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ARABIA SAUDITA
La Sharia
e l’automobile
Le donne saudite usano il Corano
per rivendicare il diritto di guidare
di Farian Sabahi
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L
a suoneria di iPhone e Blackberry? Tra
le saudite va di moda No Woman, No
Drive. Sulla falsariga del brano No Woman, No Cry di Bob Marley, è opera del comico
ventiseienne saudita Hisham Fageeh rientrato
a Riad dopo un periodo di studio alla Columbia
University di New York.
Si tratta di un video satirico in risposta agli
arresti di decine di saudite che nei mesi scorsi
hanno osato sfidare il divieto di guidare l’automobile. Non è così chiaro se il comico sia favorevole o contrario: “Non faccio politica, voglio
solo divertire”, dice. Evidentemente non vuole
alienarsi il pubblico su un argomento sensibile,
che secondo i sondaggi divide anche le donne,
spesso ferme su posizioni conservatrici.
Ventisette milioni di abitanti (di cui 5,6
espatriati), l’Arabia Saudita è il maggiore utilizzatore di YouTube e Twitter nel mondo
arabo. Ed è con questi social network che le
femministe islamiche fanno sapere che “i diritti delle donne non violano la Sharia, la legge
di Dio non dovrebbe essere ricondotta alle sole
opinioni degli estremisti”, riferisce Anna Vanzan iranista, islamologa, docente di Cultura
araba all’Università di Milano e autrice del
saggio Le donne di Allah. Viaggio nei femminismi islamici (Mondadori 2010).
In ballo non c’è solo il diritto di guidare, ma
anche l’obbligo di coprirsi da capo a piedi con
il velo integrale e la necessità del consenso di
un parente maschio in ogni momento della vita:
per studiare e lavorare, sposarsi e viaggiare.
In passato, di fronte alle pressioni familiari
e sociali, nei paesi a maggioranza musulmana
le femministe hanno dovuto fare una scelta do-
lorosa: condannare quei principi dell’islam
che penalizzano la donna, tradendo in parte
la propria fede religiosa, oppure rinunciare al
femminismo.
Ma da un po’ di tempo non è più così, perché tante utilizzano la religione per evidenziare i molti elementi nel Corano e nella Sunna
(la Tradizione del profeta Maometto) in cui
venga valorizzata l’altra metà del cielo. La tesi
di fondo? Non si tratta più di scegliere tra identità musulmana e uguaglianza di genere, perché “a penalizzare le donne non è l’islam ma
un’interpretazione maschilista dei testi sacri
dovuta al prevalere del sistema patriarcale”.
Ora tocca alle donne dare nuova forma all’esegesi coranica, per poi promuovere le riforme necessarie a cambiare il sistema giuridico
nei diversi paesi.
A imprimere una svolta al femminismo islamico è stata la conferenza di Kuala Lumpur
del 2009, che ha messo insieme 250 attiviste,
studiose, giuriste e donne con incarichi istituzionali provenienti da quarantasette paesi. Si
sono riunite dopo due anni di lavoro in cui
sono stati delineati i principi guida del movimento che attualmente ha il quartier generale
in Malesia, ma cambia periodicamente sede e
comitato direttivo.
Come “Sisters in Islam”, un’organizzazione
costituita nel 1988, anch’essa in Malesia, le delegate preparano materiali didattici per diffondere consapevolezza e fornire aiuti legali
affinché le donne possano difendere i propri
diritti attraverso le ONG.
Certo, la Malesia è un paese particolare; ha
una classe media forte e molte donne sono impegnate nel mondo del lavoro, la società è pluralistica anche se è stata teatro di recenti
scontri a sfondo religioso.
Diversa è la situazione nel mondo arabo,
dove le donne sono meno attive fuori casa per
motivi diversi: in Yemen perché la povertà è
tale che non ci sono opportunità, nelle ricche
east global geopolitics
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ARABIA SAUDITA
REUTERS/CONTRASTO/KHALED ABDULLAH
Y Una donna in un
simulatore di auto
presso una scuola
guida. Decine di donne
saudite sono state
arrestate nei mesi
scorsi per aver osato
sfidare il divieto di
guidare l’automobile.
monarchie sunnite del Golfo perché si pensa
che non vi sia bisogno di loro.
Fa importante eccezione la Tunisia, dove
nella bozza della nuova Costituzione è stato inserito (a gennaio 2013) il principio di parità tra
uomini e donne, anche nelle cariche politiche
e amministrative, attraverso l’introduzione
delle quote rosa.
Tornando all’Arabia Saudita, è anche grazie
ai network internazionali che oggi le cittadine
del Regno rivendicano tanti diritti, tra cui guidare l’automobile. Utilizzano a questo scopo
le citazioni coraniche perché sono queste ad
avere maggior presa sugli uomini musulmani
e al tempo stesso a risultare più convincenti
per le stesse donne – molto più dei discorsi
astratti sui diritti umani, delle condanne alla
violenza contro le donne, delle convenzioni
internazionali promosse dall’Occidente, dove
l’uguaglianza di genere fa a pugni con alcuni
precetti dell’islam.
L’esempio da cui traggono ispirazione è il
nuovo codice di famiglia promulgato in Marocco nel 2004, secondo cui nel matrimonio
marito e moglie hanno gli stessi diritti e sono
numero 52 marzo/aprile 2014
ugualmente responsabili, la donna ha il diritto
di divorziare e l’uomo non può ripudiare la sua
sposa in modo unilaterale.
In questo lento e graduale processo di riforma, le Primavere arabe hanno un effetto
domino che colpisce inevitabilmente anche
l’Arabia Saudita. A maggio 2013 la fondazione
saudita “King Khalid”, diretta dalla principessa
Banderi al-Faisal, ha portato avanti una campagna per la prevenzione degli abusi sulle
donne e i minori e ad agosto il sovrano ha inaspettatamente promulgato una nuova legge che
rende reato la violenza domestica.
Certo, non è facile coniugare uguaglianza
di genere, giustizia sociale e islam. Ma il futuro
di questi stati a maggioranza islamica dipende
dalla capacità delle loro leadership di incorporare i diritti umani in una cornice islamica.
Nel far questo, il femminismo islamico ha un
ruolo importante. Perché propone un’evoluzione che parte dalla religione. E ciò fa meno
paura della rivoluzione.
Farian Sabahi è editorialista del Corriere della Sera
per l’Iran e scrive di cultura islamica per Il Sole24Ore.
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