Dopoguerra in Europa e Italia: il biennio rosso La pace di Parigi, anziché determinare “un nuovo ordine europeo, crea nuovi motivi di antagonismo che si aggiungono alle insoddisfazioni nutrite dalle attese inappagate” (E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali, 2000). L’umiliazione inferta alla Germania porrà basi molto fragili per la nuova repubblica tedesca nata dalle ceneri dell’impero, gettando il paese in una crisi finanziaria foriera di forti instabilità, come previsto da Keynes ne Le conseguenze economiche della pace. Anche l’instabilità politica dei nuovi stati centro-orientali, baluardo tra la Germania e la Russia bolscevica, oltre allo scontento dell’Italia, che non aveva ottenuto la Dalmazia promessa con il patto di Londra, rendono precario l’equilibrio europeo. Intanto la Terza Internazionale diventa un punto di riferimento per i popoli extraeuropei che ambiscono all’emancipazione dalla soggezione coloniale in nome del principio di autodeterminazione evocato da Wilson e dalla Società delle Nazioni, ma poi disatteso. La fine della guerra lascia l’Europa gravata da debiti esorbitanti con gli Stati Uniti, dall’inflazione che penalizza in particolare i ceti a reddito fisso, da una fase di disoccupazione concomitante con la conversione da economia di guerra a economia di pace, dalla difficoltà di ricollocare i reduci di guerra. Gli scambi commerciali languono oltre che a causa di una nuova ondata di protezionismo, volto a stimolare le economie domestiche, anche in seguito all’emersione dei mercati sudamericani e asiatici che, controllati da USA e Giappone, forniscono a prezzi concorrenziali le merci che durante la guerra l’Europa non era più in grado di esportare. Un’acuta conflittualità sociale affligge il fronte interno dei vari stati: tra il ’19 e il ’20 si assiste a un’impennata degli scioperi rispetto al periodo precedente alla guerra. La connotazione ideologica spesso assunta dalle proteste induce alcuni studiosi a denominare tale fase come un “biennio rosso”. A Berlino la Lega di Spartaco, il gruppo comunista guidato da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg, avvia un tentativo di insurrezione sedato con la violenza dai corpi franchi (Freikorps), bande paramilitari che operavano agli ordini del governo provvisorio di ispirazione socialdemocratica. I due leader vengono uccisi nel 1919 e i consigli di operai e soldati sorti sulla scorta del modello bolscevico dei soviet soppressi. Le elezioni per l’Assemblea costituente (1919) sanciscono la vittoria dei socialdemocratici, che scelgono di allearsi con il partito moderato e cattolico del Zentrum instaurando una repubblica parlamentare che evidenzia ancora una notevole continuità con il sistema economico-sociale pre-esistente, i cui pilastri erano burocrazia e esercito. In Austria la transazione alla repubblica viene gestita dalla socialdemocrazia in accordo con partiti borghesi, ma negli anni si assiste a una rimonta del partito cristiano-sociale, sostenuto dai ceti rurali. In Ungheria il tentativo di instaurare una repubblica bolscevica avviato dal comunista Béla Kun fallisce e si instaura la dittatura controrivoluzionaria dell’ammiraglio Miklos Horthy. Se tra i paesi vincitori il Regno Unito introduce il suffragio universale maschile e femminile nel 1918 e si avvia a una fase di relativa stabilità che vede l’egemonia del partito laburista, la Francia è invece attraversata negli anni Venti da una fase di forte precarietà politica, che vede l’alternarsi di forze progressiste e conservatrici. In Italia, paese indicato dalla Terza Internazionale come più prossimo alla rivoluzione, gli scioperi e le occupazioni del cosiddetto “biennio rosso” producono conquiste importanti come la giornata lavorativa di otto ore. Si aggiungono anche rivolte contro il carovita legato all’inflazione (i prezzi sono aumentati circa del 30%) e conflittualità nelle campagne, dove le “leghe rosse” nell’area padana ottengono aumenti salariali, il