borghesi. Il contrasto assunse toni drammatici soprattutto nella primavera del '37, quando, a Barcellona, gli anarchici si scontrarono armi in pugno con i comunisti e l'esercito regolare repubblicano. Nell'autunno del 1937, tutto il nord-ovest della Spagna passò sotto il controllo dei franchisti. Tra gennaio e marzo del 1939 cadevano Barcellona Madrid, le due roccaforti della repubblica. A guerra conclusa, il vincitore Francisco Franco continuò indisturbato la repressione, procedendo alla cosiddetta «feroz matanza» (feroce massacro). Furono eliminati fisicamente 200.000 antifascisti, mentre altre centinaia di migliaia ebbero condanne a pene varie e 300.000 furono costretti all'esilio. In quello stesso 1939, che vide la fine della Repubblica spagnola, a Franco giunse non solo il riconoscimento delle democrazie europee, ma anche la benedizione da parte del nuovo papa Pio XII. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale La Conferenza di Versailles doveva in teoria garantire un futuro di pace in Europa. Fu subito chiaro, invece, che punendo la Germania e deludendo alcuni paesi dell'Intesa, come l'Italia e il Giappone, le cui mire espansionistiche erano state sacrificate, aveva creato nuove occasioni di conflitto. Innanzitutto tra paesi vincitori e paesi vinti. E, infatti, prima ancora dell'affermarsi di regimi fascisti in Europa e in Giappone, gli stati sconfitti (soprattutto la Germania) si mossero per una revisione del Trattato di Versailles, suscitando le reazioni degli stati vincitori (in particolare la Francia), contrari a ogni aggiustamento. Ma nuove tensioni si ebbero fra le stesse potenze vincitrici, specie fra le due più grandi, Francia e Inghilterra. La Francia pretese un ruolo egemonico sul continente; e l'Inghilterra ne controbilanciò puntigliosamente il peso politico, spalleggiando le rivendicazioni della Germania. Anche l'Italia, potenza vincitrice ma insoddisfatta e dal 1922 retta dal fascista Mussolini, sostenendo ambiguamente ora la Francia (fino al 1924) ora l'Inghilterra (fino alla guerra d'Etiopia del 1935), alimentò l'incertezza politica europea. Restavano infine irrisolte per tutti gli Stati europei le questioni economiche, aggravatesi con la Prima guerra mondiale. Nel modo di affrontarle, apparve chiaro il limite politico degli stati-nazione del Vecchio continente. Ciascuno di Il trabocchetto del Trattato di Versailles Le tensioni fra i vincitori della Prima guerra mondiale I limiti politici degli statinazione 99 essi, infatti, privilegiò caparbiamente il proprio interesse nazionale, quando per favorire la ripresa economica sarebbe stata necessaria una maggiore collaborazione. La volontà di realizzarla mancò ai governanti europei; come mancò agli Usa, che si rifiutarono di concedere loro l'annullamento dei debiti di guerra contratti durante il precedente conflitto e imposero rigidamente il libero scambio, subordinando così le economie dei Paesi europei al loro più potente sistema produttivo. Nonostante queste tensioni, tuttavia, nel corso degli anni Venti non erano mancati segnali favorevoli a un clima di pace, con accordi sui confini contesi (soprattutto quelli meridionali e orientali della Germania). La svolta bellicista si profilò all’inizio degli anni trenta, in coincidenza non casuale con i pesanti effetti della crisi economica del 1929. Dapprima la guerra s'affacciò su terre lontane dall'Europa. Nel febbraio 1932, infatti, il Giappone aggredì la Manciuria cinese e impose nella regione un suo governo fantoccio. Ma tre anni dopo fu una nazione europea, l'Italia fascista, a creare un secondo focolaio di guerra. Mussolini, che si era presentato in politica estera come un politico ambiguo, fautore ora della pace stabilita alla Conferenza di Versailles ora della revisione dei trattati là sottoscritti, superò le sue incertezze: il 3 ottobre 1935 iniziò una guerra spietata, inutile e costosa contro l'Etiopia. La palese impotenza della Società delle Nazioni, che comminò all'Italia