Gli eventi del primo Novecento

annuncio pubblicitario
B - GLI EVENTI DEL PRIMO NOVECENTO
3 – La prima guerra mondiale: l’inutile massacro della Grande guerra
4 - Tra le due guerre mondiali: gli scenari politici dal 1918 al 1940
3 – LA PRIMA GUERRA MONDIALE: L’INUTILE MASSACRO DELLA
GRANDE GUERRA
1. Le cause del conflitto
2. Le prime fasi della guerra: dall’attentato di Sarajevo alla guerra di posizione
(1914)
3. L'Italia di fronte alla guerra
4. Le fasi centrali del conflitto: la grande strage (1915-16)
5. La guerra nelle trincee
6. La mobilitazione totale
7. La Rivoluzione russa e il rifiuto della guerra
8. La svolta del 1917
9. La vittoria dell'Intesa (1918)
10. I trattati di pace
LE CAUSE DEL CONFLITTO
1. Le cause del conflitto
1 – la questione ________________
I Balcani prima dei 1914 erano un'area giudicata politicamente a rischio (come
oggi il Medio Oriente). In questa regione l'indipendentismo delle popolazioni
locali si scontrava con gli interessi delle maggiori potenze europee del tempo
(Germania, Francia, Austria-Ungheria, Russia, Inghilterra), che volevano controllare a proprio vantaggio gli equilibri politici dei Balcani e di tutto il
Mediterraneo orientale.
La situazione precipitò fra 1908 e 1909 con la disgregazione dell'Impero ottomano. I "giovani turchi", un gruppo progressista e modernizzatore, presero il potere
in Turchia, incoraggiando indirettamente le spinte indipendentiste delle popolazioni slave e le mire espansionistiche dei potenti Stati europei. Si ebbe così una
catena di reazioni: la proclamazione dell’indipendenza bulgara, l'annessione della
Bosnia-Erzegovina da parte dell'Austria-Ungheria, quella di Creta da parte della
Grecia; e, dopo Serbia, Romania e Bulgaria, anche il Montenegro arrivò
all'indipendenza, mentre altre spinte nazionalistiche sorgevano in Albania.
Due successive guerre (prima e seconda guerra balcanica) portarono prima alla
spartizione della Macedonia, strappata all'impero turco in crisi, tra Bulgaria,
Grecia e Serbia, e, dopo una guerra fra gli ex alleati contri i turchi, alla sua
assegnazione alla Serbia.
Vincitrice in entrambe le guerre, la Serbia accentuò il suo nazionalismo
specialmente contro l'Impero austro-ungarico, cercando di trascinare con sé nello
scontro il suo massimo alleato, l'Impero zarista, che nelle due guerre precedenti
aveva evitato d'intervenire direttamente. Come si vede, dagli avvenimenti, il
gioco delle alleanze e delle contrapposizioni reciproche (locali e globali) fra stati
creavano occasioni d'intervento politico "dal basso" (le spinte indipendentiste) e
"dall’alto" (le spinte egemoniche o espansioniste). Le questioni apparentemente
locali dei Balcani potevano, in una particolare congiuntura, assumere rilievo
generale e, nel caso della Serbia e dell'Austria-Ungheria nel 1914, portarono alla
I Balcani dopo il crollo dell’impero
turco
Indipendentismo e interessi delle _____
_________________________
la disgregazione dell'Impero ________:
la rivoluzione dei _________________
indipendenza di ___________________
_____________________________
annessioni di ____________________
_______________________________
Prime e seconda __________________:
la spartizione della ________________
Il _________________ della Serbia
da una _________________________
alla ____________________________
50
Prima guerra mondiale.
II 28 giugno 1914 a Sarajevo, nella Bosnia da poco annessa assieme
all'Erzegovina all'Impero austro-ungarico, Gavrilo Princip, uno studente bosniaco
membro di una società segreta nazionalista (la "Mano nera"), uccise in un
attentato l'arciduca Francesco Ferdinando, il principe ereditario dell'Impero
asburgico, e sua moglie Sofia. L'attentato rivelò la gravità delle tensioni nazionalistiche balcaniche. Il dissidio fra l'Impero austro-ungarico e la Serbia, che ambiva
al ruolo di guida spirituale e politica delle popolazioni slave,esisteva già da un
decennio; e l'arciduca ucciso era odiato dai serbi perché aperto a richieste di
maggiore autonomia avanzate dai croati e dagli sloveni.
L'episodio, in apparenza una "questione interna", scatenò invece un conflitto
mondiale. Il governo austriaco progettò una rappresaglia ed ebbe l'immediato
appoggio di quello tedesco, suo alleato. Già il 23 luglio un ultimatum austriaco
imponeva alla Serbia di far cessare ogni propaganda orale o scritta contro
l'Austria-Ungheria, sciogliere le associazioni ostili all'Austria, interdire dai
pubblici uffici i funzionari compromessi in attività antiaustriache. Inoltre
funzionari del governo austriaco avrebbero dovuto partecipare alle indagini sull'attentato. Queste pretese, che non rispettavano la sovranità dello Stato serbo,
apparvero inaccettabili e furono respinte. L'Austria non aspettò molto e il 28
luglio 1914 dichiarò guerra alla Serbia.
Perché l'attentato di Sarajevo non si limitò a provocare soltanto una "terza guerra
balcanica" e produsse invece un conflitto mondiale? Innanzitutto perché in esso si
ebbe il coinvolgimento diretto di una delle grandi potenze del tempo, l'Impero
austro-ungarico, che fece scattare l'intervento russo contro l'Austria e quello
tedesco in funzione antirussa (attaccando prima la Francia, alleata dei russi, e poi i
russi stessi), secondo le procedure previste dalle preesistenti alleanze militari.
Tali alleanze erano costituite dalla Triplice Intesa (1914-1920) e dalla Triplice
alleanza (1882-1914). La prima, ovvero l'alleanza franco-russo-britannica
stipulata allo scoppio della Prima guerra mondiale (settembre 1914) contro la
Triplice Alleanza (Germania, Austria, Italia). Essa rappresentò lo sbocco naturale
di due precedenti accordi: la Duplice alleanza fra Francia e Russia, risalente al
1894 e l’Intesa cordiale (1904) fra Francia e Inghilterra, un accordo diplomatico
che regolava amichevolmente i reciproci interessi coloniali delle due nazioni
(quelli inglesi in Egitto e quelli francesi in Marocco). La Triplice alleanza (18821914), invece, era il patto militare a carattere difensivo firmato il 20 maggio 1882
a Vienna da Austria-Ungheria, Germania e Italia. Prevedeva l'aiuto reciproco in
caso di invasione esterna (con particolare riferimento alla Francia) di uno dei tre
stati contraenti. L'alleanza fu rinnovata più volte, ma fu indebolita soprattutto dai
contrasti fra austriaci e italiani per i territori (Trentino, Venezia Giulia), da questi
ultimi considerati "irredenti", e dall'espansionismo asburgico nei Balcani
(annessione della Bosnia-Erzegoviria nei 1908). Allo scoppio della Prima guerra
mondiale, l'Italia decise in un primo momento di non intervenire, richiamandosi
al carattere solo difensivo del trattato. Poi, stretto il Patto di Londra con l'Intesa,
annullò il precedente trattato (3 maggio 1915).
In ogni caso in quelle circostanze fu tutto il sistema internazionale a mostrare
contrasti e spinte militariste: la Gran Bretagna, infatti, era da tempo impegnata a
difendere il suo primato economico e marittimo, minacciato dalla politica di
riarmo di Guglielmo II e in particolare dal rafforzamento della flotta militare
tedesca. Entrambi i paesi s'impegnarono, dunque, in una crescente corsa agli armamenti navali. Inoltre la Francia, che aveva perso nello scontro con la Germania
del 1870 l'Alsazia-Lorena, non si era rassegnata alla sconfitta ed era ossessionata
dall'idea della revanche (la “rivincita”; da qui il termine revanscismo).
A dividere le nazioni europee c'era poi — importantissima — la "questione
coloniale". Germania e Italia erano giunte tardi a una politica imperiale e
potevano cercare solo di erodere i territori che le maggiori potenze europee
s'erano già accaparrati. In particolare la Germania, che stava diventando un
28 giugno 1914: L'attentato _________
_______________________
23 luglio : ______________________
28 luglio: _______________________
______________________________
2 - il sistema _____________________
La __________________ Intesa
La ____________________ alleanza
3 - crescente corsa ________________
_____________________
4 – il revanscismo ________________
questione della ___________________
5 - la questione ___________________
51
gigante economico, non sopportava di avere dei possedimenti coloniali irrisori
(Togo, Camerun) e gli ambienti militari e di corte aspettavano da tempo una
occasione per strappare alla Francia le colonie in Africa centrale e al Belgio quella
congolese. Molti storici insistono sulle responsabilità dei dirigenti politici e
militari della Germania, che puntarono a una politica imperialista e colsero
l'occasione favorevole offerta dall'attentato di Sarajevo per completare il
rafforzamento della flotta militare.
Le maggiori potenze europee erano, dunque, da tempo impegnate in una lotta per
spartirsi i mercati mondiali e affermare la propria supremazia politica, così che lo
scontro armato risultò la soluzione più semplice. Particolarmente acuto in Europa
era il confronto economico tra il capitalismo franco-britannico da una parte e
quello tedesco dall'altra. Lo sfruttamento dei mercati esteri era ormai una
condizione essenziale per lo sviluppo economico di questi stati; e lo prova il fatto
che Gran Bretagna, Germania e Francia fornivano il 62% delle esportazioni
mondiali di manufatti e l'83% degli investimenti di capitali all'estero, mentre gli
Stati Uniti, pur essendo al primo posto tra i produttori di carbon fossile, ghisa e
acciaio, erano ancora intenti a sviluppare il loro mercato interno. Il capitalismo
tedesco, con la sua economia in crescita, aveva bisogno di quei mercati
extraeuropei che francesi e inglesi controllavano strettamente.
Le tendenze imperialistiche però approfittavano anche delle tensioni
nazionalistiche, che si esprimevano in Europa con l'irredentismo italiano nei
confronti dell'Austria-Ungheria, il pangermanesimo tedesco nei confronti in
particolare dell'impero russo, e il panslavismo che mirava alla "russificazione" dei
popoli slavi. La Germania, che temeva di restare accerchiata dall'alleanza francorussa, puntava a nuove annessioni in Europa (regioni fiamminghe, boeme, estoni)
e i suoi circoli militaristi svilupparono già prima della guerra ideologie razziste
per giustificare la sottomissione delle "stirpi inferiori" (gli slavi in particolare).
Presto l'idea di una grande Mittel Europa, da costruire anche a scapito di Francia,
Belgio e Lussemburgo, diventò programma ufficiale del governo tedesco.
La guerra fu per tutti i paesi coinvolti un acceleratore dello sviluppo economico e
un mezzo per incrementare la produzione industriale senza rischiare crisi di
sovrapproduzione. Delle commesse belliche statali s'avvantaggiarono non solo le
fabbriche d'armi, ma anche l'industria laniera e quella automobilistica. Non ci fu
in pratica ramo dell'industria che non ottenne contratti vantaggiosissimi dagli
stati, assillati dalle necessità imposte dalla guerra e convinti della sua breve
durata.
Due soli esempi: in Italia la maggiore industria di armamenti, l'Ansaldo, negli
anni di guerra aumentò gli operai e gli impiegati da 4.000 a 56.000, mentre la Fiat
portò la sua manodopera da 4.000 a 40.500 unità e monopolizzò la produzione
italiana di automezzi, di motori d'aviazione e di mitragliatrici.
Pesava poi nelle classi dominanti delle varie nazioni (Stati Uniti compresi) una
crescente preoccupazione per i conflitti sociali interni, che si erano intensificati e
avevano portato a una notevole avanzata delle forze politiche socialiste. In effetti,
almeno all'inizio della guerra, nella maggioranza dei paesi belligeranti si verificò
una nazionalizzazione delle masse cioè un loro coinvolgimento a favore del
conflitto. In tutti i principali Stati europei, grazie all'incoraggiamento venuto dai
ceti dirigenti, si produsse così un clima politico che ridimensionava i contrasti
interni fra i gruppi e le classi sociali in nome dell'unità nazionale, spingeva a
diffidare dei partiti, accusati di dividere la patria, e faceva prevalere scelte
plebiscitarie a scapito della democrazia parlamentare liberale.
uno __________________tra diverse
economie nazionali
6 - Ambizioni ____________________
in Europa
____________________ italiano
_________________________ tedesco
__________________________ russo
7 - la guerra spinta ________________
8 - un modo di controllare __________
______________________________
52
2. Le prime fasi della guerra: dall’attentato di Sarajevo alla guerra di posizione
(1914)
Grazie al sistema di alleanze, dopo la dichiarazione di guerra indirizzata
dall'Austria alla Serbia, l'Impero zarista, principale alleato della Serbia, mobilitò
le proprie truppe al confine con l'Impero austro-ungarico e poi su tutto il proprio
territorio, per prevenire un eventuale attacco della Germania, l'alleata principale
dell'Austria. Il primo agosto il governo tedesco reagì: chiese a quello russo di
annullare la mobilitazione e, nello stesso tempo, inviò alla Francia, alleata della
Russia, un ultimatum per indurla a restare neutrale. I russi rifiutarono di
smobilitare, i francesi esitarono a rispondere; a ventiquattr'ore di distanza
l'ultimatum fu seguito dalla dichiarazione di guerra alla Russia e il 3 agosto 1914
la Germania dichiarò guerra alla Francia, attuando già il giorno dopo (4 agosto)
un piano d'intervento militare predisposto fin dagli inizi del Novecento da un suo
feldmaresciallo, il conte Alfred von Schlieffen. Il piano prevedeva che l'esercito
tedesco colpisse in modo fulmineo la Francia e, subito dopo, impegnasse tutte le
proprie forze contro l'Impero zarista. Esso contava anche sulla lentezza di mobilitazione dei russi e, data la vastità del territorio russo, calcolava che lo scontro
sul fronte orientale sarebbe durato più a lungo.
Per infliggere più velocemente il colpo decisivo alla Francia, il piano Schlieffen
aveva programmato anche l'invasione del Belgio, la cui neutralità era fissata fin
dalla sua nascita, nel 1830, da precisi trattati internazionali. La Germania non
esitò a violarli (il suo cancelliere dichiarò che i trattati internazionali erano «dei
pezzi di carta»). Immediatamente, sempre il 4 agosto 1914, la Gran Bretagna,
alleata di Francia e Russia, dichiarò guerra alla Germania.
La Germania sapeva di provocare con tale atteggiamento l'intervento in guerra
dell'Inghilterra, ma calcolava che gli inglesi, essendo privi di un esercito a
coscrizione obbligatoria, avrebbero impiegato circa sei settimane per organizzarlo, giungendo in ritardo sul campo di battaglia, quando le sorti della guerra
sarebbero già state decise.
In pochi mesi il conflitto dilagò in varie aree del mondo: il 23 agosto 1914 il
Giappone, per impossessarsi di zone della Cina sotto influenza tedesca, dichiarò
guerra alla Germania; in novembre l'Impero ottomano, legato alla Germania, la
affiancò nella guerra. Negli anni successivi fu la volta dell'Italia, che si schierò a
fianco dell'Intesa (Francia, Gran Bretagna, Impero zarista), della Bulgaria, alleata
con gli Imperi centrali (Germania e Austria-Ungheria); e poi della Romania, degli
Stati Uniti e della Grecia, che sostennero l'Intesa. La guerra si svolse
principalmente in Europa, ma i legami militari, politici ed economici con le altre
aree del globo la tramutarono inevitabilmente in guerra mondiale.
I tedeschi travolsero in due settimane la resistenza belga e si diressero su Parigi,
cogliendo di sorpresa l'esercito francese. Il suo stato maggiore aveva concentrato
il grosso delle truppe in Lorena per penetrare con un'offensiva ritenuta risolutiva,
in Germania. Di fronte all'invasione della parte settentrionale del proprio
territorio, la Francia fu costretta precipitosamente a passare da una strategia
offensiva a una strategia difensiva, mentre il suo governo si rifugiava a Bordeaux
e la Germania si apprestava a dettare le sue condizioni di pace: annessione di
territori francesi e sottomissione del Belgio. Tra il 6 e il 12 settembre 1914
invece, l'esercito francese, con l'aiuto di un corpo di spedizione inglese inviato
rapidamente in suo sostegno, arrestò l'avanzata dei tedeschi sul fiume Marna e li
respinse oltre il fiume Aisne, influendo così su tutto l'andamento della guerra. I
piani tedeschi, che prevedevano una guerra rapida e basata su grandi manovre
offensive, dovettero infatti essere abbandonati, per affrontare gli imprevisti
problemi di una guerra di posizione.
La "guerra di posizione" nacque in seguito al fallimento delle strategie di guerra
basate sulla velocità e il movimento ed ebbe come caratteristica l'immobilità e
LE PRIME FASI DELLA GUERRA (1914)
28 luglio: _______________________
______________________________
II sistema delle alleanze militari e ___
_______________________________
La dichiarazione di guerra della _____
_______ alla ________________
(2/ __________ ) e alla _____________
(_____/ __________ )
L’iniziativa _____________________
e il piano _____________________
L'attacco tedesco al ____________
l’intervento della _________________
(______/ __________ )
Il conflitto diventa ________________
L'attacco tedesco e ________________
_______________________________
L’arresto dell’offensiva ____________
53
l'equilibrio tra le forze militari contrapposte. Essa fu la dimostrazione che la
guerra era cambiata rispetto al passato: era ormai industriale (contava la capacità
di mobilitare al servizio dell'esercito l'apparato produttivo di una nazione),
tecnologica (le innovazioni tecniche valevano più delle vecchie strategie),
moderna e di massa (le società erano più ampie e uniformi e le perdite in guerra
raggiungevano la dimensione del massacro).
L'esito dello scontro favorevole alla Francia fu dovuto sia errori tattici dei
tedeschi, che avanzando a grande velocità avevano creato il caos nei collegamenti
fra i reparti del loro esercito, sia a una improvvisa e imprevista offensiva russa
contro la Prussia e la Galizia austriaca. Sul fronte orientale, infatti, la Russia
nell'agosto 1914 aveva mobilitato più velocemente del previsto il suo esercito e
cominciava a invadere la stessa Prussia. Per difenderla, i tedeschi dovettero
spostare alcune loro divisioni dal fronte occidentale. L'esercito tedesco fermò
quello russo nelle due battaglie di Tannenberg (26-30 agosto 1914) e dei laghi
Masuri 10 settembre 1914) nell'attuale Polonia. Nonostante queste vittorie il
progetto di raggiungere rapidamente Parigi era ormai fallito.
Le sorti della guerra si giocarono contemporaneamente su più fronti, e
l'andamento delle battaglie su un fronte influiva sulle sorti degli altri. In
particolare, si costituirono un fronte occidentale e fronte orientale. Quello
occidentale si allungava per 800 chilometri: dall'Yser (sulla costa del Belgio) fino
alla regione dei Vosgi (alla frontiera con la Svizzera); qui combattevano, attestati
nelle trincee e stremati, francesi e tedeschi. Sul fronte orientale si
contrapponevano l’esercito austro-tedesco e quello russo.
3. L'Italia di fronte alla guerra
Nei primi giorni del conflitto, il 2 agosto 1914, l'Italia aveva proclamato la
propria neutralità. Contro la guerra era schierata la maggioranza del parlamento e
del paese. Contrari infatti, pur con varie motivazioni, erano i liberali di Giolitti, i
socialisti e i cattolici. Del resto la Triplice Alleanza, che legava l'Italia a
Germania e Austria-Ungheria, aveva un carattere esclusivamente difensivo e
l'Austria, paese aggressore della Serbia, non aveva neppure avvertito la propria
alleata, sebbene il trattato lo prevedesse.
In Italia i favorevoli alla guerra erano nel parlamento una minoranza. Si trattava
però di una minoranza aggressiva e capace di raccogliere consenso anche negli
altri schieramenti politici. Erano, infatti, per l'intervento gli "irredentisti" trentini
(tra cui Cesare Battisti) e singole personalità socialiste come Gaetano Salvemini e
Leonida Bissolati, che vedevano nella guerra iniziata nel 1914 un'occasione
offerta all'Italia per completare il ciclo risorgimentale con una «quarta guerra
d'indipendenza» o ritenevano necessario schierarsi con le democrazie (Francia e
Inghilterra) contro il dispotismo militarista degli Imperi centrali. Interventista,
con una svolta clamorosa, diventò anche un altro esponente della sinistra
socialista, l'allora direttore del giornale «Avanti!», Benito Mussolini. I più attivi
interventisti furono però i nazionalisti, capeggiati da Enrico Corradini e sostenuti
dal prestigio culturale di Gabriele D'Annunzio. Per loro, partecipando alla guerra
in gara con altre nazioni, l'Italia avrebbe dimostrato di essere matura per una
"politica di potenza", acquisendo così un maggior prestigio internazionale. Fedeli
all'inizio della guerra alla Triplice Alleanza (Germania e Austria-Ungheria) e
orientati a una politica di espansione coloniale in Africa, i nazionalisti passarono
poi dalla parte dell'Intesa in nome della difesa degli interessi "naturali" dell'Italia
e puntarono alla conquista dei territori di Trento, di Trieste e della Dalmazia.
Infine, allo schieramento interventista si associarono i liberali di destra, Sidney
Sonnino e Antonio Salandra, che nel marzo del 1914 sostituì Giovanni Giolitti
La guerra di ____________________
I1 fronte _______________________
La battaglia dei laghi ___________ e
la fermata dei ____________________
Fronte ____________________ e
fronte ______________________
L'ITALIA DI FRONTE ALLA
GUERRA
I ___________________________
Liberali, ______________________ e
_________________________
Gli ___________________________
- __________________________:
completare _____________________
- singoli _____________________:
_______________________________
- ______________________________:
politica di _______________________
- Liberali di ___________________:
_______________________________
_____________________________
54
alla guida del governo. Appoggiati dal re, da settori dell'industria pesante e dal
più autorevole giornale italiano del tempo, il «Corriere della Sera», giudicavano
la guerra un ottimo strumento sia per espandere l'economia che per disinnescare
le tensioni sociali interne.
Il 26 aprile 1915, giorno di chiusura del parlamento, il ministro degli Esteri
Sonnino e il presidente del consiglio Salandra scavalcarono la maggioranza
neutralista dei deputati e stipularono con l'Intesa un trattato segreto, il Patto di
Londra: l'Italia sarebbe entrata in guerra nel giro di un mese e, in caso di vittoria,
avrebbe annesso i territori di Trento, di Trieste e della Dalmazia.
Contemporaneamente i nazionalisti, incoraggiati dallo stesso governo e dalla
corte, promossero le cosiddette «radiose giornate», clamorose manifestazioni di
piazza dirette contro i neutralisti, contro il parlamento e a favore dell'immediato
ingresso in guerra dell'Italia. Il 13 maggio, d'accordo con il re, Salandra si
dimetteva. Il re respingeva le dimissioni. Il liberale Giolitti, minacciato di morte
dagli interventisti abbandonava la sua battaglia neutralista non volendosi mettere
contro il re, che aveva firmato il Patto di Londra. La camera poi, con 407 voti
favorevoli e 74 contrari, approvò i pieni poteri al governo in caso di guerra; tra i
voti contrari, quello dei socialisti, di alcuni giolittiani e di alcuni popolari. Il 24
maggio 1915 l'Italia dichiarò, dunque, guerra all'Austria.
4. Le fasi centrali del conflitto: la grande strage (1915-16)
Per tutto il 1915 gli schieramenti rimasero pressoché immobili nelle trincee:
centinaia di migliaia di soldati furono sacrificati, in omaggio a una concezione
ottocentesca delle battaglie, alla vana ricerca dell'attacco risolutivo.
I comandi militari per questo nuovo e imprevisto tipo di guerra, la guerra di
posizione, elaborarono dapprima la tattica dello "sfondamento", e, in seguito
quella dell"'usura" e della "diversione". La tattica principale, quella dello
"sfondamento", fu usata per tutto il 1915 e prevedeva un attacco frontale con l'uso
in successione dell'artiglieria (che "preparava il terreno"), della fanteria (che
assaltava le trincee) e della cavalleria (che irrompeva nel varco e interrompeva la
comunicazione tra il fronte e i comandi).
Le uniche novità furono dovute all’apertura del nuovo fronte alpino in cui si
contrapponevano l’esercito italiano e quello austriaco. L'Italia schierò il suo
esercito, comandato dal generale Luigi Cadorna, su un fronte larghissimo (oltre
600 chilometri) e molto vulnerabile. Per limitare i rischi, lo stato maggio decise di
strappare rapidamente terreno agli austriaci. E fra il giugno e il dicembre del
1915alcune posizioni furono conquistate agli austriaci con quattro sanguinose
battaglie sull’Isonzo e numerose offensive. Ma a Gorizia gli austriaci resistettero
e, su questo nuovo fronte meridionale, per i soldati italiani e austriaci la guerra
diventò di posizione, come avveniva contemporaneamente ai francesi e agli
inglesi che si logoravano inutilmente sul fronte occidentale nelle sanguinose
offensive di Artois e Champagne.
In quell'anno gli unici successi di qualche rilievo furono ottenuti sul fronte
orientale dagli austro-tedeschi: prima contro i russi, che durante l'estate furono
costretti ad abbandonare buona parte della Polonia; poi contro la Serbia che,
attaccata simultaneamente in novembre da Austria e Bulgaria, fu invasa e
cancellata dal novero dei contendenti.
Alla fine del 1915, quando sul fronte occidentale francesi e inglesi si erano già
logorati nelle offensive di Artois e Champagne, tutti gli eserciti impegnati nella
guerra erano costretti alla pesante guerra di posizione. Diventava sempre più
Il ___________________________
(_______/___________________)
Le __________________________
Le dimissioni di _________________
Il voto favorevole della _____________
La _______________________ alla
____________________
(_____/___________)
LE FASI CENTRALI DEL
CONFLITTO: LA GRANDE STRAGE
(1915-16)
La guerra di ____________________
La tattica dello ___________________
Il fronte ______________: primi
scontri tra _____________e Austria
le battaglie dell’__________________
il fronte _____________________:
la ritirata dei russi dalla ____________
la sconfitta della _________________
il coinvolgimento ________________
_____________________________
55
importante rifornirsi in modo continuo e massiccio di materiale bellico, di viveri e
di uomini. L'industria e la popolazione di ciascun paese belligerante furono perciò
messe al servizio della guerra: in Francia furono chiamati alle armi i riservisti, le
classi anziane e, in anticipo, i giovani; ma anche l'Inghilterra sostituì il
volontariato con la coscrizione obbligatoria. La guerra era a un punto morto.
All'inizio del 1916, per uscirne, la Germania preparò una violenta offensiva sul
fronte occidentale. Per tutto quell'anno fu sperimentata la tattica detta dell'usura:
invece di cercare di "sfondare" il fronte avversario, si impegnava il nemico in un
solo punto vitale per costringerlo a esaurire tutte le sue risorse. E così, dal 21
febbraio 1916, per cinque mesi, intorno alla fortezza di Verdun (l'«inferno di
Verdun») esercito francese ed esercito tedesco si dissanguarono, usando tutti i
mezzi bellici di cui disponevano, compresi i gas asfissianti. Nessuno dei due
riuscì a prevalere. Ci furono 275.000 morti fra i francesi e 240.000 fra i tedeschi
(mentre il generale Erich von Falkenhayn, "inventore" della nuova tattica, aveva
previsto tre francesi morti per ogni soldato tedesco ucciso). Subito dopo, i francesi, impiegando ben 65 divisioni e con l'appoggio degli inglesi, sottoposero a
loro volta l'esercito tedesco a una "battaglia d'usura", quella della Somme, dove
per la prima volta le truppe franco-inglesi usarono i carri armati. L'Intesa, la cui
superiorità di mezzi e di uomini diventava sempre più evidente, ottenne una
sostanziale vittoria. Ma nel complesso lo scontro era costato un milione di morti.
Sempre nel 1916, anche sul fronte meridionale gli austriaci lanciarono
un'offensiva (la Strafexepedition, `spedizione punitiva') contro l'ex alleato italiano. Si concentrarono sulle linee tra il lago di Garda e il fiume Brenta e, dopo
un massiccio bombardamento, penetrarono fino all'altopiano di Asiago per
raggiungere Vicenza, tentando di accerchiare le armate impegnate sul fiume
Isonzo. Le perdite italiane furono altissime. L'offensiva austriaca fallì, ma solo
grazie alla contemporanea offensiva dei russi nei Carpazi, sollecitata dal re e dal
governo italiani.