controllo del collocamento e una solida egemonia sociale, nell’ottica della promozione della socializzazione della terra; le leghe bianche cattoliche sono invece più orientate alla tutela della piccola proprietà contadina; al centro i mezzadri impongono nuovi patti colonici; al sud i contadini ex-fanti occupano vaste estensioni di terre incolte. La crisi economica (inflazione, debito pubblico, difficoltà nella riconversione da economia di guerra a economia di pace), sociale (disoccupazione, proletarizzazione dei ceti medi) e morale rende difficile la ricostruzione di un equilibrio politico. La guerra, esperienza collettiva senza precedenti, provoca un’accelerazione della massificazione politica e una crisi dei legami tradizionali. Il protagonismo delle masse si riflette in una crescita dei sindacati (in particolare la Confederazione generale del lavoro, CGL) e del PSI orientato su posizioni massimaliste (nel congresso nazionale di Bologna del 1919 aderisce alla terza internazionale, assumendo la rivoluzione russa come modello di azione), ma dilaniato al suo interno da un’opposizione riformista che controllava il gruppo parlamentare. Il PSI ottiene alle elezioni politiche del ’19 (condotte secondo il nuovo sistema proporzionale) il 32% dei voti, grazie soprattutto al consenso ottenuto nell’area settentrionale (Piemonte, Lombardia, Emilia e Toscana). Il Partito Popolare fondato nello stesso anno da Don Luigi Sturzo ottiene circa il 20%, inaugurando una autonoma presenza dei cattolici nella vita politica italiana. Sulla carta i due partiti avevano la maggioranza, ma l’uno era anticlericale e propenso alla violenza rivoluzionaria, l’altro molto dipendente dalla Chiesa, nonostante la dichiarata aconfessionalità, e di orientamento moderato. Il Partito popolare si allea dunque con partiti di area moderata, fornendo un sostegno esterno ai governi liberali. D’altra parte, i governi liberali del dopoguerra (guidati prima da Nitti e poi, dal ’20 al ’21, da Giolitti) faticano ad adeguare le strutture oligarchiche dello stato italiano a una società ormai massificata (è la tesi di Vivarelli, Storia delle origini del fascismo): esemplare in questo senso l’introduzione nel 1919 del sistema elettorale proporzionale che favorisce l’affermazione dei partiti di massa radicati nel territorio e bene organizzati come socialisti e popolari ai danni della vecchia classe dirigente formata da ristretti gruppi di potere locali legati ai collegi uninominali. Questi governi non riescono a riprendere il controllo del parlamento in un paese profondamente cambiato e attraversato da tensioni sociali che fanno invocare al mondo imprenditoriale uno stato forte capace di ripristinare l’ordine e esorcizzare lo spettro della rivoluzione. Inoltre, il governo si mostra incapace di fornire risposte alle aggressive tendenze nazionaliste che alimentano il mito della “vittoria mutilata” (termine coniato da D’Annunzio), fomentando l’opinione pubblica. Ricordiamo che il patto di Londra aveva previsto anche la cessione all’Italia della Dalmazia, ma Wilson, in nome del principio di autodeterminazione (applicato in realtà a corrente alterna) aveva assegnato tale area, la cui popolazione era prevalentemente slava, alla Jugoslavia. La città di Fiume, a maggioranza italiana, non era ancora stata assegnata in attesa di un accordo tra Italia e Jugoslavia ed era presidiata da forze militari interalleate. Nel settembre del ’19 D’Annunzio con un corpo di volontari occupa la città di Fiume per annetterla all’Italia, determinando una situazione di illegalità che evidenzia la debolezza della classe dirigente liberale e che raccoglie i consensi di ex combattenti e di un ceto borghese in cerca di un riscatto. La situazione viene risolta con il trattato di Rapallo, nel 1920, che prevede l’assegnazione della Dalmazia alla Jugoslavia (tranne Zara, che diventa italiana, oltre a Trieste, Gorizia, l’Istria e alcune isole), e stabilisce che Fiume resti città libera. Fiume diventerà