sanzioni formali e inefficaci, lo indusse a insistere in una politica aggressiva e a legarsi ben presto alla Germania nazista, stipulando un'intesa con Hitler, l'asse Roma-Berlino (ottobre 1936). Si trattava di un'intesa formale e non di una vera e propria alleanza, ma indicava la propensione dell'Italia fascista a seguire in politica estera il bellicoso esempio nazista. Nello stesso anno si accese poi in Europa il terzo focolaio di guerra: la guerra civile in Spagna. I passi determinanti verso la guerra in Europa vennero compiuti però soprattutto dalla Germania nazista. Hitler, infatti, uscita la Germania dalla Società delle Nazioni, annunciò nel 1935 la reintroduzione della coscrizione obbligatoria (preclusa ai tedeschi dagli accordi di Versailles) e penetrò nel marzo 1936 con le sue truppe nella Renania, che secondo gli accordi doveva restare smilitarizzata. Nel marzo del 1938, poi, occupò con un atto di forza l'Austria; e il 10 aprile dello stesso anno un plebiscito sanzionò l'Anschluss, l'annessione dello Stato austriaco all'Impero tedesco, che fu accettata prima da Mussolini e poi dalla stessa Gran Bretagna. Alle mosse bellicose della Germania nazista le grandi potenze democratiche europee risposero a lungo con la cosiddetta politica di appeasement, una politica basata sul presupposto che fosse possibile «ammansire» Hitler accontentandolo nelle sue rivendicazioni più «ragionevoli» e risarcendo in qualche modo la Germania del duro trattamento subìto a Versailles. Il presupposto era fondamentalmente sbagliato, visto che i programmi di Hitler non erano affatto «ragionevoli». Ma l'idea dell'appeasement, portata avanti soprattutto dal primo ministro inglese Chamberlain riscosse ugualmente notevole successo perché rispondeva a una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell'opinione pubblica inglese, incline al pacifismo. La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain venne da un'esigua minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill. Questi sostenevano che l'unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di affrontare subito una guerra. La Francia, che restava almeno sulla carta la prima potenza militare d'Europa, alle presa con i problemi di stabilità interna si adattò a una politica timida e oscillante, sostanzialmente subalterna a quella della Gran Bretagna. E ciò consentì alla Germania di cogliere una serie di grossi successi senza nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di ricostituzione. Esemplare della condiscendenza delle potenze europee fu l’atteggiamento delle potenze europee a riguardo della questione dei sudeti. La questione austriaca si era appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione anch'essa Anni Trenta: i primi venti di guerra Le prime iniziative hitleriane La politica di appeasement La questione dei sudeti 100 fondata su motivi etnici: quella riguardante i sudeti, ossia gli oltre tre milioni di tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia. Hitler mirava apertamente all'annessione della regione dei Sudeti e alla distruzione dello Stato cecoslovacco e il governo inglese si mostrò ancora una volta propenso ad accontentare Hitler in quella che avrebbe dovuto essere la sua «ultima richiesta». Due volte, nel settembre del '38, Chamberlain volò in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso. Alla fine di settembre, quando ormai l'Europa si stava preparando a una guerra che sembrava inevitabile, Hitler accettò la proposta di un incontro fra i capi di governo delle grandi potenze europee (Russia esclusa), lanciata in extremis da Mussolini su suggerimento dello stesso Chamberlain. Nell'incontro, che si svolse a Monaco di Baviera il 29-30 settembre 1938, Chamberlain e il primo ministro francese Daladier accettarono un progetto presentato dall'Italia che in realtà accoglieva quasi alla lettera le richieste tedesche e prevedeva l'annessione al Reich dell'intero territorio dei Sudeti. Ai cecoslovacchi, che