L'evidente impreparazione dell'esercito italiano costrinse Salandra alle dimissioni.
Il nuovo governo, presieduto da Paolo Boselli e appoggiato da tutti i partiti
interventisti, fece riprendere l'offensiva sull'Isonzo. A costo sempre di perdite
gravissime furono conquistate le posizioni dei monti del San Michele e del
Sabotino e poi, il 9 agosto 1916, Gorizia. Il 27 agosto 1916 l'Italia dichiarò guerra
anche alla Germania.
All'inizio guerra, nel 1914, i francesi e gli inglesi avevano iniziato un blocco del
commercio internazionale: le navi dirette verso i porti europei, anche se di paesi neutrali,
venivano perquisite e certi prodotti (armi, carburante, prodotti chimici, ecc.),
considerati «contrabbando di guerra», venivano sequestrati. Attorno al 1916 il blocco
cominciò a far sentire i suoi effetti in Germania e in Austria. Venne danneggiata la
produzione industriale e, essendo la massa dei contadini mobilitata al fronte, quella
agricola praticamente s'arrestò. I governi imposero il razionamento dei generi
alimentari; aumentarono di conseguenza malattie come tubercolosi, tifo e colera e le
morti per denutrizione, specialmente nella prima infanzia.
Gli Imperi centrali decisero di forzare il blocco sul mare, ma la controffensiva
non ebbe successo: il 31 maggio 1916, nella battaglia dello stretto di Skagerrak,
vicino alla penisola dello Jutland, la flotta tedesca non riuscì a lasciare i porti del
mare del Nord. La Germania allora rispose al blocco con la guerra sottomarina,
che prevedeva una morsa attorno all'Inghilterra e il siluramento di ogni nave inglese o alleata che si avvicinasse alla sua costa. Fu una scelta azzardata. Per un
errore, infatti, già nel maggio 1915 era stata silurata una nave passeggeri inglese,
la Lusitania, e fra i suoi 1.198 morti si contarono anche quasi 200 americani. Per
rabbonire il presidente statunitense Wilson, che minacciò d'intervenire nel
conflitto, la Germania dovette promettere che non avrebbe più colpito alcuna nave senza preavviso.
Nel Medio Oriente, per indebolire la resistenza dell'Impero ottomano, entrato in
guerra a fianco degli imperi centrali già nel 1914, la Gran Bretagna e la Francia
Le "battaglie d'usura" del _________:
Verdun
e _________________
Il fronte ____________________:
La ____________________________
La reazione italiana:
______________________________
e la ripresa dell’offensiva sull’_______
II blocco navale ________________
La reazione tedesca: _______________
__________________________
56
promisero l'indipendenza ai popoli arabi a esso soggetti, stanziati in Siria, Iraq,
Palestina e in Arabia promuovendo una vasta guerriglia antiturca. Queste
promesse però non erano del tutto sincere. Gran Bretagna, Francia, Russia e Italia
si accordarono infatti segretamente per spartirsi quei territori dopo la guerra: l'Iraq
sarebbe andato alla Gran Bretagna, la Siria alla Francia, Costantinopoli e gli stretti
alla Russia, Smirne all'Italia. Inoltre, con la dichiarazione Balfour del 1917, il
governo inglese fece balenare agli ebrei sionisti la possibilità di avere una loro
sede nazionale in Palestina, primo germe del futuro Stato d'Israele.
Nelle retrovie del fronte orientale si ebbe uno dei risvolti più tragici della guerra.
La crisi che l'Impero ottomano aveva vissuto tra l'Ottocento e il Novecento non
era stata determinata solo dalle pressioni territoriali delle potenze imperialiste e
dalle aspirazioni all'indipendenza delle diverse minoranze nazionali disseminate
sul suo territorio. A essa contribuivano anche fattori politici e amministrativi,
burocratici e giuridici, economici e sociali, di cui finì per fare le spese la
minoranza armena. Al contrario del resto dell'impero, essa stava vivendo una fase
di notevole sviluppo e premeva sul sultano per la concessione di riforme
costituzionali o addirittura dell'autonomia. Già oggetto di una violenta repressione
negli anni 1894-1896, la sua situazione peggiorò ancora con l'avvento al potere
dei Giovani turchi. Il loro obiettivo, costruire uno Stato etnicamente omogeneo,
non lasciava spazio alle minoranze nazionali — curdi, greci, assiro-caldei e
armeni, tutti guardati con sospetto — che abitavano i territori del vecchio impero.
Fu la Prima guerra mondiale a offrire ai Giovani turchi la possibilità di portare a
compimento questo progetto, liquidando direttamente tali minoranze. Di questo
genocidio, il primo del Novecento, gli armeni furono le vittime più numerose. Tra
il 1915 e il 1916 circa un milione di armeni fu sterminato dalle truppe e dalle
bande paramilitari turche, nel corso di una tremenda marcia di deportazione dalle
città dell'Anatolia al deserto della Siria.
5.La guerra nelle trincee
Due anni e mezzo di guerra non avevano dunque risolto la situazione di stallo
creatasi nell'estate del '14, né avevano mutato i caratteri di un conflitto sempre più
dominato dalla tremenda usura dei reparti combattenti. Un'usura dovuta
soprattutto alla combinazione micidiale fra la vecchia dottrina militare, che
imponeva ai soldati di cercare a ogni costo la rottura del fronte avversario (o la
conquista di una determinata posizione), e le nuove armi automatiche, capaci di
trasformare ogni assalto in un'autentica carneficina per gli attaccanti.
In realtà, dal punto di vista tecnico, la vera protagonista della guerra fu la trincea,
ossia la più semplice e primitiva tra le fortificazioni difensive: un fossato scavato
nel terreno per mettere i soldati al riparo dal fuoco nemico. Concepite all'inizio
come rifugi provvisori per le truppe in attesa del balzo decisivo, le trincee
divennero, una volta stabilizzatesi le posizioni, la sede permanente dei reparti di
prima linea. In breve tutta la zona del fronte fu ricoperta da una fitta rete di fossati
disposti su due o più linee (la linea più avanzata si trovava a volte a poche decine
di metri da quella del nemico) e collegati fra loro per mezzo di camminamenti.
Col passare del tempo le trincee furono allargate, dotate di ripari, protette da
reticolati di filo spinato e da «nidi» di mitragliatrici, diventando sempre più
difficilmente espugnabili.
La vita nelle trincee, monotona e rischiosa al tempo stesso, logorava i combattenti
nel morale oltre che nel fisico e li gettava in uno stato di apatia e di torpore
mentale. Soldati e ufficiali restavano in prima linea senza ricevere il cambio
anche per intere settimane. Vivevano in condizioni igieniche deplorevoli, senza
potersi lavare né cambiare. Erano esposti al caldo, al freddo e alle intemperie,
II fronte mediorientale
promesse ________________ e
guerriglia ______________________
I _______________________ e le
minoranze etniche
le aspirazioni d’________________
degli ___________________
e il loro_________________________
LA GUERRA NELLE TRINCEE
La trincea
La vita nelle trincee
L'assalto
57
oltre che ai periodici bombardamenti dell'artiglieria avversaria. Non uscivano dai
loro ricoveri se non per compiere qualche pericolosa azione notturna di pattuglia
o, quando scattava un'offensiva, per lanciarsi all'attacco delle trincee nemiche.
Gli assalti, che iniziavano di regola nelle prime ore del mattino, erano preceduti
da un intenso tiro di artiglieria («fuoco di preparazione») che in teoria avrebbe
dovuto scompaginare le difese avversarie ma in pratica aveva come risultato
principale quello di eliminare ogni effetto di sorpresa. I soldati che scattavano
simultaneamente fuori delle trincee e riuscivano a superare il fuoco di
sbarramento avversario finivano con l'accalcarsi nei pochi varchi aperti
dall'artiglieria nei reticolati, facilitando così il compito dei tiratori nemici. Se,
nonostante tutto ciò, riuscivano a raggiungere le trincee di prima linea, dovevano
subire il contrattacco dei reparti di seconda linea e delle riserve, che in genere li
ricacciava sulle posizioni di partenza.
Pochi mesi di guerra nelle trincee furono sufficienti a far svanire l'entusiasmo
patriottico con cui molti combattenti, soprattutto i giovani di estrazione borghese,
avevano affrontato il conflitto. Ma, mentre gli ufficiali di complemento (cioè
quelli non di carriera, che ricoprivano i gradi inferiori), per quanto provati e
disillusi, restarono nel complesso fedeli alle motivazioni ideali originarie, diverso
fu l'atteggiamento della truppa. Gran parte dei soldati semplici — il discorso vale
soprattutto per quelli di origine contadina che costituivano quasi ovunque il nerbo
dei reparti di fanteria (molti operai erano rimasti in fabbrica per le esigenze
della produzione bellica) — non aveva idee precise sui motivi per cui si
combatteva la guerra e la considerava come una specie di flagello naturale da
accettare con fatalistica sopportazione. La visione eroica e avventurosa della
guerra restò prerogativa di alcune esigue minoranze di combattenti, per lo più
organizzate in reparti speciali — come le «truppe d'assalto» (Sturmtruppen)
tedesche o gli arditi italiani — impiegati solo in azioni particolarmente
impegnative e rischiose. Per tutti gli altri la guerra era una dura necessità. I
soldati la combattevano perché animati da un senso di elementare solidarietà con
i propri compagni di reparto o con i propri superiori diretti (gli ufficiali inferiori
che rischiavano la vita assieme alla truppa), ma anche perché vi erano costretti
dalla presenza di un apparato repressivo spietato nel punire ogni forma di
insubordinazione.
Né il senso del dovere né la minaccia del plotone di esecuzione poterono
impedire, tuttavia, che la paura o l'avversione contro la guerra si traducessero
talora in forme di autentico rifiuto. Le più diffuse erano quelle individuali, che
andavano dalla renitenza alla leva alla diserzione (il caso più frequente era il
mancato rientro dalle licenze), alla pratica dell'autolesionismo, consistente
nell'infliggersi volontariamente ferite e mutilazioni per essere dispensati dal
servizio al fronte. Meno frequenti erano i casi di ribellione collettiva — «scioperi
militari» o veri e propri ammutinamenti — che si verificarono un po' dappertutto
(più spesso negli eserciti dell'Intesa) e che crebbero in numero ed intensità col
prolungarsi del conflitto, raggiungendo l'apice nel corso del 1917.
6. La mobilitazione totale
Ufficiali e soldati
Renitenza e insubordinazione
LA MOBILITAZIONE TOTALE
Il carattere "totale" assunto dalla guerra moderna aveva significato la
"mobilitazione totale" dell'intera società: tutte le strutture —economiche, sociali,
politiche,culturali — furono sottoposte a sollecitazioni senza precedenti.
Prima guerra mondiale e ____________
Da questo punto di vista la guerra fu l'espressione più autentica delle
trasformazioni maturate nelle società industrializzate a partire dalla Grande __________________ (accelerazione)
depressione e insieme rappresentò un momento di accelerazione di quel processo
di massificazione della società tipica del Novecento.
58
La guerra fu la più grande esperienza di massa mai vissuta fin allora nella storia
dell'umanità e agì per ciò stesso come un potentissimo acceleratore dei fenomeni
sociali, come una incubatrice di trasformazioni e rivolgimenti in tutti i campi
della vita associata. Circa 65 milioni di uomini furono strappati alle loro
occupazioni abituali e coinvolti in un'esperienza collettiva senza precedenti. Si
trovarono, spesso per la prima volta, inseriti in una comunità organizzata e
articolata gerarchicamente e così si abituarono a vivere in gruppo, a obbedire o a
comandare. Si erano assuefatti all'uso delle armi, alla svalutazione della vita
umana, al dramma quotidiano della morte violenta.
.
Lo sviluppo economico e industriale più recente aveva messo a disposizione degli
eserciti mezzi di distruzione mai conosciuti nella storia dell'umanità. Il loro
massiccio impiego impresse un'ulteriore spinta all'innovazione tecnologica,
consentendo così alla scienza e alla tecnica, come all'organizzazione politica ed
economica, di fare "salti di qualità" irreversibili. Per la prima volta la fitta rete
ferroviaria e stradale, i mezzi di trasporto più rapidi (dalla locomotiva alle
recentissime applicazioni del motore a scoppio) e gli strumenti di comunicazione
più moderni, come il telegrafo e il telefono, furono utilizzati a scopo bellico. La
guerra ebbe infatti il proprio epicentro proprio nelle zone più densamente
industrializzate e "modernizzate". Le conseguenze sullo svolgimento del conflitto
furono tali da sconcertare gli stessi governi e comandi militari. Si pensi che in
pochi giorni la Germania fu in grado di ammassare 2 500 000 uomini in prima
linea, facendo attraversare loro mezza Europa, e l'Austria poté radunarne quasi 1
milione e mezzo; il regime zarista riuscì a far affluire in poche settimane dalle più
lontane regioni oltre 3 000 000 di soldati e la Francia, in 17 giorni, ne mobilitò
2 000 000. Alla fine del conflitto si raggiunse la cifra di 65 milioni di uomini
chiamati alle armi e spostati ai quattro angoli del continente.
Un altro tratto che, al pari della morte di massa, contraddistinse la Prima guerra
mondiale mostrandone lo stretto legame con la modernità, fu la straordinaria efficienza tecnologica delle armi. In particolare il più alto potenziale distruttivo fu
quello dell'artiglieria (è stato calcolato che il 70% delle ferite nei combattimenti fu
provocato dai cannoni e dalle bombarde). Molto efficienti si rivelarono anche le
mitragliatrici (arrivarono a sparare dai 400 ai 500 colpi al minuto, con una portata
utile di 500 metri). Gli straordinari progressi della chimica permisero l'invenzione
di nuove terrificanti armi: gli esplosivi ad alto potenziale e, tragicamente, i gas
tossici. Il 22 aprile 1915, sul fronte occidentale, i tedeschi usarono un gas, il
solfuro di dicloroetile, che provocò effetti così devastanti da diventare noto come
yprite, perché identificato con il nome della località, Ypres, in cui colpì per la
prima volta. I gas asfissianti provocavano una morte orribile, spesso lenta, dopo
giorni di agonia, oppure gravi mutilazioni come la cecità. Sul fronte italiano,
furono gli austriaci a impiegarli per primi, nella battaglia sul monte San Michele,
il 29 giugno 1915: 8000 soldati italiani furono intossicati e 5000 morirono.
Fu in quella guerra, infine, che si sperimentarono nuovi strumenti di offesa come
l'aereo e il carro armato, che sarebbero poi stati decisivi nel corso di tutte le guerre
novecentesche, in particolare nella Seconda guerra mondiale. Anche la guerra
navale fece enormi passi avanti, grazie ai micidiali sommergibili, impiegati
soprattutto dai tedeschi nell'Atlantico.
Proprio lo sviluppo di armi così distruttive lasciò emergere un'altra caratteristica
di quella guerra: a vincerla, più che gli uomini, sarebbero stati i materiali, la
capacità dei vari Stati belligeranti di attivare fino in fondo il proprio potenziale
economico-industriale. In questo senso, ad esempio, la Prima guerra mondiale
servì all'Italia per dotarsi di una industria meccanica di dimensioni adeguate. Nel
1915-1918 i profitti medi dichiarati dalle imprese passarono dal 4,26% della vigilia del conflitto al 7,75%, con punte particolarmente elevate per la siderurgia
(dal 6,30% al 16,55%), l'industria automobilistica (dall'8,20% al 30,51%), la
chimica (dall'8,02% al 15,39%), la gomma (dall'8,57% al 14,95%), cioè i settori
La guerra come esperienza di ________
1 – il legame _________________ e
______________________ e _______
_______________
La modernità della guerra
- il coinvolgimento dei paesi più
________________________
- l’efficienza delle _________________
le __________________________
i ________________________
______________________________
_____________________________
La crescita del potenziale __________
_____________________
59
più direttamente stimolati dagli alti prezzi garantiti dalle forniture belliche.
Con i profitti aumentarono anche l'occupazione (che nell'industria meccanica superò il mezzo milione di unità) e la produzione, sia quella militare (alla fine del
conflitto la nostra dotazione di armamenti poteva efficacemente competere con
quella degli altri Paesi belligeranti più progrediti industrialmente), sia quella
civile (le automobili prodotte passarono da 9200 nel 1914 a 20 000 nel 1918,
mentre fu introdotta la costruzione su larga scala di autocarri e trattori), con il
decollo di un'industria aeronautica che nel 1917 era già competitiva sui mercati
internazionali.
L'intervento dello Stato nell'economia, tra i11915 e il 1918, conobbe un
espansione senza precedenti in tutti i paesi coinvolti nel conflitto. Una guerra
lunga, impegnativa e costosa come quella che si stava combattendo, infatti, poteva
esse sostenuta solo dall'intervento pubblico, l'unico in grado di attivare,
coordinare e gestire tutte le energie disponibili. Per sostenere il rafforzamento
degli apparati industriali, lo Stato ne divenne il principale committente,
controllandone anche gli indirizzi produttivi. Per alimentare una spesa pubblica
enormemente dilatata si imposero nuove tasse, furono lanciati prestiti nazionali,
fu stampata una valanga di carta moneta che provocò una brusca impennata
dell'inflazione: nel 1918 prezzi erano aumentati di tre volte in Inghilterra e in
Italia, di quattro in Germania e di cinque in Francia. Accollandosi tutte le spese
belliche, lo Stato accentuò quel cambiamento già segnalato alla fine
dell'Ottocento, regolando non solo la produzione ma anche il mercato del lavoro,
il credito, i prezzi, il commercio.
Affiorò un'economia diversa da quella tradizionale, in questa economia
organizzata di guerra le singole imprese persero la libertà di movimento — fino
ad allora un dogma del capitalismo — dovendo subordinare le loro decisioni a
quelle stabilite da un vertice costituito dallo stato maggiore e dal governo.
Requisizione pubblica delle materie prime, militarizzazione dei lavoratori, cui fu
generalmente vietata ogni forma di rivendicazione sindacale, furono gli aspetti più
evidenti della nuova strategia produttiva. L'idea di un "capitalismo organizzato",
nata come risposta alla Grande depressione, trovò nella guerra occasione di
sistematica applicazione. In Germania, nel 1914, si era costituito un Ufficio delle
materie prime di guerra, primo passo di una vera e propria "militarizzazione"
dell'economia. In Inghilterra il Munition of War Act del 1915 pose tutta l'industria
di guerra sotto il controllo dello Stato, limitò i suoi profitti, organizzò i prestiti,
vietò gli scioperi, prescrisse agli operai di non cambiare lavoro senza speciale
autorizzazione. In Francia lo Stato finanziò direttamente la nascita di nuove
industrie e la trasformazione delle vecchie, assumendosene il controllo.
In Italia nacquero i comitati di mobilitazione industriale con il compito di
coordinare la produzione bellica e, soprattutto, di garantire il controllo della forzalavoro, di fatto militarizzata (lo sciopero era punito con l'invio al fronte, in pratica
con la morte).
Nacque così la moderna economia, programmata; centralizzata, "organizzata"
dallo Stato, che rappresentò un colpo mortale al modello liberale e liberista. Poi,
via via che la guerra andò trasformandosi in una sfida mortale per la
sopravvivenza dei diversi stati in conflitto, anche i residui "diritti" dei singoli nei
confronti dello Stato, compreso il diritto di proprietà, cedettero di fronte allo
"stato di necessità". Nella liberalissima Inghilterra, a partire dal 1916, venne
requisita la flotta mercantile. Le misure prese per rendere effettivo il blocco
navale presupposero, oltre alla paralisi del commercio internazionale, una forte
intrusione dello Stato nella società civile, e nel contempo, una tale organizzazione
tecnica da provocare innovazioni irreversibili nella macchina burocratica e
amministrativa. Basti pensare che il blocco delle comunicazioni tra la Germania e
il resto del mondo fu realizzato non solo con il taglio di tutte le linee telegrafiche
in uscita dalla Germania e dal’Austria, ma anche con un capillare sistema di
intercettazione e controllo della posta per "disperdere" gli ordini di acquisto
2 – L’intervento __________________
___________________________
lo stato da _______________________
a ________________________della
__________________, del mercato del
__________________, del _________
__________e del _________________
la perdita di______________________
delle _________________________
Le applicazioni del ________________
_____________________________
dal __________________________
all’economia _____________________
blocco ______________________ 
macchina ________________ statale
per il controllo della ______________
3 –L’intervento dello stato nella _____
60
eventualmente inviati dal nemico a ditte di paesi neutrali. Ogni comportamento
privato cadde da allora in poi sotto la "legge della guerra", né esistette più ambito
alcuno della società che poté sottrarvisi.
Lo Stato prese a regolamentare settori e aspetti della vita civile che fino ad allora
non erano mai stati interessati da provvedimenti legislativi, quali ad esempio
l’orario di apertura dei negozi o l’introduzione dell’ora legale.
Il controllo sempre più rigido imposto sulla società riguardò anche la stampa che,
come le comunicazioni tra i soldati al fronte e le famiglie nelle retrovie, fu
sottoposta ovunque a un'attenta censura, finalizzata a diffondere un'immagine
eroica ed edificante della guerra, tacendo gli aspetti più cruenti e quelli che avrebbero potuto diffondere allarmismo.
Nella nuova configurazione assunta dalla guerra totale, infatti, fu subito chiaro
che la partita non si giocava solo sui fronti dove infuriavano i combattimenti, ma
anche nelle retrovie, là dove i civili erano direttamente coinvolti nell'esperienza
bellica. In altre parole, accanto al fronte vero e proprio, esisteva anche un fronte
interno. Per tutti gli Stati in guerra era cruciale fare in modo che esso rimanesse
compatto, evitando che si aprissero crepe di malcontento e scoraggiamento, e
provvedere a suscitare un consenso il può possibile diffuso alle motivazioni del
conflitto. Per questa ragione, al controllo della stampa si intrecciò un'oculata azione di propaganda che, attraverso giornali, manifesti murali, cartoline, richiamava
la popolazione civile a fare disciplinatamente la propria parte per sostenere lo
sforzo bellico, nel lavoro, nelle sottoscrizioni per raccogliere fondi, nella
sopportazione dei lutti e dei sacrifici.
Al dirigismo statale in ambito economico si affiancò una brusca contrazione degli
spazi di democrazia. Lo stato di guerra provocò in tutti i paesi una diminuzione
del potere dei parlamenti e l'aumento di quello dei governi e dei militari.
In Gran Bretagna, alla fine del 1916, diventò primo ministro Lloyd George (18631945), sostenuto da una coalizione di conservatori, di liberali e di laburisti, che
costituì in seno al governo un gabinetto di guerra, cioè una specie di supergoverno
composto solo da alcuni ministri. In Francia, dopo vari contrasti tra il Parlamento
e il governo, e tra questo e i comandi militari che chiedevano più poteri, solo nel
1917 si riuscì a stabilire un saldo controllo governativo sui vertici dell'esercito,
quando il comando fu affidato ai generali Pétain (1856-1951) e Foch (1851-1929).
Anche in Italia si varò un governo di unità nazionale, guidato da Paolo Boselli
(1838-1932), in cui a fianco dei liberali entrarono anche socialisti riformisti,
repubblicani e radicali (giugno 1916) attenuando la normale dialettica
parlamentare tra maggioranza e opposizione. I paesi dove si ebbero le limitazioni
più forti furono però quelli dove i poteri del Parlamento erano sempre stati deboli:
la Germania e l'Austria-Ungheria. In entrambi, durante la guerra, nessun socialista
fu ammesso a partecipare al governo. In Germania, in particolare, la posizione del
governo tornò a essere quella dei tempi di Bismarck: fu sufficiente che avesse la
fiducia del sovrano, non fu più necessario che ottenesse anche quella del
Reichstag. Dal 1916 il potere si concentrò di fatto nelle mani dei generali
Hindenburg (1847-1934) e Ludendorff (1865-1937). Quasi dovunque le industrie
furono militarizzate (accanto ai proprietari, cioè, intervennero i militari nella
gestione dell'organizzazione del lavoro), mentre l'esercito estendeva la sua
disciplina anche alle istituzioni civili.
La guerra comportò infine il coinvolgimento di ulteriori strati della popolazione
nei processi di integrazione delle masse. Infatti anche le donne furono mobilitate a
sostegno del conflitto e in esso pienamente coinvolte. Furono infermiere negli
ospedali; si attivarono, riunite in associazioni o singolarmente per i propri parenti,
nell'assistenza ai soldati, cucendo indumenti e preparando generi alimentari; furono "madrine di guerra" impegnate a portare conforto a soldati sconosciuti stabilendo con essi una corrispondenza epistolare, ma non solo. Sempre più spesso si
trovarono a dover sostituire gli uomini, nelle campagne per attendere ai lavori
agricoli e nelle città entrando a lavorare nelle fabbriche o intraprendendo mestieri
____________________
a - aspetti della ___________________
regolati dallo ____________________
(vedi ___________________________
b - la _________________________:
- lettere dal ____________________
- la ______________________
Guerra __________________ e
fronte __________________
La militarizzazione della ___________
Potere ai _________________
+ ai ________________________ e ai
________________________
Italia: governo ____________________
_________________
Germania: ______________________
______________________________
4 - Nuovi soggetti sociali: _______
__________________
61
(come il portalettere o il tranviere) prima tradizionalmente maschili. Uscite, per
scelta o più spesso per necessità, dalle mura domestiche, acquistarono maggiori
responsabilità e, con queste, un'inedita indipendenza. La guerra, in altre parole,
stava trasformando la condizione delle donne, attribuendo loro una maggiore visibilità nella società.
7. La Rivoluzione russa e il rifiuto della guerra
Nel febbraio del 1917 si verificò un evento straordinario, che portò indirettamente
a uno squilibrio delle forze in campo e alla fine della guerra: una rivoluzione
sociale all'interno dell'Impero russo travolse il regime zarista e il 15 marzo Nicola
II dovette abdicare. A far cadere il regime zarista, che era già logorato dalla crisi
politica e morale e dall'andamento negativo della guerra, fu proprio la rivolta
dell'esercito: i soldati inviati a sedare le manifestazioni popolari di protesta a
Pietrogrado (l'antica San Pietroburgo) si unirono a quanti manifestavano per la
carenza di cibo; mentre fra le truppe al fronte, imitando il modello dei soviet
operai, si organizzavano autonomamente anche i soviet dei soldati. Anche dopo
l'abdicazione dello zar, il governo provvisorio volle continuare la guerra e
lanciare un'offensiva in Galizia, che fallì, spingendo i soldati russi a fraternizzare
con gli austriaci e i tedeschi o a disertare in massa. In seguito a questo cedimento
della Russia, gli eserciti degli Imperi centrali poterono concentrare i propri sforzi
sul fronte occidentale. Ma ormai la stanchezza dei combattenti e le insubordinazioni della truppa verso gli ufficiali si diffondevano in tutti gli eserciti.
Neppure la guerra totale sui mari ottenne il collasso dell'Inghilterra, e anzi
l'Intesa, appoggiata dagli americani, rese ancora più impenetrabile il blocco
commerciale. Le importazioni tedesche crollarono e la situazione interna di
Germania e Austria diventò tragica: molta gente era ridotta a vestire stracci, il pane razionato era disgustoso e al fronte pattuglie spontanee di soldati rischiavano
la vita per procurarsi viveri con incursioni nelle linee nemiche.
Nell'aprile del 1917 gli operai delle fabbriche militarizzate di Berlino
proclamarono un grande sciopero appoggiato dai socialisti pacifisti di Karl
Liebknecht e Rosa Luxemburg, che già nel 1914 si erano opposti alla guerra. Il
29 maggio due reggimenti di fanteria francesi si ammutinarono, marciarono su
Parigi e coinvolsero nella rivolta contro i capi politici e militari (considerati
"nemici interni") altri reggimenti e battaglioni per un complesso di 40.000 uomini. Lo stato maggiore francese fermò a stento la rivolta. Anche in Italia, a
Torino, nell'agosto dello stesso anno la città insorse: le donne manifestarono
contro la mancanza di pane e gli operai resistettero per quattro giorni su
improvvisate barricate.