infine italiana con il trattato di Roma del 1924. E’ in questo clima che nel marzo del ’19 l’ex socialista Benito Mussolini fonda i Fasci di combattimento, cui aderiscono futuristi, ex sindacalisti rivoluzionari, ex soldati, studenti, piccola borghesia. Il programma, un coacervo di attivismo rivoluzionario e di istanze reazionarie, attira le attenzioni del padronato rurale, che sostiene le squadre paramilitari fasciste impegnate a intimidire le organizzazioni socialiste e cattoliche nell’area della Toscana e dell’Emilia in particolare. Lo squadrismo è anche un fenomeno urbano che denota l’ostentato dispregio della legalità e della democrazia da parte dei fasci di combattimento. I fasci diventeranno partito nazionale fascista nel 1921, arrivando a ben 300.000 iscritti. Le nuove elezioni politiche del ’21 vedono i fascisti inclusi nei blocchi nazionali, liste che univano esponenti politici di partiti moderati o conservatori col fine di arginare la temuta ascesa delle sinistre. Il calcolo di Giolitti e dei liberali era probabilmente quello di riassorbire i fascisti nella legalità dopo essersene serviti per ristabilire l’ordine. I fascisti eletti furono una trentina. Tra il ’21 e il ’22 l’agonia dello stato liberale, con i deboli governi Bonomi e Facta, suggella il consolidarsi di un blocco sociale composto prevalentemente da ceti medi e padronato agrario e industriale che si salda intorno al fascismo. Il movimento operaio in questo stesso momento si divide: nel 1921 a Livorno l’estrema sinistra socialista fonda sotto la guida di Amedeo Bordiga il partito comunista, cui aderisce anche il gruppo torinese del giornale “L’Ordine nuovo” composto da giovani intellettuali del calibro di Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Umberto Terracini, gruppo che negli anni precedenti aveva promosso i consigli di fabbrica come strumenti per rinnovare il movimento operaio. Nel 1922 una nuova scissione nel partito socialista porta all’espulsione dei riformisti turatiani, indebolendo ulteriormente il partito. Nel 1922 lo stallo politico è tale da indurre Mussolini ad agire: in ottobre convergono su Roma alcune decine di migliaia di “camicie nere”: Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo stato di assedio proposto da Facta e incarica Mussolini di formare il nuovo governo, cui partecipano nazionalisti, liberali e popolari. Mussolini può godere del sostegno dell’alta finanza, delle gerarchie militari, della Chiesa (come dimostrerà la vicenda di don Sturzo). Uno sguardo sul biennio rosso-nero a Bologna L'8 aprile 1920, in una riunione presso la Camera di Commercio, industriali, agrari, proprietari di case, commercianti dichiarano con forza la loro intenzione di opporsi alle violenze che si ripetono in città per mano della “parte anarcoide e rivoluzionaria”. Si è appena concluso uno sciopero generale. La borghesia accusa il prefetto e il questore di non fare abbastanza per contrastare i progetti eversivi dei socialisti. "O provvedete o provvediamo" è la parola d'ordine di chi, come il rappresentante dei metallurgici Alfonso Calzoni, ritiene il livello dello scontro sociale non più sostenibile. Il blocco conservatore assume la denominazione di Associazione bolognese di difesa sociale (ABDS). I socialisti considerano la nascita di questa formazione una vera e propria dichiarazione di guerra della borghesia. Si tiene al Teatro comunale una manifestazione per il 50° anniversario di Porta Pia, organizzata dai partiti moderati. Al termine della lunga sfilata nel centro cittadino, gli squadristi di Leandro Arpinati, un gruppo di 30-40 persone in divisa militare e armate di bastoni e rivoltelle, sfilano più volte in via Ugo Bassi e si scontrano con gruppi di giovani socialisti all'altezza del ristorante cooperativo situato nella Sala Borsa, considerato un covo sovversivo. L'operaio anarchico Guido Tibaldi rimane gravemente ferito da colpi di arma da fuoco e morirà dopo alcuni giorni: è la prima vittima del fascismo. Dopo