non erano stati ammessi alla conferenza e nemmeno consultati, non restò che accettare un accordo che li lasciava alla mercé della Germania e apriva la strada al dissolvimento della loro Repubblica. I sovietici, anch'essi tenuti fuori dal tavolo delle trattative, capirono di non poter contare sulla solidarietà delle potenze occidentali in caso di aggressione tedesca e ne trassero le conseguenze, abbandonando la politica di alleanza con le democrazie adottata negli ultimi anni. L'atteggiamento arrendevole delle potenze europee di fronte al nazismo parve arrestarsi solo quando, nel marzo 1939, Hitler, proseguendo la sua politica espansionistica, diede un ultimatum alla Polonia perché gli cedesse la città di Danzica. Egli voleva cancellare così la «vergogna di Versailles», e cioè il "corridoio" verso il mare concesso alla Polonia dopo la Prima guerra mondiale. Francia e Inghilterra minacciarono la guerra in caso di attacco alla Polonia, pur ammorbidendo subito dopo la loro posizione. Ma nei mesi successivi (tra l'aprile e l'agosto del 1939) l'incertezza dominò fra i governanti europei. Nel frattempo però Hitler concluse due patti che, almeno quello con la Russia di Stalin, dimostravano chiaramente la volontà della Germania nazista di attaccare Francia e Inghilterra. Il primo rinsaldò l'alleanza "naturale" e da tempo avviata tra fascisti italiani e nazisti. Mussolini firmò il 22 maggio 1939 il Patto d'acciaio con il Reich, secondo il quale, se uno dei contraenti fosse stato coinvolto (per propria iniziativa o in seguito a un'aggressione altrui) in operazioni belliche, l'altro doveva sostenerlo. A causa dell'impreparazione militare dell'Italia, Mussolini era in una posizione debole rispetto a Hitler. Tuttavia accettò il patto, pensando di ritardare al massimo l'intervento militare italiano, malgrado la Germania, senza contare troppo né sull'Italia né sul Giappone, marciasse spedita verso la guerra, alla quale si era preparata da tempo. Il secondo, sottoscritto il 27 agosto 1939, prese il nome dei due ministri degli Esteri che l'avevano firmato: il tedesco Ribbentrop e il sovietico Molotov. Stalin si era deciso a questo passo, giudicando ormai improbabile l'alleanza da lui vanamente tentata con Francia e Gran Bretagna. Era un patto di non aggressione, ma apparve subito più "innaturale" e scandaloso. Era, infatti, un accordo tra due stati — la Germania nazista e l'Urss comunista — ideologicamente inconciliabili e, come poi si seppe, un suo protocollo segreto prevedeva anche la spartizione della Polonia fra Urss e Germania. Inoltre, mutando ancora una volta rotta, Stalin sacrificava la precedente politica antifascista dei Fronti popolari avviata dal 1934-35 e spiazzava di fronte all'opinione pubblica dei loro paesi gli stessi partiti comunisti europei che l'avevano seguita. Il patto si rivelò un fallimento per la stessa Unione Sovietica: Hitler non rinunciò ad attaccarla di lì a poco, come invece sperava Stalin, e il paese si trovò del tutto impreparato di fronte all'aggressione nazista. La Conferenza di Monaco L’ultimatum alla Polonia Il Patto d'acciaio e il Patto Ribbentrop-Molotov 101 VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE 1924 Piano Dawes rinegoziazione dei debiti di guerra 1925 accordi di Locarno la Germania accettò la perdita di Alsazia e Lorena, inaugurando un clima di distensione con la Francia 1933 Salita al potere di Hitler 1935 Hitler reintroduce la coscrizione obbligatoria Conferenza di Stresa (aprile) condanna del riarmo tedesco URSS e Francia stipulano un'alleanza militare L’Italia invade l’Etiopia I936 Hitler rimilitarizza la Renania Asse Roma-Berlino (ottobre): accordo tra Italia e Germania Guerra civile in Spagna (1936-39) 1938 Hitler occupa con un atto di forza l'Austria Hitler occupa i Sudeti Conferenza di Monaco (29-30 settembre) Francia, Inghilterra e Italia riconoscono l’annessione dei Sudeti 1939 Patto d'acciaio tra Germani e Italia (maggio) Patto Ribbentrop – Molotov tra Germania