Per rispondere alla sfida lanciata da Lenin e per scongiurare la minaccia di
un'ulteriore diffusione del «disfattismo rivoluzionario», gli Stati dell'Intesa
dovettero a loro volta accentuare il carattere ideologico della guerra,
presentandola sempre più come una crociata della democrazia contro l'autoritarismo, come una difesa della libertà dei popoli contro i disegni egemonici
dell'imperialismo tedesco.
LA RIVOLUZIONE RUSSA E IL
RIFIUTO DELLA GUERRA
La rivoluzione __________________
L’esercito in _______________
Imperi centrali si concentrano _______
_________________________
________________________________
contro la guerra
L’ideologizzazione ________
_____________ (vedi ____________
_______________________)
62
8. La svolta del 1917
Un’autentica svolta nelle vicende della guerra avvenne solo nel 1917 con l’entrata
in guerra degli Stati Uniti e l’uscita della Russia.
Dopo il fallimento delle offensive di terra del 1916, dal gennaio 1917 la
Germania, per uscire dalla stretta, passò alla guerra sottomarina totale, sfidando
apertamente gli stessi Stati Uniti che, d’altra parte, era sicuramente il maggior
fornitore dei sui nemici. E così i comandi militari tedeschi ordinarono
l'affondamento di tutte le navi sia mercantili che passeggeri, non importa se di
paesi belligeranti o di paesi neutrali, puntando a far crollare l'Inghilterra nel giro
di sei mesi, in modo da rendere vana l'entrata in guerra degli Stati Uniti (che
invece avvenne assai più rapidamente del previsto, il 6 aprile del 1917, neppure
tre mesi dopo).
L’entrata in guerra degli USA contribuì all’ideologizzazione della guerra in
quanto il presidente americano Woodrow Wilson fu interprete più autorevole del
programma democratico. Già nell'aprile del '17, nel momento dell'entrata in
guerra, Wilson aveva dichiarato solennemente che gli Stati Uniti non avrebbero
combattuto in vista di particolari rivendicazioni territoriali, ma col solo obiettivo
di ristabilire la libertà dei mari violata dai tedeschi, di difendere i diritti delle
nazioni, di instaurare infine un nuovo ordine internazionale basato sulla pace e
su11'«accordo fra i popoli liberi».
Nel gennaio 1918, quasi in risposta all'armistizio russo-tedesco, Wilson precisò le
linee ispiratrici della sua politica in un organico programma di pace in quattordici
punti. Oltre a invocare l'abolizione della diplomazia segreta, il ripristino della
libertà di navigazione, l'abbassamento delle barriere doganali, la riduzione degli
armamenti, il presidente americano formulava alcune proposte concrete circa il
nuovo assetto europeo che avrebbe dovuto uscire dalla guerra: piena
reintegrazione del Belgio, della Serbia e della Romania, evacuazione dei territori
russi occupati dai tedeschi, restituzione alla Francia dell'Alsazia-Lorena,
possibilità di «sviluppo autonomo» per i popoli soggetti all'Impero austroungarico e a quello turco, rettifica dei confini italiani secondo le linee indicate
dalla nazionalità. Nell'ultimo punto si proponeva infine l'istituzione di un nuovo
organismo internazionale, la Società delle nazioni, per assicurare il mutuo rispetto
delle norme di convivenza fra i popoli.
Il programma esposto nei «quattordici punti» non mancava di aspetti astratti e
utopistici, ma rappresentava un'autentica rivoluzione rispetto ai princìpi cardine
della diplomazia prebellica. Per questo fu accolto da una parte consistente
dell'opinione pubblica come una sorta di «nuovo vangelo», capace di assicurare,
se attuato, una lunga èra di pace e di benessere. Per la verità i governanti
dell'Intesa non condividevano affatto il programma wilsoniano, o lo
condividevano solo in parte, vincolati com'erano al raggiungimento dei rispettivi
obiettivi di guerra. Dovettero ugualmente far mostra di accettarlo, sia perché
avevano troppo bisogno dell'aiuto americano, sia perché speravano che il wilsonismo costituisse un valido antidoto contro la diffusione dell'altro vangelo
rivoluzionario che veniva dalla Russia bolscevica.
Le conseguenze del crollo del regime zarista e l'insofferenza maturata nei
confronti della guerra si fecero sentire soprattutto sul fronte italiano. Tra il 23 e il
24 ottobre 1917 l'offensiva congiunta degli austriaci e di sette divisioni tedesche
sfondò sull'Isonzo, a Caporetto. Le truppe austriache e tedesche avanzarono per
150 chilometri e i comandi italiani riuscirono a fatica a riorganizzare una linea di
resistenza sul fiume Piave e sul monte Grappa. Le perdite furono gravissime e
mezzi estremi (come la decimazione dei reparti sbandati) furono usati per
mantenere la disciplina fra i soldati italiani. Questi si trovarono fra due fuochi:
quello dei nemici da una parte e quello dei reparti scelti di loro connazionali alle
spalle. Scoppiarono le polemiche e si tornò ad accusare socialisti e cattolici di
LA SVOLTA DEL 1917
a- ____________________________
b - _____________________________
la ripresa _______________________
______________  dichiarazione di
guerra degli _______________
L’ideologizzazione _____________
_____________
I quattordici ____________________ :
abolizione _______________________
liberalizzazione ___________________
riduzione ________________________
sviluppo _______________________
dei ________________________
istituzione della ___________________
______________________________
L’uso ideologico ____________
Le conseguenze del _______________
____________________
ottobre 1917:
_____________________
63
"disfattismo". Anche il governo Boselli si dimise. Il successivo "ministero di
unione nazionale" presieduto da Vittorio Emanuele Orlando sostituì al comando
supremo il generale Cadorna con il generale Armando Diaz e furono chiamati alle
armi persino i giovani di diciassette-diciotto anni nati nel 1899.
Nel frattempo i bolscevichi di Lenin, che nell'ottobre del 1917 avevano preso il
potere nella Russia rivoluzionaria, decisero l'immediata cessazione delle ostilità.
Firmarono perciò, facendo concessioni territoriali molto pesanti, prima
l'armistizio di Brest-Litovsk, nel dicembre del 1917, e poi, nel marzo del 1918, un
vero trattato di pace. La nuova Russia sovietica usciva così definitivamente dalla
guerra.
Il governo ____________________
da __________________ a _________
dicembre 1917:
la resa della __________________
9. La vittoria dell'Intesa (1918)
LA VITTORIA DELL'INTESA (1918)
Nei primi mesi 1918 furono ancora i tedeschi a tentare una serie di offensive,
stavolta basate sulla tattica della" sorpresa", con intensi bombardamenti seguiti da
rapide ondate di assalti di fanteria. I soldati venivano trasportati con gli autobus
da un capo all'altro del fronte per sostenere l'assalto nei punti ritenuti più
sguarniti. Con questa nuova tattica il 21 marzo la Germania sfondò il fronte
alleato franco-inglese in Piccardia e nello Champagne e fece penetrare ben
settanta divisioni in una breccia di 55 chilometri; ma francesi e inglesi, arretrando
fino Marna, riuscirono a ridurre le perdite e a resistere fino all'arrivo degli
americani.
Il 18 luglio, proprio grazie all'apporto dell'esercito statunitense, l'Intesa, usando
aerei e carri armati, poté contrattaccare le truppe tedesche ormai esauste (seconda
battaglia della Marna). La superiorità del potenziale economico e industriale
messo a disposizione dell'esercito e il blocco navale contro gli Imperi centrali
decisero le sorti la guerra. Ad Amiens, tra 1'8 e 1'11 agosto, il fronte tedesco fu
sfondato. Il 14 agosto il kaiser Guglielmo II, sperando di potere ancora
riorganizzare l'esercito, chiese un armistizio. L'Intesa glielo rifiutò e pretese la
resa totale. In settembre l’armata anglo-franco-italiana sfondava il fronte bulgarotedesco e dilagava nei Balcani. Il 24 ottobre anche gli italiani sbaragliarono gli
austriaci a Vittorio Veneto, mentre l'Impero austro-ungarico si disfaceva in tante
repubbliche indipendenti, e il 28 ottobre, a Kiel, si ammutinava la flotta tedesca.
Il kaiser infine abdicò e la guerra si concluse con la firma dell'armistizio da parte
dell'Austria (3 novembre 1918) e della Germania (11 novembre).
I disastri causati dalla Prima guerra mondiale in Europa sono incalcolabili: se i
morti provocati direttamente dai combattimenti sono nove milioni (di cui 650.000
italiani) e dodici milioni i feriti, le cattive condizioni igieniche e la denutrizione
scatenano epidemie che fanno salire il numero delle vittime del conflitto ad oltre
i 25 milioni. Anche la situazione economica è disastrosa, sia per le potenze
sconfitte, che avevano il loro apparato industriale come gli impianti minerari
gravemente danneggiati e si erano indebitate fino alla bancarotta, sia per le
nazioni vincitrici dell'Intesa, anch'esse dissanguate dagli sforzi bellici sostenuti e
indebitate pesantemente nei confronti degli Stati Uniti.
10. I trattati di pace
Già all'inizio del 1918, il presidente americano Wilson, presentandosi come il
"garante" dell'ordine internazionale ed europeo, aveva proposto «Quattordici
punti» per affrontare i problemi irrisolti secondo i criteri democratici del-
La tattica della ___________________
Luglio ___________
seconda battaglia _________________
Agosto _________:
sfondamento del _________________
___________________
24 __________________:
vittoria di _______________________
I ___________________ della guerra
______________________ di morti
la distruzione dell’_______________
_____________________________
TRATTATI DI PACE
Dai _________________________
a limitare ____________________ e
64
l'autodeterminazione dei popoli e del rispetto delle minoranze. Più che rispettare
tali principi i trattati di pace ebbero lo scopo di stabilire un ordine mondiale che rendesse impossibile un'altra guerra, arginasse il pericolo del
socialismo sovietico e limitasse lo strapotere della Germania in Europa.
Il 18 gennaio 1919, a Parigi, iniziò la conferenza di pace dei paesi vincitori. I lavori erano diretti dal presidente francese Clemenceau ed erano presenti il primo
ministro inglese Lloyd George, il presidente americano Wilson e, con un ruolo
minore, il capo del governo italiano, Vittorio Emanuele Orlando. Nessuno dei
rappresentati dei paesi sconfitti poté però partecipare alla discussione. Vennero
approvati cinque trattati, che presero i nomi dalle città in cui furono siglati.
Il più importante fu firmato a Versailles il 28 giugno 1919 e decise, con pesanti
conseguenze per la successiva storia europea, le sorti della Germania. I vincitori
della Prima guerra mondiale vollero che la Germania riducesse in modo permanente il suo esercito a 100.000 uomini, smilitarizzasse un'ampia fascia sul suo
confine sud-occidentale e riparasse integralmente i danni di guerra mediante il
versamento ai paesi vincitori di una somma ingente. La Francia, in particolare,
decisa ad umiliare la sua tradizionale avversaria, ottenne sia la restituzione
dell'Alsazia-Lorena sia il diritto a sfruttare per quindici anni il ricco bacino carbonifero della Saar. La Germania, inoltre, dovette cedere anche altri territori alla
Danimarca e alla Polonia. Quest'ultima ebbe uno sbocco al mar Baltico
attraverso un "corridoio" che separò la Prussia orientale dal resto della Germania,
mentre Danzica venne dichiarata "città libera".
L'Austria non venne trattata meglio. Il trattato di Saint Germain (10 settembre
1919) le impose di sciogliere l'esercito e di scacciare la dinastia asburgica, oltre a
vietarle ogni alleanza con la Germania. L'Italia ottenne il Trentino, l'Alto Adige,
Trieste e l'Istria, ma non la Dalmazia (in rispetto del principio delle nazionalità),
come invece promesso all'inizio del suo ingresso in guerra nel 1915.
Il trattato del Trianon (4 giugno 1920) stabilì l'indipendenza dell'Ungheria, che
però, ritenuta colpevole quanto l'Austria, perse la Transilvania (a vantaggio della
Romania), mentre la Slovacchia andò ai cechi (creando così la Cecoslovacchia)
mentre Croazia e Slovenia confluirono in un nuovo regno controllato dalla
Serbia, alleata fin dagli inizi dell'Intesa. Esso prenderà in seguito il nome di
Jugoslavia.
Il trattato di Neuilly (27 novembre decise l'indipendenza della Bulgaria, che perse
però la Macedonia (annessa alla Jugoslavia), la Tracia (andata alla Grecia) e la
Dobrugia (annessa Romania).
Infine il trattato di Sèvres (10 agosto decise le sorti dell'ex-Impero ottomano) la
Turchia fu ridotta alla penisola anatolica e perse la sovranità sugli stretti dei
Dardanelli e del Bosforo, di gran parte delle isole egee e dei territori arabi.
Questi divennero "aree di influenza" della Francia e dell'Inghilterra.
Un problema particolarmente delicato per gli Stati vincitori era infine quello dei
rapporti con la Russia rivoluzionaria. Le potenze occidentali, com'era naturale,
imposero alla Germania l'annullamento del trattato di Brest-Litovsk. Ma non
riconobbero la Repubblica socialista (che non partecipò alla conferenza della
pace); anzi cercarono di abbatterla aiutando in ogni modo i gruppi
controrivoluzionari. Furono invece riconosciute e protette le nuove repubbliche
indipendenti che si erano formate con l'appoggio dei tedeschi nei territori baltici
perduti dalla Russia: la Finlandia, l'Estonia, la Lettonia e la Lituania. La nuova
Russia si trovò così circondata da una cintura di Stati-cuscinetto (le quattro repubbliche baltiche, oltre alla Polonia e alla Romania) che le erano tutti fortemente
ostili: un vero e proprio cordone sanitario, come allora fu definito, che aveva la
funzione di bloccare ogni eventuale spinta espansiva della Repubblica socialista e,
con essa, ogni possibile contagio rivoluzionario.
La carta geopolitica dell'Europa era irriconoscibile rispetto al 1914. L'Impero
russo, quello austro-ungarico e il Reich tedesco erano crollati: il primo era stato
sostituito dalla Russia comunista dei soviet; il secondo era ormai uno staterello,
___________________
I trattati con _____________________
I trattati con _____________________
La creazione di nuovi ______________
I rapporti con la ________________
Gli stati ___________________
Il disfacimento degli ultimi _________
65
mentre nei Balcani entrava in agitazione il mosaico delle nuove realtà nazionali
(cechi, rumeni, serbi, ecc.); il terzo, infine, aveva un esercito allo sbando e le
principali città scosse da moti insurrezionali.
Tutti questi trattati apparvero subito fragili. Invece di placare le tensioni, le
accentuarono e lasciarono dietro di sé una scia di rancori e d’insoddisfazione. Lo
si vide appena dopo la firma, allorché Grecia e Turchia entrarono tra loro in
conflitto, che si risolse con la vittoria dei turchi (sancita dal Trattato di Losanna,
1923).
Il problema che a questo punto si poneva ai vincitori era quello di garantire la
sopravvivenza del nuovo assetto territoriale, reso delicato dalla proliferazione
degli Stati indipendenti e dalla scomparsa di alcuni fra i pilastri del vecchio
equilibrio prebellico. Nelle intenzioni di Wilson — e nelle speranze di tutti i
pacifisti — ad assicurare il rispetto dei trattati e la salvaguardia della pace
avrebbe dovuto provvedere la Società delle nazioni, la cui istituzione, già
proposta nei «quattordici punti», fu ufficialmente accettata, sotto la pressione
degli Stati Uniti, da tutti i partecipanti alla conferenza di Versailles.
Il nuovo organismo sovranazionale, che prevedeva nel suo statuto la rinuncia da
parte degli Stati membri alla guerra come strumento di soluzione dei contrasti, il
ricorso all'arbitrato, l'adozione di sanzioni economiche nei confronti degli Stati
aggressori, non aveva precedenti nella storia delle relazioni internazionali. Ma
nasceva minato in partenza da profonde contraddizioni, più grave di tutte
l'esclusione iniziale dei paesi sconfitti e della Russia: un'esclusione che, limitando
la rappresentatività dell'organizzazione, ne comprometteva anche la capacità
operativa, già problematica per l'assenza di un'efficiente struttura decisionale e di
un reale potere di dissuasione.
Il colpo più grave e inatteso la Società delle nazioni lo ricevette proprio dagli
Stati Uniti, cioè dal paese che avrebbe dovuto costituirne il principale pilastro.
Interpretando gli orientamenti dell'opinione pubblica americana — che non
vedeva di buon occhio un eccessivo coinvolgimento del paese nelle vicende
europee - il Senato degli Stati Uniti respinse nel marzo 1920 l'adesione alla
Società delle nazioni e fece cadere anche l'impegno assunto da Wilson circa la
garanzia dei nuovi confini franco-tedeschi. Wilson, gravemente ammalato, non si
ripresentò alle elezioni presidenziali del novembre 1920, che videro la netta
vittoria dei repubblicani. Cominciava per gli Stati Uniti una stagione di
isolazionismo, ossia di rifiuto delle responsabilità mondiali e di ritorno a una
sfera di interessi continentale. Quanto alla Società delle nazioni, essa finì con
l'essere egemonizzata da Gran Bretagna e Francia e non fu in grado di prevenire
nessuna delle crisi internazionali che costellarono gli anni fra le due guerre
mondiali.
La __________________________
_________________________
Lo _________________________:
no ___________________ +
_______________________________
Le contraddizioni della ____________
___________________________
esclusione _______________________
e della_______________________
il rifiuto dell’adesione _____________
egemonizzata da __________________
e ___________________
66
CRONOLOGIA PRIMA GUERRA MONDIALE
1914
28 giugno
23 luglio
28 luglio
2 agosto
3 agosto
4 agosto
23 agosto
Agosto
6-12 settembre
31 ottobre
1915
Gennaio-dicembre
Attentato di Sarajevo
Ultimatum austriaco alla Serbia
L’Austria dichiara guerra alla Serbia
La Germania dichiara guerra alla Russia
L'Italia proclama la propria neutralità
La Germania dichiara guerra alla Francia
I tedeschi penetrano in Belgio
L'Inghilterra dichiara guerra alla Germania
II Giappone entra in guerra a fianco dell'Intesa
I russi contrattaccano in Galizia e battono ripetutamente gli austriaci. A Tannenberg e ai laghi Masuri sono
però sconfitti dai tedeschi guidati da Hindenburg
Sulla Marna i francesi fermano l'avanzata tedesca
La Turchia entra in guerra a fianco degli Imperi centrali
26 aprile
20 maggio
24 maggio
7 maggio
Maggio-agosto
Fronte occidentale: guerra di posizione senza cambiamenti significativi
Blocco navale inglese contro gli Imperi centrali. La Germania risponde con la guerra sottomarina
II governo italiano stipula il Patto di Londra
Il Parlamento italiano vota i pieni poteri al governo in caso di guerra
L'Italia dichiara guerra all'Austria
Sottomarino tedesco affonda il transatlantico inglese Lusitania
Offensiva congiunta di tedeschi e austro-ungarici; i russi costretti ad abbandonare la Galizia e la Polonia
1916
21 febbraio-luglio
15 maggio
luglio-ottobre
9 agosto
Offensiva tedesca a Verdun
Spedizione punitiva austriaca (Strafekspedition)
Offensiva anglo-francese sulla Somme
Offensiva italiana sull'Isonzo e conquista di Gorizia
1917
Gennaio
Febbraio
6 aprile
Aprile-novembre
Agosto
24 ottobre
I tedeschi scatenano la guerra sottomarina indiscriminata
Rivoluzione in Russia. Progressivo collasso dell'esercito russo: diserzioni di massa. Guerra civile
russa (1918-21)
Intervento degli Stati Uniti a fianco dell'Intesa
Inutili offensive anglo- francesi. Ammutinamenti tra le truppe tedesche e francesi
Rivolta a Torino contro la guerra
Disfatta di Caporetto. Diaz sostituisce Cadorna
Rivoluzione d'ottobre in Russia
1918
8 gennaio
3 marzo
21 marzo
18 luglio
24 ottobre
3 novembre
8-/ 9 novembre
11 novembre
Wilson espone i suoi 14 punti
Pace di Brest-Litovsk: la Russia esce dalla guerra
Violenta offensiva tedesca sul fronte occidentale
Controffensiva francese
Attacco italiano verso Vittorio Veneto
L'Austria firma l'armistizio
I socialisti tedeschi proclamano la Repubblica a Berlino e Monaco
La Germania firma l'armistizio
1919
18 gennaio
28 giugno
10 settembre
Inizio Conferenza di pace a Parigi
Firma del trattato di pace con la Germania (Trattato di Versailles)
Firma del trattato di pace con l’Austria
67
4 - TRA LE DUE GUERRE MONDIALI: GLI SCENARI POLITICI DAL
1918 AL 1940
1. Tra le due guerre mondiali in Europa e nel mondo (1918-1940)
Gli scenari degli anni venti e trenta: dal “biennio rosso” ai regimi totalitari
2. Dalla rivoluzione bolscevica allo stalinismo
Dalla Rivoluzione di febbraio alla Rivoluzione d’ottobre
La Rivoluzione d'ottobre le sue conseguenze
Dall'ascesa di Stalin ai "piani quinquennali"
3. Il ventennio fascista in Italia
La crisi italiana dopo la Prima guerra mondiale
L'agonia dello Stato liberale e la salita al potere del fascismo
Il fascismo degli anni Venti: la «fascistizzazione» dello stato
Il fascismo degli anni Venti in economia
Fascismo e chiesa cattolica: Patti lateranensi e plebiscito del 1929
Il fascismo degli anni Trenta e lo “stato-imprenditore”
La politica estera del fascismo
4. Il regime nazista in Germania
La repubblica di Weimar e la crisi della società tedesca dopo la Prima guerra mondiale
La crisi del 1929 in Germania e la fine della repubblica di Weimar
Hitler al potere
5. Verso la Seconda guerra mondiale
La crisi del ’29 e l’instabilità politica degli anni trenta
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale
6. La formazione dei movimenti indipendentisti e della questione mediorientale
Cronologia 1918- 1940
68
1. TRA LE DUE GUERRE MONDIALI IN EUROPA E NEL MONDO (19181945)
Gli scenari degli anni venti e trenta: dal “biennio rosso” ai regimi totalitari
Tra la fine del 1918 e l'estate del 1920 il movimento operaio europeo,
uscito dalla forzata costrizione degli anni di guerra, fu protagonista di
un'impetuosa avanzata politica che assunse a tratti l'aspetto di una grande
ventata rivoluzionaria, il cosiddetto “biennio rosso”. I partiti socialisti
registrarono quasi ovunque notevoli incrementi elettorali. I lavoratori organizzati
dai sindacati — ma spesso anche fuori dal loro controllo — diedero vita a un'imponente ondata di agitazioni che consentì agli operai dell'industria di difendere
o migliorare i livelli reali delle loro retribuzioni e di ottenere fra l'altro la
riduzione dell'orario di lavoro a otto ore giornaliere a parità di salario: un
obiettivo che da trent'anni figurava al primo posto nei programmi del movimento
socialista e che fu raggiunto quasi simultaneamente, subito dopo la fine della
guerra, in tutti i principali Stati europei.
Questa grande ondata di lotte operaie non si esaurì nelle rivendicazioni
sindacali. Alimentate dalle vicende russe, si manifestavano aspirazioni
più radicali, che investivano direttamente il problema del potere nella fabbrica e
nello Stato. Ovunque si formarono spontaneamente consigli operai che
scavalcavano le organizzazioni tradizionali dei lavoratori e che, sull'esempio dei
soviet russi, si proponevano come rappresentanze dirette del proletariato e come
organi di governo della futura società socialista.
L'ondata rossa del '19-20 si manifestò nei singoli paesi in forme e con intensità
diverse, ma ciò che era stato possibile in Russia non fu possibile negli altri
paesi europei, dove borghesia e capitalismo non erano stati prostrati ma piuttosto
trasformati dalla guerra e dove lo stesso movimento operaio era legato a una
ormai lunga esperienza di azione pacifica all'interno delle istituzioni.
Del resto la rivoluzione d'ottobre in Russia, se da un lato aveva galvanizzato le
avanguardie rivoluzionarie di tutta Europa, dall'altro aveva accentuato la
frattura, già manifestatasi durante la guerra, fra queste avanguardie e il resto del movimento operaio legato ai partiti socialdemocratici e ai
sindacati. Il contrasto fu sancito ufficialmente, già nel '19, con la costituzione
della III Internazionale comunista e, in seguito, con la fondazione in tutta Europa
di nuovi partiti ispirati al modello bolscevico. La scissione del movimento
operaio, preparata e consumata nella prospettiva di un'imminente rivoluzione,
avrebbe invece contribuito ad aprire il varco alla controffensiva conservatrice.
La Repubblica di Weimar, la repubblica tedesca nata nel novembre 1918 e
guidata dai socialdemocratici di Ebert, si trovò a fronteggiare l'opposizione
dell'estrema sinistra degli Spartachisti, la cui insurrezione, capeggiata da
Liebknecht e Luxemburg, fu soffocata nel sangue. La Costituzione di Weimar
(1919), estremamente progredita, fu avversata invece dai nazionalisti, che
innescarono una spirale di violenze. Intanto la situazione economica, a causa dei
debiti di guerra e dell'occupazione del bacino minerario della Ruhr da parte di
Francia e Belgio, si aggravò e l'inflazione divenne inarrestabile, inasprendo le
tensioni sociali e politiche: nel 1923 il nuovo Partito nazionalsocialista di Hitler
mise in atto un (fallito) colpo di stato a Monaco, in Baviera. Solo un nuovo
governo di coalizione e il piano Dawes, con cui gli Stati Uniti concessero prestiti a
lunga scadenza alla Germania, risollevarono l'economia tedesca.
Intanto con gli accordi di Locarno (1925), la Germania accettò la perdita di
Alsazia e Lorena, inaugurando un clima di distensione con la Francia. Nonostante
i successi dei socialdemocratici, nel 1925 venne eletto a presidente il conservatore
Hindenburg, appartenente alla vecchia casta militare.
Il “biennio rosso”:
rivendicazioni sindacali e
consigli operai
Anni venti: la stabilizzazione
La Repubblica di Weimar
69
Nelle due maggiori potenze vincitrici, Francia e Gran Bretagna (diverso fu il
caso dell'Italia), le classi dirigenti riuscirono a contenere senza eccessive
difficoltà la pressione del movimento operaio e infatti
le istituzioni
liberaldemocratiche ressero alle difficoltà del dopoguerra. In Francia si
alternarono governi di stampo moderato di destra (Poincaré) e di sinistra (Briand).
In Gran Bretagna, dopo la parentesi liberale di Ramsey MacDonald, il sistema
politico si orientò sulla strada di un bipolarismo tra conservatori e laburisti, in cui la
classe operaia fu indirizzata verso un moderatismo sociale lontano dalle posizioni
comuniste. I governi inglesi dovettero affrontare le questioni dell'Irlanda, che fu
trasformata in dominion, e della fine del primato commerciale internazionale, alla
quale si rispose con la creazione del Commonwealth.
L'avvento del nazismo in Germania, all’inizio degli anni trenta, fu l'episodio
centrale e decisivo della crisi della democrazia nell'Europa fra le due guerre, e,
insieme al contemporaneo accelerarsi della trasformazione dello stato sovietico
nel regime staliniano, segna l’affermazione del modello totalitario.
Questa crisi era iniziata già negli anni '20, all'indomani di quella guerra mondiale
che pure era sembrata concludersi col trionfo degli ideali democratici.
In Italia, infatti, il prevalere delle forze conservatrice aveva già portato
precocemente allo sviluppo di un regime di tipo totalitario, ma i successi del
fascismo in Italia non furono infatti un caso isolato. Il virus autoritario si diffuse
dapprima nei paesi dell'Europa centro-orientale (Bulgaria e Polonia), dove le
istituzioni parlamentari avevano radici molto deboli e dove — con l'unica
eccezione della Cecoslovacchia — molto forte era invece il peso delle forze
conservatrici, della grande proprietà terriera e delle chiese.
Tutti questi regimi (con l’eccezione dell’Italia, vedi dispensa “I totalitarismi del
Novecento”) non potevano definirsi autenticamente fascisti, anche se avevano col
fascismo non pochi elementi di affinità. Erano piuttosto regimi autoritari di tipo
tradizionale, sostenuti dall'esercito e dai gruppi conservatori e privi di una propria
base di massa, molto simili a quelli che nello stesso periodo si affermarono in
un'altra area geografica, anch'essa afflitta da grave arretratezza economica e da
profonde disuguaglianze sociali: la penisola iberica.