l'attacco alla Sala Borsa gli iscritti al fascio lievitano da venti a trecento. L'eccidio di Palazzo d'Accursio Il 21 novembre, in Piazza Maggiore, i socialisti festeggiano la vittoria elettorale e l'elezione a sindaco di Ennio Gnudi (1893-1947), dirigente sindacale e rappresentante della corrente massimalista del PSI. Nei giorni precedenti i fascisti, guidati da Leandro Arpinati e Arconovaldo Bonaccorsi, hanno promesso lo scontro con manifesti provocatori: vogliono impedire ai socialisti di "issare il loro cencio rosso sul palazzo comunale". Hanno annunciato per domenica una "grande prova in nome dell'Italia". Provenienti da via Rizzoli e dall'Archiginnasio, forti di alcuni rinforzi da Ferrara guidati dallo squadrista-futurista Olao Gaggioli, 300 fascisti armati sono bloccati dalla Guardia Regia in Piazza Nettuno. Dalla parte del caffè Grande Italia, all'angolo tra piazza Nettuno e via Rizzoli, vengono sparati colpi d'arma da fuoco. La folla terrorizzata cerca di fuggire nel cortile di Palazzo d'Accursio, ma le "guardie rosse", un gruppo di armati comunisti e massimalisti che presidiano il palazzo, chiudono il portone e gettano dall'alto alcune bombe a mano. E' una strage: si contano 10 morti e 58 feriti, tutti socialisti, in maggioranza per colpi d'arma da fuoco. Dopo una decina di minuti di spari e scoppi, nella piazza vuota, ricoperta di ombrelli, bastoni e cappelli, rimangono solo i cadaveri, che i pompieri ricoprono di teli. Intanto nell'aula consiliare un uomo (che rimarrà sconosciuto) spara dal settore riservato al pubblico contro i consiglieri di minoranza: l'avvocato Cesare Colliva riceve due proiettili in faccia, mentre l'avvocato Giulio Giordani, mutilato di guerra, è ferito a morte. Anche in via Riva Reno fuori dal Maggiore, dove Giordani è trasportato, scoppia una sparatoria e gli infermieri lasciano il ferito su un muretto al bordo del canale, rifiutandosi di entrare in ospedale. Il tragico eccidio di Palazzo d'Accursio ha risonanza nazionale e segna l'inizio dell'ascesa fascista: Giordani sarà considerato il primo grande martire della rivoluzione fascista. La salma sarà esposta in un'aula del tribunale e vegliata da picchetti di camicie nere armate. I funerali, celebrati il 23 novembre, vedranno sfilare i fascisti con il gonfalone del comune, tra due imponenti ali di folla. Al consigliere ucciso sarà in seguito intitolata la piazza davanti al tribunale. La giunta neoeletta di Gnudi sarà costretta a ritirarsi senza essersi insediata, sostituita dal commissario prefettizio Vittorio Ferrero. La polizia arresterà circa duecento socialisti e nessun fascista, accreditando la tesi de "L'Avvenire d'Italia", che considera i "rossi" colpevoli dei fatti luttuosi. Il Tribunale di Milano condannerà nel 1923 in contumacia alcuni militanti comunisti. Nel dopoguerra Mario Missiroli e Libero Battistelli addosseranno la maggiore responsabilità dei fatti alle forze dell'ordine, che avrebbero provocato la strage per screditare i socialisti. 21 dicembre. Mentre si trova nella sede dell'Ente autonomo dei Consumi, l'ex sindaco socialista Francesco Zanardi (1873-1954), chiamato dai nazionalisti "al sindacaz", viene aggredito e sequestrato da una squadra di fascisti (tra essi anche il futuro podestà Mario Agnoli), che lo costringe a sottoscrivere dichiarazioni patriottiche e gli intima di lasciare Bologna. L'aggressione si ripeterà il successivo 16 gennaio: i fascisti lo obbligheranno a lasciare gli uffici assieme alla moglie, con insulti e lanci di monetine. Zanardi sarà indotto a trasferirsi a Roma nel 1922, dopo la scomparsa del figlio Libero, deceduto a seguito delle percosse subite in un agguato squadrista. La polizia fascista non mancherà a più riprese di rilevare il suo "orientamento antifascista, irriducibile, acido e insidioso". L'Ente Autonomo dei Consumi, sua creatura, subirà il sistematico assalto dei fascisti e finirà sotto il completo controllo del ras Arpinati, attraverso il cognato Riccardo Muzzioli.