e URSS (agosto) Invasione tedesca della Polonia (settembre) 102 6. LA FORMAZIONE DEI MOVIMENTI INDIPENDENTISTI E DELLA QUESTIONE MEDIORIENTALE In Medio Oriente, dopo il crollo dell'Impero ottomano, si assistette al diffondersi di movimenti nazionalisti arabi, alimentati dal mancato mantenimento delle promesse di indipendenza e dall'insofferenza per l'imposizione del sistema dei mandati, attraverso cui veniva affidato dalla Società delle Nazioni alle maggiori potenze l’amministrazione di paesi e popoli a cui si prometteva una futura indipendenza. L'Inghilterra, pur riconoscendo l'indipendenza di Iraq, Transgiordania ed Egitto, mantenne su questi territori un forte controllo economico e commerciale, mentre i francesi dovettero fare delle concessioni in Siria e in Libano a seguito delle numerose rivolte anticoloniali. In Palestina, incoraggiate tra l'altro dalle dichiarazioni del ministro inglese Balfour (1917), che affermava di guardare con favore alla fondazione di uno Stato ebraico, si moltiplicarono le comunità ebraiche immigrate aderenti al movimento sionista (fondato da Herzl nel 1897). Questo processo innescò presto forti tensioni con la popolazione araba. La Turchia trovò le forze per riscattarsi sotto la guida di Mustafa Kemal, un ufficiale appartenente al movimento politico dei Giovani turchi. Conquistata l'indipendenza, la Turchia ottenne, con il trattato di Losanna (1920) il riconoscimento del suo controllo sull'Anatolia e sugli Stretti; e Kemal (denominato Atatürk, “padre dei turchi”) si dedicò a trasformare il suo paese in una repubblica improntata a principi di laicità (nonostante l'opposizione dei musulmani tradizionalisti) e ad assecondarne la modernizzazione. Anche in India, deluse le aspettative di trasformazione in dominion alimentate dall'Inghilterra durante la guerra, si inasprirono le rivendicazioni autonomistiche. In questo contesto, l'iniziativa di Gandhi, che faceva leva sul recupero dell'induismo e delle istanze di rigenerazione dell'intera società attraverso gli strumenti della lotta non violenta, della disobbedienza civile e della resistenza passiva (satyagraha), raccolse una vasta adesione di massa. La battaglia per l'indipendenza, ancorché repressa violentemente dagli inglesi (come nel massacro di Amritsar) riuscì tuttavia a conseguire risultati positivi, come il primo Government of India Act (1935), che concedeva una più ampia autonomia ai rappresentanti locali. Traendo vantaggio dagli esiti della guerra e dall'alleanza vittoriosa con Francia e Inghilterra, il Giappone invece iniziò la sua ascesa in Asia conquistando ampie zone di controllo in Estremo Oriente. In politica interna il paese si presentava come un sistema parlamentare caratterizzato da un profondo conservatorismo, all'interno del quale maturò un movimento nazionalista fondato sul culto dell'imperatore e su un'ideologia imperialista. In seguito alla crisi del '29, per rispondere alle difficoltà economiche del paese venne intrapresa, col sostegno dell'esercito, una politica espansionistica verso la Cina, che prese avvio nel 1931 con l'occupazione della Manciuria. I militari assunsero un peso crescente nella vita pubblica giapponese, fino alla costruzione di un regime autoritario. La politica estera aggressiva perseguita dal governo si basava inoltre su una concezione esplicitamente bellicistica e razzista. In Cina, nel corso degli anni venti, l'alleanza tra i nazionalisti del Guomindang e i comunisti, prima uniti nella lotta contro il governo di Pechino dominato dai “signori” della guerra, si incrinò quando, alla morte di Sun-Yat-sen (1925), il capo dell'esercito nazionalista Chiang Kai-shek divenne il massimo leader politico. L'esercito nazionalista si scontrò nel 1927 con l'esercito comunista per i controllo di Pechino: dopo averla conquistata, i nazionalisti misero fuori legge il partito comunista e spostarono la sede del governo a Nanchino. I nazionalisti di Chiang Kai-shek aspiravano a una modernizzazione del