In Spagna, paese dalla democrazia parlamentare sempre precaria, un colpo di
Stato fu attuato nel 1923 dal generale Miguel Primo de Rivera, con l'appoggio del
sovrano Alfonso XIII. Nel 1930, dopo sette anni di governo semi-dittatoriale,
Primo de Rivera fu costretto a dimettersi di fronte a una massiccia ondata di
proteste popolari. Nelle elezioni del 1931 i partiti democratici e repubblicani
ottennero un larghissimo successo, che indusse il re a lasciare il paese. Si formò
così una Repubblica, destinata anch'essa a vita breve e travagliata.
Anche in Austria, dove la democrazia sembrava aver radici più solide, cristianosociali e conservatori, al potere dal 1920, dopo aver sconfitto la breve esperienza
del governo socialdemocratico di Adler e Bauer, cercarono di modificare le istituzioni in senso autoritario, scontrandosi con l'opposizione di una
socialdemocrazia ancora molto forte a livello organizzativo ed elettorale. Nel febbraio 1934, dopo aver represso sanguinosamente una rivolta operaia scoppiata a
Vienna, il cancelliere cristiano-sociale Engelbert Dollfuss mise fuori legge il
Partito socialdemocratico e varò una nuova costituzione di ispirazione clericale e
corporativa, molto vicina al modello fascista.
La svolta bellicista si profilò, in coincidenza non casuale con i pesanti effetti della
crisi economica del 1929. Nel febbraio 1932, infatti, il Giappone aggredì la
Manciuria cinese e impose nella regione un suo governo fantoccio, tre anni dopo
fu l’Italia a invadere l’Etiopia e l’anno dopo ebbe inizio la guerra civile in
Spagna, i venti di guerra si stavano diffondendo.
I regimi liberaldemocratici in
Francia e Gran Bretagna
Anni trenta: l’avvento del
totalitarismo
I precedenti: l’Italia e i paesi
del’Europa centro-orientale
La dittatura di Primo de Rivera
in Spagna
Il regime clericale-autoritario in
Austria
La svolta bellicista degli anni
trenta
70
2. DALLA RIVOLUZIONE BOLSCEVICA ALLO STALINISMO
Dalla Rivoluzione di febbraio alla Rivoluzione d’ottobre
La Rivoluzione d'ottobre le sue conseguenze
Dall'ascesa di Stalin ai "piani quinquennali"
Dalla Rivoluzione di febbraio alla Rivoluzione d’ottobre
Agli inizi del Novecento l'Impero russo era ancora un gigante. Si estendeva per
un sesto del territorio mondiale. Comprendeva nei suoi confini circa cento diverse
nazionalità ed etnie e aveva solo poche e fragili strutture di tipo moderno. C'erano
alcuni grandi centri industriali che, sorti con capitale belga e francese,
raccoglievano nel 1914 circa tre milioni di lavoratori. Tutto il resto era dominato
da un'agricoltura di tipo assai arretrato: metà delle terre coltivate apparteneva a
meno di trentamila grandi proprietari fondiari e l'altra metà spettava a dieci
milioni e mezzo di famiglie contadine.
Il regime autocratico dello si dibatteva in una crisi irreversibile. Di fronte alla
nascita di numerosi partiti politici, lo zar Nicola II oscillava indeciso fra caute
aperture alle forze liberali e violente misure repressive. Lo stesso intensificarsi di
una moderna produzione industriale portava con sé nuove tensioni sociali.
Ma fu il coinvolgimento dell'Impero russo nel Primo conflitto mondiale a far
precipitare definitivamente la sua crisi. Il peggioramento delle condizioni di vita
causato dalla guerra, infatti, spinse gli operai a nuove rivendicazioni economiche
che si unirono alle rivendicazioni politiche pacifiste dei socialisti, mentre i
contadini, insoddisfatti della riforma agraria avviata nel 1861, rivendicavano una
vera riorganizzazione della produzione agricola.
Negli ultimi giorni di febbraio del 1917 (i primi di marzo secondo il nostro
calendario), dopo due anni e mezzo di guerra, il malcontento popolare esplose a
Pietrogrado. Si ebbero una serie di scioperi promossi dagli operai delle officine
Putilov a cui parteciparono circa 200.000 operai. Le truppe dell'esercito inviate
contro di essi fraternizzarono con gli scioperanti, e lo zar, ormai impotente, il 27
febbraio (il 12 marzo per noi) 1917, quando già la città era in mano agli insorti,
abdicò a favore del fratello, il granduca Michele. Questi a sua volta, impaurito dal
precipitare degli eventi, rinunciò a succedergli. Arrestato lo zar Nicola II fu
giustiziato con tutta la famiglia.
Il passaggio alla repubblica fu improvviso. Le forze politiche conservatrici e
moderate e la stessa destra del movimento socialista (in quella fase,
maggioritaria) apparvero spiazzate e miopi. Seppero, infatti, soltanto dichiarare di
voler continuare la guerra, finendo per contrapporsi apertamente alla volontà di
gran parte dei lavoratori e dei soldati, che chiedevano invece di avviare subito
trattative di pace.
Il primo governo repubblicano provvisorio fu subito riconosciuto dalle potenze
dell'Intesa. Era formato da conservatori e da liberali (destra e centro), ma vi
partecipavano anche alcuni esponenti della destra social rivoluzionaria, tra cui
Aleksandr Kerenskij; e aveva l'appoggio di socialrivoluzionari e menscevichi (all'inizio anche dei bolscevichi). Tuttavia era un governo fragile a causa delle
diverse e contrapposte aspettative dei suoi stessi sostenitori. I conservatori e i
liberali, infatti, volevano continuare la guerra accanto all'Intesa e temevano ogni
tipo di riforma agraria che potesse intaccare gli interessi economici dei nobili e
dei borghesi, da essi rappresentati. I socialisti rivoluzionari, invece, avevano da
sempre rivendicato proprio una radicale riforma agraria e, assieme ai
menscevichi, sostenevano l'obiettivo di una pace senza annessioni, senza vinti né
La Russia alla vigilia della
rivoluzione
La Rivoluzione di febbraio
Il primo governo repubblicano
provvisorio
71
vincitori (come deciso nel 1915 alla Conferenza internazionale di Zimmerwald, in
Svizzera). I bolscevichi, dal canto loro, proclamavano apertamente l'esigenza di
trasformare la guerra imperialista in guerra civile contrapponendosi frontalmente
a conservatori e liberali.
In quel 1917, all'esterno di queste forze politiche organizzate e riconosciute,
ricomparvero nelle fabbriche i soviet, cioè gli organismi di democrazia diretta
nati per la prima volta tra gli operai durante la rivoluzione del 19051. Stavolta si
diffusero rapidamente anche fra le truppe al fronte, in stragrande maggioranza
composte da contadini vicini alle posizioni dei socialrivoluzionari. Dopo soli tre
mesi dalla caduta della monarchia, i soviet attivi nel paese erano 400; due mesi
più tardi salirono a 500; e nell'ottobre a 900. La maggioranza dei delegati dei
soviet, che aderivano ai partiti socialisti, appoggiava il governo provvisorio in
modi sempre più tiepidi, tanto che si realizzò una paradossale situazione di
"doppio potere": gli ordini del governo venivano eseguiti solo con il permesso dei
soviet degli operai e dei soldati, che controllavano, per esempio, le ferrovie e il
servizio postale e telegrafico.
Il "doppio potere" non durò a lungo. Nell'aprile del 1917 conservatori e liberali,
per rendere stabile la situazione politica, offrirono alle forze più moderate dei
menscevichi e dei socialisti rivoluzionari l'ingresso in un nuovo governo. Il
socialista rivoluzionario Kerenskij vi assunse la carica di ministro della Guerra,
dichiarando subito la sua volontà di far morire i soviet di «morte naturale» per
continuare la guerra. In quello stesso mese d'aprile del 1917, Lenin, tornato a
capo del Partito bolscevico dall'esilio in Svizzera, ottenne l'approvazione delle
sue Tesi di aprile. Con esse il Partito bolscevico ribaltata l'appoggio critico
concesso fino a quel momento al governo provvisorio, rifiutava la repubblica
parlamentare e si poneva l'obiettivo di sostituirla con una repubblica dei soviet
degli operai e dei contadini. Il nuovo programma fu riassunto in uno slogan
chiaro e semplice: «Tutto il potere ai soviet, pace subito, terra ai contadini!».
II Partito bolscevico era composto allora di circa 24.000 membri ed era una forza
politica relativamente secondaria rispetto a socialrivoluzionari e menscevichi,
nettamente maggioritari nei soviet e nel paese. Tuttavia il Partito bolscevico era
ben organizzato e aveva l'appoggio di vari e importanti soviet. Inoltre, la sua
intransigenza sulla necessita di arrivare alla pace, varare una radicale riforma
agraria e convocare un'assemblea costituente gli attirava numerose simpatie anche
tra i menscevichi e i socialisti rivoluzionari, che mal sopportavano l'appoggio
dato dai loro partiti a un governo che voleva continuare la guerra ed era poco
sensibile a riforme sostanziali.
Durante l'estate del 1917 la situazione mutò a favore del partito di Lenin. La crisi
economica si aggravava e portava con sé nuova disoccupazione. A Pietrogrado ci
furono sommosse spontanee di operai e di soldati. I bolscevichi le appoggiarono,
subendo l'immediata e dura repressione da parte del governo Kerenskij, che li
mise fuori legge. Nei mesi successivi i settori più reazionari dell'esercito, guidati
dal generale Kornilov, prepararono un colpo di stato, arrivando ad assediare la
città di Pietrogrado e minacciando lo stesso governo provvisorio di Kerenskij, che
pur si era mostrato compiacente verso Kornilov. Il governo provvisorio si salvò
solo accettando l'appoggio del partito di Lenin. I bolscevichi perciò furono
riammessi alla legalità e, grazie al prestigio guadagnato in quest'occasione, videro
aumentare notevolmente il numero dei loro delegati nei soviet di Pietrogrado e
delle principali città della Russia. Il "dualismo di potere" fra governo provvisorio
e soviet stava per finire. Al posto dei socialrivoluzionari e dei menscevichi
entrava prepotentemente in scena proprio il Partito bolscevico, pronto a
conquistare il potere.
I soviet
Il governo Kerenskij
Il Partito bolscevico di Lenin
Il tentativo di colpo di stato del
generale Kornilov
1
La rivoluzione del 1905 aveva portato lo zar a concedere alcune libertà e a istituire la Duna, un
parlamento elettivo. I soviet avevano fatto la loro apparizione già in questa prima rivoluzione come
riunione dei delegati delle fabbriche in sciopero.
72
La Rivoluzione d'ottobre le sue conseguenze
Per il 7 novembre (25 ottobre del calendario ortodosso: da qui il nome
«rivoluzione d'ottobre») era previsto il Secondo congresso dei soviet. Ma la notte
precedente i bolscevichi, che avevano un proprio "comitato militare" e contavano
su un consenso politico crescente alle loro azioni, decisero di non aspettare oltre e
di far cadere immediatamente il governo provvisorio di Kerenskij. Circa 25.000
militanti del partito armati presero d'assalto il palazzo d'Inverno, sede del
governo. La vittoria fu facile e relativamente poco cruenta (quindici morti e una
sessantina di feriti) e fu seguita dalla fuga di Kerenskij. Il giorno dopo, al
congresso dei soviet, la maggioranza dei delegati approvò senza esitazioni
l'azione dei bolscevichi, respingendo l'invito loro rivolto dai menscevichi e da una
parte dei social- rivoluzionari ad abbandonare l'aula in segno di protesta contro
quello che essi consideravano un colpo di stato. Il congresso dei soviet approvò
subito dopo anche tre fondamentali decreti: un appello per una pace senza
annessioni, la confisca e la ridistribuzione ai contadini delle terre dei grandi
proprietari e dello zar, la costituzione di un soviet dei commissari del popolo con
il compito di preparare l'Assemblea costituente (che avrebbe cioè dovuto stendere
la nuova Costituzione dello stato).
Le elezioni del 25 novembre per l'Assemblea costituente confermarono il declino
dei menscevichi, ridotti a una minoranza trascurabile, e dei partiti del centro e
della destra, ma in maniera inattesa diedero il 63% dei voti ai socialrivoluzionari
e solo il 25% ai bolscevichi. Il governo rivoluzionario dei soviet a maggioranza
bolscevica sciolse allora immediatamente l'assemblea appena eletta, a esso
sfavorevole, senza particolari reazioni nell'opinione pubblica, e nel gennaio 1918
fu proclamata la Repubblica federale socialista russa, espressione del nuovo
potere.
Nel frattempo la guerra proseguiva e l'esercito tedesco penetrava in profondità nel
territorio russo. La pace di Brest-Litovsk (marzo 1918) firmata con la Germania
permise al paese di uscire dalla guerra mondiale, ma in cambio la nascente
Unione Sovietica dovette rinunciare a estesi territori dell'ex-Impero russo: alla
Polonia, alla Lituania, alle province baltiche e a una parte della Bielorussi. Quella
pace, giudicata «vergognosa» dallo stesso Lenin che dovette sottoscriverla,
sottraeva al nuovo governo rivoluzionario più del 50% della produzione agricola
e quasi il 70% di quella carbonifera. I socialrivoluzionari di sinistra, alleati dei
bolscevichi, uscirono dal governo, passando all'opposizione, mentre la destra socialrivoluzionaria tentava un'insurrezione e ricorreva al terrorismo: fu ucciso
l'ambasciatore tedesco e fallì un attentato contro Lenin.
Contemporaneamente le potenze dell'Intesa, svanita la possibilità di costringere la
Russia a riprendere la guerra, si mossero contro la neo- nata repubblica socialista,
considerata un pericoloso esempio e una minaccia per l'ordine interno dei vari
paesi capitalistici. Truppe inglesi sbarcarono nel nord del paese, mentre
contingenti americani e giapponesi invadevano i territori russi in Estremo
Oriente. Sul territorio della nuova repubblica, nella regione del Don, le truppe
fedeli al governo provvisorio di Kerenskij o al precedente regime zarista, sotto il
comando dei generali Kolciak (i "bianchi") occuparono alcuni distretti. Anche gli
anarchici in Ucraina e le truppe del socialrivoluzionario Savinkov nella zona del
Don diedero vita a una resistenza armata contro il potere sovietico.
A partire dal marzo 1918, i bolscevichi decisero di contrastare queste offensive
sia con il rafforzamento della polizia politica, la Ceka, creata nel dicembre del
1917, sia con la messa fuori legge dei socialrivoluzionari di destra e dei
menscevichi. Fu anche restaurata la pena di morte, abolita al momento della
presa del potere. Così il regime rivoluzionario accentuava i suoi tratti autoritari,
lasciando da parte le utopie antimilitariste e i progetti di autogoverno popolare.
Nello stesso periodo era stato istituito un Tribunale rivoluzionario centrale, col
La presa del palazzo d’inverno
L’Assemblea costituente
La pace di Brest-Litovsk
La guerra civile e la dittatura
rivoluzionaria
73
compito di processare chiunque disubbidisse al «governo operaio e contadino»:
una formulazione molto ampia, che permetteva di perseguire anche quegli
oppositori, ai quali non poteva imputarsi nessuna forma di contestazione violenta.
Nel giugno 1918 tutti i partiti d'opposizione vennero messi fuori legge; arresti
arbitrari ed esecuzioni sommarie di «nemici di classe» entrarono sin da allora
nella realtà quotidiana del nuovo regime.
Contro gli eserciti controrivoluzionari, il governo dei soviet riorganizzò
completamente il suo apparato militare. Il nuovo esercito, chiamato Armata
rossa, fu posto sotto il comando di Lev Trotzkij e in esso vennero inquadrati
anche molti ufficiali ex zaristi. Per due anni, fino alla primavera del 1920, ci fu
una feroce e sanguinosa guerra civile fra l'Armata rossa e gli eserciti "bianchi",
composti da ufficiali e soldati russi sostenuti militarmente e finanziariamente
dall'Intesa. Ebbe la meglio l'Armata rossa, sia perché più disciplinata e motivata,
sia per l'appoggio ricevuto dalla popolazione contadina, avvantaggiata dalla
radicale riforma agraria decisa dal governo dei soviet e timorosa di un ritorno del
vecchio regime zarista.
Nell'aprile del 1920 l'Armata rossa scacciò anche l'esercito polacco del
maresciallo Pilsudski, penetrato in Ucraina per annettere quella regione alla
Polonia. E subito dopo, in nome dell'internazionalismo, portò l'offensiva sullo
stesso territorio polacco, raggiungendo Varsavia. Incontrò però non solo la
reazione dell'esercito polacco ma anche della maggior parte della popolazione e
fu costretta a indietreggiare e a concludere un armistizio. Alla fine del 1920, in
nome del principio dell'autodeterminazione dei popoli, il nuovo Stato sovietico
riconosceva le repubbliche indipendenti della Polonia, della Finlandia e gli Stati
"baltici" (Estonia, Lettonia, Lituania). La Repubblica federale socialista russa, la
cui Costituzione era stata promulgata nel luglio 1918, diventò nel 1922 Unione
delle repubbliche socialiste sovietiche (Urss).
Sul piano internazionale si ebbero trattative e accordi commerciali con
l'Inghilterra e con la Germania e nell'aprile del 1922 l'Unione Sovietica partecipò
per la prima volta a una conferenza internazionale a Genova.
Tra il 1918 e il 1922, nel paese uscito dalla guerra mondiale e da quella civile la
situazione economica e sociale era tragica. La già cronica carenza di grano e di
altri generi alimentari si era aggravata per il prolungato richiamo alle armi della
popolazione maschile, e anche perché moltissimi contadini divenuti ora padroni
delle terre (e non solo i kulaki, piccoli proprietari, inaspettatamente favoriti
rispetto ai contadini poveri dalla ridistribuzione delle terre) preferivano
consumare direttamente o conservare il grano prodotto per venderlo in un
secondo tempo a prezzi più vantaggiosi. Il governo sovietico affrontò questa
enorme difficoltà con una serie di drastiche misure (requisizioni, amassi), passate
alla storia con il nome di «comunismo di guerra»; ma gli effetti pratici furono
scarsi, e si determinò fra i contadini una diffusa insofferenza antibolscevica. Il
comunismo di guerra fu applicato anche nell'industria con l'obiettivo di ampliare
la produzione, ma i duri provvedimenti adottati fecero emergere grosse difficoltà
nei rapporti fra i bolscevichi e la classe operaia. Nel febbraio 1921 molte
fabbriche di Pietrogrado scioperarono. E nel marzo del 1921 si ribellarono
anche i reparti della base navale di Kronstadt, uno dei tradizionali punti di forza
del potere bolscevico. Anche la democratizzazione dell'esercito aveva subito, con
le difficoltà della guerra civile, una battuta d'arresto.
Questi fatti indussero nel mese di marzo del 1921 il X congresso del Partito unico
a decidere una radicale svolta politica, una sorta di "ritirata strategica", battezzata
come la Nep, cioè "Nuova politica economica". Lenin riconosceva così sia lo
scollamento fra la politica economica bolscevica e la volontà dei contadi e della
popolazione, sia il dissolversi, almeno momento, delle speranze di una
rivoluzione in qualche paese dell'Europa che venisse in aiuto all'Urss.
La Nep liberalizzò il commercio finora vietato e ai contadini venne concesso di
vendere le loro eccedenze sul mercato. Le nuove misure economiche della Nep
Il fallito tentativo di esportare la
rivoluzione con la guerra
Il comunismo di guerra
La Nep
74
riavvicinarono i contadini al potere sovietico, ma alimentarono il malcontento di
alcuni settori del partito bolscevico, che le ritennero un puro e semplice ritorno al
capitalismo. Nel pieno di queste polemiche, nel maggio del 1922, Lenin fu colpito
da una grave malattia che gli impedì di continuare a dirigere il partito e lo portò
alla morte nel 1924. La sua eredità sarebbe stata raccolta, certamente nel modo
peggiore, dal leader che gli successe alla guida del partito e del paese: Stalin.
Dall'ascesa di Stalin ai "piani quinquennali"
Nel 1922 i dirigenti sovietici presero atto dell'isolamento dell'Urss; e già
l'accettazione della pace di Brest-Litovsk (1918) esprime forse la consapevolezza
che la Rivoluzione russa non poteva estendersi all'Europa. Pochi investitori
stranieri avevano risposto alle larghe concessioni offerte da Lenin perché
contribuissero allo sviluppo economico del paese. La Russia sovietica sarebbe
rimasta isolata, circondata da un mondo capitalista ostile che la considerava un
regime «fuori legge» (gli Usa, per esempio, riconobbero il regime sovietico
soltanto nel 1933).
Quale doveva va essere allora la politica estera dell'Urss e della Terza
Internazionale, che proprio sulle speranze di una rivoluzione internazionale era
stata fondata il 2 marzo 1919? Il Partito bolscevico si divise fra la posizione di
Trotzkij, e quella di Stalin. Il primo sostenne la necessità di una «rivoluzione
permanente» e propose di forzare l'isolamento collegandosi ad altri paesi (ad
esempio quelli semicoloniali in Asia). Il secondo fu favorevole alla «costruzione
del socialismo in un solo paese», cioè al rafforzamento politico, economico e
militare del nuovo «stato operaio», che i partiti fratelli della Terza Internazionale2
avrebbero dovuto sostenere. Questa profonda divergenza politica venne alla luce
già nel maggio 1922, quando Lenin fu colpito dalla malattia che l'avrebbe
condotto alla morte due anni dopo (1924) e il problema della sua successione si
complicò: chi dei due dirigenti così nettamente in contrasto fra loro avrebbe avuto
il controllo decisivo del partito bolscevico che, composto negli anni precedenti la
presa del potere da poche migliaia di militanti, doveva ora essere ampliato e
ristrutturato per assumere nuovi e inediti compiti? Favorito dalla prestigiosa
alleanza di Bucharin, Stalin ebbe la meglio: Trotzkij restò subito in minoranza nel
L'isolamento internazionale
dell'Urss
Il contrasto tra e le posizioni di
Trotzkij e di Stalin
2
La riunione costitutiva dell'Internazionale comunista (o, con dizione abbreviata, Comintern), o Terza
Internazionale, come venne subito chiamata, ebbe luogo a Mosca ai primi di marzo del 1919. La struttura
e i compiti dell'Internazionale comunista furono fissati soltanto nel I congresso, che si tenne, sempre a
Mosca, nel luglio del 1920, proprio in coincidenza con la vittoria sui bianchi e la travolgente avanzata
dell'Armata rossa in Polonia. I partecipanti rappresentavano 64 partiti operai di ogni parte del mondo. Il
problema centrale del congresso fu rappresentato dalle condizioni cui i singoli partiti avrebbero dovuto
sottostare per essere ammessi a far parte dell'Internazionale. Fu lo stesso Lenin a fissare le condizioni in
un documento in ventun punti. Vi si affermava fra l'altro che i partiti aderenti al Comintern avrebbero
dovuto ispirarsi al modello bolscevico, cambiare il proprio nome in quello di Partito comunista, difendere
in tutte le sedi possibili la causa della Russia sovietica, rompere con le correnti riformiste espellendone i
principali esponenti. In tutta l'Europa occidentale i partiti comunisti — legati alla centrale russa da uno
stretto rapporto di dipendenza politico-organizzativa e vincolati alla strategia rivoluzionaria tracciata
nell'estate del 1920 dal secondo congresso del Comintern — rimasero minoritari rispetto ai socialisti. Il
legame col Partito bolscevico e con la Repubblica dei soviet divenne un fattore di debolezza, o quanto
meno un limite alle possibilità di espansione, man mano che l'ondata rivoluzionaria rifluiva in tutta
Europa e la Russia comunista cominciava a preoccuparsi soprattutto dei suoi problemi interni e della sua
posizione di Stato fra gli altri Stati.
75
sostenere la necessità di un'industrializzazione rapida; mentre la prospettiva
agricola di Stalin, che intendeva potenziare il compromesso liberista della Nep,
ebbe l'appoggio del partito (ma dopo pochi anni, Stalin stesso cambiò rotta).
Stalin ristrutturò profondamente il partito, che già nel 1926, sconfitto Trotzkij, era
nelle sue mani, e ne controllò il reclutamento, assicurandosi dei nuovi iscritti.
Molti nello stesso Partito bolscevico temettero un'involuzione burocratica e
alcuni alti dirigenti prima alleati di Stalin, tra cui Zinov'ev, Kamenev si
riavvicinarono a Trotzkij, che avevano ostacolato fino ad allora. Ma la nuova
tendenza fu emarginata: Stalin riuscì già nel 1927 a far espellere i tre massimi
dirigenti che l'avversavano e poi a esiliarli. Subito dopo, in seguito al crollo delle
riserve di grano, egli, leader ormai incontrastato, interruppe l'esperimento della
Nep e cambiò completamente politica.
La Nep, avviata nella primavera del 1921, aveva alleviato la penuria di generi
alimentari, portato un certo beneficio ai contadini, che poterono disporre
liberamente di una parte delle eccedenze di grano, e procurato vantaggi anche a
un ristretto ceto di commercianti (i nepmen). Essa aveva anche rimediato
provvisoriamente lo strappo creatosi fra il governo sovietico e i contadini per le
requisizioni imposte nel periodo del «comunismo di guerra». Ma il problema
economico e politico del rapporto agricoltura-industrializzazione non era risolto
e ridiventò critico: lo «sciopero del grano» da parte dei contadini si ripeteva e
anche nelle città saliva l'ostilità verso il regime. In questa situazione di crescente
tensione, Stalin decise il primo "piano quinquennale" (1929-1933). Esso
prevedeva per le campagne la collettivizzazione dei fondi privati creati dopo la
rivoluzione, da riunire in kolchozy (fattorie collettive con organismi elettivi) e
sovchozy (fattorie gestite dallo stato). Immediatamente, tra la fine del 1928 e la
fine del 1932, la Russia diventò un paese di vagabondi e le città sovietiche furono
sommerse da un'alluvione di contadini, stimata in circa 12 milioni di individui
che fuggivano la collettivizzazione; così che, per contenere gli spostamenti verso
le città, il 27 dicembre 1932 fu introdotta una misura severissima: un passaporto
interno, in mancanza del quale si era allontanati dalle città.
Nelle campagne la collettivizzazione delle terre incontrò subito l'ostilità di tutti. I
contadini reagirono sia con la resistenza passiva sia con il sabotaggio (vendita dei
macchinari, macellazione del bestiame, ecc.). L'intervento dell'esercito e degli
attivisti del partito scatenò sempre più spesso anche una resistenza armata. Stalin
stroncò con deportazioni di massa (circa 10 milioni di famiglie contadine furono
trasferite di forza nelle aziende collettive) la ribellione diffusa in tutti gli strati
contadini, attribuendone la colpa ai soli kulaki, un 4% dei contadini sovietici, cioè
un ristretto gruppo, in realtà solo relativamente benestante.
Il fallimento della collettivizzazione fu totale sia sul piano politico che su quello
economico. Nel 1934 il 75% delle terre risultava collettivizzato, ma fra il 1928 e
il 1932 l'agricoltura sovietica aveva subito un tracollo da cui non si riprese più.
La collettivizzazione delle terre fu un disastro innanzitutto per gli enormi costi
umani che comportò: si calcola che furono deportati nei campi di concentramento
oltre 2 milioni di contadini, di cui 1 milione e 800.000 solo nel 1930-1931, e che
centinaia di migliaia di persone perirono nelle inospitali zone di deportazione,
come nelle isole dell'Artico; mentre in generale circa 6 milioni di cittadini
sovietici morirono di fame per la terribile carestia degli anni 1932-1933.
Nelle città l'industrializzazione prevista dal primo piano quinquennale creò invece
per qualche tempo vero entusiasmo e partecipazione. Mentre a livello
internazionale le economie capitalistiche vivevano una crisi gravissima (il crollo
di Wall Street è del 1929), l'Urss di Stalin riusciva partendo quasi dal nulla a
diventare uno dei paesi più industrializzati del mondo. Tra il 1928 ed il 1932,
infatti, la produzione sovietica aumentò in modo sorprendente del 40%
soprattutto nell'industria pesante (siderurgia, macchinari, ecc.). L'eccezionale
risultato fu ottenuto con una spasmodica accelerazione della produzione, guidata
con logica militare e sostenuta da una martellante propaganda ideologica tesa a
Il Partito bolscevico sotto la
guida di Stalin
Il fallimento della
collettivizzazione delle terre
Industrializzazione forzata e
"piani quinquennali"
76
esaltare la "battaglia della produzione" e i "soldati del lavoro" in modi non
dissimili da quelli del fascismo italiano. L'Urss divenne una grande potenza
industriale e militare e il «partito dei costruttori» di un socialismo sempre più
produttivistico (poco distinguibile dalla logica capitalista se non per la proprietà
statale dei mezzi produttivi) ricevette anche un reale consenso da una parte degli
operai.