paese sul modello occidentale, ma di fronte a diverse difficoltà furono costretti ad abbandonare i progetti di riforma, a 103 cominciare da quella agraria. I comunisti nel frattempo si riorganizzarono in clandestinità sotto la guida di Mao Zedong, cercando consensi fra i contadini delle campagne. Di fronte alle “campagne di annientamento” lanciate dai nazionalisti nell'ambito di quella che era diventata una sanguinosa guerra civile, l'Armata rossa di Mao iniziò un ripiegamento nel Nord del paese, che durò circa un anno (la “lunga marcia”). Solo di fronte alla sempre più pressante minaccia giapponese, entrambe le parti conclusero nel 1937 un accordo per la costituzione di un fronte comune contro l'invasore. CRONOLOGIA 1918- 1940 1918 Conferenza di pace di Parigi (18gennaio) Viene promulgata la Costituzione della Repubblica federale socialista russa Guerra civile russa (1918-21) 1919 “Biennio rosso” (1919-20) Mussolini fonda i Fasci italiani di combattimento (23 marzo) Elezioni politiche G. D’Annunzio occupa Fiume(settembre) Don Sturzo fonda il Partito popolare italiano Nasce la società delle nazioni (28aprile) Trattato di Versailles (28 giugno) Repubblica di Weimar (1919-33) 1920 Occupazione delle fabbriche (settembre) Trattato di Rapallo (12 novembre) Gandhi inizia la resistenza non violenta contro la Gran Bretagna 1921 Scissione dal Partito socialista e nascita del Partito comunista d’Italia(gennaio) I Fasci italiani si costituiscono in Partito nazionale fascista (Pnf) (novembre 1921) Elezioni politiche Lenin inaugura la nuova politica economica (Nep) 1922 Sciopero legalitario (agosto) Marcia su Roma(28 ottobre) Mussolini presidente del Consiglio dei Ministri Nasce il Gran consiglio del fascismo (dicembre) Nasce l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (30 dicembre) Stalin è eletto segretario del Pcus 1923 Istituzione della «Milizia volontaria per la sicurezza nazionale» (gennaio) Riforma Gentile della scuola pubblica Legge Acerbo e introduzione sistema elettorale maggioritario Il generale Miguel Primo de Rivera prende il potere in Spagna Nasce la repubblica turca 1924 Affermazione del «listone» fascista alle elezioni (aprile 1924) Omicidio Matteotti (10 giugno) Secessione dell’Aventino Piano Dawes rinegoziazione dei debiti di guerra della Germania 104 1925 Mussolini rivendica alla camera dei deputati la responsabilità morale del delitto Matteotti ( 3 gennaio) Promulgazione delle «leggi fascistissime» (1925-26) Accordi di Locarno Hindenburg eletto presidente in Germania 1927 Promulgazione della «Carta del Lavoro» (aprile) Trotzkij, Zinov'ev e Kamenev vengono fatti espellere e poi esiliati da Stalin Guerra civile in Cina (1927-34) 1929 Firma dei Patti lateranensi (11 febbraio) Plebiscito del 24 marzo Crollo della borsa di New York e crisi dell’economia mondiale In URSS viene lanciato il primo Piano quinquennale 1931 Proclamazione della repubblica in Spagna (1931-1939) 1932 Roosevelt presidente USA Salazar instaura un regime dittatoriale in Portogallo (1932-1974) Occupazione giapponese della Manciuria cinese 1933 Hitler diventa cancelliere (30 gennaio) 1934 Conferenza di Stresa (aprile) condanna del riarmo tedesco URSS e Francia stipulano un'alleanza militare Hitler diventa presidente della Repubblica e capo dell’esercito Iniziano le “grandi purghe” staliniane “Lunga marcia” di Mao Zedon 1935 Mussolini invade l’Etiopia(3 ottobre) Leggi di Norimberga (15 settembre) Government of India Act 1936 Asse Roma-Berlino Il Fronte popolare di Léon Blum vince le elezioni in Francia (1936-1937) Guerra civile spagnola (1936-39) 1938 Introduzione delle leggi razziali in Italia (1 settembre) Hitler occupa con un atto di forza l'Austria Hitler occupa i Sudeti Conferenza di Monaco (29-30 settembre) 1939 Patto d’Acciaio tra Italia e Germania (maggio) Patto Ribbentrop – Molotov tra Germania e URSS (agosto) Hitler invade la Polonia: inizia la II Guerra Mondiale (1 settembre) 1940 L’Italia entra in guerra (10 giugno) 105