L'innegabile successo di Stalin in campo industriale non compensava però il
tracollo della produzione agricola e i contraccolpi negativi della militarizzazione
della vita economica (spreco, burocrazia, passività dei lavoratori, ecc.) pesarono a
lungo contribuendo a quella debolezza strutturale dell'Urss che è stata poi
determinante per il suo definitivo crollo. L'economia sovietica rimase per sempre
rigida, poco varia nei prodotti, scarsamente innovativa e incapace di soddisfare la
cronica penuria di beni di consumo.
Con il successo dell'industrializzazione dall'alto, il sistema staliniano si rafforzò e
tentò di imporre quel controllo totale su tutti gli aspetti della vita e del pensiero
dei cittadini tipico dei regimi totalitari (e per esempio del fascismo e del
nazismo). La figura di Stalin si caricò di un significato quasi religioso, che non fu
soltanto il risultato di un'abile manipolazione delle coscienze da parte sua e dei
suoi collaboratori, ma anche una costruzione psicologica spontanea di masse
popolari sottoposte al rapido e inquietante «balzo dalla stregoneria all'alta
matematica». E fu questa "religione del capo" a dare a Stalin sempre più mano
libera nella repressione degli oppositori presunti o reali.
Le epurazioni ("purghe", cioè condanne all'esilio, al lavoro forzato o a morte),
furono avviate soprattutto a partire dal 1934, in seguito al misterioso attentato di
cui fu vittima a Leningrado Kirov (pseudonimo di Sergej Krostrikov), alto
dirigente del partito, esponente delle sue nuove leve e collaboratore assai vicino a
Stalin. Proseguirono nel 1936- 38 e travolsero molti dirigenti di rilievo (compreso
lo stesso Bucharin), amministratori di industrie e di kolchoz, l'intellighenzia
(storici, letterati, scienziati, giornalisti, ecc.), membri del clero ortodosso
sopravvissuti a precedenti persecuzioni, ma soprattutto gente comune e «onesti
cittadini sovietici».
Stalinismo e repressione
77
3. IL VENTENNIO FASCISTA IN ITALIA
La crisi italiana dopo la Prima guerra mondiale
L'agonia dello Stato liberale e la salita al potere del fascismo
Il fascismo degli anni Venti: la «fascistizzazione» dello stato
Il fascismo degli anni Venti in economia
Fascismo e chiesa cattolica: Patti lateranensi e plebiscito del 1929
Il fascismo degli anni Trenta e lo “stato-imprenditore”
La politica estera del fascismo
La crisi italiana dopo la Prima guerra mondiale
Dopo la Prima guerra mondiale la vecchia classe dirigente liberale si dimostrò
incapace di gestire la crescente crisi politico-istituzionale, nonché di governare le
spinte al cambiamento provenienti sia dalle masse proletarie influenzate dal
socialismo che dai ceti medi orientati dal nazionalismo. Il tentativo dei
nazionalisti, nel 1919, di annettere Fiume all'Italia per protestare contro la
«vittoria mutilata», imposta a loro avviso all'Italia dalla Conferenza di pace di
Parigi, e la radicalizzazione degli operai e dei contadini che si manifestò con forza
soprattutto nel settembre 1920, quando gli operai iniziarono a Torino l'occupazione delle fabbriche sono due episodi emblematici di quella crisi.
Le formule politiche che avevano segnato l'età giolittiana erano tramontate definitivamente nei tre anni di guerra. Così, tra il 1919 e il 1922 non ci fu più una coalizione di partiti in grado di dare stabilità all'esecutivo, di gestire con lucidità la
difficile transizione verso la pace. Il governo presieduto da Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952), che pure godeva del prestigio derivante dalla vittoria sugli austriaci, cadde per motivi di politica estera, a causa delle difficoltà incontrate dalla
delegazione italiana alla Conferenza di Parigi. Il 23 giugno 1919 fu così
Francesco Saverio Nitti (1868-1953) a varare un nuovo governo. Dopo
l'approvazione di una legge elettorale che introduceva il sistema proporzionale, le
Camere furono sciolte e si tennero le elezioni (16 novembre 1919): il vecchio
blocco liberaldemocratico risultò ancora la forza politica più votata (con il 38,9%
dei voti), conquistando 179 deputati, quando in precedenza ne aveva 310. Si
trattava quindi di una perdita secca, che sanciva l'impossibilità di costituire una
maggioranza di governo restando all'interno del quadro politico che aveva guidato
il Paese dal Risorgimento in poi. Fino al 1922, i governi si susseguirono
vertiginosamente, con diversi premier (ancora Nitti: maggio 1920; poi Giolitti:
giugno 1920; Ivanoe Bonomi: luglio 1921; Luigi Facta: febbraio/ottobre 1922),
ma con la stessa fragilità di fondo.
La guerra, di fatto, aveva stabilito un nesso strettissimo tra la violenza e i comportamenti collettivi. Sembrava che tutti i nodi politici fossero da sciogliere affidandosi soltanto alle armi e all'uso della forza; si guardava così con insofferenza alle
formule della democrazia, al tentativo giolittiano di "controllare" il conflitto politico, sradicandolo dalle piazze per riportarlo fisiologicamente nelle aule parlamentari. La stessa sfiducia circondava la possibilità che si potessero ristabilire
normali relazioni diplomatiche tra Stati.
Si cominciò a parlare di "vittoria mutilata", proprio in relazione
all'insoddisfazione per come l'Italia veniva trattata alla Conferenza di pace. La
nostra delegazione si era impegnata nel tentativo di aggiungere alle conquiste
territoriali già "promesse" dagli Alleati con il Trattato di Londra anche la città di
Fiume, in Dalmazia, abitata in prevalenza da italiani. La ferma opposizione delle
altre potenze vincitrici indusse i nostri rappresentanti diplomatici addirittura a
disertare per un breve periodo il tavolo dei colloqui.
La crisi sociale
La crisi istituzionale
La sfiducia nella democrazia e
nella pace
La vittoria mutilata
78
Per forzare la mano agli Alleati mettendoli di fronte a un fatto compiuto, il 12 settembre 1919 circa duemila fra "legionari" e volontari dell'esercito, guidati da Gabriele D'Annunzio (1863-1938), occuparono Fiume. Lo stesso D'Annunzio assunse il comando della città, proclamandone l'annessione all'Italia. L'avventura fiumana durò quindici mesi, provocò la caduta del governo Nitti, e si concluse soltanto con il Trattato di Rapallo del 12 novembre 1920 firmato dal nuovo governo
guidato ancora da Giolitti, che assegnò alla città lo status di "città libera"
(diventerà pienamente italiana nel 1924). D'Annunzio rifiutò di accettare quella
soluzione; per costringerlo ad abbandonare la città fu necessario far intervenire
l'esercito. Fiume fu bombardata il 24 dicembre 1920 e D'Annunzio alla fine si
arrese (18 gennaio 1921) .
Molto più serie furono le difficoltà incontrate da Giolitti sul terreno della politica
interna. Il governo impose, nonostante le proteste dei socialisti, la liberalizzazione
del prezzo del pane (tenuto artificialmente basso, a spese dell'erario, fin dagli anni
della guerra) e avviò così il risanamento del bilancio statale; ma non riuscì a
rendere operanti i progetti di tassazione dei titoli azionari e dei profitti di guerra,
progetti che sarebbero poi stati affossati dai successivi governi.
Ma a fallire fu soprattutto il disegno politico complessivo dello statista
piemontese: disegno che consisteva nel ridimensionare le spinte rivoluzionarie del
movimento operaio accogliendone in parte le istanze di riforma, nel ripetere
insomma l'esperimento già tentato con qualche successo ai primi del secolo. In
realtà, quell'esperienza non era ripetibile: i liberali non avevano più la solida
maggioranza dell'anteguerra; i socialisti erano su posizioni molto diverse da
quelle di vent'anni prima; i popolari erano troppo forti per piegarsi al ruolo
subalterno cui Giolitti avrebbe voluto costringerli; il centro della lotta politica, si
era ormai spostato dal Parlamento alle segreterie dei partiti, alle centrali sindacali
o addirittura alle piazze; i conflitti sociali, infine, conobbero, nell'estate-autunno
del '20, il loro episodio più drammatico con l'agitazione dei metalmeccanici
culminata nell'occupazione delle fabbriche.
La vertenza vedeva contrapposti i nuclei di punta del mondo imprenditoriale e del
movimento operaio italiano. Da un lato gli industriali del settore metalmeccanico,
ingranditosi con la produzione bellica, minacciato dai primi segni di una crisi
produttiva e anche per questo deciso a cercare la prova di forza. Dall'altro una
categoria operaia compatta e combattiva, che era organizzata dal più forte dei
sindacati aderenti alla Cgl (la Fiom, Federazione italiana operai metallurgici), ma
aveva visto anche svilupparsi, al di fuori dei canali sindacali ufficiali, l'esperimento rivoluzionario dei consigli di fabbrica: organismi eletti direttamente dai
lavoratori e ispirati dal gruppo torinese dell'«Ordine Nuovo» che vedeva in essi un
nuovo strumento di «democrazia operaia», una sorta di corrispettivo italiano dei
soviet.
Fu il sindacato a dare inizio alla vertenza, presentando una serie di richieste
economiche e normative, cui gli industriali opposero un netto rifiuto. Alla fine di
agosto, in risposta alla serrata (cioè alla chiusura degli stabilimenti) attuata da
un'azienda milanese, la Fiom ordinò ai suoi aderenti di occupare le fabbriche. Nei
primi giorni di settembre, quasi tutti gli stabilimenti metallurgici e meccanici (e
anche di altri settori) furono occupati da circa 400.000 operai, che issarono le
bandiere rosse sui tetti delle officine, organizzarono servizi armati di vigilanza e
cercarono, ove possibile, di proseguire da soli il lavoro. L'occupazione delle
fabbriche raggiunse una dimensione prerivoluzionaria, acuendo ancor più la crisi
del dopoguerra, e rappresentò la fase culminante del cosiddetto «biennio rosso».
La maggior parte dei lavoratori in lotta visse questa esperienza come l'inizio di un
moto rivoluzionario destinato ad allargarsi ben oltre le officine occupate. In realtà
il movimento non era in grado di uscire dalle fabbriche, di collegarsi ad altre lotte
sociali in corso (per esempio a quelle delle campagne padane), di porsi in modo
concreto il problema del potere. Nemmeno i gruppi più coerentemente
rivoluzionari, come i torinesi dell'«Ordine Nuovo», avevano idee precise sul
La politica interna tra politica
giolittiana e aspirazioni
rivoluzionarie
1 – La perdita di potere da parte
dello Stato
L'occupazione delle fabbriche
79
modo in cui spostare il movimento dal terreno della vertenza sindacale a quello
dell'attacco allo Stato. Prevalse così la linea dei dirigenti della Cgl, che
intendevano impostare lo scontro sul piano economico e proponevano come
obiettivo il controllo sindacale sulle aziende. Tale esito fu favorito dall'iniziativa
mediatrice di Giolitti, che si era attenuto a una linea di rigorosa neutralità, resistendo alle pressioni del padronato per un intervento della forza pubblica contro
le fabbriche occupate. Il 19 settembre, il capo del governo riuscì a far accettare ai
riluttanti industriali un accordo che accoglieva nella sostanza le richieste economiche della Fiom e affidava a una commissione paritetica l'incarico di elaborare
un progetto per il controllo sindacale (che peraltro non avrebbe trovato attuazione
pratica).
Sul piano sindacale, gli operai uscivano vincitori dallo scontro. Ma sul piano
politico la sensazione dominante era di delusione rispetto alle attese maturate nei
giorni «eroici» dell'occupazione. D'altro canto, gli industriali non nascondevano la
loro irritazione per aver dovuto subire le pressioni del governo. E la borghesia
tutta, passata la «grande paura» della rivoluzione, cominciava a serrare i suoi
ranghi, apprestandosi a sfruttare ogni occasione di rivincita.
L'esito dell'occupazione delle fabbriche lasciò nelle file del movimento operaio La nascita del partito comunista
del uno strascico di recriminazioni e polemiche. I dirigenti riformisti della Cgl
erano accusati di aver svenduto la rivoluzione in cambio di un accordo sindacale.
Ma anche la direzione massimalista del Psi era attaccata dai gruppi di estrema
sinistra per il suo comportamento incerto. Queste polemiche si intrecciarono con
le fratture provocate dal II Congresso del Comintern: dove, come si ricorderà,
erano state fissate le condizioni per l'ammissione dei partiti operai
all'Internazionale comunista. Due furono i punti più controversi: quello in cui si
ingiungeva ai partiti aderenti di assumere la denominazione di «Partito
comunista» e quello in cui si imponeva l'espulsione degli elementi «riformisti e
centristi». Serrati e i massimalisti rifiutarono di sottostare a queste condizioni: sia
perché le ritenevano lesive dell'autonomia del partito, sia perché sapevano che,
espellendo i riformisti, il Psi avrebbe perso buona parte dei suoi quadri sindacali,
dei suoi deputati, dei suoi amministratori locali.
Al congresso del partito, tenutosi a Livorno nel gennaio 1921, i riformisti non
furono espulsi e fu invece la minoranza di sinistra ad abbandonare il Psi per
fondare il Partito comunista d'Italia. Il nuovo partito nasceva così con una base
piuttosto ristretta e con un programma rigorosamente leninista, proprio nel
momento in cui la prospettiva rivoluzionaria si andava dileguando in Italia e in
tutta Europa. D'altra parte la scissione comunista non servì nemmeno a
determinare una svolta nel Psi: in questo partito la minoranza riformista rimase in
mano alla maggioranza massimalista sempre ferma nel rifiutare ogni ipotesi di
collaborazione con le forze borghesi e sempre più impotente a contrastare l'ondata
antisocialista che intanto andava montando nel paese.
L’abilità di Giolitti nel risolvere queste crisi non arrestò però il declino dello stato Il declino dello stato liberale
liberale. Fino all'ottobre 1922, quando il fascismo andrà al potere, infatti, il sistema politico italiano restò paralizzato. I liberali, numericamente indeboliti in
parlamento, non riuscivano più a ottenere l'appoggio per loro indispensabile né
dal Partito socialista né dal Partito popolare (cattolico). Lo stesso Giolitti perdeva
consensi presso industriali e finanzieri, ostili o preoccupati per le concessioni da
lui fatte ai sindacati; mentre i riformisti del Partito socialista, incalzati dalle
critiche interne dei massimalisti, diventavano più incerti nel sottoscrivere certe
misure antipopolari del governo, come quella che aboliva il prezzo politico del
pane. Dalle elezioni del maggio 1921 uscì un nuovo parlamento, frammentato in
ben undici raggruppamenti politici, ciascuno in contrasto con gli altri. Si era
creato un vuoto di potere, una situazione ingovernabile. Il mese dopo Giolitti si
dimise e ben tre governi si susseguirono nel vano tentativo di trovare una
soluzione.
80
Si chiudeva così la prima della tre fasi che hanno portato dallo stato Dallo stato liberaldemocratico al
liberaldemocratico all’instaurazione del regime fascista. Tale fase, che regime fascista
corrisponde agli ultimi mesi di vita del governo Giolitti (entrato in carica nel
giugno 1920), fu caratterizzata dalla progressiva perdita di autonomia della
società politica, cioè dalla "perdita di potere" da parte delle forze politiche
tradizionali e dall'incapacità delle istituzioni politiche di mediare i movimenti
della società civile (ottobre 1920 - giugno 1921); la seconda fase, caratterizzata da
una «situazione di stasi», in cui le forze sociali operarono in un vero e proprio
"vuoto di potere" istituzionale (luglio 1921 - ottobre 1922); infine la fase della
«presa del potere» da parte del movimento fascista.
L'agonia dello Stato liberale e la salita al potere del fascismo
Nel frattempo emergeva il movimento fascista, nato ufficialmente il 23 marzo
1919 a Milano, in piazza San Sepolcro, con il nome di «fasci di combattimento» a
opera dell'ex socialista Benito Mussolini. I1 programma politico del nuovo
movimento era eclettico e confuso: cercava di conciliare nazionalismo e riforme
sociali. Ai suoi esordi, il fascismo raccolse solo scarse ed eterogenee adesioni (ex
repubblicani, ex sindacalisti rivoluzionari, ex arditi di guerra e nelle elezioni del
'19 le liste dei Fasci ottennero poche migliaia di voti e nessun deputato). Ma si
fece subito notare per il suo stile politico aggressivo e violento, insofferente di
vincoli ideologici e tutto teso verso l'azione diretta.
Non a caso i fascisti furono protagonisti del primo grave episodio di guerra civile
dell'Italia postbellica: lo scontro con un corteo socialista avvenuto a Milano il 15
aprile '19 e conclusosi con l'incendio della sede dell'«Avanti!». Era il segno di un
clima di violenza e di intolleranza destinato ad aggravarsi col passare dei mesi, in
conseguenza sia dell'inasprimento delle tensioni sociali, sia delle polemiche
provocate dall'andamento della conferenza della pace.
Fino all'autunno del '20, il fascismo comunque aveva svolto un ruolo marginale
nella vita politica e non era uscito dall'ambito dei gruppetti di matrice interventista
a base urbana, intellettuale e piccolo-borghese. Tra la fine del '20 e l'inizio del '21,
il movimento subì un rapido processo di mutazione che lo portò ad accantonare
l'originario programma radical-democratico, a fondarsi su strutture paramilitari
(le squadre d'azione) e a puntare le sue carte su una lotta spietata contro il
movimento socialista, in particolare contro le organizzazioni contadine della Valle
Padana.
I proprietari terrieri scoprirono nei fasci lo strumento capace di abbattere il
potere delle leghe contadine socialiste e cominciarono a sovvenzionarli
generosamente. Il movimento fascista vide affluire nelle sue file nuove e numerose reclute: ufficiali smobilitati che faticavano a reinserirsi nella vita civile; figli
della piccola borghesia alla ricerca di nuovi canali di promozione sociale e di
affermazione politica; giovani e giovanissimi che non avevano fatto in tempo a
partecipare alla guerra e che trovavano l'occasione per combattere una loro
battaglia contro i veri o presunti nemici della patria. Nel giro di pochi mesi, il
fenomeno dello squadrismo dilagò in tutte le province padane, estendendosi
anche alle zone mezzadrili della Toscana e dell'Umbria e facendo qualche
sporadica comparsa nelle grandi città del Centro-Nord. Pressoché immune dal
contagio fascista rimase per il momento solo il Mezzogiorno, con l'eccezione
della Puglia, dove esisteva una fitta rete di leghe socialiste. È stato calcolato che
tra l’autunno del 1920 e quello successivo almeno 1500 operai e contadini furono
uccisi dai fascisti e dalla polizia.
Il successo travolgente dell'offensiva fascista non può spiegarsi solo con fattori di
ordine «militare»; né può essere imputato interamente agli errori dei socialisti, che
pure furono molti e di non poco conto. In realtà il movimento operaio, nel 1921-
La nascita del movimento
fascista
Il fascismo agrario e lo
squadrismo
81
1922, si trovò a combattere una lotta impari contro un nemico che godeva di un
notevole margine di impunità, potendo giovarsi della benevola neutralità, o
addirittura dell'aperto sostegno, di buona parte della classe dirigente e degli
apparati statali. Quasi mai la forza pubblica, portata a vedere nei fascisti dei naturali alleati nella lotta contro i «rossi», si oppose con efficacia alle azioni
squadristiche.
La stessa magistratura adottò nei confronti dei fascisti criteri ben diversi da quelli
usati contro i sovversivi di sinistra. Ma pesanti furono anche le responsabilità del
governo. Giolitti infatti, pur evitando di favorire apertamente lo squadrismo,
guardò con malcelata compiacenza allo sviluppo del movimento fascista,
pensando di servirsene per ridurre a più miti pretese i socialisti (e gli stessi popolari) e di poterlo in seguito «costituzionalizzare» assorbendolo nella maggioranza
liberale.
In questa strategia si inquadrava la decisione di convocare nuove elezioni per il
maggio 1921 e di favorire l'ingresso di candidati fascisti nei cosiddetti blocchi
nazionali, cioè nelle liste di coalizione in cui i gruppi «costituzionali»
(conservatori, liberali, democratici) si unirono per impedire una nuova
affermazione dei partiti .di massa. I fascisti ottenevano così una legittimazione da
parte della classe dirigente, senza per questo dover rinunciare ai metodi illegali.
Anzi, la campagna elettorale fornì loro lo spunto per intensificare intimidazioni e
violenze contro gli avversari. Ciononostante, i risultati delle urne delusero chi
aveva voluto le elezioni. I socialisti subirono una flessione piuttosto lieve (dal 32
al 25%), tenuto conto delle condizioni anomale in cui si era votato in molti collegi
e dell'incidenza della scissione comunista (il Pci ottenne quasi il 5% dei voti). I
popolari addirittura si rafforzarono. I gruppi liberal-democratici uniti nei blocchi
nazionali migliorarono le loro posizioni, ma non tanto da riacquistare il completo
controllo del Parlamento. In definitiva, la maggior novità fu costituita
dall'ingresso alla Camera di 35 deputati fascisti, capeggiati da un Mussolini
deciso a giocare il ruolo di nuovo arbitro della politica nazionale.
L'esito delle elezioni di maggio mise praticamente fine all'ultimo esperimento
governativo di Giolitti, che si dimise all'inizio di luglio.
Il suo successore, l'ex socialista Ivanoe Bonomi, tentò di far uscire il paese dalla
guerra civile favorendo una tregua d'armi fra le due parti in lotta. Una tregua
teorica fu in effetti conclusa nell'agosto 1921, con la firma di un patto di pacificazione tra socialisti e fascisti. Il patto consisteva in un generico impegno per la
rinuncia alla violenza da ambo le parti. I socialisti, in particolare, accettavano di
sconfessare le formazioni degli arditi del popolo, ossia quei gruppi di militanti di
sinistra che si erano organizzati spontaneamente in alcune città per opporsi allo
squadrismo.
Il patto rientrava in quel momento nella strategia di Mussolini, che mirava a
inserirsi nel gioco politico «ufficiale» e temeva il diffondersi di una reazione
popolare contro lo squadrismo. Questa strategia non era però condivisa dai fascisti
intransigenti, che si riconoscevano nello squadrismo agrario e nei suoi capi locali,
i cosiddetti ras (un nome ricalcato ironicamente su quello dei signori feudali
etiopici).
I «ras» (Grandi a Bologna, Farinacci a Cremona, Balbo a Ferrara, per citare solo i
più noti) sabotarono in ogni modo il patto di pacificazione e giunsero a mettere in
discussione la leadership di Mussolini.
La ricomposizione delle fratture si ebbe al congresso dei Fasci tenutosi a Roma ai
primi di novembre. Mussolini si rese conto di non poter fare a meno della massa
d'urto dello squadrismo agrario e sconfessò il patto di pacificazione (che del resto
non aveva mai funzionato sul serio). I «ras» riconobbero la guida politica di
Mussolini e accettarono la trasformazione del movimento fascista in un vero e
proprio partito, cosa che avrebbe limitato non poco la loro libertà d'azione.
Nasceva così il Partito nazionale fascista (Pnf), che poteva contare su una base di
oltre 200.000 iscritti.
Le elezioni del maggio 1921
2 – La stasi istituzionale
Il governo Bonomi e il patto di
pacificazione
82
Mentre il fascismo acquistava forza e compattezza, si consumava la parabola del
ministero Bonomi. Nel febbraio 1922, dopo un veto posto da Sturzo al ritorno al
potere di Giolitti, la guida del governo fu affidata a Luigi Facta, un giolittiano
dalla personalità alquanto sbiadita. Con la costituzione del ministero Facta,
l'agonia dello Stato liberale entrò nella sua fase culminante. La scarsa autorità
politica del nuovo governo finì col dare ulteriore spazio alla dilagante violenza
squadrista.
Condotto dalle sue stesse dimensioni, e dalla vastità degli interessi che ormai
rappresentava, a superare l'ambito prevalentemente locale entro il quale si era
mosso fin allora, il fascismo si rese protagonista, a partire dalla primavera del '22,
di operazioni sempre più ampie e clamorose: scorrerie che coinvolgevano intere
province, occupazione in armi di grandi centri, come Ferrara, Bologna e
Cremona.
All'offensiva del fascismo — che giocava contemporaneamente su due tavoli,
quello della violenza armata e quello della manovra politica — i socialisti non
seppero opporre risposte efficaci né sul piano della tattica parlamentare né su
quello della mobilitazione di massa.
Addirittura disastrosa nei suoi effetti si rivelò la decisione, presa dai dirigenti
sindacali, di proclamare per il 1° agosto uno sciopero generale legalitario in difesa
delle libertà costituzionali. I fascisti colsero il pretesto per atteggiarsi a custodi
dell'ordine e per lanciare una nuova e più violenta offensiva contro il movimento
operaio. Per un'intera settimana le camicie nere si scatenarono contro sezioni,
circoli, sedi di organizzazioni e giornali socialisti, attaccando le ultime roccheforti
«proletarie», come Milano, Genova, Ancona, Livorno e Parma (fu questa l'unica
città. in cui la popolazione resistette validamente all'attacco squadrista).
Assicuratosi il controllo della piazza e sbaragliato il movimento operaio, il
fascismo era costretto a porsi il problema della conquista dello Stato. Solo
insediandosi al potere il partito avrebbe potuto andare incontro alle aspettative
delle masse ormai ingenti che si raccoglievano nelle sue file ed evitare il pericolo
di una reazione di rigetto da parte di quelle forze moderate che, avendo
appoggiato lo squadrismo in funzione antisocialista, avrebbero potuto ritenerne
ormai esaurito il ruolo. In questa delicata fase Mussolini giocò, come al solito, su
due tavoli. Da un lato intrecciò trattative con tutti i più autorevoli esponenti
liberali in vista della partecipazione fascista a un nuovo governo; rassicurò la
monarchia sconfessando le passate simpatie repubblicane; si guadagnò il favore
degli industriali annunciando di voler restituire spazio all'iniziativa privata.
Dall'altro lasciò che l'apparato militare del fascismo si preparasse apertamente alla
presa del potere mediante un colpo di Stato.
Cominciò così a prender corpo il progetto di una marcia su Roma, ossia di una
mobilitazione generale di tutte le forze fasciste, con obiettivo la conquista del
potere centrale. L'inizio della mobilitazione fu fissato al 27 ottobre. Un piano del
genere non avrebbe avuto alcuna possibilità di successo se avesse incontrato una
ferma reazione da parte delle autorità. Per quanto numerose, le squadre fasciste
erano pur sempre delle bande indisciplinate ed equipaggiate in modo
approssimativo, non certo in grado di affrontare uno scontro con l'esercito
regolare. Lo stesso Mussolini credeva poco nella possibilità di un successo
«militare» e pensava piuttosto di servirsi della mobilitazione come di un mezzo di
pressione politica, contando sulla debolezza del governo e sulla benevola
neutralità della corona e delle forze armate.
In effetti, nel generale disfacimento dei poteri statali (il ministero Facta si dimise
proprio il 27 ottobre), fu l'atteggiamento del re a risultare decisivo. Vuoi perché
non sicuro della lealtà dei vertici militari, vuoi perché deciso a evitare a ogni
costo una guerra civile, Vittorio Emanuele III rifiutò, la mattina del 28 ottobre, di
firmare il decreto per la proclamazione dello stato d'assedio (cioè per il
passaggio dei poteri alle autorità militari), che era stato preparato in tutta fretta dal
governo già dimissionario. Il rifiuto del re aprì alle camicie nere la strada di Roma
Il governo Facta
La strategia fascista: violenza
armata e manovra politica
Lo sciopero generale legalitario
La marcia su Roma e la
conquista dello Stato
83
e al loro capo la via del potere. Forte della resa ottenuta senza colpo ferire,
Mussolini non si accontentò della soluzione auspicata dal re e dagli ambienti
moderati (partecipazione fascista a un governo guidato da un esponente
conservatore), ma chiese e ottenne di essere chiamato lui stesso a presiedere il
governo.
La mattina del 30 ottobre, mentre alcune migliaia di squadristi cominciavano a
entrare nella capitale senza incontrare alcuna resistenza, Mussolini fu ricevuto dal
re. La sera stessa il nuovo gabinetto era già pronto. Ne facevano parte, oltre a
cinque fascisti, esponenti di tutti i gruppi che avevano partecipato ai precedenti
governi: liberali giolittiani, liberali di destra, democratici e popolari.
Il fascismo degli anni Venti: la «fascistizzazione» dello stato
3 – La conquista del potere
Dal 1922 al 1925, mentre continuarono le violenze degli squadristi (ne fecero le
spese anche esponenti liberali, come Giovanni Amendola, e cattolici, come don
Giovanni Minzoni), Mussolini utilizzò il suo potere «costituzionale» di presidente
del consiglio per trasformare le strutture del vecchio stato liberale.
Il disegno governativo di Mussolini fu subito chiaro: si trattava di favorire
un'opera di normalizzazione dei quadri minori del fascismo, con l'allontanamento
delle correnti più intransigenti e rivoluzionarie, e di allargare i propri consensi in
direzione delle altre forze politiche di centro e di destra.
Il 26 febbraio 1923 fu sancita la fusione con i nazionalisti; poi fu la volta del
Partito popolare, sottoposto alla duplice pressione della diplomazia vaticana e
della violenza squadrista. Le dimissioni di don Luigi Sturzo dalla segreteria (10
luglio 1923) diedero via libera alle tendenze collaborazioniste già manifestatesi
nel partito.
Nel 1923 le squadre vennero inquadrate nella Milizia volontaria per la sicurezza
nazionale. Era una soluzione che consentiva a Mussolini di controllare le spinte
centrifughe del suo movimento e, contemporaneamente, di mantenere in vita
un'organizzazione armata di partito, che poteva sostituirsi all'esercito, nel caso
(improbabile) che si fosse aperto un conflitto con la monarchia.
Il raccordo tra gli uomini e le organizzazioni che avevano portato il fascismo al
potere e le istituzioni dello Stato liberale fu consolidato con la creazione del Gran
Consiglio del fascismo (11 dicembre 1922), di cui furono chiamati a far parte, tra
gli altri, i membri della direzione del PNF, alti esponenti del movimento e tutti i
ministri fascisti. Al nuovo organo dello Stato, direttamente controllato dal partito
fascista e da Mussolini, furono attribuite molte funzioni che prima spettavano al
Parlamento svuotandolo quindi di potere.
Il 21 luglio 1923 fu approvata una nuova legge elettorale, la legge Acerbo, che
prevedeva un "premio di maggioranza" (pari ai due terzi dei seggi parlamentari)
per la lista che avesse ottenuto almeno il 25% dei voti: era una legge punitiva e
discriminatoria per le minoranze, ma fu comunque approvata grazie al voto
favorevole dei popolari e del blocco liberale. Mussolini intendeva così sbarazzarsi
di un Parlamento eletto in un'altra stagione politica, con una rappresentanza
ancora troppo vistosa di socialisti e comunisti. Alle elezioni, fissate per il 6 aprile
1924, fu presentata una lista governativa — il cosiddetto "listone" — nella quale,
insieme ai fascisti, figuravano molti esponenti della classe dirigente liberale (Salandra, Orlando, De Nicola, il presidente della Confindustria, Gino Olivetti ecc.).
La campagna elettorale fece registrare violenze e pestaggi, ma, alla fine, la vittoria dei fascisti fu meno clamorosa di quanto ci si aspettasse: sulle loro liste confluirono 4 884 000 voti (il 64,9%), che fruttarono trecentosettantaquattro seggi
(duecentosessanta ai fascisti, centoquattordici ai fiancheggiatori); gli avversari
riuscirono comunque a ottenere 237.300 voti, distribuiti tra comunisti (diciannove
seggi) , socialisti unitari (ventiquattro seggi), socialisti massimalisti (ventidue
La costruzione dello Stato
totalitario
Il controllo dei partiti
Milizia volontaria per la
sicurezza nazionale
Gran Consiglio del fascismo
La nuova legge elettorale e le
elezioni del 1924
84
seggi), popolari (trentanove seggi), democratico-sociali (dieci seggi) e altre liste
minori.
All'apertura della nuova legislatura, il 30 maggio 1924, il leader socialista
Giacomo Matteotti (1885-1924) denunciò in Parlamento le violenze, i brogli e le
irregolarità che avevano segnato la campagna elettorale. La reazione fascista fu
terribile. 11 10 giugno Matteotti fu rapito e assassinato da una "squadra" fascista.
L'indignazione del Paese fu enorme e il fascismo attraversò la più grave crisi mai
affrontata fino ad allora. Il 27 giugno 1924 le opposizioni decisero di non
partecipare ai lavori del nuovo Parlamento, ritirandosi, come i plebei nell'antica
Roma, in un metaforico Aventino e rivolgendo un appello al re perché varasse un
nuovo governo in grado di provvedere a un effettivo ripristino della legalità.
Nello stesso partito fascista la crisi rilanciò la polemica tra le due anime, quella
eversiva, che manifestò il suo plauso al delitto, e quella legalitaria che disapprovava quei metodi. Alla fine di dicembre fu pubblicato il memoriale dello squadrista
Cesare Rossi, che provava le responsabilità di Mussolini nel delitto. Le
opposizioni non riuscirono però a sfruttare l'occasione propizia, invischiate
nell'attesa paralizzante di un gesto del re, che non arrivò. L'obiettivo di isolare
moralmente il fascismo e di costringere il re a risolvere la crisi si rivelò
impraticabile e, di fatto, furono lasciati a Mussolini tutti gli strumenti del potere,
mentre il timore di una sanguinosa guerra civile e l'attitudine legalitaria
impedivano ai suoi oppositori di chiamare il popolo alla rivolta.
La prima mossa toccò ancora una volta a Mussolini.
Mussolini aveva avuto tutto il tempo per capire che gli "aventiniani" non avevano la forza per rovesciarlo, che il re non sarebbe intervenuto, che lo sdegno
popolare si sarebbe attenuato. Il 3 gennaio 1925, alla riapertura delle Camere,
Mussolini ruppe ogni indugio dichiarando: «Se il fascismo è stata un'associazione
a delinquere io sono stato il capo di quell'associazione a delinquere», assumendosi
così la piena paternità del delitto e la relativa responsabilità «politica, morale e
storica». Era l'inizio vero e proprio del regime dittatoriale. Tre giorni dopo, il
ministro degli Interni riferiva che erano stati chiusi novantacinque circoli politici,
sciolte venticinque organizzazioni sovversive, chiusi centocinquanta esercizi
pubblici: c'erano state seicentocinquantacinque perquisizioni, con centoundici
arrestati. Per i partiti politici dell'opposizione era finita: il 24 novembre 1925 fu
varata la nuova legge sul controllo di tutte le associazioni politiche "segrete"; i
partiti sarebbero scomparsi, dichiarati ufficialmente illegali, un anno dopo.
Le istituzioni del nuovo Stato totalitario furono costruite intorno a due principi
cardine: l'edificazione del potere personale di Mussolini e la cancellazione delle
libertà di cui avrebbero potuto beneficiare le opposizioni. Il 24 dicembre 1925 fu
approvata la legge sulle attribuzioni e le prerogative del capo del governo,
riconosciuto «organo precipuo attraverso il quale si estrinseca la sovranità dello
Stato»; potendo emanare norme giuridiche senza dover chiedere l'approvazione
delle Camere, il capo del governo non era quindi più responsabile dinanzi al
Parlamento e dipendeva, formalmente, solo dal re.
A questo accentramento autoritario del potere, corrispondeva la smobilitazione di
tutti i centri periferici dell'autogoverno e delle autonomie locali. Il 4 febbraio
1926 furono aboliti i consigli comunali e i sindaci elettivi, sostituiti da podestà di
nomina regia, mentre veniva rafforzata l'autorità dei prefetti nelle province. L'8
ottobre 1926, un nuovo statuto del PNF aboliva tutte le cariche elettive, così che
le gerarchie del partito venivano determinate unicamente con le nomine dall'alto.
Il 9 dicembre 1928, fu definitivamente "costituzionalizzato" il Gran Consiglio, al
quale furono affidati compiti molto delicati, come il diritto esclusivo di avanzare
proposte di legge riguardanti la successione al trono, i poteri del re e le
attribuzioni del capo del governo.
La legge 2008, — Provvedimenti per la difesa dello Stato —, discussa dal
Consiglio dei ministri il 5 novembre 1926 ed entrata in vigore il 25 novembre
1926, completò questa prima costruzione delle fondamenta dello Stato totalitario:
Il delitto Matteotti e l'Aventino
Il discorso del 3 gennaio 1925
Il ruolo istituzionale di
Mussolini
La smobilitazione dei centri di
potere periferici
La restrizione delle libertà e il
partito unico
85
fu soppressa la libertà di stampa, furono sciolti i partiti e le associazioni,
dichiarati decaduti i "deputati dell'Aventino", fu istituito il confino di polizia. Il
regime diventava a partito unico, lasciando il monopolio della rappresentanza
politica al solo PNF. Al vertice della piramide repressiva fu collocato il Tribunale L’apparato repressivo
speciale per la difesa dello Stato. Introdotto insieme alla pena di morte, il
Tribunale avrebbe svolto con solerte efficienza i propri compiti. La sua
composizione — era formato esclusivamente da giudici scelti tra ufficiali
provenienti dal regio esercito, dalla regia marina, dalla regia aeronautica e dalla
Milizia volontaria per la sicurezza nazionale —, la sua competenza, limitata ai più
gravi delitti contro la personalità dello Stato, la sua distribuzione territoriale —
era unico per tutto il regno e risiedeva a Roma — ne facevano una straordinaria
macchina repressiva.
Dopo il partito unico e le leggi di polizia, fu la volta della soppressione delle La soppressione delle libertà
libertà sindacali. Una legge del 3 aprile 1926 lasciava in vita solo due sindacali
confederazioni sindacali, una di imprenditori e una di lavoratori, affidate
entrambe a dirigenti fascisti; nei conflitti sindacali venivano vietati gli scioperi
(l'astensione dal lavoro da parte dei lavoratori) e la serrata (la chiusura degli
stabilimenti da parte de- gli imprenditori), e per la loro risoluzione ci si affidava
all'arbitrato di una speciale Magistratura del lavoro. Queste disposizioni furono
riprese e ampliate nella successiva Carta del lavoro (21 aprile 1927), che affidava
alle corporazioni (definite "organizzazioni unitarie delle forze di produzione" e
che erano in realtà associazioni di categoria che riunivano insieme lavoratori e
datori di lavoro) il compito di disciplinare e coordinare tutti gli aspetti dell'attività
produttiva: il documento fu voluto soprattutto dal giurista Alfredo Rocco e
riprendeva le linee della legge del 1926, ponendo come obiettivo «il benessere dei
produttori e lo sviluppo della potenza nazionale». Lo stesso Rocco completò la
sua opera di riorganizzazione legislativa dello Stato fascista con la riforma del
Codice di diritto penale che portava il suo nome.
Il fascismo degli anni Venti in economia
In politica economica il fascismo oscillò fra un primo periodo liberista e un
secondo (maturato pienamente negli anni Trenta) di forte intervento statale. La Il periodo liberista
prima fase fu gestita dal ministro liberale Alberto De Stefani. Egli, rimuovendo i
vincoli della precedente «economia di guerra», agevolò le privatizzazioni (dei
telefoni, delle assicurazioni sulla vita, ecc.), detassò i capitali esteri per incoraggiare gli investimenti e abolì le imposte sui capitali delle banche e delle industrie.
Questi provvedimenti giovarono soprattutto alle imprese esportatrici, che
s'inserirono nel mercato internazionale allora in favorevole congiuntura. Attorno
al 1925, però, l'andamento positivo del mercato europeo venne meno. Sul piano
internazionale la più dinamica economia americana imponeva la sua egemonia e
presto anche l'Italia ne subì i contraccolpi: le esportazioni si ridussero e la moneta
si svalutò. Il liberismo fu abbandonato e venne inaugurata la nuova strategia
«dirigista»: lo stato diventa protagonista e organizzatore dell'economia.
Come prima misura dettata dal nuovo orientamento, Mussolini e il nuovo ministro
delle Finanze, Giuseppe Volpi di Misurata, decisero di rivalutare la lira, che, La rivalutazione della lira,
sottoposta ad attacchi speculativi, aveva un rapporto di cambio di 155 a 1 nei
confronti della sterlina. Il nuovo cambio fu fissato unilateralmente a 90 lire per
sterlina. Era la quotazione della lira del 1922, anno della «marcia su Roma», e la
decisione fu propagandata con il termine militaresco «quota 90», che ricordava le
battaglie in montagna della Grande guerra. La scelta provocò la crisi di vari settori
industriali (per esempio il tessile e l'ortofrutticolo), diventati meno competitivi, ed
espose il mercato italiano alla concorrenza straniera, attirata dalla rivalutazione
della moneta. Questo provvedimento, oltre a difendere i ceti medi a reddito fisso,
86
tradizionale base sociale del fascismo, preparò una svolta strategica nell'economia Stato e gruppi industriali
italiana. Iniziava, infatti, il «capitalismo di stato», che sarà l'aspetto saliente
dell'economia italiana anche dopo la Seconda guerra mondiale. Lo stato fascista
privilegiava, in veste di acquirente e di finanziatore, gli interessi dei grandi
gruppi industriali (auto, elettricità, chimica) e dell'industria pesante. A subire,
invece, gli effetti negativi sia della crisi economica sia della svolta interventista
dello stato fascista furono i lavoratori salariati: le perdite dei profitti all'estero,
infatti, vennero recuperate con un aumento della produttività e una drastica
riduzione dei salari operai e di quelli agricoli.
La subordinazione del lavoro agli interessi del grande capitale fu un obiettivo del Il «corporativismo
fascismo perseguito coerentemente anche sul piano legislativo: nel 1925, con il
«Patto di palazzo Vidoni», la Confindustria decideva di riconoscere come controparte solo le «corporazioni nazionali» fasciste e di escludere da ogni trattativa
le residue organizzazioni della Cgl e del sindacalismo cattolico; nel 1926 venne
varata una legge che proibiva lo sciopero; e, nell'aprile 1927, fu promulgata la
«Carta del Lavoro». In modi spesso maldestri e demagogici si tentò di affermare
il «corporativismo» come terza via, un'alternativa fascista sia al capitalismo che al
socialismo: abolendo ogni lotta di classe e rinunciando alle loro rappresentanze
autonome (sindacati, Confindustria), gli imprenditori, i lavoratori e i tecnici,
inquadrati in un unico organo statuale, la corporazione dei produttori, avrebbero
dovuto subordinare i loro specifici interessi ai «superiori interessi della nazione».
Di fatto, la politica economica fascista premiò costantemente gli interessi dei
grandi gruppi industriali a spese di quelli dei lavoratori salariati. La scelta corporativa rimase però un'operazione di facciata ben poco efficace: solo dal 1934 le
22 corporazioni istituite ebbero compiti consultivi, alimentando per lo più
burocrazie e clientele.
Fascismo e chiesa cattolica: Patti lateranensi e plebiscito del 1929
L' 11 febbraio 1929 Mussolini e il cardinale Gasparri, segretario dello Stato Vaticano, firmarono i Patti lateranensi. Si chiudeva così la «questione romana»,
apertasi nel 1870 con la conquista di Roma da parte del Regno d'Italia. I Patti
lateranensi prevedevano un accordo diplomatico e un Concordato. Il primo
concedeva piena sovranità al papato sulla città del Vaticano, in cambio del
riconoscimento di Roma come capitale d'Italia, e un consistente risarcimento
finanziario per la rinuncia allo Stato pontificio. Il secondo riconosceva il
cattolicesimo come «religione di stato» e attribuiva alla chiesa cattolica rilevanti
privilegi: piena libertà di culto, effetti civili del matrimonio religioso e
insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole. Subito dopo la
firma dei Patti lateranensi e anche grazie al rinnovato appoggio della chiesa
cattolica, in occasione del plebiscito del 24 marzo 1929 (i cittadini dovevano dire
«sì» o «no» a una lista unica), il fascismo ottenne i1 98% dei voti.
La chiesa cattolica non era fascista, ma le due istituzioni, malgrado alcuni attriti,
seppero utilizzarsi a vicenda; e, nel 1929, Patti lateranensi e appoggio al plebiscito
a favore di Mussolini, confermarono un rapporto di convivenza fra fascismo e
gerarchie della chiesa cattolica durato per tutto il ventennio, malgrado il disagio
morale di molti cattolici. In ogni caso, la capacità di trovare una soluzione alla
ormai vecchia questione della relazione con la chiesa permise al fascismo di
aumentare il proprio prestigio, costituendo un tassello significativo della sua abile
politica culturale nel rapporto con le masse.
Se il fascismo trasse dai Patti lateranensi immediati vantaggi politici, fu però il
Vaticano a cogliere i successi più significativi e duraturi. In cambio della rinuncia
a qualcosa che aveva irrevocabilmente perduto da quasi sessant'anni (il potere
temporale), la Chiesa acquistò una posizione di indubbio privilegio nei rapporti
I Patti lateranensi
Il plebiscito del 24 marzo 1929
Il rapporto di convivenza fra
fascismo e gerarchie della chiesa
87
con lo Stato — anche in materie importanti come l'istruzione e la legislazione
matrimoniale — e rafforzò notevolmente la sua presenza nella società.
Mantenendo intatta la rete di associazioni e circoli facente capo all'Azione cattolica, la gerarchia ecclesiastica si assicurava un largo margine di autonomia
operativa ed entrava in concorrenza col fascismo proprio nel settore che stava più
a cuore al regime: quello delle organizzazioni giovanili. Di questi spazi la Chiesa
non si servi mai per fare opera di opposizione; li usò, però, per educare ai suoi
valori una parte non trascurabile della gioventù, per formare una classe dirigente
capace, all'occorrenza, di prendere il posto di quella fascista: cosa che di fatto si
verificò nel secondo dopoguerra.
Il fascismo degli anni Trenta e lo “stato-imprenditore”
Gli anni Trenta sono il culmine dell'«età della catastrofe», secondo lo storico La crisi del ‘29
Hobsbawm, a causa della traumatica crisi economica internazionale del 1929,
simboleggiata dal crollo della Borsa di Wall Street. Con un certo ritardo, la crisi
arrivò anche nell'Italia fascista, ancora poco industrializzata e prevalentemente
agricola.
Colpite dalla crisi erano in particolare le grandi «banche miste» (Banca
commerciale e Credito italiano) che, create alla fine dell'800 allo scopo di
sostenere gli investimenti nell'industria, si erano trovate a controllare quote
azionarie sempre più consistenti di importanti gruppi industriali. La caduta della
borsa che si verificò anche in Italia in coincidenza con la grande crisi mise in
grave difficoltà le banche, le quali, per sostenere il corso dei titoli, effettuarono
nuovi massicci acquisti, aggravando così la loro esposizione.
Il liberismo fu abbandonato e venne inaugurata la nuova strategia «dirigista»: lo La nuova strategia «dirigista»
stato diventa protagonista e organizzatore dell'economia.
Per far fronte alla crisi e salvare le banche dal fallimento, il governo intervenne
creando dapprima (1931) un istituto di credito pubblico (l'Imi, Istituto mobiliare
italiano) col compito di sostituire le banche nel sostegno alle industrie in crisi e
dando vita due anni dopo (1933) all'Istituto per la ricostruzione industriale (Iri),
dotato di competenze eccezionalmente ampie. Valendosi di fondi forniti in gran
parte dallo Stato, l'Iri divenne azionista di maggioranza delle banche in crisi e ne
rilevò le partecipazioni industriali, acquistando così il controllo di alcune fra le
maggiori imprese italiane (fra le altre l'Ansaldo, l'Ilva e la Terni). Nei progetti
originari, il compito dell'Istituto avrebbe dovuto essere transitorio, limitandosi al
risanamento delle imprese in crisi in vista di una loro «riprivatizzazione».
Accadde invece che la riprivatizzazione risultò impraticabile (date le dimensioni
delle imprese e i rischi connessi alla loro gestione) e l'Iri diventò, nel '37, un ente
permanente.
In questo modo lo Stato italiano si trovò a controllare, sia pur indirettamente, una Il capitalismo di stato in Italia
quota dell'apparato industriale e bancario superiore a quella di qualsiasi altro Stato
(salvo naturalmente l'Urss): diventò cioè Stato-imprenditore oltre che Statobanchiere. Ciò non significa che l'Italia si avviasse verso un sistema di economia
statalizzata, né che l'autonomia dell'insieme delle imprese capitalistiche fosse
seriamente scalfita. Al contrario, i maggiori gruppi privati furono aiutati a
rafforzarsi e a ingrandirsi e accolsero con favore l'intervento statale, che finiva
con l'accollare alla collettività i costi della crisi industriale e bancaria.
L'intervento statale portò a una progressiva subordinazione dell'agricoltura
all'industria, ma avviò anche ambiziosi programmi di lavori pubblici che
guadagnarono consensi al regime: la bonifica delle paludi pontine, la costruzione
di nuove città (Littoria e Sabaudia), la ristrutturazione del centro di Roma,
l'ampliamento della rete stradale, la costruzione dell'acquedotto pugliese.
A partire dal '35, Mussolini si lanciò in una politica di dispendiose imprese
88
militari che sottrasse risorse ai consumi e agli investimenti produttivi e accentuò
l'isolamento economico del paese, senza nemmeno ottenere, tranne che per i
settori interessati alle commesse belliche, quegli effetti positivi che il riarmo
produsse sulla ben più forte struttura industriale della Germania nazista.
Cominciava per l'Italia una lunga stagione di economia di guerra destinata a
prolungarsi senza soluzione di continuità fino al secondo conflitto mondiale.
La politica estera del fascismo
Fino ai primi anni '30, le aspirazioni imperiali del fascismo rimasero vaghe e
spesso contraddittorie e si tradussero, più che in una coerente direttiva di politica
estera, in una generica contestazione dell'assetto uscito dai trattati di Versailles:
dunque appoggio alle velleità revisioniste dei paesi insoddisfatti (come Ungheria
e Austria); polemica ricorrente contro le democrazie «plutocratiche»,
contrapposte, secondo una formula già cara ai nazionalisti, all'Italia «proletaria»,
ricca di popolazione ma povera di risorse; richiesta, mai precisata nei dettagli, di
un nuovo equilibrio mediterraneo più favorevole all'Italia.
Per tutti gli anni Venti, in politica estera il fascismo ebbe comunque un atteggiamento moderato. Scelse un comportamento amichevole verso Francia e
Inghilterra. In cambio della restituzione di Fiume, riconobbe la Jugoslavia
(gennaio 1924), e poi la stessa Unione Sovietica (7 febbraio 1924). Si mostrò
ostile alla Germania, che intralciava le mire egemoniche di Mussolini
sull'Austria.
Nel 1932, la politica estera del regime cambiò. Mussolini costrinse il suo ministro
degli Esteri, Grandi, un fascista moderato e filoinglese, a dimettersi dall'incarico,
e assunse personalmente il ministero, iniziando una politica bellicista di
espansione in Africa e nel Mediterraneo. La spinta alla guerra fu rafforzata dall'inasprimento dei conflitti economici internazionali in seguito alla crisi del 1929 e
dalla vittoria in Germania di Hitler. Diventato il 30 gennaio 1933 cancelliere, il
capo del nazismo, pur riconoscendo il proprio debito con il fascismo, dimostrò
subito di essere un suo temibile concorrente. Infatti, nel luglio 1934 fece
eliminare il cancelliere austriaco Dolfuss, alleato di Mussolini, che contava su di
lui per esportare in Austria il suo modello di fascismo. Facendo leva sulle
preoccupazioni di Francia e Inghilterra, la diplomazia fascista sottoscrisse con loro nella conferenza di Stresa (aprile 1935) una condanna del riarmo tedesco,
chiedendo anche garanzie per l'indipendenza dell'Austria.
L'accordo di Stresa fu la manifestazione più significativa di questa fase della
politica estera fascista. Ma fu anche l'ultima. Mentre si accordava con le
democrazie occidentali per contrastare il riarmo tedesco, Mussolini stava già
preparando l'aggressione all'Impero etiopico, unico grosso Stato indipendente del
continente africano.
L'Etiopia dal 1923 era uno stato membro della Società delle Nazioni, legato da un
patto di ventennale amicizia con l'Italia. Il governo fascista non esitò ad attuare
nell'ottobre 1935 la sua invasione.
A spingere Mussolini verso un'impresa di cui pochi in Italia sentivano la
necessità, e che presentava costi economici e umani sproporzionati ai possibili
vantaggi concreti, furono motivi di politica interna e internazionale. Con la guerra
d'Etiopia Mussolini intendeva innanzitutto dare uno sfogo alla vocazione
imperiale del fascismo, vendicando lo scacco subìto dall'Italia nel 1896 con la
sconfitta di Adua e mostrando che il suo regime poteva riuscire là dove la classe
dirigente liberale aveva fallito. Ma voleva anche creare una nuova occasione di
mobilitazione popolare che facesse passare in secondo piano i problemi
economico-sociali del paese (in particolare la disoccupazione, che si manteneva
su livelli piuttosto alti). Mussolini pensava inoltre di poter sfruttare la favorevole
Anni venti: tra velleità
revisionistiche e atteggiamento
moderato
Anni trenta: la politica bellicista
L’aggressione all’Etiopia
89
congiuntura diplomatica creata dalla politica hitleriana, che rendeva l'amicizia
dell'Italia più preziosa che in passato per le potenze occidentali.
La guerra coloniale fu condotta dispiegando il massimo della potenza militare
italiana per ottenere una facile e clamorosa vittoria. Contro 300.000 etiopi privi di
armamenti moderni fu schierato, infatti, un esercito enorme (400.000 uomini,
10.000 mitragliatrici, 1.100 cannoni, 250 carri armati, 350 aerei). Fu autorizzato
anche l'uso di gas asfissianti sia contro i combattenti che contro la popolazione
civile. E il 9 maggio 1936 Mussolini ebbe quell'impero che secondo l'ideologia
razzista del fascismo era un'estensione della nuova civiltà fascista a popoli
inferiori. Vane furono le proteste in tutto il mondo contro l'invasione. L'Italia fu
condannata dalla Società delle Nazioni come «stato aggressore» e sottoposta a
«sanzioni» (blocco del commercio
e della fornitura di materiali strategici).
L'impresa coloniale in Etiopia portò all'isolamento internazionale dell’Italia
e
spinse il regime a lanciare con gran clamore la politica economica
dell'«autarchia». Essa prevedeva misure protezionistiche e un enorme sforzo
industriale per produrre in Italia le merci in precedenza importate. In realtà le
sanzioni economiche non furono mai attuate per la mancata adesione di due
potenze come la Germania, che era uscita dalla Società delle Nazioni, e gli Stati
Uniti, che non vi erano entrati.
Da un punto di vista economico, la conquista dell'Etiopia, paese povero di risorse
naturali e poco adatto agli insediamenti agricoli, rappresentò per l'Italia un peso
non indifferente, aggravato dai problemi suscitati dalle sanzioni (poco efficaci
militarmente, ma dannose per il commercio) e non compensato dai temporanei
benefici arrecati all'industria dalla produzione bellica. Ma sul piano politico il
successo fu clamoroso e indiscutibile. Portando a termine una campagna coloniale
vittoriosa, imponendo la propria volontà alle democrazie occidentali e costringendole poi ad accettare il fatto compiuto (le sanzioni furono ritirate nell'estate del
'36 e, successivamente, Gran Bretagna e Francia riconobbero l'Impero italiano in
Africa orientale), Mussolini diede a molti la sensazione di aver conquistato per
l'Italia uno status di grande potenza.
L'irritazione di Mussolini contro Francia e Inghilterra e l'illusione di poter acquistare potere sullo scacchiere internazionale lo spinsero sempre più fra le braccia
della Germania. L'Italia partecipò al suo fianco alla guerra di Spagna del 1936 in
appoggio al golpista Franco, uscì dalla Società delle Nazioni nel 1937 e stabilì
con il partner tedesco un rapporto privilegiato in campo economico e militare
(«asse Roma-Berlino») e politico (impegno nella lotta al «bolscevismo», cioè
contro l'Urss). Si trattò di un'alleanza subordinata. Negli anni seguenti, infatti,
Mussolini dovrà accettare l'annessione dell'Austria da parte della Germania
(marzo 1938) e accodarsi all'antisemitismo hitleriano. Promulgò egli pure delle
«leggi razziali» (autunno 1938). Il Patto d'acciaio (maggio 1939) tra Mussolini e
Hitler ratificò definitivamente tale subordinazione. Esso non prevedeva neppure
l'obbligo tra i due contraenti d'informarsi preventivamente e trascinò l'Italia
militarmente impreparata nella tragedia della Seconda guerra mondiale.
Il duce auspicava per l'Italia un avvenire di conquiste e di confronti militari.
Ciò implicava da parte del duce un atteggiamento duro e quasi punitivo nei
confronti della popolazione, in particolare della borghesia, intesa non tanto come
classe sociale quanto come atteggiamento mentale (tendenza agli agi e alla vita
comoda, ricerca del profitto anteposta al perseguimento di ideali superiori) che
doveva essere definitivamente estirpato dal costume nazionale.
Per avvicinarsi a questo obiettivo il regime sarebbe dovuto diventare più
totalitario di quanto non fosse stato fin allora. Di qui scaturirono una serie di
modifiche istituzionali, che andavano dalla creazione del ministero per la Cultura
popolare all'accorpamento delle organizzazioni giovanili nella Gioventù italiana
del littorio, dall'ampliamento delle funzioni del Pnf alla sostituzione, nel 1939,
della Camera dei deputati con una nuova Camera dei fasci e delle corporazioni
dove, abolita ogni finzione elettorale, si entrava semplicemente in virtù delle cari-
La politica economica
dell'«autarchia»
Le illusioni di Mussolini
L’avvicinamento alla Germania:
dall’asse Roma-Berlino al Patto
d’acciaio
La svolta totalitaria
90
che ricoperte negli organi di regime. A una medesima logica rispondevano alcune
iniziative di carattere più che altro formale, e quasi folkloristico, che tuttavia
possono dare un'idea del clima di quegli anni: la campagna contro l'uso del «lei»
(considerato «servile» e poco italiano e da sostituirsi quindi col «voi») e contro
tutti i termini stranieri; l'imposizione della divisa ai funzionari pubblici; l'adozione
del «passo romano» per conferire un aspetto più marziale alle sfilate militari.
Ma la manifestazione più seria e più aberrante della stretta totalitaria voluta da La vergogna delle leggi raziali
Mussolini fu l'introduzione, nell'autunno del 1938, di una serie di leggi
discriminatorie nei confronti degli ebrei: leggi che ricalcavano nelle grandi linee
quelle naziste del '35, escludendo gli israeliti da qualsiasi ufficio pubblico, limitandone l'attività professionale e vietando i matrimoni misti. Preannunciata da
un manifesto di sedicenti scienziati (che sosteneva l'esistenza di una «pura razza
italiana» di origine ariana) e preparata da un'intensa campagna di stampa, la
legislazione razziale giunse tuttavia del tutto inattesa in un paese che non aveva
mai conosciuto — al contrario della Germania, della Russia e della stessa Francia
— forme di antisemitismo diffuso: anche perché la comunità ebraica era assai
poco numerosa (circa 50.000 persone concentrate per lo più a Roma e nelle città
del Centro-Nord) e complessivamente ben integrata nella società. Adottando
queste misure, tanto gratuite quanto moralmente ripugnanti, Mussolini si
proponeva di inoculare nel popolo italiano il germe dell'orgoglio razziale e di
fornirgli così un nuovo motivo di aggressività e compattezza nazionale.
Ma, anziché suscitare consenso e mobilitazione (non vi furono in Italia episodi di
violenza popolare contro gli ebrei), le leggi razziali suscitarono sconcerto o
quanto meno perplessità nell'opinione pubblica e aprirono per giunta un serio
contrasto con la Chiesa, contraria non tanto alla discriminazione in sé quanto alle
sue motivazioni biologico-razziali.
In generale, lo sforzo compiuto da Mussolini sul finire degli anni '30 per fare del
regime fascista un totalitarismo «perfetto» e per trasformare gli italiani in un
popolo guerriero ottenne risultati decisamente mediocri.
91
4. IL REGIME NAZISTA IN GERMANIA
La repubblica di Weimar e la crisi della società tedesca dopo la Prima guerra
mondiale
La crisi del 1929 in Germania e la fine della repubblica di Weimar
Hitler al potere
La repubblica di Weimar e la crisi della società tedesca dopo la Prima guerra
mondiale
La Germania, appena uscita sconfitta dalla Prima guerra mondiale, visse un Il dopoguerra e la repubblica di
dopoguerra particolarmente difficile. Il 9 novembre 1918 il kaiser Guglielmo II Weimar
aveva abdicato ed era fuggito. Nelle principali città il potere era nelle mani dei
consigli degli operai e dei soldati legati ai socialisti. Le altre forze politiche,
quelle della destra conservatrice ma anche quelle del Zentrum (Centro), composto
la liberali e cattolici, apparivano deboli e disorientate. Per trovare una soluzione
alla crisi politica, fu formato un governo provvisorio composto da sei commissari
del popolo, tutti appartenenti all'ala moderata del Spd (Partito socialdemocratico
tedesco). Subito fu scartata l'ipotesi di costruire una «repubblica socialista»,
come voleva la Lega di Spartaco, l’ala radicale dello stesso Spd 3. Nacque così la
repubblica di Weimar (così fu chiamata dal nome della città dove fu convocata
l'Assemblea costituente). Essa rimase in vigore fino al 1933, quando Hitler prese
il potere, e Weimar divenne una capitale culturale di straordinaria vitalità (il
grande architetto W. Gropius vi eresse, ad esempio, tra il 1919 e il 1925, il
Bauhaus, uno dei fondamentali centri propulsori dell'architettura e dell'arte
moderne).
Fu una soluzione di compromesso, concordata fra Spd ed esercito: permise di
avviare importanti risultati sul piano sociale (giornata lavorativa di otto ore,
assistenza ai disoccupati, divieto dei licenziamenti arbitrari, suffragio universale
maschile e femminile, ecc.), ma evitò qualsiasi ridimensionamento dei precedenti
poteri (quello dell'esercito, guidato da generali conservatori, o quello degli
industriali). La nuova repubblica si rivelò dunque fragile e incapace di
convogliare il consenso dell'ala della sinistra più intransigente; mentre una destra
3
La linea moderata scelta dalla Spd portava fatalmente allo scontro con le correnti più radicali del
movimento operaio tedesco: i rivoluzionari della Lega di Spartaco (nucleo originario del Partito
comunista tedesco). Questi ultimi si opponevano infatti alla convocazione della Costituente e puntavano
tutto sui consigli, visti come cellule costitutive di una nuova «democrazia socialista». Gli spartachisti
erano però consapevoli di essere nettamente minoritari, anche all'interno dei consigli operai, e avrebbero
evitato volentieri un'immediata prova di forza contro i socialdemocratici. Fu l'iniziativa spontanea delle
masse della capitale a spingerli verso lo scontro.
II 5-6 gennaio 1919, centinaia di migliaia di berlinesi scesero in piazza per protestare contro la
destituzione di un esponente della sinistra dalla carica di capo della polizia della capitale. I dirigenti
spartachisti e alcuni leader «indipendenti» decisero allora di approfittare di questa mobilitazione di massa
e diffusero un comunicato in cui si incitavano i lavoratori a rovesciare il governo. Ma la risposta del
proletariato berlinese fu inferiore alle aspettative. Durissima fu invece la reazione del governo socialdemocratico che affidò l'incarico di fronteggiare la rivolta al commissario alla Difesa Gustav Noske.
Questi, non potendo contare su un esercito efficiente, si servì per la repressione di squadre volontarie (i
cosiddetti Freikorps, ossia «corpi franchi») formate da soldati smobilitati e inquadrate da ufficiali di
orientamento nazionalista e conservatore. Nel giro di pochi giorni i Freikorps schiacciarono nel sangue
l'insurrezione berlinese. I leader del movimento spartachista, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, furono
arrestati e trucidati da ufficiali dei corpi franchi.
92
forte e radicale si opponeva alla sua politica riformista. Alle elezioni del 1920
l'opposizione di sinistra ottenne il 20% dei consensi; quella di destra il 28%: le
basi sociali del riformismo weimariano apparivano assai incerte.
La fragilità della repubblica di Weimar, oltre che dallo scontro civile fra
socialdemocrazia e spartachisti, era aggravata anche dalle umilianti condizioni
imposte alla Germania sconfitta secondo le quali il paese avrebbe dovuto privarsi,
per quasi mezzo secolo, di un quarto del suo prodotto nazionale per pagare i debiti
di guerra.
I governi di coalizione che si succedettero fra il '21 e il '23 si impegnarono comunque a pagare le prime rate delle riparazioni; ma, per non rendersi
ulteriormente impopolari agli occhi di un'opinione pubblica già esasperata,
evitarono interventi troppo drastici sulle tasse e sulla spesa pubblica: quindi
furono costretti ad aumentare la stampa di carta-moneta. Il risultato fu che in
pochi mesi il valore del marco precipitò a livelli impensabili (5 milioni di marchi
per un dollaro in luglio, 200 miliardi in settembre, 4000 miliardi in novembre) e il
suo potere d'acquisto fu praticamente annullato: un chilo di pane giunse a costare
400 miliardi, un chilo di burro 5000. Le conseguenze di questa polverizzazione
della moneta furono sconvolgenti. Lo Stato stampava banconote in quantità
sempre maggiore e con valore nominale sempre più alto (un milione, un miliardo,
cento miliardi e così via).
Dall’inflazione furono colpiti duramente i lavoratori salariati, ma anche l'intero
ceto medio (dipendenti pubblici a reddito fiso, piccoli risparmiatori, pensionati,
piccoli imprenditori, ecc.), trascinato improvvisamente nella miseria. Se ne
avvantaggiarono invece i proprietari di immobili e i grandi gruppi industriali
(l'inflazione azzerava i loro debiti presso banche o privati). La società tedesca si
polarizzava: i ceti medi si declassavano, avvicinandosi alle temute condizioni di
vita del proletariato, anch'esso tra l'altro sempre più disgregato - massificato, e la
ricchezza si concentrava nelle mani dei grandi gruppi industriali, i cartelli chimici
(IG Farben), elettromeccanici (Philips) o siderurgici (Krupp). Le sanzioni
scaturite dalla pace di Versailles vennero denunciate da una virulenta campagna
propagandistica delle forze di destra. Esse, tacevano le responsabilità tedesche
sull’avvio della Prima guerra mondiale, accusavano i socialisti di essere i
responsabili sia della sconfitta militare che dell'accettazione di una pace umiliante
e, inoltre, attaccavano gli ebrei (gli «affaristi ebraici»), indicati quali colpevoli del
disastro economico.
Intanto molti ex ufficiali e sottufficiali, frustrati dalla smobilitazione imposta
all'esercito tedesco, aderivano ai Freikorps (`corpi franchi', formazioni militari),
che ormai operavano senza il controllo del governo, uccidendo più di 350 persone
in attentati terroristici. È in quest'area operava anche la piccola formazione di
estrema destra del Partito operaio tedesco, poi rinominata National Sozialistische
Deutsche Arbeiter Partei (Nsdap, Partito operaio tedesco nazionalsocialista) di
Adolf Hitler, che nel 1921 si dotava di un apparato militare, le Sa (Sturm
Abteilungen, `sezioni d'assalto') o «camicie brune». Affascinato da Mussolini, nel
1923 Hitler tentava un putsch (rivolta) a Monaco in Baviera.
La grande inflazione del '23 avevano comunque lasciato segni profondi nella
società tedesca, infatti la classe dirigente tedesca si spostò su posizioni sempre più
conservatrici e le grandi potenze capitalistiche occidentali si impegnarono per
evitare che la crisi tedesca potesse provocare ripercussioni internazionali
destabilizzanti.
Una vera stabilizzazione infatti non sarebbe stata possibile senza un accordo con i
vincitori sulle riparazioni. L'accordo fu trovato, all'inizio del 1924, sulla base di
un piano elaborato da un finanziere e uomo politico statunitense, Charles G.
Dawes. Il piano si basava sul principio che la Germania avrebbe potuto far fronte
ai suoi impegni solo se fosse stata messa in grado di far funzionare al meglio la
sua macchina produttiva: prevedeva quindi che l'entità delle rate da pagare fosse
graduata nel tempo e che la finanza internazionale, in particolare quella
Le conseguenze delle sanzioni
internazionali e il rafforzamento
delle forze di destra
La svolta conservatrice della
repubblica
93
statunitense, sovvenzionasse lo Stato tedesco con una serie di prestiti a lunga
scadenza.
Due governi, quello del conservatore Stresemann e del cattolico Wilhelm Marx,
si posero l'obiettivo della stabilità politica e monetaria della Germania di
Weimar. Questi provvedimenti favorirono la ripresa economica, ma a prezzo di
altre scelte antipopolari. Le forze conservatrici riprendevano il controllo del
paese: nel 1925, dopo la morte di Friedrich Ebert, presidente dal 1919 al 1925, fu
eletto presidente un tipico esponente del conservatorismo tedesco, il maresciallo
Hindenburg. La sua elezione fu favorita anche dalla mancata alleanza fra
moderati e comunisti (questi presentarono infatti un loro candidato).
La Germania tornava a essere un paese fortemente industrializzato, con un
proletariato esteso, un nuovo ceto medio più moderno e ristretto (impiegati d'alto
livello, funzionari, manager) e una potente borghesia. La ristrutturazione
industriale aveva ridotto il numero degli operai professionalizzati e sindacalizzati
(base tradizionale della socialdemocrazia), facendo emergere un proletariato
dequalificato e politicamente più instabile. La socialdemocrazia, che aveva nel
1919 sottoscritto il compromesso con esercito e industriali e aveva eliminato le
spinte rivoluzionarie alla sua sinistra, si trovò sempre più in difficoltà, mentre le
organizzazioni del movimento operaio continuavano a declinare.
La crisi del 1929 in Germania e la fine della repubblica di Weimar di Weimar
Su questa Germania socialmente e politicamente impoverita ma in ripresa
economica, si abbatté la crisi mondiale del 1929; essa scatenò processi sociali
incontrollabili, che portarono alla paralisi del sistema politico e all’ascesa
travolgente del nazionalsocialismo, il quale fino ad allora era stato una forza del
tutto minoritaria nella società tedesca. «Fu la Grande crisi a trasformare Hitler da
personaggio ai margini della scena politica nel padrone potenziale, e infine
effettivo, del paese» (Hobsbawm). L'avanzata dei nazisti e il complementare
disfacimento della debole e impopolare democrazia di Weimar avvennero in tre
fasi. Gli storici le hanno così indicate: 1) la «crisi di efficienza» del governo di
Heinrich Brüning (1930-32); 2) la «crisi d’autorità» dei governi di Franz von
Papen e Kurt von Schleicher (1932-33); 3) la «presa del potere» da parte di Hitler
(1933).
La «crisi di efficienza» del governo di H. Brüning (1930-32). La crisi del 1929
aumentò di colpo la disoccupazione in Germania. Il numero dei senza lavoro
raggiunse i sei milioni, la produzione industriale crollò, diminuirono le entrate fiscali. Il governo di centro-sinistra del socialdemocratico Hermann Muller, in
carica dal 1928, non riuscì a gestire una credibile politica sociale e nel 1930 si
dimise. Allora il presidente Hindenburg nominò cancelliere Brüning, leader del
Zentrum gradito alla destra conservatrice. In due giorni questi formò il nuovo
governo, inaugurando una pratica di gestione extraparlamentare della crisi,
divenuta poi consuetudine. Egli però non aveva la maggioranza in parlamento.
Costretto a chiedere appoggi ora a destra ora alla Spd, governò aggirando il
controllo del parlamento. Ma la politica economica di Brüning restò lo stesso contraddittoria e debole, aggravando l'indebitamento dello stato. Né seppe opporsi
alla propaganda della destra e al rafforzamento delle Sa, che continuavano le loro
aggressioni criminali contro gli avversari politici. Le elezioni del settembre 1930
segnarono il suo fallimento: invece di rafforzare il suo governo, come Brüning
sperava, le elezioni indebolirono tutti i partiti del centro (Spd, Zentrum,
liberaldemocratici e liberalnazionali) che non superarono il 47% dei seggi.
La «crisi d'autorità» dei governi di Franz von Papen e Kurt von Schleicher (193233). Mentre Brüning e i suoi sostenitori (il «fronte di Brüning») s'indebolivano, la
Germania era sempre meno governabile. La crisi economica radicalizzava le mas-
La crisi del ’29 e la salita al
potere di Hitler: le fasi
1 - La «crisi di efficienza» del
governo di Heinrich Brüning
(1930-32)
2 - La «crisi d'autorità» dei
governi di Franz von Papen e
Kurt von Schleicher (1932-33)
94
se degli elettori e le spingeva a votare i partiti estremi: nazionalsocialisti e
comunisti. Ne trasse vantaggio soprattutto il partito nazionalsocialista di Hitler.
Esso riuscì ad ampliare le sue alleanze, trascinando con sé gli altri partiti di
destra, la «destra nobile» (alcuni principi, alti ufficiali) e i rappresentanti della
grande finanza e dell'industria pesante, nel cosiddetto «fronte di Harzburg» (l'11
ottobre 1931, a Bad Harzburg, queste forze tennero una grande adunata
dimostrativa). Si arrivò così alle presidenziali dell'aprile 1932: l'ultraottuagenario
Hindenburg, votato persino dai suoi tradizionali avversari socialdemocratici,
ottenne il 53% dei voti, Hitler circa il 37% e il candidato comunista appena il
10%. Poco dopo Hindenburg, senza per nulla rispettare il mandato del suo
elettorato, costrinse Brüning dimettersi e lo sostituì con un proprio uomo di
fiducia, il maggiore di cavalleria Franz von Papen cattolico e vicino alla destra
agraria tedesca.
Il governo von Papen durò sette mesi. Alle elezioni del luglio 1932, richieste
esplicitamente da Hitler per decidere se appoggiare o meno il governo
dall'esterno, il partito nazionalsocialista ottenne la maggioranza relativa con il
37,4% e 230 seggi in parlamento. Hitler allora respinse sdegnato la carica di
vicecancelliere offertagli da von Papen e pretese tutto il potere.
Dopo una temporanea sostituzione di von Papen con il generale Kurt von
Schleicher, altro collaboratore di Hindenburg ed esponente della medesima ala
conservatrice dell'esercito, il 30gennaio 1933 Hitler fu nominato cancelliere.
Come nel caso di Mussolini nell'Italia del 1922, il governo di coalizione di Hitler,
oltre a due ministri nazisti, comprendeva esponenti dei partiti conservatori e
dell'esercito e molti s'illusero che le nuove responsabilità di governo avrebbero
«normalizzato» il nazismo.
Hitler al potere
Hitler ristrutturò rapidamente lo stato secondo i criteri del nazismo. Sciolse il
parlamento e indisse nuove elezioni per il 5 marzo del 1933. Creò anche un corpo
di polizia ausiliaria di fedelissimi del partito. Epurò sistematicamente la pubblica
amministrazione e fece chiudere più di 150 giornali d'opposizione. Inoltre le Sa
ebbero mano libera contro gli oppositori di sinistra e di centro da Herman
Goering, allora ministro dell'Interno della Prussia. Quando poi il 27 febbraio
1933, a pochi giorni dal voto, fu appiccato un incendio al Reichstag (sede del
parlamento tedesco), Hitler ne attribuì la responsabilità ai comunisti (solo più
tardi fu provata la responsabilità di un olandese isolato), e, denunciando un
presunto tentativo di insurrezione, sospese i diritti fondamentali e fece arrestare
oltre 4.000 militanti comunisti.
Le elezioni del 5 marzo 1933, svoltesi in un clima d'intimidazione, diedero il
43,9% al Partito nazionalsocialista, che, insieme all'8% dei voti del Partito
nazionale tedesco, aveva ormai la maggioranza assoluta. Messo fuori legge il
partito comunista, contro Hitler votarono in parlamento solo i 94 deputati
socialisti. Nessuno più tentò di ostacolarlo politicamente: fu una capitolazione
senza lotta. Anche il potente sindacato socialdemocratico - che, sperando di
salvare il suo apparato, aveva accettato di partecipare alla manifestazione governativa del 1° maggio - vide il giorno dopo tutte le sue sedi occupate e i suoi
dirigenti arrestati. Il 14 luglio 1933 tutti i partiti erano posti fuori legge. Hitler
poté così vantarsi di averli annientati ed estirpati dal popolo tedesco.
La costruzione dello stato totalitario nazista passò anche attraverso l'eliminazione
fisica di esponenti del Partito nazionalsocialista. Quelli fra loro che più avevano
preso sul serio la componente «socialista» del partito e usato un linguaggio
accesamente anticapitalista, ora che il potere era conquistato s'illusero di poter
realizzare una «seconda rivoluzione» nazionalizzando interamente l'economia o
3 - La «presa del potere» da
parte di Hitler (1933)
La costruzione dello stato
totalitario
«La notte dei lunghi coltelli»
95
addirittura integrando l'esercito tedesco nelle Sa. Ma, nella notte del 30 giugno
1934 («la notte dei lunghi coltelli»), l'intero stato maggiore delle Sa di Ernst
Röhm fu convocato con un espediente e massacrato da reparti di Ss, le formazioni
militarizzate del Partito nazista. Questa drastica epurazione nello stesso partito di
Hitler tranquillizzò definitivamente esercito e industria. E il 2 agosto 1934, morto
Hindenburg, abolendo il titolo di Presidente della repubblica, Hitler poté
autonominarsi Fiihrer e cancelliere (Reichkanzler). Era solo a lui che i soldati
giuravano fedeltà e lui solo poteva legiferare. Lo stato come emanazione diretta
della volontà del suo capo (secondo la formula nazionalsocialista «un unico
popolo, un unico movimento, un unico Führer») diventava una realtà, mentre i
ministeri più importanti passavano tutti in mano nazista.
Contemporaneamente, fin dai primi giorni della presa del potere, era cominciata La persecuzione antisemita
sistematica quella persecuzione antisemita tanto spesso annunciata dalla
propaganda nazista, e che assumerà con il tempo e soprattutto durante la Seconda
guerra mondiale le forme del genocidio razzista. La discriminazione fu
ufficialmente sancita, nel settembre 1935, dalle cosiddette leggi di Norimberga
che tolsero agli ebrei la parità dei diritti conquistata nel '48 e proibirono i
matrimoni fra ebrei e non ebrei (largamente diffusi nella Germania prenazista).
Alla discriminazione «legale» si accompagnava una crescente emarginazione
dalla vita sociale: il che spinse molti ebrei — circa 200.000 fra il '33 e il ’38 ad
abbandonare la Germania.
La persecuzione anti-semita subì un'ulteriore accelerazione a partire dal novembre
1938, quando, traendo pretesto dall'uccisione di un diplomatico tedesco a Parigi
per mano di un ebreo, i nazisti organizzarono un gigantesco pogrom in tutta la
Germania. Quella fra 1'8 e il 9 novembre '38 fu chiamata «notte dei cristalli» per
via delle molte vetrine di negozi appartenenti a ebrei che furono infrante dalla
furia dei dimostranti. Ma vi furono conseguenze ben più gravi: sinagoghe
distrutte, abitazioni devastate, decine di ebrei uccisi e migliaia arrestati.
Il regime di Hitler affrontò la crisi economica con misure militari e tecniche La politica economica, sociale e
efficaci, che colpirono enormemente l'opinione pubblica. Fu attuato un imponente militare del Terzo Reich
programma di lavori pubblici (soprattutto autostrade e canali). Fu imposto il
lavoro coatto a decine di migliaia di disoccupati e fu rilanciata la produzione
industriale di automobili. L'intervento dello stato nell'economia non divenne però
mai predominante. S'intrecciò invece saldamente con il sistema privato, tanto che
al vertice della burocrazia statale si ritrovavano spesso alti esponenti di imprese
private. Anche il lavoro delle campagne fu riorganizzato secondo l'ideologia
ruralista e razzista del partito: un terzo delle fattorie, per esempio, doveva
appartenere a tedeschi «purosangue». Ma a determinare la ripresa economica
tedesca fu soprattutto il massiccio sforzo che Hitler compì per riarmare la
Germania, contravvenendo alle clausole del Trattato di Versailles. Così, in breve
tempo, la Germania raggiunse la piena occupazione: i circa sei milioni di
disoccupati del 1933 si ridussero a un milione nel 1936, e nel 1938 l'industria
tedesca dichiarò un deficit occupazionale di circa un milione di lavoratori, mentre
i salari (almeno della manodopera specializzata) aumentavano.
Hitler non si preoccupò, come i precedenti governi, di pareggiare il bilancio né di
procurare la copertura finanziaria per le enormi spese richieste da questa politica
di riarmo: il bilancio dell'esercito, che era del 4% nel 1933, salì al 18% nel 1934,
al 39% nel 1936 e toccò il 50% nel 1938. Sempre nel 1938 i debiti del Terzo
Reich raggiunsero i 57 miliardi di marchi. I suoi creditori internazionali, dichiarando più o meno in buona fede che i «favori» da loro concessi alla Germania
le avrebbero evitato avventure belliche, non posero mai vincoli alla concessione
di prestiti. E Hitler, forte del consenso popolare e del sostegno dei grandi gruppi
economici mondiali, poté rafforzare l'industria pesante e quella chimica in alcune
zone chiave del territorio tedesco e collegare Berlino ai nuovi centri industriali
con una gigantesca rete viaria, che gli servirà poi per il rapido spostamento delle
truppe durante le guerre di conquista.
96
5. VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
La crisi del ’29 e l’instabilità politica degli anni trenta
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale
La crisi del ’29 e l’instabilità politica degli anni trenta
Le conseguenze della crisi del ’29 non investirono solo le strutture economiche (il Le conseguenze della crisi del
mercato e la produzione) e istituzionali (lo Stato) del capitalismo. Ne risentirono ’29: l’instabilità politica tra
anche gli equilibri politici e le formule governative dei vari Paesi.
fascismo e Fronti popolari
A parte la Germania, in cui la crisi fu determinante per la salita al potere di Hitler,
anche negli altri paesi europei nelle lacerazioni aperte dalla crisi affiorarono
pulsioni incontrollabili, che rilanciavano il fascino seduttivo della violenza
ereditato dalla Prima guerra mondiale. Furono soprattutto i movimenti di estrema
destra a sfruttare questo clima incandescente. In Francia, proprio a partire dal
1929, si delineò la virulenta presenza dell'Action Française, diretta da Charles
Maurras, che opponeva ai simboli della tradizione rivoluzionaria (libertà,
uguaglianza, fraternità) quelli del nuovo fascismo (ordine, autorità, nazione).
La strategia politica dei partiti del movimento operaio venne invece determinata
dalla svolta che si registrava in quegli anni nella politica estera dell’URSS. Fino al
'33 la sua politica estera si era ispirata a una linea dura e spregiudicata: rifiuto dei
trattati di Versailles, nessuna distinzione fra Stati fascisti e democrazie borghesi. I
successi di Hitler, che non aveva mai fatto mistero di quali fossero i suoi progetti
nei confronti della Russia, indussero Stalin a modificare radicalmente le precedenti
impostazioni. Nel settembre '34 l'Urss entrò nella Società delle nazioni e nel
maggio '35 stipulò un'alleanza militare con la Francia.
Questa brusca svolta diplomatica ebbe immediato riscontro in un altrettanto rapido
capovolgimento della linea seguita dal Comintern e dai partiti comunisti europei.
Fu improvvisamente accantonata la tattica della contrapposizione frontale nei
confronti delle forze democratico-borghesi e più ancora delle socialdemocrazie (già
accusate di favorire «oggettivamente» il fascismo o addirittura di costituire «un'ala
del fascismo», da cui l'espressione polemica socialfascismo): tattica che tanto
aveva contribuito a isolare il movimento comunista e a spianare la strada al
nazismo in Germania. La nuova parola d'ordine, lanciata ufficialmente nel VII
congresso del Comintern (Mosca, agosto 1935) fu quella della lotta al fascismo,
indicato ora come il primo e il principale nemico. Ai partiti comunisti spettava il
compito di riallacciare i rapporti non solo con gli altri partiti operai, ma anche con
le forze democratico-borghesi, di favorire ovunque possibile la nascita di larghe
coalizioni dette fronti popolari (dove l'aggettivo stava a indicare il passaggio in
secondo piano degli obiettivi più propriamente socialisti), di appoggiare i governi
democratici decisi a combattere il fascismo.
L'avvicinamento fra l'Urss e le democrazie e il rilancio della politica di sicurezza
collettiva non bastarono a fermare, nel '35, l'aggressione dell'Italia fascista
all'Etiopia; né poterono impedire che, nella primavera del '36, Hitler violasse
un'altra clausola di Versailles reintroducendo truppe tedesche nella Renania
«smilitarizzata».
Il solo risultato concreto della politica dei fronti popolari fu quello di restituire un
minimo di unità al movimento operaio europeo, per la prima volta dopo la grande
rottura della rivoluzione russa, e di ridare così alla sinistra l'opportunità di
assumere il governo nelle democrazie occidentali. Nel febbraio 1936, una
coalizione di fronte popolare comprendente anche i comunisti vinse le elezioni
politiche in Spagna. Nel maggio dello stesso anno, in Francia il netto successo
97
elettorale delle sinistre aprì la strada alla formazione di un governo composto da
radicali e socialisti, sostenuto dall'esterno dai comunisti e presieduto dal socialista
Léon Blum.
In Francia gli effetti della crisi erano giunti più tardi e in parte attenuati, ma il Il Fronte popolare in Francia
livello di stabilità istituzionale ne era stato comunque investito in pieno. Dopo il
ritiro di Raymond Poincaré (1929), alla guida del governo erano andati esponenti
conservatori poi, tra il 1932 e il 1938, si susseguirono coalizioni di partiti
eterogenee e diverse; nel 1932, le elezioni fecero registrare la vittoria delle sinistre
e due successivi governi in cui erano i radicali ad avere la maggioranza; a questi
subentrarono due governi di "unione nazionale" (coalizione di tutti i parti ti tranne
le sinistre) e, nel 1936, il Fronte popolare: l'alleanza di tutte le forze di sinistra
(comunisti e socialisti compresi) formò il governo capeggiato da Léon Blum
(1936-1937). Proprio in questo periodo, con gli accordi sindacali di Palais
Matignon (7 giugno 1936), si vararono i provvedimenti più significativi per
attenuare gli effetti sociali della crisi: riconoscimento dei contratti collettivi di
lavoro e dei diritti sindacali; maggiorazione dei salari più bassi del 15%, dei più
alti del 7%; istituzione dei delegati operai negli stabilimenti con più di dieci
dipendenti; orario di lavoro fissato a quaranta ore settimanali, con due settimane
di ferie all'anno.
Quello del Fronte popolare fu però un intermezzo di breve durata. Ampi strati
della popolazione, soprattutto tra i ceti medi urbani, manifestavano apertamente la
propria insofferenza per la democrazia parlamentare, giudicata corrotta e
inefficiente, lasciandosi sedurre dal miraggio di soluzioni autoritarie. Le forze di
sinistra erano a loro volta divise: i comunisti premevano su Blum per rendere più
incisiva la sua azione governativa, mentre molto più cauti sulla via delle riforme
erano i radicali. Il Fronte popolare era così due volte debole: per i dissidi interni
alla sua coalizione e per la pressione di uno schieramento di opposizione in cui si
riconosceva tutto il blocco economico dominante. Lo "sciopero del capitale",
come allora fu definita la scelta del grande padronato di esportare i capitali
all'estero e bloccare gli investimenti, diede a Blum il colpo di grazia (si dimise nel
giugno 1937). Nel 1938, il nuovo governo Daladier sconfessò gli accordi di
Matignon. I partiti di sinistra erano allo sbando e il sindacato dei socialisti e dei
comunisti, la CGT (Confederation Generale du Travail), si frantumò, perdendo
oltre metà dei propri iscritti.
Nella Spagna, dominata dal latifondo e da poche isole di sviluppo industriale, un La Guerra civile spagnola
forte conflitto di classe, che aveva già portato nel 1931 all'esilio volontario del re (1936-39)
e alla proclamazione della repubblica, arrivò al suo culmine, dopo la vittoria alle
elezioni del 1936 del cosiddetto «Fronte popolare», composto dalle sinistre
(repubblicani, socialisti, comunisti). Il suo programma di governo era abbastanza
moderato; ma la destra spagnola (grandi proprietari e mondo cattolico
conservatore) rifiutò il risultato elettorale, si unificò attorno alla Falange, un
partito di tipo fascista fondato nel 1933 dal generale Primo de Rivera, e ricorse ad
azioni terroristiche, minacciando il colpo di stato.
Nei mesi successivi, mentre il governo delle sinistre si rivelava debole e diviso e
in tutto il paese si svolgevano disordinatamente scioperi, occupazioni di terre e di
fabbriche e azioni violente contro i rappresentanti più odiati del precedente regime, la chiesa e gli antichi proprietari terrieri, un gruppo di ufficiali a capo
dell'esercito di stanza in Marocco, capeggiati dai generali conservatori Francisco
Franco ed Emilio Mola, si sollevò contro la legittima repubblica, occupando
l'Andalusia e iniziando la guerra civile.
Le ripercussioni sul piano internazionale furono immediate: Franco ottenne aiuti
sostanziosi da Hitler e da Mussolini. L'Urss sostenne le Brigate Internazionali di
volontari filo repubblicani; reparti volontari composti in buona parte da comunisti
ma aperti ad antifascisti di tutte le tendenze e di tutti i paesi (fra questi non pochi
intellettuali di prestigio, come l'americano Hemingway, il francese Malraux,
l'inglese Orwell). Le potenze democratiche, invece, scelsero o l'equidistanza (gli
98
Usa, per esempio, posero l'embargo contro entrambi i belligeranti) o l'ipocrita
politica del "non intervento" del primo ministro francese, Blum, il quale fece anche
chiudere le frontiere del suo paese con la Spagna su pressione del governo inglese.
La Repubblica spagnola, malgrado le simpatie suscitate a livello internazionale
soprattutto fra intellettuali e artisti democratici, si ritrovò perciò isolata, mentre le
forze antifranchiste furono dilaniate da scontri interni.
Mentre Franco, insignito del titolo di caudillo (duce, condottiero), si guadagnava
l'appoggio delle gerarchie ecclesiastiche, dell'aristocrazia terriera e di buona parte
della borghesia moderata e realizzava l'unità di tutte le destre in un partito unico
chiamato Falange nazionalista (ma con i veri falangisti ridotti in posizione
subalterna), il Fronte popolare vedeva allontanarsi quei settori della borghesia
progressista che, favorevoli in un primo tempo alla Repubblica, erano ora
spaventati dagli eccessi di violenza cui si abbandonavano soprattutto gli anarchici.
Mentre i nazionalisti mettevano in piedi nei loro territori uno Stato dai chiari
connotati autoritari, i repubblicani si scontravano fra loro sull'organizzazione
presente e futura della società e sul modo stesso di combattere la guerra. Particolarmente grave era il contrasto che divideva gli anarchici — insofferenti di
qualsiasi disciplina militare e di ogni compromesso politico - dagli altri partiti della
coalizione: a cominciare dai comunisti, favorevoli — in omaggio alla strategia dei
fronti popolari — a una linea relativamente moderata, tale da non rompere l'unità
con le forze democratico-borghesi.
Il contrasto assunse toni drammatici soprattutto nella primavera del '37, quando, a
Barcellona, gli anarchici si scontrarono armi in pugno con i comunisti e l'esercito
regolare repubblicano.
Nell'autunno del 1937, tutto il nord-ovest della Spagna passò sotto il controllo dei
franchisti. Tra gennaio e marzo del 1939 cadevano Barcellona Madrid, le due
roccaforti della repubblica. A guerra conclusa, il vincitore Francisco Franco
continuò indisturbato la repressione, procedendo alla cosiddetta «feroz matanza»
(feroce massacro). Furono eliminati fisicamente 200.000 antifascisti, mentre altre
centinaia di migliaia ebbero condanne a pene varie e 300.000 furono costretti
all'esilio. In quello stesso 1939, che vide la fine della Repubblica spagnola, a
Franco giunse non solo il riconoscimento delle democrazie europee, ma anche la
benedizione da parte del nuovo papa Pio XII.
Alla vigilia della Seconda guerra mondiale
La Conferenza di Versailles doveva in teoria garantire un futuro di pace in
Europa. Fu subito chiaro, invece, che punendo la Germania e deludendo alcuni
paesi dell'Intesa, come l'Italia e il Giappone, le cui mire espansionistiche erano
state sacrificate, aveva creato nuove occasioni di conflitto. Innanzitutto tra paesi
vincitori e paesi vinti. E, infatti, prima ancora dell'affermarsi di regimi fascisti in
Europa e in Giappone, gli stati sconfitti (soprattutto la Germania) si mossero per
una revisione del Trattato di Versailles, suscitando le reazioni degli stati vincitori
(in particolare la Francia), contrari a ogni aggiustamento.
Ma nuove tensioni si ebbero fra le stesse potenze vincitrici, specie fra le due più
grandi, Francia e Inghilterra. La Francia pretese un ruolo egemonico sul
continente; e l'Inghilterra ne controbilanciò puntigliosamente il peso politico,
spalleggiando le rivendicazioni della Germania. Anche l'Italia, potenza vincitrice
ma insoddisfatta e dal 1922 retta dal fascista Mussolini, sostenendo
ambiguamente ora la Francia (fino al 1924) ora l'Inghilterra (fino alla guerra
d'Etiopia del 1935), alimentò l'incertezza politica europea.
Restavano infine irrisolte per tutti gli Stati europei le questioni economiche,
aggravatesi con la Prima guerra mondiale. Nel modo di affrontarle, apparve
chiaro il limite politico degli stati-nazione del Vecchio continente. Ciascuno di
Il trabocchetto del Trattato di
Versailles
Le tensioni fra i vincitori della
Prima guerra mondiale
I limiti politici degli statinazione
99
essi, infatti, privilegiò caparbiamente il proprio interesse nazionale, quando per
favorire la ripresa economica sarebbe stata necessaria una maggiore
collaborazione. La volontà di realizzarla mancò ai governanti europei; come
mancò agli Usa, che si rifiutarono di concedere loro l'annullamento dei debiti di
guerra contratti durante il precedente conflitto e imposero rigidamente il libero
scambio, subordinando così le economie dei Paesi europei al loro più potente
sistema produttivo. Nonostante queste tensioni, tuttavia, nel corso degli anni
Venti non erano mancati segnali favorevoli a un clima di pace, con accordi sui
confini contesi (soprattutto quelli meridionali e orientali della Germania).
La svolta bellicista si profilò all’inizio degli anni trenta, in coincidenza non
casuale con i pesanti effetti della crisi economica del 1929. Dapprima la guerra
s'affacciò su terre lontane dall'Europa. Nel febbraio 1932, infatti, il Giappone
aggredì la Manciuria cinese e impose nella regione un suo governo fantoccio. Ma
tre anni dopo fu una nazione europea, l'Italia fascista, a creare un secondo
focolaio di guerra. Mussolini, che si era presentato in politica estera come un
politico ambiguo, fautore ora della pace stabilita alla Conferenza di Versailles ora
della revisione dei trattati là sottoscritti, superò le sue incertezze: il 3 ottobre 1935
iniziò una guerra spietata, inutile e costosa contro l'Etiopia. La palese impotenza
della Società delle Nazioni, che comminò all'Italia sanzioni formali e inefficaci, lo
indusse a insistere in una politica aggressiva e a legarsi ben presto alla Germania
nazista, stipulando un'intesa con Hitler, l'asse Roma-Berlino (ottobre 1936). Si
trattava di un'intesa formale e non di una vera e propria alleanza, ma indicava la
propensione dell'Italia fascista a seguire in politica estera il bellicoso esempio
nazista. Nello stesso anno si accese poi in Europa il terzo focolaio di guerra: la
guerra civile in Spagna.
I passi determinanti verso la guerra in Europa vennero compiuti però soprattutto
dalla Germania nazista. Hitler, infatti, uscita la Germania dalla Società delle
Nazioni, annunciò nel 1935 la reintroduzione della coscrizione obbligatoria
(preclusa ai tedeschi dagli accordi di Versailles) e penetrò nel marzo 1936 con le
sue truppe nella Renania, che secondo gli accordi doveva restare smilitarizzata.
Nel marzo del 1938, poi, occupò con un atto di forza l'Austria; e il 10 aprile dello
stesso anno un plebiscito sanzionò l'Anschluss, l'annessione dello Stato austriaco
all'Impero tedesco, che fu accettata prima da Mussolini e poi dalla stessa Gran
Bretagna.
Alle mosse bellicose della Germania nazista le grandi potenze democratiche
europee risposero a lungo con la cosiddetta politica di appeasement, una politica
basata sul presupposto che fosse possibile «ammansire» Hitler accontentandolo
nelle sue rivendicazioni più «ragionevoli» e risarcendo in qualche modo la
Germania del duro trattamento subìto a Versailles. Il presupposto era
fondamentalmente sbagliato, visto che i programmi di Hitler non erano affatto
«ragionevoli». Ma l'idea dell'appeasement, portata avanti soprattutto dal primo
ministro inglese Chamberlain riscosse ugualmente notevole successo perché
rispondeva a una tendenza diffusa nella classe dirigente e nell'opinione pubblica
inglese, incline al pacifismo.
La più coerente opposizione alla politica di Chamberlain venne da un'esigua
minoranza di conservatori che facevano capo a Winston Churchill. Questi
sostenevano che l'unico modo per fermare Hitler fosse quello di opporsi con
decisione a tutte le sue pretese, anche a costo di affrontare subito una guerra.
La Francia, che restava almeno sulla carta la prima potenza militare d'Europa, alle
presa con i problemi di stabilità interna si adattò a una politica timida e oscillante,
sostanzialmente subalterna a quella della Gran Bretagna. E ciò consentì alla
Germania di cogliere una serie di grossi successi senza nemmeno dover mettere alla prova le sue forze armate ancora in fase di ricostituzione.
Esemplare della condiscendenza delle potenze europee fu l’atteggiamento delle
potenze europee a riguardo della questione dei sudeti. La questione austriaca si era
appena chiusa, e già Hitler metteva sul tappeto una nuova rivendicazione anch'essa
Anni Trenta: i primi venti di
guerra
Le prime iniziative hitleriane
La politica di appeasement
La questione dei sudeti
100
fondata su motivi etnici: quella riguardante i sudeti, ossia gli oltre tre milioni di
tedeschi che vivevano entro i confini della Cecoslovacchia. Hitler mirava
apertamente all'annessione della regione dei Sudeti e alla distruzione dello Stato
cecoslovacco e il governo inglese si mostrò ancora una volta propenso ad
accontentare Hitler in quella che avrebbe dovuto essere la sua «ultima richiesta».
Due volte, nel settembre del '38, Chamberlain volò in Germania per sottoporre invano a Hitler ipotesi di compromesso.
Alla fine di settembre, quando ormai l'Europa si stava preparando a una guerra che
sembrava inevitabile, Hitler accettò la proposta di un incontro fra i capi di governo
delle grandi potenze europee (Russia esclusa), lanciata in extremis da Mussolini su
suggerimento dello stesso Chamberlain. Nell'incontro, che si svolse a Monaco di
Baviera il 29-30 settembre 1938, Chamberlain e il primo ministro francese
Daladier accettarono un progetto presentato dall'Italia che in realtà accoglieva quasi
alla lettera le richieste tedesche e prevedeva l'annessione al Reich dell'intero
territorio dei Sudeti. Ai cecoslovacchi, che non erano stati ammessi alla conferenza
e nemmeno consultati, non restò che accettare un accordo che li lasciava alla mercé
della Germania e apriva la strada al dissolvimento della loro Repubblica. I
sovietici, anch'essi tenuti fuori dal tavolo delle trattative, capirono di non poter
contare sulla solidarietà delle potenze occidentali in caso di aggressione tedesca e
ne trassero le conseguenze, abbandonando la politica di alleanza con le democrazie
adottata negli ultimi anni.
L'atteggiamento arrendevole delle potenze europee di fronte al nazismo parve
arrestarsi solo quando, nel marzo 1939, Hitler, proseguendo la sua politica
espansionistica, diede un ultimatum alla Polonia perché gli cedesse la città di
Danzica. Egli voleva cancellare così la «vergogna di Versailles», e cioè il
"corridoio" verso il mare concesso alla Polonia dopo la Prima guerra mondiale.
Francia e Inghilterra minacciarono la guerra in caso di attacco alla Polonia, pur
ammorbidendo subito dopo la loro posizione. Ma nei mesi successivi (tra l'aprile e
l'agosto del 1939) l'incertezza dominò fra i governanti europei. Nel frattempo però
Hitler concluse due patti che, almeno quello con la Russia di Stalin,
dimostravano chiaramente la volontà della Germania nazista di attaccare Francia e
Inghilterra.
Il primo rinsaldò l'alleanza "naturale" e da tempo avviata tra fascisti italiani e
nazisti. Mussolini firmò il 22 maggio 1939 il Patto d'acciaio con il Reich,
secondo il quale, se uno dei contraenti fosse stato coinvolto (per propria iniziativa
o in seguito a un'aggressione altrui) in operazioni belliche, l'altro doveva
sostenerlo. A causa dell'impreparazione militare dell'Italia, Mussolini era in una
posizione debole rispetto a Hitler. Tuttavia accettò il patto, pensando di ritardare
al massimo l'intervento militare italiano, malgrado la Germania, senza contare
troppo né sull'Italia né sul Giappone, marciasse spedita verso la guerra, alla quale
si era preparata da tempo. Il secondo, sottoscritto il 27 agosto 1939, prese il nome
dei due ministri degli Esteri che l'avevano firmato: il tedesco Ribbentrop e il
sovietico Molotov. Stalin si era deciso a questo passo, giudicando ormai
improbabile l'alleanza da lui vanamente tentata con Francia e Gran Bretagna. Era
un patto di non aggressione, ma apparve subito più "innaturale" e scandaloso.
Era, infatti, un accordo tra due stati — la Germania nazista e l'Urss comunista —
ideologicamente inconciliabili e, come poi si seppe, un suo protocollo segreto
prevedeva anche la spartizione della Polonia fra Urss e Germania. Inoltre,
mutando ancora una volta rotta, Stalin sacrificava la precedente politica
antifascista dei Fronti popolari avviata dal 1934-35 e spiazzava di fronte
all'opinione pubblica dei loro paesi gli stessi partiti comunisti europei che
l'avevano seguita. Il patto si rivelò un fallimento per la stessa Unione Sovietica:
Hitler non rinunciò ad attaccarla di lì a poco, come invece sperava Stalin, e il
paese si trovò del tutto impreparato di fronte all'aggressione nazista.
La Conferenza di Monaco
L’ultimatum alla Polonia
Il Patto d'acciaio e il Patto
Ribbentrop-Molotov
101
VERSO LA SECONDA GUERRA MONDIALE
1924
Piano Dawes rinegoziazione dei debiti di guerra
1925
accordi di Locarno la Germania accettò la perdita di Alsazia e Lorena, inaugurando un clima di
distensione con la Francia
1933
Salita al potere di Hitler
1935
Hitler reintroduce la coscrizione obbligatoria
Conferenza di Stresa (aprile) condanna del riarmo tedesco
URSS e Francia stipulano un'alleanza militare
L’Italia invade l’Etiopia
I936
Hitler rimilitarizza la Renania
Asse Roma-Berlino (ottobre): accordo tra Italia e Germania
Guerra civile in Spagna (1936-39)
1938
Hitler occupa con un atto di forza l'Austria
Hitler occupa i Sudeti
Conferenza di Monaco (29-30 settembre) Francia, Inghilterra e Italia riconoscono l’annessione dei
Sudeti
1939
Patto d'acciaio tra Germani e Italia (maggio)
Patto Ribbentrop – Molotov tra Germania e URSS (agosto)
Invasione tedesca della Polonia (settembre)
102
6. LA FORMAZIONE DEI MOVIMENTI INDIPENDENTISTI E DELLA
QUESTIONE MEDIORIENTALE
In Medio Oriente, dopo il crollo dell'Impero ottomano, si assistette al diffondersi di
movimenti nazionalisti arabi, alimentati dal mancato mantenimento delle promesse di
indipendenza e dall'insofferenza per l'imposizione del sistema dei mandati,
attraverso cui veniva affidato dalla Società delle Nazioni alle maggiori potenze
l’amministrazione di paesi e popoli a cui si prometteva una futura indipendenza.
L'Inghilterra, pur riconoscendo l'indipendenza di Iraq, Transgiordania ed Egitto,
mantenne su questi territori un forte controllo economico e commerciale, mentre i
francesi dovettero fare delle concessioni in Siria e in Libano a seguito delle
numerose rivolte anticoloniali.
In Palestina, incoraggiate tra l'altro dalle dichiarazioni del ministro inglese Balfour
(1917), che affermava di guardare con favore alla fondazione di uno Stato
ebraico, si moltiplicarono le comunità ebraiche immigrate aderenti al movimento
sionista (fondato da Herzl nel 1897). Questo processo innescò presto forti tensioni
con la popolazione araba.
La Turchia trovò le forze per riscattarsi sotto la guida di Mustafa Kemal, un
ufficiale appartenente al movimento politico dei Giovani turchi. Conquistata
l'indipendenza, la Turchia ottenne, con il trattato di Losanna (1920) il riconoscimento del suo controllo sull'Anatolia e sugli Stretti; e Kemal (denominato
Atatürk, “padre dei turchi”) si dedicò a trasformare il suo paese in una repubblica
improntata a principi di laicità (nonostante l'opposizione dei musulmani
tradizionalisti) e ad assecondarne la modernizzazione.
Anche in India, deluse le aspettative di trasformazione in dominion alimentate
dall'Inghilterra durante la guerra, si inasprirono le rivendicazioni autonomistiche. In
questo contesto, l'iniziativa di Gandhi, che faceva leva sul recupero
dell'induismo e delle istanze di rigenerazione dell'intera società attraverso gli
strumenti della lotta non violenta, della disobbedienza civile e della resistenza
passiva (satyagraha), raccolse una vasta adesione di massa. La battaglia per
l'indipendenza, ancorché repressa violentemente dagli inglesi (come nel massacro di
Amritsar) riuscì tuttavia a conseguire risultati positivi, come il primo Government
of India Act (1935), che concedeva una più ampia autonomia ai rappresentanti
locali.
Traendo vantaggio dagli esiti della guerra e dall'alleanza vittoriosa con Francia e
Inghilterra, il Giappone invece iniziò la sua ascesa in Asia conquistando ampie zone
di controllo in Estremo Oriente. In politica interna il paese si presentava come un
sistema parlamentare caratterizzato da un profondo conservatorismo, all'interno del
quale maturò un movimento nazionalista fondato sul culto dell'imperatore e su
un'ideologia imperialista.
In seguito alla crisi del '29, per rispondere alle difficoltà economiche del paese venne
intrapresa, col sostegno dell'esercito, una politica espansionistica verso la Cina, che
prese avvio nel 1931 con l'occupazione della Manciuria. I militari assunsero un peso
crescente nella vita pubblica giapponese, fino alla costruzione di un regime
autoritario. La politica estera aggressiva perseguita dal governo si basava inoltre
su una concezione esplicitamente bellicistica e razzista.
In Cina, nel corso degli anni venti, l'alleanza tra i nazionalisti del Guomindang e i comunisti, prima uniti nella lotta contro il governo di Pechino dominato dai “signori”
della guerra, si incrinò quando, alla morte di Sun-Yat-sen (1925), il capo dell'esercito
nazionalista Chiang Kai-shek divenne il massimo leader politico. L'esercito
nazionalista si scontrò nel 1927 con l'esercito comunista per i controllo di Pechino:
dopo averla conquistata, i nazionalisti misero fuori legge il partito comunista e
spostarono la sede del governo a Nanchino. I nazionalisti di Chiang Kai-shek
aspiravano a una modernizzazione del paese sul modello occidentale, ma di fronte
a diverse difficoltà furono costretti ad abbandonare i progetti di riforma, a
103
cominciare da quella agraria. I comunisti nel frattempo si riorganizzarono in
clandestinità sotto la guida di Mao Zedong, cercando consensi fra i contadini delle
campagne. Di fronte alle “campagne di annientamento” lanciate dai
nazionalisti nell'ambito di quella che era diventata una sanguinosa guerra civile,
l'Armata rossa di Mao iniziò un ripiegamento nel Nord del paese, che durò circa un
anno (la “lunga marcia”). Solo di fronte alla sempre più pressante minaccia
giapponese, entrambe le parti conclusero nel 1937 un accordo per la costituzione
di un fronte comune contro l'invasore.
CRONOLOGIA 1918- 1940
1918
Conferenza di pace di Parigi (18gennaio)
Viene promulgata la Costituzione della Repubblica federale socialista russa
Guerra civile russa (1918-21)
1919
“Biennio rosso” (1919-20)
Mussolini fonda i Fasci italiani di combattimento (23 marzo)
Elezioni politiche
G. D’Annunzio occupa Fiume(settembre)
Don Sturzo fonda il Partito popolare italiano
Nasce la società delle nazioni (28aprile)
Trattato di Versailles (28 giugno)
Repubblica di Weimar (1919-33)
1920
Occupazione delle fabbriche (settembre)
Trattato di Rapallo (12 novembre)
Gandhi inizia la resistenza non violenta contro la Gran Bretagna
1921
Scissione dal Partito socialista e nascita del Partito comunista d’Italia(gennaio)
I Fasci italiani si costituiscono in Partito nazionale fascista (Pnf) (novembre 1921)
Elezioni politiche
Lenin inaugura la nuova politica economica (Nep)
1922
Sciopero legalitario (agosto)
Marcia su Roma(28 ottobre)
Mussolini presidente del Consiglio dei Ministri
Nasce il Gran consiglio del fascismo (dicembre)
Nasce l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (30 dicembre)
Stalin è eletto segretario del Pcus
1923
Istituzione della «Milizia volontaria per la sicurezza nazionale» (gennaio)
Riforma Gentile della scuola pubblica
Legge Acerbo e introduzione sistema elettorale maggioritario
Il generale Miguel Primo de Rivera prende il potere in Spagna
Nasce la repubblica turca
1924
Affermazione del «listone» fascista alle elezioni (aprile 1924)
Omicidio Matteotti (10 giugno)
Secessione dell’Aventino
Piano Dawes rinegoziazione dei debiti di guerra della Germania
104
1925
Mussolini rivendica alla camera dei deputati la responsabilità morale del delitto Matteotti ( 3 gennaio)
Promulgazione delle «leggi fascistissime» (1925-26)
Accordi di Locarno
Hindenburg eletto presidente in Germania
1927
Promulgazione della «Carta del Lavoro» (aprile)
Trotzkij, Zinov'ev e Kamenev vengono fatti espellere e poi esiliati da Stalin
Guerra civile in Cina (1927-34)
1929
Firma dei Patti lateranensi (11 febbraio)
Plebiscito del 24 marzo
Crollo della borsa di New York e crisi dell’economia mondiale
In URSS viene lanciato il primo Piano quinquennale
1931
Proclamazione della repubblica in Spagna (1931-1939)
1932
Roosevelt presidente USA
Salazar instaura un regime dittatoriale in Portogallo (1932-1974)
Occupazione giapponese della Manciuria cinese
1933
Hitler diventa cancelliere (30 gennaio)
1934
Conferenza di Stresa (aprile) condanna del riarmo tedesco
URSS e Francia stipulano un'alleanza militare
Hitler diventa presidente della Repubblica e capo dell’esercito
Iniziano le “grandi purghe” staliniane
“Lunga marcia” di Mao Zedon
1935
Mussolini invade l’Etiopia(3 ottobre)
Leggi di Norimberga (15 settembre)
Government of India Act
1936
Asse Roma-Berlino
Il Fronte popolare di Léon Blum vince le elezioni in Francia (1936-1937)
Guerra civile spagnola (1936-39)
1938
Introduzione delle leggi razziali in Italia (1 settembre)
Hitler occupa con un atto di forza l'Austria
Hitler occupa i Sudeti
Conferenza di Monaco (29-30 settembre)
1939
Patto d’Acciaio tra Italia e Germania (maggio)
Patto Ribbentrop – Molotov tra Germania e URSS (agosto)
Hitler invade la Polonia: inizia la II Guerra Mondiale (1 settembre)
1940
L’Italia entra in guerra (10 giugno)
105
Scarica